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La Compagnia di Gesù: Il ruolo dei Gesuiti nella Storia e la loro Controversa Immagine, Sintesi del corso di Storia Moderna

Storia della religioneStoria dell'EuropaStoria della Chiesa

La crescente influenza dei Gesuiti nel corso dei secoli, dalla loro origine in Europa alla loro espansione in America e Asia. Il documento illustra come i Gesuiti si occuparono di assistenza ospedaliera, carceri, redenzione delle prostitute, predicazione e insegnamento, fondando nuove missioni e avvicinando l'ordine ai ceti dirigenti. Tuttavia, la loro posizione fu messa in discussione a causa delle loro teorie sulla liceità del regicidio e il loro uso della confessione come strumento di controllo. anche i rapporti tra Gesuiti e altri ordini religiosi e le accuse di lassismo morale e teologia morale lassista. Sussistono anche polemiche sulla loro capacità di comprensione della società cinese e il loro ruolo nella formazione di uno Stato gesuita.

Cosa imparerai

  • Perché i Gesuiti furono accusati di lassismo morale e teologia morale lassista?
  • Come i Gesuiti si occuparono di predicazione e insegnamento?
  • Come i Gesuiti si occuparono di assistenza ospedaliera, carceri e redenzione delle prostitute?
  • Come i Gesuiti furono accusati di elaborare una teologia morale lassista?
  • Come i Gesuiti si occuparono di fondare nuove missioni?

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 08/02/2022

Chiara.Surdo
Chiara.Surdo 🇮🇹

4.5

(2)

5 documenti

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Scarica La Compagnia di Gesù: Il ruolo dei Gesuiti nella Storia e la loro Controversa Immagine e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! Le origini (1540-1580) Ignazio di Loyola nacque probabilmente nel 1491 a Loyola nella provincia basca di Guipúzcoa, con il nome di Iñigo, che poi cambiò a Parigi forse per devozione a Sant'Ignazio di Antiochia. Il padre lo aveva avviato senza successo alla carriera ecclesiastica, ma poco prima di morire lo destino alla carriera militare. Ignazio giunse così ad Arévalo presso Juan Velázquez de Cuéllar, tesoriere capo della corte imperiale e lì ricevette la sua educazione, divisa fra vita militare e compagnia femminile. Nel 1516 dopo la morte del re Ferdinando, Velázquez cadde in disgrazia e morì. Ignazio passò quindi al servizio del Duca di Nájera in Navarra. Membro della guarnigione nella difesa di Pamplona assediata dai francesi venne gravemente ferito a una gamba e trasferito a Loyola. Lì dovette subire una dolorosissima operazione che lo costrinse una forzata inattività per parecchio tempo. Si dedico alla lettura delle vite di San Domenico di San Francesco che inizialmente gli spronavano grandi imprese, ma poi arrivò a conoscere “la diversità degli spiriti che si agitavano in lui”, l'uno del demonio e l'altro di dio. La sua fu una lenta conversione spirituale che lo portò a votare la sua vita a Dio. Deciso a partire per la Terrasanta si recò inizialmente presso Manresa dove rimase quasi un anno e dove iniziò una vita di ascesi più severa, con l'intento di allontanarsi da ogni passione terrena. Fu a Manresa che egli cominciò ad assistere gli ammalati e fu lì che ebbe le sue prime visioni mistiche, i cui appunti sarebbero poi diventati gli Esercizi Spirituali. Nel 1523 Ignazio intraprese il suo primo pellegrinaggio in Terra Santa, ma venne sconsigliato di rimanere a Gerusalemme. Da questa esperienza maturò la decisione di votarsi all'aiuto delle anime e all'apostolato. Ritornò in Spagna ad Alcalà per iniziare la sua preparazione e seguire i corsi universitari. Ben presto iniziò a predicare e a dare gli Esercizi Spirituali, suscitando l'attenzione dell'Inquisizione. Loyola fu imprigionato sotto il sospetto di aderire all’alumbradismo, movimento di rinnovamento spirituale che insisteva sul valore dell'orazione mentale richiamandosi a una radicata tradizione di spiritualità mistica. Agli occhi del tribunale spagnolo l'enfasi posta sull’aspetto contemplativo aveva una ricaduta negativa sulla morale, al punto da assumere un carattere decisamente eterodosso che portò alla ripetuta condanna di testi sospetti. Tuttavia vi erano dei punti di contatto tra la predicazione di Loyola e l’alumbradismo, dovuti alle insistenze su l'orazione mentale, sulle consolazioni interiori, sulla comunione frequente. Da qui Ignazio si spostò a Salamanca dove fu nuovamente incarcerato e subì un altro processo per la presunta eterodossia degli Esercizi: questa è una tappa importante dell'evoluzione spirituale intellettuale di Ignazio che si rese conto della grave carenza delle sue nozioni teologiche e della sua scarsa cultura, a partire dalla conoscenza della lingua latina, per cui nel 1528 partì per Parigi dove a 37 anni si iscrisse ai corsi universitari presso il collegio di Santa barbara. Nel marzo del ‘33 ricevette la licenza e due anni dopo il grado di maestro in artibus. Iniziò anche il corso di teologia tenuto da domenicani, arricchendo la sua cultura con lo studio di San Tommaso e degli scolastici. Loyola fece conoscenza con i compagni destinati a fondare insieme con lui la Compagnia di Gesù. Il primo incontro importante fu quello con Pierre Fabre, proveniente dalla Savoia, e con il navarrese Francesco Saverio, entrambi molto più giovani di lui che iniziarono sotto la guida di Ignazio gli Esercizi Spirituali ma esitarono a lungo, soprattutto Saverio, prima di seguire la loro vocazione. Gli altri compagni furono il portoghese Simão Rodrigues e gli spagnoli Diego Laínez, Alfonso Salmerón, Nicolas Bobadilla. Il 15 agosto 1534 a Montmartre dopo la celebrazione della messa da parte di Fabre essi pronunciano i tributi di povertà, castità e obbedienza aggiungendo il proposito di recarsi in Terrasanta. Inoltre giurarono di presentarsi al pontefice per offrirgli la loro obbedienza. Questa fu l'origine del quarto voto della Compagnia di Gesù, l’obbedienza al papa circa missiones. Di questa primissima fase di vita della compagnia è importante sottolineare la dimensione internazionale dei compagni di Montmartre, nonché la collegialità delle decisioni: Ignazio è sempre un ruolo di guida ma la coesione del gruppo è un fattore di rilievo nelle origini e nella prima espansione dell'ordine. Dopo Parigi la sua malferma salute obbligò Ignazio a ritornare temporaneamente in Spagna, mentre i 7 compagni, a cui se ne erano aggiunti altri, si ritrovarono a Venezia nel 1536 dove rimasero fino a ‘38: furono questi gli anni del progetto abortito di trasferirsi in Terrasanta e della creazione del nucleo originario dei cosiddetti Ministeri della compagnia. Accanto alla preghiera, Ignazio e i suoi compagni, ordinati tutti i sacerdoti, si occuparono degli ammalati, visitarono le carceri, impartiranno lezione di catechismo. A Venezia Ignazio ebbe modo di conoscere Gian Pietro Carafa, vescovo di Chieti, papa nel 1555 con il nome di Paolo IV. L'animosità Del Carafa nei confronti dei Gesuiti va fatta risalire proprio all'incontro veneziano, in occasione del quale Ignazio non si trattenne dall’esprimere perplessità sulla congregazione fondata dal vescovo e da Gaetano da Thiene, ovvero i Teatini. Fu questo l'unico periodo che il gruppo originario trascorse quasi sempre insieme: presto Infatti Francesco Saverio sarebbe partito per le indie, Rodrigues sarebbe stato richiamato in Portogallo e gli altri si sarebbero sparpagliati per l'Italia e per l’Europa. Nel 1540 questo gruppo ricevette da Papa Paolo III la promozione ufficiale come ordine religioso con il nome di Compagnia di Gesù. L’agiografia gesuita ha sempre sottolineato l'importanza della “visione de la Storta” come momento chiave per la presa di coscienza di Ignazio, che in procinto di entrare a Roma avrebbe visto il signore che lo invitava a servirlo: di qui anche la scelta del nome di compagnia di Gesù. Nella capitale Ignazio e i suoi ricevettero segni di benevolenza da parte del papa, che affidò loro alcuni incarichi: Ignazio diede gli esercizi spirituali al dottor Ortiz ha conosciuto ai tempi di Salamanca e allora a Roma come inviato di Carlo V, a Lattanzio Tolomei e al cardinale Gasparo Contarini; Fabre e Laínez insegnarono invece alla Sapienza. Conobbero anche Rodolfo Pio di Carpi che divenne Cardinale protettore della compagnia, unico nella storia dell'ordine. Riprova dell'ostilità da cui erano circondati, essi dovettero subire un ennesimo processo inquisitoriale, da cui uscirono nuovamente assolti. Nel 1539 decisero di fondare un nuovo ordine religioso e sottoposero al pontefice 5 articoli fondamentali conosciuti come la Formula dell'Istituto in cui erano presenti i punti chiave poi sviluppati nelle Costituzioni: spirito apostolico per il progresso delle anime, lealtà e obbedienza nei confronti della Santa Sede, dedizione alla povertà, obbedienza ad un preposito generale, abolizione della preghiera corale per poter dilatare il tempo destinato ai propri ministeri. Sul versante istituzionale il riconoscimento il nuovo ordine provocò non poche dissensi. Il cardinale Girolamo Ghinucci era restio ad accettare le novità distintive del nuovo ordine religioso, convinto che l'abolizione del canto fosse indizio di cripto luteranesimo. Il cardinal Guidiccioni era contrario all'approvazione di nuovi ordini religiosi maschili e a maggior ragione di un ordine con caratteristiche tanto simili a quelle del clero secolare. Nonostante tutto, il 27 settembre 1540 Paolo III promulgò la Bolla Regimini militantis Ecclesiae, con la quale sanciva formalmente la nascita della Compagnia di Gesù. L’unico vincolo fu di limitare a 60 il numero dei soci, anche se tale clausola fu abolita pochi anni dopo (1544). La compagnia crebbe a ritmo vertiginoso con un migliaio di unità alla morte di Ignazio (1556), un successo strepitoso, testato anche della solenne conferma dell'ordine nel 1550 con la Bolla Exposcit debitum di Giulio III. Un passaggio fondamentale fu la scelta di eleggere a vita il generale. Ignazio venne eletto all'unanimità il 5 aprile 1541, ma per una quindicina di giorni si rifiutò di accettare l'incarico dichiarandosi inadeguato a sostenere un tale ruolo. Assunta la carica governò con un forte senso di gerarchia pur mantenendo un atteggiamento paterno nei confronti dei suoi sottoposti. Ignazio ha lasciato più di 6000 lettere che testimoniano l'uso costante che egli fece dello strumento epistolare quale mezzo per la direzione dell'ordine. Alcune di queste lettere sono assai note, come quella sull'obbedienza del 1553 che costituisce una pietra miliare per comprendere il pensiero di Ignazio. La lettera viene inviata ai membri della provincia portoghese scossa dalla sostituzione del provinciale Rodrigues, accusato di favorire pratiche penitenziali particolarmente severe, contrarie alla prassi della compagnia, e di governare la provincia in maniera autonoma rispetto alle scelte di Roma. L'arrivo del nuovo Provinciale Mirón era stato accolto con grande sconcerto e fastidio al punto che la provincia aveva subito una forte emorragia di adepti. Era urgente dunque che il generale ribadisse l'importanza dell’obbedienza per tutti i membri, tanto che la lettera sarebbe diventata obbligatoria in tutti i refettori delle case e dei collegi della compagnia. Tale principio disegnava una gerarchia di ruoli, di lì a poco codificata dalle Costituzioni, in cui generale era a capo di tutto il sistema, seguito dai provinciali, dai rettori dei collegi e degli altri superiori locali. Le Costituzioni, divise in 10 parti e promulgate solo nel 1558 dopo la morte di Ignazio, si presentano come una sorta di itinerario: dalla scelta dei candidati, al periodo di probazione, alla vera e propria incorporazione attraverso il meccanismo dei gradi fino alla carica più importante di tutte, quella di preposito generale. Ampio spazio è dato anche alle regole da seguire con coloro che vengono dimessi, a testimonianza del fatto che all'interno dell'ordine non c'era nessuna condizione che fosse data per sempre. Al grado più alto erano i professi dei 4 voti, coloro cioè che oltre ai classici voti facevano il voto di obbedienza al papa, a cui potevano accedere solo coloro che avevano concluso il corso di teologia, mentre un gradino più in basso stavano i professi dei 3 voti. La novità è rappresentata dai coadiutori spirituali, cioè da coloro che privi di una cultura adeguata non erano ammessi alla professione pur possedendo una conoscenza del latino sufficiente all'ascolto delle confessioni. All'ultimo livello vi erano i coadiutori temporali, laici che svolgevano le mansioni più umili. I coadiutori pronunciavano anch’essi i tre voti canonici. Questa struttura composita era stata pensata da Ignazio come una tappa destinata ad esaurirsi con il passare del tempo. Di diversa opinione era Jerónimo Nadal, convinto che potessero essere ammessi alla professione di 4 voti solo coloro che avessero un'ottima preparazione teologica. Nella pratica dunque il peso quantitativo della figura del coadiutore spirituale fu destinata a crescere con il passare degli anni: dal 8% del numero totale dei gesuiti al tempo di Ignazio, al 47% sotto Acquaviva. Questo dato spiega il sorgere di molti problemi all’interno della compagnia, tra cui la distinzione tra professi e coadiutori che non era solo nominale, ma aveva una ricaduta diretta sulla carriera interna. Le cariche direttive venivano infatti affidati ai professi suscitando malumori nei coadiutori spirituali che mal sopportavano l'esistenza di simili privilegi. Oltretutto la scelta della promozione a 4 voti era spesso imputata a favoritismi che esalavano dal merito effettivo dei singoli padri. Ai tempi di Francesco c’è una polemica sul fatto che “la banda degli spagnoli” si fosse messa a studiare teologia solo per fare carriera. Dietro questa polemica si annidavano gelosie che esprimevano un malessere reale e diffuso. Da Laínez a Polanco molti tra gli spagnoli erano discendenti da famiglie di conversi e ciò non destò preoccupazioni da parte di Ignazio, ma il problema era destinato ad acuirsi successivamente. Sotto Laínez e poi Borgia l’accrescersi del peso del partito dei “cristiani nuovi” nella Compagnia suscitò forti critiche all’interno della stessa curia romana, non a caso uno dei primi ribelli antigesuiti in ambito cattolico – i Novi advertimenti del vescovo Ascanio Cesarini – insistesse nel criticare proprio tale politica dell’ordine. Questo problema però si risolverà durante il generalato di Acquaviva, vero e proprio momento di ridefinizione di una serie di questioni lasciate aperte. Polanco è stato a lungo lasciato in ombra nella storiografia gesuita per paura di oscurare la figura del fondatore, ma alcuni suoi testi sono centrali per comprendere le tappe di elaborazione delle Costituzioni. Il periodo dal 1558 al 1580 è segnato dai tre generalati di Diego Laínez (58-65), Francesco Borgia (65-72) e Everardo Mercuriano (73-80) e ognuna di queste figure ha una sua specificità, ma in linea generale si può dire che Laínez cercò di seguire le orme del fondatore, la più tenaci difensori della Chiesa di Roma. Molte delle vittorie contro gli eretici italiani furono dovute a loro, come quella contro i valdesi in Calabria e in Puglia, dove Bobadilla condannò però i rigori dell’Inquisizione e fu soltanto Laínez a evitare uno scontro molto acceso. Metodi aggressivi vennero usati dallo stesso Possevino contro i valdesi in Piemonte e in Germania si recarono Fabre e Jay. Lì la politica scelta fu quella di creare numerosi collegi adibiti ad avamposti del cattolicesimo; nel 1554 proprio Ignazio raccomandava l’istruzione catechistica come uno degli strumenti più importanti per ricondurre la popolazione all’ortodossia e spronava a utilizzare ogni mezzo possibile per combattere l’eresia e replicare ai livelli dei protestanti. La confessione dei peccati divenne un ministero chiave del disciplinamento cattolico dopo il concilio di Trento. Nel Cinquecento la confessione divenne vero e proprio strumento di indagine in merito all’ortodossia dei penitenti. Proprio per questa valenza complessa la confessione suscitò problemi e discussioni che toccavano gangli vitali dell’universo cattolico e ponevano l’ordine in una posizione delicata rispetto alla nuova Congregazione del Sant’Uffizio. Sin dal 1545 la concessione di numerosi privilegi papali aveva consentito alla Compagnia di godere di poteri molto ampi in merito all’assoluzione dei casi riservati. Nel 1552 Giulio III aveva esteso tali privilegi all’utilizzazione ordinaria delle facoltà di assoluzione di eretici e lettori di libri proibiti. Nel 1559 una bolla emanata da Paolo IV stabilì l’obbligo di denuncia degli eventuali complici da parte dei penitenti e revocò tutti i permessi di lettura di libri proibiti. I gesuiti però continuarono a sostenere la difesa del sigillo sacramentale, suscitando malumori: in particolare per l’Inquisizione romana era inaccettabile che i religiosi della compagnia non si conformassero a un sistema che vedeva nella confessione un mezzo di controllo religioso e sociale. Dagli esercizi essa era intesa come esame di coscienza, strumento atto ad accompagnare il cammino di perfezionamento del penitente. Tale valore fu ribadito da Gaspar de Loarte che individuò nella confessione generale il momento di svolta per l’avvio di una nuova vita. La confessione gesuitica guardava più al cristiano che all’eretico e il confessore era un medico dell’anima, non un giudice. Di fatto, fino al XVII secolo vi fu uno spostamento dei rapporti di forza a favore dell’inquisizione. Dal dibattito storiografico però risulta un’immagine più sfumata: un approccio sostanzialmente distante da quello inquisitoriale non impedì ai gesuiti di agire in diversi frangenti in accordo con gli inquisitori. L’attività del missionario Silvestro Landini a Modena e il ruolo inquisitoriale affidato a Nicolas Bobadilla ad Ancona rientrano fra gli episodi di collaborazione tra Compagnia e Sant’Uffizio. Diverso è il caso senese, dove la denuncia dell’ambiente ereticale gravitante intorno ai Sozzini fu circoscritta dal Gesuita Emanuele Sa a pochi casi isolati, in aperta opposizione con l’inquisitore Ghislieri. In quanto al caso napoletano, lo scontro tra gesuiti e inquisizione si risolse a favore dei primi. Oltretutto la diffidenza verso l’inquisizione rendeva ancora più difficoltoso far sì che i penitenti denunciassero se stessi o altri all’Inquisizione. In Spagna invece ci furono casi di collaborazione, come a Siviglia e a Saragozza, sia momenti di scontro, tra cui va annoverano il processo contro alcuni gesuiti di Valladolid, accusati di sospette dottrine alumbrade. Al pari della confessione, altrettanto rilievo era dato alla comunione frequente, valore condiviso da altri ordini religiosi, anche se guardato con sospetto perché spesso indice di orientamenti spirituali devianti. Negli esercizi Ignazio aveva raccomandato la confessione ogni 8 giorni e la comunione ogni 8-15 giorni. Tale invito era stato visto come una pericolosa innovazione tanto che Ignazio chiederà a Salmerón di comporre un libretto in difesa di tale prassi. Questo libretto però era troppo tecnico e difficile, quindi Loyola incaricò Cristoforo Madrid di scriverne un altro di più facile lettura: questo ribadiva lo stretto rapporto tra comunione e confessione, sottolineando il valore della confessione generale. Per la Compagnia punto di riferimento fu il Manuale de’ confessori e penitenti, in cui veniva presentato un modello di confessione dolce e frequente, gradito ai gesuiti; con quest’opera si gettavano i semi per le future opere di casistica in cui eccelse la Compagnia. Occorre ricordare che dal 1556 il Collegio romano aveva nominato Diego de Ledesma professore di casi di coscienza, e negli anni successivi i corsi furono aperti a tutti gli studenti e tale insegnamento non fu prerogativa solo dei gesuiti, ma conseguenza del fervore di iniziative che seguirono la fine del concilio tridentino. Un altro aspetto molto importante fu il legame profondo tra il ruolo del confessore e quello del missionario: quando i gesuiti arrivavano nei posti più abbandonati, l’invito rivolto nella predica era quello di accostarsi al sacramento della confessione. Un simile atteggiamento è ben riassunto nel testo Il direttore. Metodo da potersi tenere per ben regolare le anime nella via della perfezione cristiana. Qui il termine direttore testimonia la forza assunta da questa figura, non più confessore occasionale, ma persona coinvolta nel processo di perfezionamento del singolo individuo nonché garante dell’ortodossia dei penitenti. Il testo codifica una nuova immagine del peccato che diventa l’esito prevedibile di inclinazioni naturali. L’idea della direzione spirituale sul piano sociale era destinata a divenire sempre più rilevante nell’esperienza dei nuovi ordini religiosi. L’attenzione rivolta dai gesuiti alla fondazione di congregazioni laicali accentuò l’importanza del direttore spiritale ed ebbe una ricaduta sulla cosiddetta “femminilizzazione della religione”. Era questo un altro modo per attuare un controllo sulle coscienze dei forti con ricadute sul piano sociale. Tale critica assunse particolare rilevanza durante il governo di Acquaviva. Tra Cinque e Seicento: un trentennio di assestamento Claudio Acquaviva si era votato alla vita religiosa contro il parere dei familiari; dopo poco tempo al servizio della curia pontificia, nel 1567 entrò nella Compagnia di Gesù, al cui interno ebbe una rapida carriera: nel 1576 divenne provinciale napoletano e proprio a Napoli ebbe modo di fare quella ‘esperienza sul campo ’ che lo temprò e gli consentì poi di affrontare il compito di generale. La sua elezione a provinciale napoletano era stata fortemente contrastata da Bobadilla e probabilmente i problemi di Acquaviva con la provincia spagnola iniziarono proprio in quel periodo. L’esperienza napoletana fu inoltre importante per far germogliare in lui un’attenzione per le missioni interne che costituì una caratteristica del suo generalato. Nel 1579, l’assunzione della carica di provinciale romano rafforzò ulteriormente il suo prestigio e, dopo la morte di Mercuriano, Gregorio XIII favorì la sua ascesa. La congregazione fu densa di momenti difficili: Carlo Borromeo intervenne presso il papa affinché si impedisse l’elezione di Acquaviva a favore di Francesco Adorno o di Benedetto Palmio. Acquaviva vinse con 32 voti su 67: la mancata unanimità fu causata anche dal suo essere italiano e di giovane età (37 anni). Egli si trovò a reggere la Compagnia in un momento di estrema tensione interna. Nel complesso Acquaviva seppe far fronte ai numerosi problemi con cui si trovò a combattere: la Compagnia uscì profondamente cambiata dal suo lungo generalato, al punto che si possono considerare questi anni una sorta di spartiacque fra la Compagnia ignaziana e l’ordine religioso che raggiunse ampio successo nel corso del XVIII secolo. Gli stessi contemporanei si resero conto dell’importanza di tale mutamento: se la dirompente crescita della compagnia ne aveva reso difficoltoso il governo, accentuando via via i problemi di disciplina interna, fu proprio durante il generalato di Acquaviva che le incomprensioni e i desideri di autonomia manifestati dalle singole province si saldarono con le rivendicazioni dei nascenti Stati Nazionali. I gesuiti finirono in più occasioni con l’essere una presenza estranea, guardata con sospetto perché sfuggente ad una regolamentazione nazionale e agli accordi diretti fra Stati e papa. In altri casi essi seppero coniugare le proprie esigenze apostoliche con quelle dei paesi in cui si trovavano e riuscirono a cogliere l’opportunità d un’azione molto capillare sul territorio. Inoltre, è indubbio che in questo periodo si manifestò l’esigenza di ridefinire la natura e i compiti di un apostolato che tendeva a una sempre maggiore autonomia delle sue diverse funzioni: dall’impegno missionario a quello educativo, a quello pastorale, tutti complicati dalle imprescindibili contaminazioni con il potere secolare e con le autorità ecclesiastiche. Gli anni del governo di Acquaviva videro moltiplicarsi le spinte autonomistiche delle diverse province, desiderose di avere ognuna il suo generale. Acquaviva contrastò tali spinte poiché i gesuiti dovevano convincersi di essere “tutti in un corpo”. Egli venne precocemente accusato di tirannide ma occorre dire che il suo progetto fu sorretto dalla convinzione che l’unità della Compagnia dipendesse da un’energica ridorma basata sul rafforzamento della spiritualità. Sul versante del controllo sulle singole province, il generale utilizzò i suoi visitatori non solo nelle province più turbolente (Spagna), ma anche in quelle d’oltremare, con le quali le comunicazioni epistolari erano particolarmente difficoltose. L’uso della corrispondenza come strumento di governo fu comunque ulteriormente esteso e perfezionale: le lettere di Acquaviva assunsero un preciso valore normativo. Acquaviva venne preso da un’ansia legiferatrice, nella convinzione che la regolamentazione scritta potesse contrastare quelle forme di devianza (mondanizzazione dei confessori di corte e devianza mistica di alcune frange) che vedeva radicarsi all’interno della Compagnia. Una delle maggiori crisi che si trovò a gestire fu quella con la provincia spagnola. Sin dalla mancata elezione a generale di Polanco gli spagnoli si erano sentiti traditi da Roma; essi lamentavano un allontanamento dall’originale spirito ignaziano e dal 1575 alcuni memoriali erano stati indirizzati al papa, all’Inquisizione e a Filippo II con la richiesta di una maggiore autonomia per la provincia. Tale sollecitazioni non erano state accolte da Gregorio XIII, e la stessa Inquisizione romana non ne tenne debito conto. Il gruppo eterogeneo dei memorialisti che si nascondeva dietro l’anonimato aveva ripreso vigore nel 1585 individuando nella politica di Acquaviva il principale obiettivo polemico. Lo stesso José de Acosta, stimato da Acquaviva che lo aveva fatto rientrare in Spagna per coinvolgerlo nella direzione della provincia, era passato nel partito antiromano. I memorialisti lamentavano l’eccessiva arbitrarietà con cui venivano scelti i gesuiti atti a pronunciare il quarto voto, chiedevano che venisse stabilito un termine di tempo entro quale fare la professione di fede e sollecitavano maggior potere per le congregazioni provinciali, specie nella nomina dei superiori. A differenza del predecessore, Sisto V si mostrò disponibile verso i gesuiti spagnoli: nel 1588 autorizzò il re a nominare visitatore apostolico della Compagnia il vescovo Manrique. Preoccupato per il rischio di un distacco della provincia spagnola, Acquaviva invitò Acosta, prima del passaggio all’altro fronte, a trattare con Filippo II affinché questi accettasse di nominare come di consueto un visitatore interno all’ordine: il re acconsentì e la scelta ricadde su Gonzáles Dávila per Castiglia e Toledo e Acsta per Andalusia e Aragona. Entrambi concordarono nel sostenere che le lamentele contro il generale fossero circoscritte ad una minoranza. Ciononostante, il papa sembrò voler procedere auna riforma dell’ordine che ne prevedeva anche il cambio di nome, ma il progetto fu interrotto dalla sua morte nel 1590. Alcuni storici hanno visto dietro questo conflitto lo scontro tra il partito castigliano e il partito ebolista, gruppo di potere legato inizialmente al principe di Eboli, al duca di Gandía e la reggente di Castiglia Giovanna di Portogallo: la sconfitta degli ebolisti avrebbe determinato anche la perdita d’influenza dei gesuiti nel regno. Bisogna inoltre sottolineare che già dagli anni Settanta la compagnia era stata coinvolta nella crociata anti-alumbrados. Il frate domenicano de la Fuente aveva scritto nel 1571 “i gesuiti e gli alumbrados si trovano d’accordo sul piano della dottrina e sono uniti e fratelli e dello stesso parere”. In realtà è difficile dare conto del reale coinvolgimento dei gesuiti nel fenomeno alumbrado. È assai probabile che l’uso della confessione come strumento di controllo del territorio da parte degli alumbrados fosse stato mutuato dai gesuiti e fu questo ad attirare sulla Compagnia le critiche più risentite. Lo scontro si accentuò due anni dopo quando Acosta, nel frattempo superiore della casa professa di Valladolid, venne mandato a Roma da Filippo II per perorare di fronte al papa la necessità di una congregazione generale che limitasse i poteri di un generale “assoluto e tirannico”. Acquaviva cercò invano di opporsi, ma Clemente VIII fu irremovibile e la congregazione si aprì a Roma nel novembre 1593. Fu concesso ad Acosta di partecipare con diritto di voto, ma egli utilizzò tale privilegio per votare secondo le direttive del generale, tranne nel caso del decreto che vietava ai cristiani nuovi l’ingresso nell’ordine. Fu infatti uno dei pochi a esprimersi contro il provvedimento che vietando l’ingresso nell’ordine agli ebrei convertiti andava in una direzione opposta alle direttive ignaziane di tolleranza e apertura. Il problema era emerso sin dai tempi di Borgia, quando un gruppo di gesuiti italiani aveva criticato lo strapotere della setta spagnola e ebrea che aveva preso in mano la Compagnia. La congregazione si chiuse nel gennaio del 1594 e segnò uno spartiacque nel generalato di Acquaviva. Se vennero ribadite le linee fondanti dell’istituto, l’intervento di Clemente VIII costrinse il generale ad approvare la triennalità delle cariche di rettore e provinciale e a stabilire che i superiori presentassero una sorta di resoconto periodico della loro gestione. Il dibattito interno alla compagnia circa il modello più opportuno di governo dell’ordine seguì da vicino le generali considerazioni d alcuni gesuiti intorno al tema della sovranità. Da questo punto di vista Juan de Mariana è colui che meglio riassume nel suo pensiero queste esigenze, legando il discorso sulla forma dello Stato a una riforma della struttura della Compagnia. Mariana metteva in risalto come la migliore forma di Stato fosse la monarchia, pur sottolineando l’esigenza delle limitazioni ai suoi poteri rappresentate dai ceti intermedi. Per Mariana il sovrano non era “legibus solutus” e esso poteva essere deposto o condannato a morte. Una simile teoria portò alla condanna da parte della Sorbona del libro di Mariana, che fu bruciato a Parigi dopo l’assassinio di Enrico IV (1608). Le sue teorie sulla liceità del regicidio ebbero notevole influenza anche sul dibattito Intorno ai grandi errori che sono nella forma del governo dei gesuiti, in cui stigmatizzava lo strapotere del generale e auspicava che le congregazioni provinciali potessero assumere un vero e proprio ruolo intermedio tra il potere centrale e i singoli gesuiti. Il piano politico generale si intrecciava spesso con la riflessione sul governo interno dell’ordine. Nonostante Acquaviva tentasse in tutti i modi di sottolineare l’estraneità della Compagnia ai maneggi politici, il suo generalato fu tempestato di vicende politiche. Il caso francese fu uno di quelli che turbò maggiormente lì governo di Acquaviva. Durante il lungo periodo del guerre di religione, i gesuiti erano stati esplicitamente vicini alla Lega e l'uccisione di Enrico III da parte di Jacques Clément non aveva fatto che rafforzare la loro identificazione con quel partito. Dopo la successione di Enrico IV i gesuiti si trovavano in una situazione assai complicata: Sisto V aveva infatti dichiarato il Navarra inabile alla successione e Acquaviva tentò di evitare che la compagnia si compromettesse con il nuovo monarca. Una volta raggiunta la pacificazione interna, i religiosi vennero visti come l'elemento perturbatore della pace dello stato e dovettero subire i duri attacchi del partito dei politiques e della Sorbona impegnata a combattere soprattutto il sistema educativo della compagnia. L’anti gesuitismo comparve in Francia con grande forza dando luogo alla pubblicazione di operette fortemente polemiche. Il tentativo di assassinare il re da parte di Jean Chatel fu la goccia che fece traboccare il vaso: i gesuiti, accusati di aver armato la mano dell'attentatore con le loro teorie sovversive, furono espulsi dalla Francia nel dicembre dello stesso anno e riammessi solo 10 anni dopo nel 1604 in seguito alla sottoscrizione di un giuramento di fedeltà al sovrano francese. A partire da quel momento in re si mostrò più disponibile nei confronti dei gesuiti francesi, concedendo loro l'apertura di nuovi collegi, primo fra tutti quello di La Flèche, destinato a diventare uno dei centri di formazione più importanti della cultura francese. La nomina del padre Coton come confessore reale suggellò l'alleanza tra la compagnia in sovrano. Nuovi problemi sorsero però pochi mesi dopo con l'uccisione di Enrico IV da parte di Ravaillac, quando vennero messe sotto accusa le teorie di Juan de Mariana. Durante il generalato di Acquaviva il problema della “doppia lealtà” (sovrano o Santa Sede) non fu una prerogativa della provincia francese. L'Interdetto veneziano del 1606 fu un'altra vicenda in cui si manifestò con tutta evidenza come le decisioni prese dal centro non fossero immediatamente accette dalle singole province. A differenza di quanto sostenuto dalla storiografia che vuole i gesuiti veneziani schierati da subito al fianco della Santa Sede, in un primo momento i disaccordi fra Roma e la Serenissima non coinvolsero direttamente la provincia veneta. I gesuiti furono informati dello stato della questione come tutti gli altri ordini religiosi e la corrispondenza scambiata tra il governo centrale e il provinciale indica come quest'ultimo fosse inizialmente assai restio ad accettare un coinvolgimento che sarebbe potuto essere causa di una rottura con il senato veneziano. Acquaviva d'altro canto si allineò ben presto alle direttive papali e invitò i gesuiti Veneziani a conformarvisi a loro volta nonostante le reticenze manifestate fino a quel momento. In seguito all'Interdetto i padri vennero dunque cacciati dalla città e fu solo in seguito all'espulsione che alcuni fra i più abili polemisti dell'ordine si impegnarono nella cosiddetta battaglia delle scritture, a difesa delle prerogative romane destinato ad approfondire il solco tra la compagnia e Venezia ancora per lunghi anni. Il tentativo di regolamentare ogni singolo aspetto del governo dell'ordine non poteva che scontrarsi con l'autonomia delle province. Con la VI impedì scontri ulteriori tra Compagnia e Repubblica. Il caso lombardo mostra come i dissidi sul modo di concepire il sistema educativo non nascessero solo con i poteri laici, ma anche all’interno dello stesso universo cattolico. La fondazione di scuole con orientamenti in parte o del tutto differenti da parte di altri ordini religiosi era destinata ad acuire le inimicizie, che si manifestarono con sempre maggiore vigore nella seconda metà del Settecento. Se tra Cinque e Seicento, la fortuna del sistema pedagogico gesuita era stata dovuta in buona parte all’abilità nel rispondere alle esigenze poste dalla società di antico regime, l’incapacità di reggere il passo con le nuove sfide poste dal secolo dei Lumi fu una delle cause principali della crisi generale della Compagnia. La base su cui si reggeva questo sistema di scuole era costituito dalla Ratio. Già la IV parte delle Costituzioni era stata da Ignazio destinata a stabilire le norme su cui si sarebbe dovuta regolare la struttura educativa dell’ordine, ma fu con la Ratio che si giunse a un modello capace di trovare una sintesi tra due esigenze: l’organizzazione degli studi e l’educazione morale. L’adesione all’umanesimo si configura come funzionale ad uno scopo ben preciso: educare alle tattiche di controllo ideologico e alla loro riproducibilità. Nel 1583 Acquaviva nominò una commissione di sei persone provenienti da diverse province, al fine di produrre un regolamento organico per i collegi. Ovunque era fortemente sentita la necessità di stabilire dei principi utili al governo delle scuole. Negli anni Sessanta, la situazione di conflitto all’interno del corpo insegnante del Collegio Romano e del Collegio Germanico aveva creato notevoli problemi di gestione ai rettori e al generale. Il testo definitivo della Ratio venne promulgato nel 1559, in un momento di forte espansione. La Ratio era un documento piuttosto originale, se non mancava di stabilire un corso di studi uniforme per tutti i collegi, offriva in primo luogo un insieme di regole preposte alla gestione del collegio quanto dagli allievi, per i quali erano stabilite norme di comportamento che investivano la vita dello studente nel suo complesso. La gerarchia che scendeva fino agli allievi, organizzati per classe in gruppi di dieci, uno dei quali posto a vigilare sulla disciplina degli altri nove. Sul piano intellettuale, la Ratio operò una sorta di sincretismo, in grado di riassumere in sé le caratteristiche migliori dei modelli educativi precedenti. Accanto a un’indubbia preferenza per la divisione in classi e corsi in base all’età e alla preparazione, la ricchezza di esercizi, l’unione di teoria e prassi) vi fu altrettanta attenzione per il modus italicus, specie per quanto concerneva le materie umanistiche. Una notevole uniformità fu consentita dalla scelta del latino come lingua ufficiale per tutti i collegi. Anche se nel Settecento le lingue volgari vennero introdotte come materia di insegnamento, il latino continuò a essere la lingua usata nei collegi e per la circolazione delle notizie. Un accento particolare era posto sullo spirito di emulazione tra gli alunni, considerato lo strumento migliore per sviluppare le loro capacità in virtù di un articolato sistema di premi e punizioni. L’elaborazione della Ratio fu accompagnata dal fiorire di una manualistica scolastica. Venne pubblicata una serie di libri destinati a fornire un quadro di riferimento da cui la “cultura degli ingegni” non doveva distaccarsi. Esempio fu l’opera di Antonio Possevino, un vasto repertorio bibliografico che sintetizzava le coordinate della cultura controriformistica, una sorte di Indice dei libri proibiti al positivo. L’incredibile successo dei collegi gesuitici fu dovuto alla capacità della Compagnia di elaborare un modello in grado di corrispondere da vicino alle esigenze di un’Europa cattolica che usciva esausta dalla battaglia con la Riforma e cercava di elaborare nuove strategie di consenso e di raccordo con la società. Il loro successo fu favorito inoltre dalla mancanza di scuole specifiche per i nobili. Se infatti la gratuità delle scuole (ma non dei convitti) rendeva accessibili i collegi a tutte le classi sociali, i gesuiti attivarono un’opzione preferenziale per i ceti più alti. Inoltre la scelta di escludere l’insegnamento elementare rafforzò l’ingresso di allievi già provvisti di un minimo d’istruzione. La grande intuizione della Compagnia fu quella di considerare “l’apprendistato letterario come apprendistato religioso e politico”, per questo il collegio divenne luogo di formazione intesa in tutta la sua complessità. All’interno dei collegi fiorirono una serie di attività come i corsi di danza, scherma, equitazione, spesso legati alla formazione di accademie, vera e propria istituzione dentro l’istituzione destinata in particolare ai figli della nobiltà. La prima fra tutte queste attività parallele fu senza dubbio quella teatrale, che i gesuiti seppero utilizzare come veicolo di propaganda del messaggio religioso. Nell’ambito di questo processo educativo globale la formazione religiosa svolse un ruolo di primo piano. All’interno dei collegi nacquero così le congregazioni mariane, destinate ad estendersi poi a tutti gli altri ambiti della società e deputate a rinvigorire le pratiche devozionali e ad avvicinare i giovani all’esperienza degli Esercizi spirituali. Pur nella forte uniformità e fedeltà alle norme della Ratio, i singoli contesti nazionali svilupparono poi aspetti più vicini alle loro esigenze specifiche. Laddove quindi la Compagnia si trovò a dover fronteggiare il pericolo dell’eresia la formazione di una classe dirigente fu un obiettivo importante, ma certo meno di quanto lo fu riuscire a rendere i collegi una sorta di baluardo della cattolicità utilizzando tutti gli strumenti utili a tal fine, dalla missione alla propaganda. Fuori d’Europa, i collegi furono anche uno strumento di formazione di un personale missionario. D’altro canto, si produsse una sorta di sfasatura tra quelli che erano i compiti previsti dalla Ratio e quella che fu poi la pratica d’insegnamento dei professori, come si evince dall’analisi degli appunti dei corsi accademici, dove i margini lasciati all’elaborazione e all’interpretazione personale dell’insegnante rimasero significativi. Un accenno va fatto ai seminari di casi di coscienza, perché essi consentono di gettare uno sguardo su un altro aspetto essenziale dell’elaborazione teorica dei gesuiti: la teologia morale. Questi corsi rappresentarono una significativa novità, dovuta all’esigenza di formare i coadiutori spirituali ma anche i sacerdoti. Si trattò di fornire una formazione teologica di taglio pratico e morale a tutti quei religiosi che dovevano gestire il ministero della confessione e non avevano interesse a seguire i corsi di teologia speculativa. Al contrario dell’insegnamento, l’azione missionaria della compagnia caratterizzò fin da subito il programma di Ignazio. La scelta di fare un quarto voto specifico di obbedienza al papa pose i gesuiti in una posizione di privilegio, concedendo loro una libertà di azione impensabile. Le potenzialità missionarie della nuova compagnia furono chiare fin dai primi anni, indirizzandosi verso quei territori che nel corso del Cinquecento stavano acquisendo un interesse di primo piano. La scoperta del Nuovo Mondo e il successo della Riforma protestante in Europa costituirono il primo orizzonte entro il quale si trovò ad agire la Compagnia di Gesù; ma sin dall’epoca ignaziana, i gesuiti s’impegnarono anche nella ricattolicizzazione di territori abbandonati a se stesso perché lontani dai centri della vita civile. Le missioni in Lunigiana, Corsica, Puglia sono un esempio di missioni interne, che acquistarono poi un ruolo chiave nella strategia di Acquaviva. Se il XVII secolo può considerarsi come il secolo di massimo successo per le missioni, ma già nel 1550 si era operata una sorta di istituzionalizzazione delle missioni, in virtù della quale si lasciarono da parte le facili vittorie quantitative dei battesimi di massa per approdare ad una vera conversione dei cuori. Si abbandonò l’estemporaneità delle missioni per costruire delle basi più stabili e solide che consentissero di seguire con una certa costanza le comunità da evangelizzare, rinnegando il profetismo a favore di una lenta propagazione del cristianesimo presso le nuove popolazioni. La stessa reazione dei collegi rispose anche all’esigenza di catechizzare la gioventù per avere una presa maggiore sulle coscienze della popolazione. Acquaviva ordinò che ogni provincia destinasse dai 6 ai 12 sacerdoti alle missioni e richiamò i provinciali affinché ne mantenessero il carattere apostolico e itinerante e sottolineava la necessità che la missione avesse una durata limitata nel tempo e invitava i padri ad ottenere prima di tutto il consenso delle autorità ecclesiastiche del luogo, al fine di non suscitare invidie e controversie. Le cosiddette missioni popolari risposero all’esigenza di riavvicinare all’ortodossia cattolica quelle terre rurali che vivevano nell’ignoranza a causa soprattutto di una forte carenza dell’attività pastorale. I gesuiti non intendevano fornire ai sacerdoti una sorta di formazione professionale che consentisse di continuare ad amministrare spiritualmente il proprio territorio anche alla partenza dei missionari. La missione assunse anche un ruolo di controllo sulla vita della comunità. D’altro canto l’impegno di conservazione sociale di cui si fecero interpreti i gesuiti non fu un’esclusiva del loro ordine, anche se esso seppe utilizzare una più attenta politica e una più sottile capacità di adattamento. Le missioni si svolgevano nel corso di tutto l’anno e mediamente si protraevano per 8-9 giorni. È indubbio che la più fortunata tra le tipologie missionarie fu la cosiddetta missione penitenziale che si affermò in Spagna e nell’Italia meridionale. Essa insisteva particolarmente sulla necessità della riforma dei costumi, attraverso un apparato rituale di forte impatto emotivo che metteva in scena la terribile sorte che toccava ai peccatori non redenti. Centrale era il ruolo del predicatore. Di solito i gesuiti operavano in due, uno “dolce”, l’altro “terribile”: una delle coppie più famose fu quella di Pinamonti e Segneri senior, il quale operò nello Stato pontificio e nell’Italia del Nord e percorse una ventina di diocesi per un totale di 540 missioni. Le sue prediche infuocate rappresentano un classico dell’età barocca. La concezione della predica era spesso intesa come conduzione di una guerra. Il tema apologetico dei martiri cristiani incontrò grande fortuna nel Seicento, presentandosi nella predicazione sotto forma di elenco, a suggerire una parata trionfale in cui spesso si fronteggiavano i vincitori e i vinti”. Il tipo di missione penitenziale venne con il tempo sostituita da un tipo di missione più lunga e meno “esteriore”. Le missioni erano uno strumento di diffusione di nuove devozioni: Vergine, Sacro Cuore di Gesù, Angelo Custode. Per le terre d’oltremare la mancanza di altre istituzioni religiose stabili finì in molti casi con il radicare la missione a un determinato luogo. Il primo a lasciare l'Europa per l’Oriente fu Francesco Saverio, il quale aveva fondato la missione di Goa nel 1542, per poi spingersi fino al Giappone. Per quanto riguarda il Nuovo Mondo, i gesuiti arrivarono in Brasile nel 1549; quindi a partire dal 1566 riuscirono a penetrare in Perù, Messico e Florida, anche se quest’ultima missione si rivelò un fallimento. In Brasile i gesuiti si scontrarono con il governatore e con i padroni delle più grandi piantaggioni che vedevano assai di malocchio le aldeias gesuite, al tempo stesso villaggio dove vivevano gli indiani e luoghi di residenza dei missionari. All’origine esse erano state create in collaborazione con il governatore con l’intento di produrre una “trasformazione sociale e politica dell’indiano”, ma con il tempo erano diventate delle aziende economiche in competizione con il potere regio sul piano economico e inserite a pieno titolo all’interno di una logica coloniale. All’interno della Compagnia il dibattito sul ruolo delle missioni fu sempre più vivace: in molti casi il governo centrale vide con preoccupazione l’autonomia gestionale delle singole province e cercò di dare delle direttive cui conformarsi anche nelle terre lontane. La difficoltà di comunicazione rese spesso lettera morta le decisioni dei vertici della Compagnia e le ricerche sulle missioni indiane ci danno la misura di come le direttive del centro venissero non solo disattese, ma anche assai poco considerate in periferia. La strategia missionaria nelle Americhe era molto diversa rispetto all’Estremo Oriente. In Estremo Oriente il riconoscimento dell’esistenza di civiltà ampiamente sviluppate come quella cinese o giapponese spinse i gesuiti a promuovere un altro tipo di tattica: già Francesco Saverio nel 1552 in una lettera ad Ignazio scriveva che per diventare missionari in Giappone erano necessarie due cose: che siano stati molto provati e perseguitati dal mondo; che siano letterati per rispondere alle molte domande che fanno i giapponesi. In una lettera precedente egli aveva invitato i suoi confratelli a porsi con un atteggiamento di rispetto di fronte alle altre civiltà. Una simile posizione venne ulteriormente accentuata da Valignano, il quale teorizzò la necessità che i padri si adattassero consapevolmente alle regole della vita sociale giapponese, in tutto ciò che non era in contrasto con i principi evangelici. L’importanza di trovare una sorta di compromesso con i riti e le cerimonie indigene venne sentita fortemente anche da Matteo Ricci e dagli altri missionari arrivati nel 1583 in Cina. Nel complesso i migliori rimanevano in Europa, perché quello sembrava essere il terreno difficile della ri-conquista cattolica. Le missioni extraeuropee talvolta erano usate come luogo ove relegare personaggi imbarazzanti da un punto di vista religioso, politico e psicologico (ad esempio nell’elenco dei padri in Brasile ce ne sono molti con notevoli difetti caratteriali). Un’influenza non indifferente era esercitata anche dalle corone spagnola e portoghese. Le lettere inviate dai padri che volevano partire per le missioni lontane testimoniano il forte desiderio di martirio che li animava. Essi chiedevano di essere mandati oltremare, ma non sempre la risposta del generale era incoraggiante, dal momento che egli doveva valutare molto attentamente le capacità di coloro che volevano partire, nonché la sincerità della loro vocazione. In molti casi i gesuiti venivano orientati verso le missioni interne che Roma considerava molto più impegnative di quelle oltremare. In effetti nell’incontrare le popolazioni delle montagne e delle campagne dell’entroterra, i missionari si trovavano di fronte a comunità poco civilizzate, immerse in un mondo di ignoranza in cui occorreva promuovere una prima evangelizzazione. Juan de Polanco nel 1547 aveva composto un’istruzione nella quale indicava in maniera particolareggiata quali dovevano essere le regole e gli argomenti da trattare nelle lettere inviate a Roma dalle missioni. Le lettere svolsero la funzione di rafforzare la vocazione dei gesuiti missionari propagandone i successi; allo stesso tempo si optò anche per una sorta di censura: la corrispondenza veniva espurgata di tutte quelle notizie che rendevano conto delle difficoltà incontrate. Esistevano due tipi di corrispondenza: il primo riservato alla lettura interna, il secondo destinato a essere strumento di propaganda. Tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento le lettere dei gesuiti divennero un vero e proprio genere letterario, accanto a cui la Compagnia produsse altre opere, in cui si trova la volontà cosciente di perpetuare la memoria storica dell’opera missionaria dell’ordine, il riconoscimento della dignità umana e intellettuale delle popolazioni dell’Estremo Oriente che si andavano ad evangelizzare, il valore di una testimonianza diretta. Fu trasmessa anche l’immagine del missionario come vero eroe e nuovo viaggiatore. Non sempre lo spirito missionario era all’altezza dell’impegno necessario: nella seconda metà del Settecento il “missionario non è tanto il soldato di Cristo, ma piuttosto un grigio funzionario che si limita a gestire l’esistente”. Una delle ultime testimonianze dalla Cina mostra un’immagine assai diversa da quella che la letteratura trasmetteva e preannunciatrice di una crisi della Compagnia. Per quanto riguarda i rapporti con il mondo politico, bisogna tenere presente che fin dall’inizio la Compagnia si caratterizzò come ordine religioso deciso a vivere nel mondo e intrattenere relazioni con il potere politico. Si trattava non solo di inviare confessori a corte, ma anche di intessere contatti che consentissero di stabilire una presenza capillare dei gesuiti all’interno dei diversi stati. Tale presenza sarebbe stata garantita dall’apertura di case e collegi, ma secondo le Costituzioni era necessario che al momento della fondazione vi fosse una copertura economica. I gesuiti assunsero posizioni molto differenti a seconda dei diversi paesi entro i quali operarono, che a seconda dei casi furono il risultato della fusioni di vari elementi: elaborazione teologica; riflessione sulle tradizioni del pensiero politico e sulla storia; contatto costante, capillare con situazioni sociali diverse di cui le missioni interne costituiscono uno degli elementi più importanti. Non si può parlare di una politica dei gesuiti, né pensare che i gesuiti portassero avanti sempre e comunque le ragioni della Santa Sede, infatti vi furono alcuni casi in cui gli interessi azionali delle rispettive casate li portarono a entrare in contrasto con il volere di Roma. Ad esempio in Francia, durante il regno di Enrico IV i gesuiti accondiscesero a giurare fedeltà alla corona poiché videro in tale atto l’unica opportunità di rimanere nel regno, contrariamente al volere di Acquaviva e del pontefice. Quando si parla di gesuiti e politica a essere privilegiato è il rapporto fra principi e confessori: non a caso Acquaviva nel 1602 intervenne a regolamentare questo aspetto ribadendo la necessità che i confessori non si facessero coinvolgere dagli affari politici. È necessario anche tener conto che, nonostante la netta prevalenza in molti contesti dei gesuiti, un ruolo di primo piano era svolto anche da altri ordini, come i domenicani in Spagna o i cappuccini nel corso della guerra dei Trent’anni: si pensi alla figura di Magni, confessore dell’imperatore Ferdinando e fiero nemico dei gesuiti. È utile anche tener conto che la relazione confessore-principe diventava spesso un rapporto biunivoco in cui prevaleva ora l’una ora l’altra parte. Nel caso di Guzmán, confessore della moglie di Cosimo I, il principe si impuntò affinché il gesuita rimanesse a corte nonostante fosse stato richiesto che venisse dispensato dall’incarico per poterlo impegnare altrove. Non vi fu nulla da fare e il gesuita rimase per molti anni alla corte di Cosimo I, con la minaccia che una sua eventuale partenza avrebbe compromesso l’appoggio finanziario del duca al collegio di Firenze. In alcuni casi i gesuiti residenti in una provincia si trovarono schiacciati tra l’obbedienza a Roma e a fedeltà al singolo sovrano. È indicativa la vicenda che coinvolse l’arciduca del Tirolo Ferdinando, che aveva espresso il desiderio di avere un gesuita come cappellano, senza ottenere il consenso di Francesco Borgia. Di fronte al manifesto sentimento d’offesa dell’arciduca il generale dovette acconsentire nel timore che un ulteriore diniego avrebbe alienato alla Compagnia il favore di un alleato territorialmente strategico. L’intromissione del potere politico nelle decisioni della Compagnia era presente anche nel territorio delle missioni. Durante il generalato di Acquaviva le relazioni della Compagnia furono tese in Spagna, Francia, Polonia e a Milano, non senza ricadute sul terreno dell’immaginario politico con il coinvolgimento dei gesuiti in complotti e colpi di stato. Un esempio è l’Inghilterra della congiura delle polveri, teologi che lo difendevano erano trattati quasi alla stregua di eretici. La pubblicazione del libro divenne occasione di discussione all’interno della curia romana e nel 1694 il generale trovò un escamotage ripubblicando parti del libro senza i punti censurati. Gonzáles trasformò la controversia in un affare internazionale paventando un complotto dei cardinali francesi contro di lui, al punto di suscitare l’intervento a suo favore del re di Spagna. Di fatto il probabilismo rimase ancora a lungo la dottrina morale favorita dai teologi della compagnia. Da un punto di vista sociale la ricaduta del probabilismo fu significativa: il messaggio di una teologia mite venne accolto con favore da un popolo cristiano più disponibile che in passato ad allontanarsi dalla fede cristiana. Gli accomodamenti e i compromessi imputati al probabilismo convissero d’altro canto con il tipo di religiosità proposto dalle congregazioni. Erano due facce della stessa medaglia, dal momento che entrambe mostravano l’impegno e la capacità della Compagnia di intercettare i sentimenti di un mondo in profonda trasformazione. Lo scontro fra gesuiti e giansenisti nacque sin dalla comparsa dell’Augustinus di Jansen, quando i gesuiti mossero le loro critiche contro un cattolicesimo fortemente rigorista che insisteva sulla corruzione del peccato originale e sulla necessità della grazia divina lasciando poco spazio al libero arbitrio. Si trattava di una posizione diametralmente opposta a quella espressa nella controversia De auxiliis da Molina, nella quale i gesuiti rintracciavano ampie zne di contatto con le posizioni ereticali. Su sollecitazione della Compagnia, nel 1653 papa Innocenzo X emanò una bolla per condannare cinque proposizioni ereticali contenute nell’Augustinus. Fu il primo degli atti pontifici che ribadirono la condanna delle posizioni di Giansenio. Lo scontro tra gesuiti e giansenisti divenne subito molto aspro anche perché questi ultimi rimproveravano ai padri della Compagnia di essere gli ispiratori di una rilassatezza morale, espressione conseguente della teologia del probabilismo, in cui occorreva individuare le cause principali della crisi della religione cattolica. Il movimento giansenista ebbe particolare risonanza in Francia e si organizzò intorno al monastero di Port Royal, diretto dalla madre badessa Arnauld, già promotrice di una riforma in senso rigorista di quell’istituto e avvicinatasi al giansenismo attraverso l’abate di Saint Cyran. Figura di primo piano fu il fratello della badessa e autore di un caposaldo della letteratura giansenista nel quale stigmatizzava la pratica della comunione frequente invalsa tra i gesuiti e resa possibile dalla facilità con cui i direttori spirituali e i confessori della Compagnia rimettevano i peccati ai propri penitenti. Per i giansenisti la comunione era qualcosa cui si doveva giungere alla fine di un lungo percorso di contrizione e di totale rinnovamento. Tra gennaio 1656 e marzo 1657, quando alle religiose del monastero venne ingiunto di sottoscrivere un formulario che riconosceva l’eresia contenuta nelle cinque proposizioni dell’Augustinus, Pascal compose le diciotto Provinciali. Scritte per difendere il giansenismo, esse erano giocate tutte in chiave di accusa contro la compagnia. Nel 1709 il monastero di Port Royal venne distrutto su ordine di Luigi XIV, convinto che si trattasse di un luogo pericoloso e di un focolaio di sedizione, dal momento che i solitari pensavano che nell’esercizio del potere politico albergassero tutti i mali. In realtà, facendo leva sulla coscienza individuale dell’uomo, i giansenisti si svincolavano al tempo stesso dall’autorità politica e dall’autorità della Sede apostolica, mettendo in dubbio il principio di autorità che costituiva una parte importante dell’identità della Compagnia. Per tutto il tempo il dibattito venne alimentato da due giornali, Mémoires de Trevoux, gesuita, e Nouvelles Ecclésiastiques, giansenista. Per i gesuiti l’apertura delle Petites écoles, fondate da Saint Cyran, aveva rappresentato un ulteriore elemento di preoccupazione, in quanto metteva in dubbio il loro monopolio nel campo dell’educazione. Pur la netta condanna del giansenismo da parte di Roma non estinse la contesta tra queste due correnti del cattolicesimo, destinata a rinvigorirsi nella seconda metà del Settecento. Quella che viene chiamata la seconda fase del giansenismo si legò più strettamente con la vita politica francese e vale la pena sottolineare che in questo periodo le questioni dottrinali vennero resuscitate e l’anti gesuitismo divenne il collante per un gruppo di potere che non riuscì a mettere a punto un forte progetto alternativo di direzione dello Stato. In Italia, la corrente giansenista riprese le polemiche relative al dibattito sulla grazie e propose un maggiore rigorismo etico contro la casistica gesuita. Una delle questioni più spinose fu quella relativa alle devozioni, quando il partito filo giansenista si schierò in particolar modo contro la più classica delle devozioni promosse dalla Compagnia, quella del Sacro Cuore di Gesù. Nuovi conflitti nella crisi della coscienza europea Lo scontro fra la Compagnia e il misticismo che si sviluppò nella seconda metà del Settecento e ricevette una sua formalizzazione nella ‘funesta dottrina’ di Molinos, fu solo l’ultima tappa di un problema che turbò la Compagnia per tutto il Seicento: il controverso rapporto con la mistia. Fu proprio intorno a questo tema che si produsse un scacco del riformismo post-tridentino, nel divorzio tra i processi della conoscenza o dell’azione e un amore puro di ogni sapere e interesse. È necessario ritornare al generalato di Acquaviva, quando le esigenze di normalizzazione si erano fatte molto pressanti ed erano state al tempo stesso contrastate da diverse forze interne all’ordine. Lo sforzo del generale era stato quello di ricondurre entro i limiti dello spirito proprio dell’istituto le varie anime della Compagnia, con l’intento di circoscrivere entro una griglia ben definita anche lo spazio spirituale. L’indagine De detrimentis Societatis non aveva mancato di registrare forti lamentele riguardo alla perdita di autentico afflato spirituale nell’azione dei gesuiti: si criticava l’eccessivo spazio rivolto al lavoro intellettuale, lamentela un po’ paradossale se espressa da personaggi come il confessore di Enrico IV, Coton. Se Coton in particolare invitava ad una maggiore attenzione al ruolo della preghiera, più in generale il clima era rovente e andava in una direzione opposta a quella che si proponeva il generale. Tra le posizioni per così dire eterodosse, grande scalpore aveva suscitato in Italia quella di Achille Gagliardi nel suo Breve compendio di perfezione cristiana, pubblicato nel 1611 e definitivamente messo all’Indice circa un secolo dopo nel fuoco della battaglia antiquietista. Gagliardi faceva parte del partito degli zelatori, favorevoli a una riforma spirituale della Compagnia in senso contemplativo, e la sua opera va letta nel quadro delle tensioni interne in merito al rapporto tra contemplazione e azione. Punto centrale del suo pensiero era l’individuazione di un cammino graduale verso il pieno contatto con Dio che inducesse a combattere il male per poi spogliarsi del proprio essere e conformarsi passivamente alla volontà di Dio. Si poneva dunque come precursore del quietismo, ma se ne distaccava al tempo stesso perché riteneva che una volta trasfigurata in Dio, la volontà umana diventasse il motore di un instancabile lavoro apostolico. Il Compendio di Gagliardi suscitò grande consenso, ma venne visto con estremo sospetto dal generale Acquaviva, il quale ispirò a padre Rossignoli il De disciplina christianae perfectionis dove, in linea con i principi ignaziani si sosteneva la meditazione come propedeutica all’azione apostolica, ma si ribadiva he la sola contemplazione era estranea alla vocazione gesuitica. Tutto ciò non aveva fatto che acuire i timori interni alla Compagnia, e Vitelleschi ingaggiò una vera e propria caccia alle devozioni straordinaria che popolarono l’orizzonte europeo e prosperarono anche all’interno dell’ordine. Accanto a tali orientamenti spiritualistici, il ‘gesuitismo’ diede un’impronta notevole alla spiritualità tra XVI e XVII secolo. A ciò contribuì una serie di fattori che costituivano il cardine dell’apostolato della Compagnia. Non è difficile comprendere come il pericolo quietista, in particolare la forma presente negli scritti di Molinos, venisse individuato e combattuto con prontezza dai gesuiti. Molinos aveva cominciato la sua carriera di direttore romano all’ombra di potenti protettori in curia. Ben presto cominciarono a circolare voci sulla sua adesione alle posizioni quietistiche, e per porre fine a ciò decise di pubblicare un breve trattato che sosteneva che la perfezione consistesse nella passività completa dell’anima, in un atto continuo di contemplazione e di amore, e che in tale stato di contemplazione, l’uomo fosse dispensato da qualunque atto, compresa la resistenza alle tentazioni, poiché nello stato di perfetto riposo davanti a Dio l’uomo sarebbe impeccabile. Procedendo sulla strada indicata da Molinos si rischiava di mettere in dubbio però lo stesso valore di alcuni sacramenti e una serie d atti di culto strettamente legati alla professione di fede. I gesuiti non mancarono di rilevare i rischi contenuti nella dottrina molinosista, primo fra tutti la possibilità che attraverso l’orazione di quiete larga parte della pratica devota sfuggisse al controllo e all’uniformazione della vita religiosa. Il generale Oliva tentò una conciliazione delle posizioni, avviando con Molinos un scambio epistolare. Nonostante ciò alcuni gesuiti non mancarono di levare la loro voce contraria, a partire dal padre Bellomo, che attaccò con forza le posizioni quietiste. Il volume di Bellomo venne seguito da una Scrittura contro li quietisti. Il clima romano non era ancora maturo per fare propria la battaglia antiquietista ingaggiata dai gesuiti e il volume di Bellomo fu messo all’Indice. Pochi anni dopo, sulla base di alcune accuse di immoralità Molinos venne incarcerato dall’Inquisizione e i suoi scritti condannati. In realtà Innocenzo XI non fosse così sfavorevole al quietismo, ma gli ambienti curiali vollero mandare allo stesso pontefice un segnale contrario alla riforma della curia da lui pensata. La condanna di Molinos fu accompagnata da una lotta a tutto campo contro le posizioni quietiste. In generale, si cercò di proporre una spiritualità fondata sulla meditazione discorsiva, cioè su testi scritti sui quali fosse possibile esercitare un controllo. L’ostilità alla mistica divenne comunque sempre più netta. Per quanto concerne la Cina, nel 1701 il panorama missionario era: 60 gesuiti, 29 francescani, 8 domenicani, 6 agostiniani e 15 laici, appartenenti per lo più alla Società delle missioni estere di Parigi. La Cina rappresentava un vanto per la Compagnia: intorno al 1700 si calcola che i cinesi convertiti al cristianesimo fossero tra i 200 e i 500 mila, e gran parte era da accreditare ai padri della Compagnia che avevano saputo conquistarsi notevole prestigio, in special modo nel ceto dei letterati, ovvero quegli studiosi confuciani più o meno vicini alla corte che si erano accostati con favore alla fede cristiana. Matteo Ricci fu il principale promotore di una strategia di conversione dolce, tendente a non sconvolgere e mettere in crisi le abitudini e le tradizioni dei cinesi. In Cina i progressi erano stati lenti, ma grazie alla sua preparazione linguistica e ai suoi studi del confucianesimo, Ricci si era spinto fino a sostenere una sostanziale concordanza tra confucianesimo e cristianesimo. All’interno della stessa Compagnia non tutti concordavano con la posizione ricciana, e i detrattori dell’ordine enfatizzarono la posizione di Longobardo, contrario ad adottare termini tratti da antichi testi cinesi per indicare il Dio cristiano, e favorevole invece ad una traslitterazione delle espressioni latine. Nel complesso comunque si può sostenere che la capacità di comprensione dei gesuiti rispetto alla società cinese si dimostrò superiore a quella degli altri ordini religiosi. Nonostante i loro sforzi di adattamento comunque i padri della Compagnia vennero perseguitati a più riprese: nel 1616 rimasero nel paese solo 14 missionari, ma già nel 1621 il gesuita Trigault, rientrando in Cina dall’Europa, portò la notizia di aver ottenuto il permesso dal papa di dire messa in cinese e adattarsi ulteriormente ai riti confuciani. Intorno agli anni Trenta del Seicento, con l’arrivo dei padri domenicani nelle Filippine, la situazione mutò radicalmente. È importante sottolineare come la maggiore componente di quest’ordine fosse di nazionalità spagnola, il che rendeva i missionari particolarmente attenti al problema dell’ortodossia. I missionari domenicani avevano perseverato nel loro atteggiamento intransigente, e in particolare il padre Morales e il francescano Caballero avevano putato la loro attenzione su una delle questioni più rilevanti: quella del culto degli antenati, considerato una forma di idolatria. Lo scontro con i gesuiti, che permettevano ai convertiti di partecipare a tali cerimonie, era iniziato già allora. Per i domenicani, i gesuiti con il loro lassismo mettevano in crisi l’ortodossia, mentre per i gesuiti i domenicani perseverando nel non voler accettare alcun aspetto della tradizione cinese, rischiavano di mettere in crisi il futuro del cristianesimo in Cina. In quegli anni il Sant’Uffizio aveva aperto una prima inchiesta sfociata nel 1645 ella condanna del culto degli antenati e del confucianesimo. Invano i gesuiti avevano tentato di far comprendere come il culto degli antenati fosse slegato dalla religione, ciononostante nel 1656 essi riuscirono ad ottenere un provvedimento di Alessandro VII favorevole nei loro confronti. La controversia però si fece via via più aspra e Charles Maigrot non fece che esasperare la situazione, arrivò in Cina come vicario apostolico e non mancò di rendere palesi i suoi orientamenti contrari alla compagnia. L’atto che segnò il vero inizio della controversia sui riti fu dovuto a lui che, il 26 marzo 1693 promulgò una Declaratio che, divisa in sette punti, toccava tutti gli aspetti controversi su cui si era appuntato il dibattito fra gesuiti e domenicani. Si sottolineava come il solo nome accettato per indicare Dio in cinese fosse quello di Tienchu (Signore del cielo), mentre andavano rigettati altri termini. In secondo luogo si denunciavano come forme di idolatria l’uso delle tavolette di legno in cui fossero presenti alcuni caratteri che rappresentano un’invocazione al cielo, così come le tavolette in onore dei morti che i cinesi custodivano nelle proprie case; si tacciavano di superstizione le cerimonie dedicate al culto degli antenati. Il capitolo VI era dedicato in generale al rapporto con la filosofia confuciana e attaccava quello che era il centro del pensiero gesuita di derivazione ricciana e cioè che il confucianesimo in sé non contenesse insegnamenti in contrasto con la dottrina cristiana. Al fine di sostenere la sua posizione, Maigrot invitò il confratello Charmot a partire per Roma, e gli fornì una serie di testi redatti dai gesuiti nei quali a suo parere si veniva meno a precetti fondamentali. Un simile modo di procedere ci fa intendere come i partiti, lungi dal tentare una conciliazione, non facessero altro che esacerbarsi: a nulla valsero i tentativi dei padri gesuiti di mitigare i precetti contenuti nel documento di Maigrot. La seconda inchesta avviata dal Sant’Uffizio i seguito all’arrivo a Roma di Charmot portò a una sostanziale conferma delle posizioni domenicane, e nel 1704 Clemente XI ratificò la condanna dei riti cinesi. Il legato apostolico De Tournon si dichiarò convinto che fossero proprio i gesuiti a condizionare il pensiero dell’imperatore, e si disse fiducioso che una volta che i missionari avessero osservato le nuove regole, la cristianizzazione della Cina sarebbe andata avanti senza ulteriori contrasti. I gesuiti, pur accettando con sofferenza i sottomettersi alle decisioni della Santa Sede, erano convinti della crisi in cui una simile politica avrebbe coinvolto il mondo dei convertiti. Non solo l’editto imperiale del 1706 invitò a rimanere in Cina solo quei missionari che avessero sottoscritto un documento nel quale si dichiaravano disponibili ad agire secondo il metodo di Ricci, ma una volta promulgata la Regula di Tournon, che rendeva pubbliche le decisioni di Clemente XI, molti missionari furono invitati a lasciare il paese. La costituzione Ex quo singulari di Benedetto XIV ratificò definitivamente la posizione della Santa Sede (rivista solo nel 1939). Tranne pochi gesuiti di corte, i missionari continuarono ad entrare clandestinamente in Cina, votandosi in più occasioni al martirio. Nel 1744 la strategia missionaria della Compagnia ricevette un altro duro colpo a opera di Benedetto XIV che si pronunciò contro i cosiddetti riti malabarici e anche in questo caso i gesuiti dovettero conformarsi al volere di Roma. La controversia sui riti faceva parte di una più ampia strategia di attacco contro la Compagnia di Gesù che finì per occupare uno spazio considerevole nei dibattiti politico-religiosi settecenteschi. La polemica in Fracia era particolarmente vivace anche a causa della presenza dei cosiddetti figuristi, un gruppo di gesuiti francesi che si era spinto molto avanti sulla via della conciliabilità tra confucianesimo e cristianesimo fino a sostenere che i classici cinesi non dovevano essere visti come testi storici che richiedevano un’interpretazione letterale, ma piuttosto come opere che necessitavano di un’interpretazione figurativa e allegorica al fine di rivelare i simboli di un’allusione profetica al futuro Messia cristiano. In realtà però se si esaminano i testi dei missionari, si può vedere come i padri fossero rimasti nell’alveo della Chiesa cattolica; il loro intento fu soprattutto quello di trovare nella pratica delle soluzioni che potessero accontentare i convertiti consentendo loro di rimanere ugualmente dei cinesi rispettabili. Il giudizio intorno alle riduzioni del Paraguay fu una delle grandi questioni che divisero l’opinione pubblica. Un’esperienza fino a quel momento considerata come uno dei massimi successi dei gesuiti divenne un argomento centrale della polemica illuminista contro la Compagnia. Realtà e utopia sono i due termini entro cui va indagata l’esperienza delle riduzioni. Conviene partire dalla realtà per ricostruire la storia delle riduzioni e comprendere il loro effettivo ruolo all’interno del mondo di valori della Compagnia quanto nel complesso sistema coloniale. Il cosiddetto modello gesuita non è disgiungibile né dalla realtà degli altri villaggi indios, né dal più generale universo coloniale spagnolo. Si è sempre molto insistito sugli aspetti isolazionistici delle riduzioni, ma non si deve dimenticare che i gesuiti agirono da mediatori economici con le istituzioni coloniali spagnole. L’esperienza delle riduzioni fu l’adattamento di un’esperienza preesistente: il concentrare gli indigeni nei villaggi era stato un fatto direttamente conseguente all’istituzione dell’encomienda e le prime riduzioni erano state fondate dai francescani. La funzione dei gesuiti consistette in una progressiva autonomizzazione dal mondo spagnolo. La maggiore novità fu l’eliminazione della soggezione all’encomienda a beneficio degli indigeni, che divennero tributati direttamente alla corona spagnola. Si contro i gesuiti, e pur riconoscendone gli indubbi meriti nel campo degli studi e delle scienze, ne sottolineava la propensione all’intrigo e il desiderio di governare gli uomini utilizzando la religione. Il successo della Compagnia era l’obiettivo supremo cui tutti gli altri dovevano soggiacere. È soprattutto nel sottolineare il legame tra la capacità di unirsi per una causa comune e il successo della Compagnia che egli mostrava di aver centrato il problema principale che da secoli rendeva la Compagnia così pericolosa per l’opinione pubblica. Dalle sue parole traspariva una certa ammirazione per la capacità di mettere la comunità al di sopra delle esigenze del singolo individuo. In quegli anni la Compagnia venne indicata come possibile modello per le società segrete e simili suggestioni ritornarono anche nella corrispondenza dei rivoluzionari russi. Sprezzante era anche il giudizio nei confronti dei giansenisti, non meno fanatici dei gesuiti. In fondo, la grande colpa dei gesuiti era quella di essere legati ad una teologia e a un’idea di Chiesa temporale più a lungo di tutti gli altri ordini religiosi, e soprattutto per avere peccato di visibilità. Nella ricerca sui principi della morale, David Hume stigmatizzava la morale casuista di molti teologi gesuiti. In un’altra opera li accusava di essere tiranni del popolo e schiavi di corte, e pur giudicando prive di senso le dispute giansenisti-gesuiti, attribuiva ai primi un amore per la libertà che vedeva invece soppiantato nei secondi da una maccata superstizione e da una rigida osservazione delle forme cerimoniali esteriori. Nella Storia d’Inghilterra Hume non perse l’occasione di ripercorrere la storia della congiura delle polveri e del ruolo centrale svolto in essa proprio dai membri della Compagnia. La circolazione delle idee antigesuite non mancò di contagiare anche gli Stati italiani. Se Pietro Leopoldo guardò con un certo favore alla riforma di stampo giansenista promossa da Scipione de’ Ricci, nel regno di Napoli il conservatorismo cattolico dei regnanti mal si conciliava con un clima di più aperto fervore intellettuale rappresentato da personaggi come Genovesi. Motivi ideali si legavano a questioni politiche ed economiche: il destino dei gesuiti venne ad inserirsi all’interno del più vasto dibattito relativo alla proprietà ecclesiastica e nel delicato equilibrio diplomatico che regolava i rapporti tra gli Stati italiani, le grandi monarchie europee e la Santa Sede. Anche in Italia tale polemica fu sostenuta dalla stampa, che orchestrò una vera e propria campagna antigesuitica pubblicando raccolte di opuscoli che se per un verso pubblicizzavano quanto di concreto si andava facendo contro la Compagnia nei diversi Stati europei, dall’altro riproponevano tutto un arsenale polemico che aveva contribuito a creare l’immagine del gesuita avido, intrigante e dalla dubbia rettitudine morale. A Venezia si spingeva per una soluzione drastica sull’esempio degli altri paesi europei. La polemica contro i collegi della Compagnia si legò ancora una volta alla questione dei lasciti testamentari a favore della creazione di nuove scuole. Famoso fu il caso dell’eredità lasciata ai gesuiti dalla nobildonna Faustina Lazzari. Grande scalpore suscitò sempre a Venezia la stampa del De statu Ecclesiae, summa del pensiero giurisdizionalista che costituì un valido arsenale per gli stati anticuriali. Il tentativo della Santa Sede di limitarne la circolazione non ebbe successo e si moltiplicarono le traduzioni italiane dell’opera. L’intento era quello di far leva sulla necessaria alleanza tra stati e filosofi al fine di sconfiggere la compagnia. A questo clima non rimase estranea neanche la Russia, dove negli anni sessanta una sistematica denigrazione dell’ordine venne patrocinata dagli ambienti massonici e da Nikolaj Novikov, la figura più rappresentativa dell’illuminismo russo. Il breve Dominus ac Redemptor del 23 luglio 1773 fu solo l’epilogo di una politica europea che portò sin dagli anni Cinquanta del secolo all’allontanamento dei gesuiti da alcuni de maggiori paesi del continente. Il primo fu il Portogallo retto da Giuseppe I e dal suo ministro poi marchese di Pombal, che nel 1759 dichiarò soppressa la Compagnia di Gesù entro i confini nazionali così come nelle colonie del Nuovo Mondo. L’espulsione non fu improvvisa, ma venne preceduta da una vera e propria campagna diffamatoria. La lotta contro le missioni gesuite del Paraguay fu il primo atto politico che impegnò il governo portoghese. La responsabilità della resistenza degli indigeni venne imputata soprattutto ai religiosi e si vide nelle riduzioni l’esempio più lampante del loro dispotismo. In realtà alla base della decisione di combattere contro le riduzioni vi erano anche motivi economici: si pensava che il territorio fosse ricco di miniere d’argento. La politica neomercantilista di Pombal intendeva osteggiare tutte le redditizie attività commerciali che non rientrassero nella sfera d’influenza statale. A partire dal 1757 venne pubblicata una serie di libelli ispirati dallo stesso Pombal e composti da un cappuccino sfratato, l’abate Platel. Vi furono numerose raccolte, ma quella più famosa fu quella che prendeva il titolo dall’episodio scatenante che condusse all’espulsione dei 1700 gesuiti residenti in Portogallo, vale a dire l’attentato subito da Giuseppe I il 3 settembre 1758, da cui uscì incolume: immediatamente dopo il fatto venne fatta circolare ad arte la notizia che i gesuiti fossero coinvolti nella congiura. Vennero arrestati dieci gesuiti rei di cospirazione, i quali furono sottoposti per due anni a un regime di carcerazione molto rigido. Approfittando delle dichiarazioni di un vecchio missionario, Maladriga, che diede segno di problemi mentali, il governo e l’Inquisizione portoghese lo accusarono di eresia e lo condannarono al rogo. La maggior parte dei gesuiti era stata nel frattempo costretta all’esilio. Tutta la politica religiosa del Portogallo fu improntata a un rigido giurisdizionalismo, che alimentò anche il tentativo, fallito, di creare una Chiesa portoghese indipendente da Roma. Dopo il Portogallo, il secondo paese a decretare la fine della Compagnia fu la Francia. Il clima era senza dubbio propizio: il casus belli che consentì al Parlamento di Parigi di intentare un processo contro l’ordine religioso venne fornito dal contenzioso relativo alla bancarotta del padre Lavalette che in Martinica aveva messo in piedi un fiorente commercio di zucchero e caffè. Lavalette dopo aver perso alcune navi nel corso della guerra di contrabbando tra Francia e Gran Bretagna, sebbene pressato dai superiori che lo invitarono a desistere dalle sue imprese commerciali, continuò ad accumulare debiti fin quando nel 1761 i creditori francesi gli intentarono un processo presso il Parlamento di Parigi che finì per coinvolgere l’intera compagnia. All’accusa di non solvibilità dei debiti si sommarono presto altre di ben più ampio rilievo: in primo luogo il Parlamento invitò i gesuiti a presentare le Costituzioni affinché queste potessero venire esaminate in sede di dibattito. Il re, meno ostile verso i gesuiti, avocò a sé il diritto di prenderne visione, ma subito dopo cercò di contrattare per la Compagina la possibilità di continuare ad operare in Francia con la sottoscrizione da degli articoli gallicani del 1682. Venuti a conoscenza della richiesta regia, il generale Lorenzo Ricci e Clemente XIV si schierarono contro e intimarono ai gesuiti francesi di non accettare quelle condizioni. In Francia la questione dell’esistenza di una Chiesa nazionale indipendente da Roma era stata all’ordine del giorno più che altrove. La reazione da parte di Roma al solo prospettarsi dell’ipotesi che i gesuiti francesi potessero accettare le condizioni del re era stata indicativa dell’impossibilità, per i circa 1200 religiosi residenti in Francia, di poter mettere d’accordo la loro fedeltà alla corona con quella al generale dell’ordine e della Santa Sede. Il processo si trascinò ancora per qualche tempo. Il Parlamento di Parigi stabilì che i gesuiti dovessero chiudere i loro collegi, ma non vi fu uniformità di giudizio in tutto il paese; alcuni Parlamenti locali non presero alcun provvedimento contro i gesuiti. Nel 1764 il re per evitare di trovarsi nuovamente in posizione di minoranza prese l’iniziativa di sciogliere la compagnia. Il partito illuminista registrò con preoccupazione gli eccessi di veleno che avevano accompagnato la campagna antigesuitica. Se già Voltaire aveva commentato la condanna al rogo di Malagrida, d’Alembert registrò con preoccupazione il ruolo che il giansenismo aveva avuto nella pur condivisibile espulsione dei gesuiti. Per quanto riguarda la Spagna si può dire che in una prima fase, fino alla conclusione dei dissidi con il Portogallo in merito al Paraguay, la posizione del sovrano spagnolo fu di sostanziale appoggio per i gesuiti. Agli inizi degli anni Sessanta si inaugurò una nuova fase della politica spagnola, segnata da un riformismo di stampo giurisdizionalista che ebbe il suo principio guida nella lotta ai privilegi ecclesiastici, specie in campo patrimoniale. Manuel de Roda, José Moñino, Nicolás de Azara e Pedro Paulo de Aranda furono le figure principali di questo tentativo di rinnovamento, il cosiddetto partito tomista, composto da quella fazione della burocrazia e del clero iberico che si era formata presso i collegi e le università minori gestite dagli ordini regolari nemici della compagnia. Essi vedevano nei gesuiti il maggior ostacolo alla riduzione delle prerogative ecclesiastiche, ma la vittoria contro la compagnia rappresentò l’unico obiettivo passibile di successo. Troppo forte era in Spagna l’influenza del clero e della Chiesa per pensare che un pugno di uomini potesse combattere e vincere contro di essa. Vinsero comunque contro i gesuiti, a danno dei quali venne orchestrata una campagna diffamatoria. Momento cruciale fu il cosiddetto Motin de Esquilache (dal nome del ministro riformatore siciliano Squillace), moto popolare che portò alla caduta del ministro e che venne imputato ai gesuiti. Il 31 dicembre 1766 la presentazione del dictamen di Campomanes, nel quale i gesuiti venivano accusati di complottare contro lo stato, fu seguita da una requisitoria del medesimo autore di fronte alla Giunta straordinaria che annunciava l’espulsione dalla Spagna e dalle colonie di tutti i membri dell’ordine. I motivi non venivano esplicitati: si dichiarava che il solo re ne era a conoscenza e si vietava per il futuro di pubblicare testi relativi all’espulsione. Si parlava infatti di una falsa lettera del generale Ricci, in cui si accusava il re di essere un figlio bastardo e di portare illegittimamente il titolo di sovrano. Nella notte fra il 2 e il 3 aprile 1767 vennero imbarcati e cacciati dal paese circa 2500 gesuiti. In un primo momento la Santa Sede per protestare contro la decisione di Carlo III si rifiutò di accogliere i gesuiti, ma ben presto dovette capitolare davanti allo spettacolo di questi padri di tutte le età portati per mare senza destinazione. La valenza simbolica di quest’atto fu molto forte: la Spagna si poteva considerare la patria d’elezione dei gesuiti e questo evento faceva presagire altre sventure. La posizione assunta dalla Spagna non poteva che trascinare dietro di sé gli Stati italiani che gravitavano nell’orbita borbonica: nel novembre dello stesso 1767 il ministro Tanucci convinse il riluttante re Ferdinando ad espellere i gesuiti dal Regno di Napoli, e un editto di due anni dopo si pronunciò a favore dell’impiego del patrimonio ex gesuitico per educare la gioventù povera nella pietà e nelle lettere. Nel 1768 fu il turno del Ducato di Parma, dove a nulla servirono le ripetute proteste di Clemente XIII. Anche in Italia ai motivi politici si legava un interesse economico: coloro che si interrogavano intorno alla possibilità per lo Stato di impadronirsi del patrimonio ecclesiastico avevano individuato nei beni della Compagnia un obiettivo privilegiato. Non sfuggì alla corte papale come l’attacco sferrato alla Compagnia avesse come obiettivo un drastico ridimensionamento del potere temporale della Chiesa cattolica nel suo complesso. La Santa Sede si trovava ormai in una situazione di isolamento dalla quale era difficile uscire senza rinunciare almeno a una parte delle proprie prerogative. Accettare questo dato di fatto non rientrava nello spirito di una parte del collegio cardinalizio, che mostrò al suo interno una spaccatura fra gli zelanti, coloro che ritenevano che rinunciare a difendere i gesuiti avrebbe significato piegarsi alla volontà degli Stati, e il partito più vicino alle diplomazie europee, propenso ad accettare la distruzione della Compagnia come il male minore pur si salvaguardare uno spazio di autonomia alla Santa Sede. A Roma si era inoltre rafforzato un gruppo di prelati facente capo al cardinal Domenico Passionei, che rappresentò una vera e propria spina nel fianco per i gesuiti, al punto da far affermare che più delle corti borboniche, erano stati questi circoli a segnare il destino dell’ordine. Le espulsioni e le accuse di sedizione imputate ai padri della Compagnia erano state prontamente criticate da Clemente XIII. Al momento della sua elevazione al soglio pontificio, la sua origine veneziana aveva fatto sperare al partito antigesuita; in realtà il papa si mostrò molto duro con i detrattori dell’ordine e finché fu in vita si rifiutò di prendere in considerazione l’annientamento dei gesuiti. Al momento dell’elezione al generalato di Ricci, l’ordine aveva ancora un peso considerevole, contando 42 province per un totale di 23 mila gesuiti. Il nuovo generale era un uomo di cultura, ma nn avvezzo alla politica e si rifugiò nella preghiera confidando che l’ordine non sarebbe stato abbandonato dal pontefice. Notevole fu il turbamento nella compagnia quando fu eletto Clemente XIV, noto per i suoi tiepidi sentimenti nei confronti dell’ordine. Iniziò un periodo di intrighi e scontri in cui soprattutto il cardinale di Bernis per la Francia e l’ambasciatore spagnolo Moñino usarono le loro capacità diplomatiche affinché il pontefice facesse seguire alla politica antigesuita delle monarchie un atto ufficiale che dichiarasse abolito l’ordine in quanto sedizioso e pericoloso per la sicurezza degli Stati e dei popoli. La stessa presa di Benevento e Pontecorvo da parte del re di Napoli e l’occupazione di Avignone per opera delle truppe francesi sono episodi che rientrano nella politica di pressione nei confronti della Santa Sede. Sopprimere i gesuiti avrebbe privato la Chiesa di uno dei suoi alleati più fedeli, ma sembrava l’unico modo per mantenere un ruolo nella vita politica e sociale dell’Europa. Specie in Italia, l’aver fatto della battaglia antigesuita una questione imprescindibile fece sì che una volta raggiunto l’obiettivo della soppressione si producesse un ripiegamento del fronte anticuriale, appagato dal risultato, ma incapace di costruire una vera proposta riformista complessiva. Nel 1773 il pontefice si decise a istituire una commissione con il compito di redigere il testo del breve di soppressione, datato 21 luglio, ma promulgato il 16 ottobre. Il Dominus ac Redemptor venne seguito da un altro breve che istituiva una commissione incaricata di occuparsi dell’effettiva esecuzione degli ordini papali. Composta da cinque cardinali, essa aveva fra gli altri il cardinal de Zelada, già fra gli estensori del testo e uno dei più attivi esponenti del partito spagnolo presso la corte pontificia. Il Dominus ac Redemptor si componeva di 45 paragrafi e si divideva in due parti: la prima voleva essere un tentativo di giustificare la soppressione, la seconda indicava i termini per la sua attuazione. Si trattava di un documento curioso in cui, pur appoggiandosi all’autorità dei passati pontefici e elencando i casi in cui essi, per amore della pace, avevano proceduto all’abolizione di altri ordini religiosi, Clemente XIV evitava di sollevare delle accuse precise contro la Compagnia. Un rapido excursus della sua storia metteva in evidenza i momenti e le vicende in cui i gesuiti avevano creato contrasti all’interno della Chiesa. Simili turbative si erano moltiplicate nell’ultimo periodo al punto da rendere necessaria una netta presa di posizione da parte del pontefice. È interessante il fatto che Clemente XIV evitasse di promulgare il breve urbi et orbi e ne affidasse la comunicazione agli episcopati locali. Una simile procedure non mancò di creare ambiguità e disagi, poiché il breve non venne ricevuto contemporaneamente in tutte le province gesuite. Se a Roma l’attuazione avvenne con una certa rapidità e condusse all’arresto del generale Lorenzo Ricci, rinchiuso a Castel Sant’Angelo con gli assistenti delle province, in paesi quali la Prussia e la Russia le cose andarono diversamente. Al momento della soppressione i gesuiti in Prussia erano circa 220 e reggevano 13 collegi e 7 residenze. Federico II si rifiutò per tre anni di far promulgare il breve. Dopo una serie di contatti diplomatici con la Santa Sede, nel 1776 si arrivò a un compromesso con Roma: la Compagnia venne abolita in quanto ordine religioso, ma ai gesuiti fu permesso di rimanere in comunità e di continuare a svolgere i loro ministeri con il nome di sacerdoti dell’Istituto delle scuole reali. Il re era poco interessato allo status giuridico dei gesuiti, ma aveva ogni interesse affinché rimanessero in Prussia come pedagoghi. La nuove istituzione creata ad hoc sopravvisse fino al 1800. Più complessa fu la situazione in Russia. La prima spartizione della Polonia aveva portato alla Russia una parte della provincia polacca della compagnia con 201 gesuiti, 4 collegi e 2 residenze. Un editto dei tempi di Pietro il Grande vietava ai padri l’ingresso nell’impero, ma Caterina II aveva impugnato quel documento sostenendo che la Compagnia potesse essere utile al paese per il suo ruolo educativo e per pacificare i nuovi territori annessi. Quando giunse la notizia, la zarina si rifiutò di far promulgare il breve nei suoi stati e impedì che lo facesse il vescovo Stanislaw Siestrzencewicz, da lei fatto eleggere capo dei cattolici dell’impero russo. Da Varsavia il nunzio Garampi cercò di fare pressioni sul vescovo russo e scrisse personalmente al provinciale della compagnia affinché dichiarasse disciolto l’ordine anche nella provincia della Russa Bianca, ma i gesuiti rimasero al loro posto, ma ciò non mancò di suscitare conseguenze in Europa. Tale avvenimento fu accompagnato da una serie di pamphlets in cui si affrontava il nodo centrale dell’obbedienza al papa. Va detto che probabilmente comunque le motivazioni di Caterina II furono principalmente politiche: con un simile atto la sovrana intendeva ribadire il ruolo della Russia sullo scacchiere internazionale e la sua autonomia sia nei confronti della Santa Sede che degli altri stati europei. Grazie all’appoggio di Paolo I, nel 1801, i gesuiti ottennero anche il breve Catholicae fidei in cui Pio VII riconosceva ufficialmente l’esistenza della compagnia in Russia. I gesuiti russi non furono gli unici a mantenere vivo lo spirito della Compagnia. Superato lo shock iniziale, il partito gesuita si riorganizzò. Nell’impero austriaco, la sociabilità gesuita mantenne aperti degli spazi di intervento sia per mezzo della partecipazione di singoli religiosi alle logge massoniche, sia attraverso il riconoscimento del ruolo intellettuale di alcune personalità. Da questo punto di vista lo scoppio della Rivoluzione Francese segnò paradossalmente l’avvio di un nuovo sentimento favorevole alla Compagnia e alcuni si spinsero a dire che se non fosse stata soppressa non sarebbe avvenuto in Francia nessun rivolgimento di tale gravità. Prima della restaurazione nacquero diversi gruppi che idealmente si richiamavano al messaggio e alla spiritualità
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