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Riassunto libro e commento, Schemi e mappe concettuali di Storia Della Pedagogia

Riassunto libro e commento finale

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2022/2023

Caricato il 26/09/2023

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sofia-ripalvella-3 🇮🇹

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Scarica Riassunto libro e commento e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Storia Della Pedagogia solo su Docsity! Sofia Ripalvella 55EI20 LAVORARE CON LE DIVERSITÀ – ANDREA MANNUCCI La figura dell’Educatore è esistita sin dall’antichità ed è proprio grazie a questa figura che si andava formando, ieri così come oggi, lo sviluppo equilibrato della persona. Il compito primario dell’educatore è quello di formulare progetti educativi che diano, alle persone con difficoltà o con disabilità, la possibilità di inserirsi nel contesto psico- sociale. Oggi l’educatore si pone principalmente come un “agente di cambiamento” visto però all’interno di un’ottica professionale, e non più vocazionale, dove la formazione rappresenta la base dell’azione educativa utile all’inserimento nella nostra società. Si è passati così da un agire mirato all’isolamento dei diversabili in istituti e manicomi a un agire improntato all’integrazione dei disabili nella realtà sociale. Da un lato possiamo notare che, oggi, la figura dell’educatore è presente a vari livelli nei Servizi, sia di tipo sanitario che sociale; dall’altro lato però vi è anche una grande situazione di precarietà legislativa che sfortunatamente regolamenta solo gli educatori in ambito sanitario senza dar loro alcun riconoscimento giuridico a livello sociale. Un altro rilevante aspetto del testo si basa sulle competenze specifiche che un Educatore Professionale dovrebbe possedere che vanno dalle conoscenze cognitive a quelle pedagogiche, psicologiche, antropologiche, sociologiche, riabilitative, animative, di legislazione sociosanitaria ecc. Si parla anche di competenze personali dell’educatore in quanto, quest’ultimo, non può avvalersi solo di competenze e saperi tecnici ma deve anche essere in grado di relazionarsi con l’altro e instaurare con esso un sentimento di fiducia. Introduzione La storia delle Scienze dell’Educazione inizia alla fine degli anni Sessanta ma si sviluppa maggiormente nei giorni nostri. Difatti negli ultimi decenni vi sono stati cambiamenti sorprendenti che hanno costruito modelli non più statici o universali o ideologici ma sempre in movimento e in trasformazione. Tutto ciò è dovuto al fatto che la società contemporanea è evolutiva, complessa e mette in discussione e ristabilisce, costantemente, i valori tradizionali. Capitolo I: La Formazione La storia e la legislazione Nacque tutto all’inizio degli anni Settanta quando, dopo il boom economico degli anni Sessanta, si sviluppò, con l’impegno sociale, la speranza di poter abbattere le ideologie antiquate, reazionarie e classiste della vecchia Società. Anche se la rivoluzione in sé e per sé non si era realizzata si poteva comunque fare qualcosa per ridurre le differenze sociali, sia dal punto di vista economico che da quello umano, in modo tale che la nuova Società riconoscesse e ampliasse i diritti di tutti i cittadini. Difatti cominciarono a nascere diverse associazioni di volontariato e nel 1977 fu emanata la legge 517 che eliminò l’istituzione delle classi differenziali aprendo ai bambini diversabili l’accesso alle classi dei bambini normodotati. Questa legge ridefinì i concetti di “diversità” e “normalità”. Nascere con un deficit non avrebbe più voluto dire essere discriminato fin dall’infanzia, rinchiuso in luoghi riservati, creati appositamente per nascondere ed emarginare. Nell’arco di pochi anni le scuole iniziarono dunque ad accogliere tutti coloro che per secoli erano stati rifiutati, ghettizzati e anche eliminati fisicamente. Non bastò tuttavia “inserire” il diversabile nel contesto scolastico, fu necessario anche “integrarlo” all’interno e al di fuori della scuola, nel mondo delle relazioni, del lavoro e della società. Eliminando gli ospedali psichiatrici e i manicomi si andarono creando, in tutte le Unità Sanitarie Locali, una rete di servizi quali strutture residenziali e semiresidenziali in grado di fornire un intervento integrato alla riabilitazione e alla gestione delle crisi. La legge 833\77 (1978) sancì l’obbligatorietà della gestione integrata dei Servizi Sociali con quelli Sanitari. Si sviluppò così l’idea che lo Stato doveva preoccuparsi, in primis, dei cittadini più deboli, cominciando ad utilizzare l’espressione Welfare ossia benessere, o per meglio dire Welfare State cioè Stato del benessere. Lo stato avrebbe dovuto tutelare i cittadini dai rischi della vecchiaia, della malattia, degli infortuni, della disabilità, della discriminazione sociale, investendo una parte dell’economia nazionale per la protezione di questi cittadini. Tuttavia è piuttosto chiaro che negli anni Ottanta l’Ente pubblico “delegasse” piuttosto che gestire direttamente, soprattutto in alcune aree di intervento come la realtà della diversabilità che fu la prima ad essere scaricata dalle Unità Sanitarie Locali e dai Comuni. Negli anni Novanta lo Stato italiano dovette comunque iniziare a regolamentare realtà operanti già di fatto, come le Cooperative sociali che si erano enormemente diffuse nel decennio precedenti ma senza alcuna collocazione nello stesso ambito del mondo cooperativistico. Per la Camera di commercio la cooperativa sociale rientrava fra quelle cosiddette “miste” perché non inquadrabile in nessuna categoria fino ad ora riconosciuta e regolamentata. Non vi era neppure un Contratto Collettivo Nazionale per i propri operatori che erano incastrati nei contratti più disparati, da quello sanitario al commercio o altro ancora. L’unico riferimento legislativo era quello riguardante la cooperazione del 1947 denominato Provvedimento per la cooperazione. In ogni caso era nato il Terzo Settore, detto anche Terza Dimensione, che in seguito verrà definito col termine nonprofit sector, ossia quell’insieme di organizzazioni che non appartenendo alla sfera pubblica né a quella privata erano orientate non al profitto imprenditoriale, ma al recupero del bisogno e del benessere, non in termini economici ma esistenziali, sociali terapeutici ed educativi. Volontariato, cooperazione sociale, interventi verso la marginalità, furono movimenti colmi di incertezze e mancanza di punti di riferimento anche sindacali. Per questo il legislatore si mosse verso due linee: quello del volontariato e della cooperazione sociale. La prima risposta normativa fu quella della legge 266\91 che riconobbe il volontariato una realtà non benefica e umanitaria ma sociale. Nel 1991 la legge 381\91 disciplinò una volta per tutte la vita del Terzo Settore e quello della cooperazione sociale. La legge quadro rimandava a normative regionali che avrebbero dovuto essere emanate dalle singole regioni destinatarie dei finanziamenti governativi. Il Terzo Settore si sviluppò in varie forme dando vita alle Organizzazioni del nonprofit che possiamo suddividere in cinque modalità: Associazioni non riconosciute, Organizzazioni di volontariato, Organizzazioni non governative, Associazioni riconosciute e Fondazioni. Si giunse così al 1977 definendo un nuovo soggetto fiscale che classifica gli Enti non commerciali in Organizzazioni non svolgere questo lavoro. L’aspetto vocazionale di questa professione è infatti quasi sempre presente tra gli educatori. Capitolo II: I luoghi e gli attori dell’educazione La dimensione politica e gli investimenti Lo sviluppo del Terzo settore e della cooperazione sociale ha contribuito ad un aumento dell’occupazione degli educatori sociali. Il punto principale che si è creato sta nel costo del lavoro che si è trasferito dal pubblico al privato sociale, che ha messo a disposizione i propri operatori retribuiti e non (volontari), e un’offerta di servizi che richiedono un’ampia preparazione professionale e organizzativa. I vantaggi di queste imprese sono quelli di offrire organizzazioni sufficientemente stabili, una natura giuridica ma diverse dalle aziende con fini di lucro avendo il divieto della ridistribuzione degli utili che vanno, invece, in un fondo indivisibile per essere poi reinvestiti in altri servizi. Si sviluppano così diverse cooperative sociali ma anche l’aggregazione di cooperative in Consorzi o Associazioni Temporanee d’Impresa per meglio seguire l’evoluzione del Mercato alla quale gli Enti pubblici non sono in grado di soddisfare. La figura e il ruolo dell’educatore L’educatore professionale agisce principalmente in contesti extrascolastici e all’interno di situazioni di disagio cercando di formulare progetti che conducano la persona in difficoltà a sviluppare le sue potenzialità e alla reintegrazione di essa da uno stato di marginalità. Lo studioso Donati individua quattro ambiti in cui si muove l’educatore: sociosanitario, sociale, penitenziario e formativo. Nell’area sociosanitaria l’educatore si occupa della riabilitazione del soggetto operando in diversi settori d’intervento come psichiatria, neuropsichiatria infantile, dipendenze tossiche, diversabilità, anziani ecc. In campo sociale agisce nei settori d’intervento del disagio minorile, nell’educazione degli adulti, nella terza età, nell’integrazione multiculturale ecc. e lo fa attraverso Centri di aggregazione, Centri sociali, Comunità alloggio, Servizi di pronta accoglienza o Case di riposo. In campo penitenziario l’educatore lavora con gli adulti e i minori sottoposti a procedimento penale, riferendosi ai Servizi sociali per i minori e agli Istituti di prevenzione e pena per gli adulti. In quest’ultimo ambito gli obiettivi dell’educatore sono comunque sempre la crescita, la maturazione e la riabilitazione dei soggetti in difficoltà, in questo caso dei detenuti. Negli ultimi periodi si stanno formando anche progetti di reinserimento lavorativo e sociale nell’istituto di “messa alla prova”, progetti che vanno a sostituirsi alla detenzione. Per realizzare un progetto educativo l’educatore deve programmare, gestire e verificare lo sviluppo e il recupero delle potenzialità dei soggetti in difficoltà con lo scopo finale di far ottenere loro maggiore autonomia. Evidenziamo ora le funzioni principali che raffigurano il profilo professionale dell’educatore: 1. Funzione diretta: nella relazione educatore \ utente l’educatore deve stare attento non solo a come comportarsi col soggetto ma anche a ciò che il soggetto stesso percepisce durante l’azione; 2. Funzione indiretta: rappresenta l’insieme di quelle azioni come la progettazione e la programmazione che agiscono indirettamente sulla relazione educatore \ utente; Educare nel suo significato etimologico di “trarre fuori” non può dunque voler dire solo trasmettere modelli o nozioni all’altro ma tutt’al più vuol dire aiutarlo a crescere, a recuperare e sviluppare la sua identità. La chiarezza, la disponibilità, il giusto coinvolgimento, l’interesse per gli altri, la sensibilità, la fiducia, l’apertura, il rispetto e la pazienza sono solo alcune delle peculiarità che l’educatore possiede. Difatti una persona diversabile impara a farsi piacere e accettare se trattata con le stesse modalità di un normodotato. Importante è pertanto che vi sia serenità anche e soprattutto nell’ambiente familiare; invero se nella famiglia diversabile si assumono atteggiamenti paternalistici, sostitutivi e \ o colpevolizzanti non si creerà un clima collaborativo e di fiducia reciproca ma si creerà un rapporto conflittuale che renderà più complesso l’intervento dell’educatore. L’educatore si assume le responsabilità di sostenere i processi d’interazione sociale del soggetto in difficoltà per questo l’educatore non può non tenere in considerazione l’interezza della persona ossia la sua corporeità, la dimensione psicologica, relazionale, affettiva, sessuale e l’ambiente di vita. Di conseguenza è chiaro che conoscere solamente le teorie non produce di per sé comportamenti adeguati poiché ci si deve sempre relazionare con la specificità del contesto in cui ci si trova. Le competenze possono quindi essere definite in relazione a contesti socio-organizzativi di applicazione e si riferiscono ad aree tra loro strettamente collegate: conoscenze teoriche, competenze tecnico-metodologiche, capacità individuali e relazionali, competenze socioorganizzative e dei processi di trasformazione ma anche motivazione. L’educatore lavora in ambienti caratterizzati da una molteplicità di organizzazioni sia pubbliche come l’ASL, gli Enti Locali o le Scuole e sia private come le Associazioni e le Cooperative, che condividono le finalità educative ma applicano modelli operativi differenti. Definendo meglio la competenza educativa possiamo suddividerla in: competenza cognitiva (il sapere); competenza metodologica (il saper fare), si tratta cioè di progettare e valutare gli interventi; e competenza personale (il saper essere) si tratta del sapersi adeguare alle varie circostanze, alla capacità di comunicazione, di gestire i vari rapporti ma anche di auto-riflessione e di autoanalisi. I centri e l’utenza La legge 104\92 definisce la regolamentazione sui Centri Diurni sostenendo che: 1. I comuni, anche consorziati tra loro o con le provincie, e le unità sanitarie locali possono realizzare con le proprie ordinanze risorse di bilancio, assicurando comunque il diritto all’integrazione sociale e scolastica, comunità alloggio e centri socio-riabilitativi per persone con handicap o in situazione di gravità; 2. Gli entri sopracitati possono contribuire alla realizzazione delle comunità di alloggio e ai vari centri sociali promossi da enti, fondazioni, istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, volontariato ecc.; 3. Per la collocazione topografica le comunità alloggio e i centri sociali devono essere idonei a perseguire una costante socializzazione dei soggetti ospiti, anche attraverso iniziative direttive a coinvolgere i servizi pubblici e il volontariato. I centri diurni vanno dunque ad integrare i compiti svolti nelle scuole dagli insegnanti. Le strategie educative Il lavoro educativo è strettamente connesso al tema della complessità in quanto l’educatore è costantemente alla ricerca di nuovi schemi di pensiero e aperto sempre a nuovi orizzonti. Nel momento in cui l’educatore inizia il proprio lavoro attinge ovviamente alla propria formazione e alla propria esperienza, che può essere costituita da un pregresso di volontariato, tirocinio o esperienze personali; tuttavia prima o poi si ritrova davanti a casa sconosciuti mai studiati o vissuti per cui non ha modelli di riferimento. Questo momento lavorativo non deve condurre l’educatore ad una sconfitta personale o professionale ma invece come ad una occasione di un rinnovato apprendimento. I cambiamenti che l’educatore attiva non riguardano quasi mai una singola persona ma coinvolgono anche l’insieme delle sue reti di relazione e i suoi spazi di vita, difatti ogni persona è definita dal rapporto con gli altri. Il significato di relazione implica il riferimento a una situazione tra due o più persone che sviluppano interazioni, è uno scambio non solo di informazioni ma anche di emozioni, affetti ed esperienze. L’ascolto è uno degli elementi principali da tenere in considerazione, per ascoltare in modo efficace è necessario prestare attenzione all’altro, non solo ai contenuti della comunicazione verbale ma anche alla sua dimensione corporea, affettiva ed emozionale. Per lo sviluppo delle relazioni u,amo la comunicazione rappresenta l’elemento indispensabile. È necessario sottolineare che la comunicazione può essere analogica (non verbale) o numerica (verbale). Queste due forme di linguaggio non solo coesistono ma sono anche complementari in ogni messaggio, il messaggio verbale comunica i contenuti, il messaggio non verbale i sentimenti e le emozioni. Ogni comunicazione lascia ai partecipanti un’influenza che produce effetti sul comportamento. Il comportamento del ricevente diventa un segnale importante per l’emittente che potrà regolare il proprio atteggiamento nei confronti dell’altro creando così un successivo effetto alla risposta ricevuta. La relazione educativa si differenzia dalle altre perché è caratterizzata dall’intenzionalità in quanto persegue degli obiettivi che possono essere di sviluppo delle potenzialità della persona. Seguire l’intenzionalità significa valorizzare la relazione con l’altro e valorizzare quello che si realizza nell’immediatezza, nell’irripetibilità di quello scambio. La relazione educativa inoltre è una relazione asimmetrica tra una persona che trasmette qualcosa e un’altra che accoglie quel qualcosa senza però percepire una posizione di superiorità o inferiorità. Tornando al lavoro di équipe dobbiamo ricordare che, in quest’ambiente, le attività devono essere concordate in maniera collettiva tramite rapporti di collaborazione. È fondamentale che ogni membro sviluppi un adeguato livello di coinvolgimento e d’appartenenza, senza il quale l’équipe multidisciplinare perde la sua motivazione, partendo dalla moltiplicazione delle risorse per arrivare all’ottimizzazione e all’individuazione di soluzioni creative che sarebbero inattuabili se ciascuna professionalità rimanesse confinata nella sua specifica competenza. È dunque fondamentale il pensare collettivo che può elaborarsi con lo scambio di opinioni e informazioni tra gli operatori. Tutto ciò conduce al lavoro di rete, una metodologia del lavoro sociale, che viene descritto da Folgharater come un approccio complesso, integrato e sistemico. Gli studiosi Cardini e Molteni distinguono le reti in primarie o naturali che corrispondono ai rapporti creati dalla famiglia, dalla parentela, dal vicinato in cui le componenti relazionali sono preponderanti e in reti secondarie che consistono in rapporti derivanti dal lavoro, dai partiti, dalle associazioni in cui le relazioni sono articolate in base all’organizzazione dei servizi e della dimensione organizzativa. Pensando in termini di “rete” non vi sono più gli individui da una parte e le comunità dall’altra ma entrambi sono nel sistema sociale e sono considerati interdipendenti. Il lavoro di rete è una mentalità che implica nell’educatore le seguenti condizioni: 1. Aprirsi culturalmente a considerare integrate in un’unica rete, sia le risorse istituzionali che quelle umane; 2. Non puntare principalmente sulle probabilità delle deve essere un osservatore, un fucilatore delle relazioni e a volte deve anche assumere un ruolo normativo per far sì che gli accordi presi in fase preliminare vengano rispettati. Le tossicodipendenze Il lavoro dell’educatore all’interno di un programma destinato ai giovani consumatori di sostanze stupefacenti parla di “ri- educazione” dei ragazzi difficili. La differenza tra educazione e rieducazione consiste nel fatto che quest’ultima inizia in un momento spostato rispetto alla solita educazione di ogni individuo; pertanto l’intervento di rieducazione è molto più complicato quanto più il ragazzo ha raggiunto una sua struttura interiore. Il lavoro rieducativo non può partire del passato del ragazzo pretendendo che egli ne prenda le distanze; questo è semmai il punto di arrivo di un processo costruttivo, rivolto al futuro. Quando lo stesso ragazzo avrà iniziato a modificare i suoi valori e sarà mosso da nuove esigenze, solo allora avrà senso provocare un ripensamento del suo passato. Il significato della rieducazione è quello di essere una trasformazione attiva che non nega il passato ma rinnova la proiezione nel futuro. L’educatore deve essere consapevole del senso di vulnerabilità provato dal ragazzo nella prima fase dell’intervento educativo, la relazione asimmetrica spinge il soggetto in difficoltà a manifestare atteggiamenti aggressivi, apatici, remissivi, di chiusura ecc. L’origine della vulnerabilità si sviluppa dall’idea del ragazzo che l’operatore possa giudicarlo. L’educatore deve porsi dal punto di vista del giovane, deve comprendere le motivazioni del suo comportamento deviante per poterlo poi superare. L’educatore deve creare quindi una relazione basata sull’empatia, deve spingere il ragazzo a suscitare il pensiero di se stesso nel futuro considerando i propri limiti e le proprie capacità. Il progetto del sé deve venire dal suo profondo. Il soggetto dovrà dunque ripensarsi nel presente, comprendendo l’incompatibilità tra vecchio e nuovo schema di rappresentazione della realtà, cogliendo i vantaggi dall’assunzione di una nuova visione del mondo. In questa fase si supera il transfert e l’educatore diventa un interlocutore alla pari, un punto di riferimento. È importante anche ripensarsi nel passato non dimenticando o cancellando, poiché è in virtù di ciò che diventa consapevole di quello che è ora. Un settore parallelo è quello legato all’uso di alcol. Nel CAT (Centri alcolisti trattamenti) l’educatore conduce il primo colloquio e deve essere in grado di accettare l’alcolista e i suoi familiari creando un’atmosfera armoniosa. Per i nuovi membri e per le famiglie che entrano nel trattamento per la prima volta vi sono a disposizione le esperienze delle altre famiglie. Nella realtà di gruppo l’educatore impara ad ascoltare i membri del club, a comprendere i loro problemi e ad aiutarli nella comunicazione e interazione. I corsi di sensibilizzazione per la preparazione dell’educatore cambiano di continuo, l’educatore apprende questi cambiamenti nei vari corsi di aggiornamento. Uno dei temi più ricorrenti per l’educatore è quello della “ricaduta”. Le ricadute possono essere comportamentali e funzionali al mantenimento dell’astinenza e con il ritorno al bere. La ricaduta è un segnale di crisi ma, a differenza dell’approccio medico tradizionale, nel club questa non viene vista come un fallimento. Il percorso infatti è costituito da alti e bassi, da passi in avanti e indietro. La dimensione interculturale La legge Martelli mirava ad attribuire agli immigrati regolari gli stessi diritti civili, economici e sociali dei cittadini italiani, senza imporre, come prerequisito per usufruirne, l’acquisizione della cittadinanza. Questa legge aveva anche definito un insieme d’interventi per favorire l’integrazione sociale e culturale degli stessi stanziando fondi per dare atto al diritto di educazione e all’abitazione; tuttavia delle proposte avanzate solo quelle relative all’emergenza e alla prima accoglienza furono attuate. Il successivo decreto del 1998 mirava alla realizzazione di una più efficace programmazione all’ingresso nel mondo del lavoro, all’aumento della prevenzione e della repressione dell’immigrazione illegale. Nel 1977 una direttiva prevedeva l’inserimento degli alunni stranieri nei normali corsi di studio, l’insegnamento della lingua e della cultura d’origine. Nel 1990 la legge 205 affermava che la scuola doveva mediare fra le diverse culture non assimilando, ma confrontando i diversi modelli, promuovendo la convivenza costruttiva, la comprensione e la collaborazione tra le varie identità. Anche in assenza di alunni stranieri la scuola deve comunque lavorare ad una comunicazione più aperta nei confronti delle culture diverse. La legge 40 richiedeva poi agli immigrati di conoscere la lingua e la cultura del paese ospitante per riuscire ad inserirsi positivamente nel tessuto sociale e lavorativo. Tra l’altro la scuola deve lavorare per il positivo inserimento dei bambini stranieri non solo nella classe ma anche nell’intera società. Per costruire una società multietnica è chiaramente necessaria una collaborazione tra scuola, enti locali e terzo settore. L’interculturalità rientra tra le priorità espresse dal Piano di Indirizzo per il diritto allo studio e alla formazione permanente così come il Piano Integrato Sociale Regionale attribuisce all’integrazione scolastica un importante ruolo nel contesto delle politiche d’integrazione della popolazione immigrata. A livello zonale questi due piani regionali diventano Progetto Integrato d’area e Piano Sociale Zonale. Con questi piani si può agire mediante l’erogazione di risorse destinate dalla programmazione sociale degli enti locali. Si va dunque espandendo una stretta correlazione tra scuola ed extrascuola. Un altro progetto è quello della costituzione di laboratori di Italiano, uno spazio di dialogo per le famiglie, servizi di documentazione e informazione, attività di aggiornamento e punti d’incontro. Uno di questi è il Centro di documentazione a livello provinciale che funge da punto di riferimento sia per il materiale sia per la formazione e l’aggiornamento degli operatori. L’educatore in carcere Nel 1975 la legge di riforma faceva riferimento alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e alla carta costituzionale avendo come obiettivo l’umanizzazione del trattamento nelle carceri e il recupero sociale dei detenuti. Si è aperto dunque un carcere in grado di custodire i soggetti privati della libertà, cercando di superare la loro totale segregazione. I soggetti detenuti sono stati percepiti sempre meno come malati da diagnosticare e curare e sempre più come persone da comprendere in senso esistenziale. La rieducazione era tradizionalmente concepita come risultato oggettivo di una serie di azioni nel campo dell’istruzione, del lavoro della riabilitazione a cui il detenuto era sottoposto più o meno obbligatoriamente. Sotto il profilo psicogiuridico oggi il trattamento penitenziario può essere dunque inteso come un modo di sollecitare un percorso di riflessione sulle norme socialmente riconosciute, nonché sulle conseguenze della trasgressione penale e sulla possibilità di attuare comportamenti alternativi al fine del proprio reinserimento nel tessuto sociale. Partendo da queste basi possiamo definire il profilo dell’educatore all’interno delle carceri, egli: 1. Deve superare i sentimenti d’ostilità nei confronti dell’istituzione, i sentimenti d’inadeguatezza personale, di disorientamento e fragilità interiore; 2. Deve stabilire un rapporto di accettazione, rispetto reciproco e fiducia nelle proprie potenzialità personali; 3. Deve scoprire le sue energie personali positive e rilanciarle verso obiettivi di responsabilità e impegno; 4. Deve condurre il detenuto ad assumere atteggiamenti costruttivi verso la realtà; 5. Deve educare uno stile educativo basato sull’ascolto, comprensione e aiuto affinché il soggetto possa farsi strada da sé. Altrettanto importante è che l’educatore osservi scientificamente la personalità dei condannati, partecipi al trattamenti rieducativo individuale o di gruppo, organizzi un servizio di biblioteca, partecipi alla commissione interna dell’istituto penitenziario, partecipi al consiglio di disciplina, partecipi alla commissione per le attività culturali, ricreative e sportive, svolgi un’opera di consulenza ecc. Il disagio psichico La prima cosa da capire è che quando si affronta una malattia si tende sempre a pensare ad una possibilità di guarigione tuttavia nei casi di malattia psichica la cosa è un po’ differente, raramente difatti si incontra la guarigione, ciò che l’operatore può fare in questo caso è offrire al soggetto e alla famiglia gli strumenti per convivere con essa. L’obiettivo principale è quello di accompagnare la persona malata nella realtà quotidiana, personale, familiare, sociale e allo stesso tempo aiutare coloro che gli stanno vicino. Ogni persona possiede una sua unicità e perciò la strategia educativa deve realizzarsi all’interno sì di una relazione terapeutica ma deve anche creare un rapporto interpersonale nel quale soggetto ed educatore si riconoscano e si fidino l’uno dell’altro. L’educatore deve prendersi cura del soggetto. È fondamentale creare un setting dove la funzione maternage, contenendo la negazione autodistruttiva che spesso si instaura nel soggetto, sia capace di proteggere il suo Io regredito anche quando il soggetto neghi il bisogno delle cure e delle attenzioni. L’educatore deve fare dunque attenzione a preservare il setting, sviluppando anche la funzione paterna per contenere l’onnipotenza e la distruttività. Se l’ambiente familiare si deteriora la casa diventa un’istituzione manicomiale, un ambiente ostile che spinge gli abitanti ad isolarsi e a fuggire da ogni tipo di relazione. L’opera dell’educatore è quella di mediare le ostilità e favorire i rapporti nell’ambiente familiare. Lo studioso Bion descrive la funzione che la madre svolge mentalmente nel rispondere alle emozioni del bambino con termine réverie. La madre fantastica e interpreta le emozioni del bambino attraverso le immagini che queste le evocano. Il rapporto tra madre e bambino richiama il rapporto di dipendenza e soddisfazione dei bisogni che si instaura tra educatore e soggetto; per questo è fondamentale che l’educatore sia capace di rielaborare la sua réverie per capire se le immagini evocate siano relative al proprio particolare stato d’animo, oppure rispondano solo alle richieste del soggetto. La réverie si attiva solo quando c’è tensione emotiva tra due persone che cercano di incontrarsi. Questa dimensione si può creare anche in caso di conflitto interiore, o tra utenti o tra utente ed educatore. Nel primo caso l’educatore è la figura di appoggio e sostegno, è presente e accogliente, sempre a disposizione del soggetto. Nel secondo caso prima di intervenire l’educatore deve valutare la situazione, approcciandosi con cautela e cercando di riportare l’armonia che è venuta meno in quel momento. Nel terzo caso attaccamento ossessivo nei confronti della madre. Tra l’altro è anche vero che dapprincipio la madre tenderà a farsi carico, da sola e in modo esclusivo delle cure del bambino, spinta da quel rapporto implicito che si sviluppa sin dalla gravidanza. Da questi atteggiamenti derivano: il peggioramento della qualità del rapporto relazionale e sessuale; la circoscrizione del dialogo fra coniugi limitato esclusivamente al figlio; la prevalenza materna nell’accudimento del figlio; la scarsa volontà di affidare il figlio a qualcuno per avere più tempo per curare i rapporti personali. Importante è sottolineare che il lavoro rappresenta, nella nostra società capitalistica, un impegno morale che fornisce all’uomo non solo la possibilità di sopravvivere ma anche l’opportunità di migliorare la qualità della sua vita. Per questo quando si parla di autonomia non possiamo non prendere in considerazione il lavoro. Per dare dignità alla donna si è definito come “lavoro domestico” il suo adoperarsi per il marito e i figli; e allora quale integrazione sociale possiamo pensare per un diversabile nella nostra società che non passi attraverso il lavoro? Per un soggetto in difficoltà è importante l’orientamento al lavoro. Il piano d’orientamento dovrebbe dunque svilupparsi in varie fasi: la prima parte dall’analisi dei desideri, dalle aspettative e dai punti di forza. Una fase successiva che è l’analisi degli ambienti formativi e lavorativi rappresenta lo scenario di riferimento per costruire dei percorsi di formazione che possano essere realmente adeguati per quel soggetto. Bisogna avere un quadro chiaro di cosa offre il territorio. La terza fase è il supporto alla scelta. L’ultima è quella della pianificazione dell’adattamento lavorativo che è fondamentale per mantenere il lavoro. Queste caratteristiche sono le capacità comportamentali cioè la presenza costante al lavoro, la puntualità, la cura della persona ecc.; le capacità sociali – personali sono il saper gestire adeguatamente le proprie emozioni, usare il lessico aziendale, stabilire le relazioni in modo appropriato ecc.; le capacità di prontezza lavorativa sono le capacità di comprendere i concetti fondamentali legati al tipo di lavoro o il dimostrare interesse per il lavoro stesso. Quando si parla di lavoro per un diversabile bisogna comunque sempre collocarlo nel concetto dell’integrazione. Si dovrà quindi elaborare un progetto alla persona, un progetto d’inserimento al ruolo lavorativo. Spesso si pensa che un diversabile sia improduttivo ma ciò è sbagliato perché la produttività è legata a degli obiettivi specifici. Certamente è chiaro che per un diversabile è più complesso accettare il compromesso, comprendere le direttive che gli vengono date, rispettare le gerarchie lavorative, saper lavorare coi colleghi ecc. La sofferenza e il saper affrontare l’evento morte Il modo di concepire l’evento-morte e il dolore in genere è correlato al contesto culturale a cui un individuo appartiene e alle sue convinzioni personali. Nel mondo occidentale prevale un diffuso senso di disagio nei confronti del concetto di “limite” e la vita ha assunto il significato di una perenne ricerca del benessere e del piacere, di conseguenza ogni condizione legata al declino fisico, mentale e alla morte perde di significato. È dunque utile che sia dapprima l’educatore a possedere un’educazione alla morte in modo tale da riuscire a immaginare quali potrebbero essere le reazioni del diversabile di fronte a un lutto e a porvi di conseguenza rimedio. Sono state individuate tre fasi di reazione alla morte: In un primo momento la persona non si rende conto che la morte sia avvenuta davvero, non riesce ad accettarla emotivamente anche se è consapevole di ciò che è successo; si ha poi l’accettazione della perdita accompagnata da un forte dolore, senso di tristezza e a volte rabbia verso chi non è riuscito a impedire la morte o verso il morto stesso; l’ultima fase è di riorganizzazione e il dolore si attenua, vi è un distacco dalla persona amata e un riaffacciarsi alla vita, anche se in modo diverso. L’educatore come in tutte le altre situazioni deve stabilire un contatto col soggetto in difficoltà, ascoltarlo, stargli vicino agendo con delicatezza e discrezione. Il Manuale di psicologia di emergenza di Young, Ford, Ruzek, Friedman e Gusman spiega come comunicare a qualcuno il decesso di una persona cara: 1. Comunicare il decesso di persona mai per telefono; 2. Portare qualcuno che possa soccorrere un eventuale malore; 3. Presentarsi con garbo, rivolgersi al soggetto più vicino al deceduto, mai rivolgersi ad un bambino; 4. Parlare della vittima usando il suo nome; 5. Non dare la colpa alla vittima di quello che è successo anche se è così; 6. Offrirsi disponibili a rispondere a qualsiasi domanda e \ o richiesta dei cari; 7. Entrare in empatia con i familiari e amici della vittima. Tutti questi elementi ci mostrano come sia complesso per l’educatore avere a che fare in determinate situazioni che sono causa di un grande carico di stress. Stare vicino ad una persona che soffre ci coinvolge emotivamente anche quando siamo preparati ad accogliere il dolore. Commento: Andrea Mannucci, nel suo libro "Lavorare con le diversità", offre un prezioso contributo al dibattito sull'educazione alla diversità di genere. Il testo affronta il tema in modo approfondito e fornisce strumenti concreti per affrontare la complessità delle identità di genere nella pratica educativa. Mannucci mette in evidenza l'importanza di un approccio critico e consapevole alla tematica, sottolineando che la diversità di genere va oltre la semplice distinzione binaria tra maschile e femminile. Esplora le molteplici sfumature delle identità di genere e come queste si sviluppino e si manifestino nella società. L'autore suggerisce l'utilizzo di strumenti educativi basati sulla riflessione e sul dialogo, che incoraggiano gli insegnanti e gli educatori a mettere in discussione i preconcetti e gli stereotipi di genere. Propone inoltre l'importanza di un ambiente inclusivo e di una comunicazione aperta, che offra spazi di espressione e ascolto per tutte le identità di genere. Inoltre, Mannucci esplora anche il ruolo dei media e dei materiali educativi nell'influenzare le percezioni di genere. Sottolinea la necessità di analizzare criticamente i messaggi veicolati dai media e di promuovere un'educazione ai media che promuova una rappresentazione più equilibrata e inclusiva dei diversi generi. Il commento su "Lavorare con le diversità" è positivo, in quanto il testo offre una panoramica completa sulla tematica della diversità di genere e fornisce strumenti concreti per l'educazione al genere. L'approccio critico e riflessivo proposto dall'autore permette di affrontare la complessità delle identità di genere in modo inclusivo e rispettoso. In sintesi, "Lavorare con le diversità" di Andrea Mannucci è un libro di grande valore per coloro che sono impegnati nell'educazione alla diversità di genere. Offre una prospettiva approfondita, strumenti concreti e spunti di riflessione per promuovere un'educazione al genere inclusiva e consapevole. Lavorare con le diversità è un elemento essenziale per costruire un ambiente di lavoro inclusivo e rispettoso. Andrea Manucci ha ragione nel sottolineare l'importanza di questo aspetto: oggi più che mai, le organizzazioni stanno riconoscendo il valore della diversità e stanno lavorando per creare spazi di lavoro che riflettano la ricchezza delle differenze presenti nella società. Ciò implica l'accettazione e l'inclusione di persone di diversi background etnici, culturali, religiosi, di genere, di orientamento sessuale, di età, di abilità e molto altro. Quando si lavora con le diversità, è importante mettere in atto politiche e procedure che promuovano l'uguaglianza di opportunità e il rispetto reciproco. Ciò può includere l'implementazione di programmi di formazione sulla sensibilizzazione alle diversità, l'adozione di politiche antidiscriminatorie, l'instaurazione di canali di comunicazione aperti e inclusivi, così come la promozione di un ambiente di lavoro inclusivo in cui tutte le opinioni e le prospettive sono ascoltate e considerate. Lavorare con le diversità porta numerosi vantaggi per le organizzazioni. Contribuisce a una maggiore creatività e innovazione, poiché diverse prospettive e punti di vista possono portare a soluzioni più ampie e complete. Inoltre, promuove un clima di lavoro positivo e soddisfacente, in quanto le persone si sentono riconosciute e valorizzate per ciò che sono. Andrea Manucci ha offerto uno spunto importante sull'importanza di lavorare con le diversità. Ora spetta a noi come individui e come società abbracciare e promuovere attivamente l'inclusione e il rispetto della diversità nei nostri ambienti di lavoro e nella nostra vita quotidiana.
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