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riassunto libro "Introduzione all'Archeologia" di Bianchi Bandinelli, Dispense di Archeologia

Lastoria dell'archeologia come disciplina autonoma e della sua evoluzione nel tempo. Si parla dei diversi approcci alla disciplina, dall'archeologia filologica all'archeologia storica, fino alla sua definizione come scienza che tiene conto dell'analisi della cultura filologica, materiale e storico-artistica. Si fa riferimento anche alla moda del Grand Tour e al ruolo di Winckelmann nella nascita dell'archeologia come studio delle opere d'arte in quanto documenti di civiltà.

Tipologia: Dispense

2020/2021

In vendita dal 30/09/2022

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Scarica riassunto libro "Introduzione all'Archeologia" di Bianchi Bandinelli e più Dispense in PDF di Archeologia solo su Docsity! INTRODUZIONE ALL’ARCHEOLOGIA (RANUCCIO BIANCHI BANDINELLI) PRIMO CAPITOLO: PREMESSA Il volume ha un duplice scopo:  tracciare brevemente la storia della disciplina per definire i problemi scientifici inerenti ad essa;  stabilire un rapporto positivo con l’archeologia e la nostra cultura attuale. L’archeologia per molto tempo non è esistita come disciplina autonoma né come parola corrente. Infatti il termine archeologia si trova nelle fonti antiche ma con significato generico di notizie sui tempi antichi. Fu usata per la prima volta da Tucidide e stava a significare “tutto ciò che è antico” ossia l’archeologia come ricostruzione dei fatti sulla base di un evento storico inserito nella sua opera in ambito archeologico > Gli ateniesi ci danno la prova dell’esistenza dei Fenici nel mar Egeo attraverso il rinvenimento di una necropoli con le armature e le modalità di sepoltura, oggetti di corredo (V secolo). Il termine verrà poi ripreso da Platone nel IV secolo e verrà cambiato il significato: per Platone l’archeologia è intesa come “racconto del mito” quindi non identifica una realtà effettivamente esistita. A sostegno della sua tesi fa parlare il sofista Ippia che racconta come a Sparta non amassero l’astronomia, la geometria, la scienza del linguaggio ma solo le genealogie degli eroi e di come sorsero le città. Questa disciplina ha cambiato volto nel corso del tempo: ARCHEOLOGIA FILOLOGICA > dall’800 fino alla Prima Guerra Mondiale. ARCHEOLOGIA STORICO-ARTISTICA > tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale. ARCHEOLOGIA STORICA > dalla Seconda Guerra Mondiale. Nel Rinascimento l’archeologia era intesa come “ricerca appassionata del mondo antico” > i maggiori artisti del Rinascimento si recarono a Roma per studiare e misurare i monumenti antichi di architettura. Il Vasari ci racconta di un episodio della vita di Brunelleschi, il quale aveva sentito parlare di un sarcofago a Cortona e per questo decise di abbandonare la sua bottega per vedere il sarcofago e disegnarlo. Si recò a Cortona spinto dalla passione per l’arte. Questa non era archeologia ma può essere considerata come un punto di partenza, come il desiderio di conoscere l’arte antica la quale doveva essere alla base per esprimere le diverse concezioni artistiche odierne. Nel corso del tempo lo studio dell’archeologia cambia e diviene espressione dell’analisi e dello studio dell’antichità con gli antiquari, studiosi di usi e costumi, di mitografia; il loro scopo era quello di interpretare i monumenti e di ricostruire gli usi e i costumi degli antichi ma molto spesso queste due cose venivano fatte con sfoggio di erudizione. (studi di antichità) Nella prima metà del 700 gli studi si fondarono sull’analisi dell’antichità, sull’epigrafia e sulla ricostruzione di norme e leggi che regolavano la vita civile e religiosa, nonché sullo studio della PROSOPOGRAFIA (definizione delle personalità storiche e funzioni ufficiali, cariche pubbliche). Ci si serviva di documenti funzionali alla ricostruzione e si raccoglievano oggetti di scavo (per esempio la Colonna Traiana e la Colonna Antonina a Roma interessano solo come documenti per studiare i costumi militari e gli episodi di guerra in esse rappresentate). Gli antiquari persero il vero scopo del loro studio e finirono per cercare nei monumenti una conferma per loro determinate ipotesi accendendo così dispute accademiche. Il loro merito è quello di averci conservato nelle loro opere il ricordo di monumenti oggi scomparsi ma delle loro conclusioni non rimane nulla. All’archeologia si approcciava solamente in ambito storico-artistico, trascurando la parte artigianale. Si afferma l’idea di Winckelmann ossia di un’arte per elevare lo spirito, per comprendere il bello. Sarà Bianchi Bandinelli a mettere in evidenza come l’approccio non dovesse essere finalizzato all’elevazione dello spirito ma alla ricostruzione complessiva dell’analisi di una società dai vari punti di vista (economico, sociale, politico..). Verso la fine del XVIII sec. e l’inizio del XIX sec. si diede inizio all’archeologia vera e propria. Nonostante l’idealizzazione dell’Antico e il principio di imitazione dell’arte antica fu in questo tempo che si gettarono le prime basi per una conoscenza storica dell’antichità. Una data importante è il 1764 ossia l’anno di pubblicazione della “Storia delle arti del disegno presso gli antichi” di Winckelmann. Quest’ultimo è considerato fondamentale nel cambiamento della percezione di archeologia. Molte delle sue teorie furono fraintese poiché si arrivava a far coincidere l’archeologia con la storia dell’arte greca. In seguito alle sue teorie si diffonde l’archeologia filologica: attraverso lo studio delle fonti antiche (Pausania, Plinio) si tentava di ricostruire e di associare quell’opera d’arte citata alla statua che avevano a disposizione (in questo modo si riuscì ad identificare il Doriforo di Policleto). Il passaggio da filologica a storico-artistica avviene in seguito agli scavi durante la I guerra mondiale. Gli storici dell’arte dovevano fare riferimento sia all’aspetto storico che artistico, due elementi che confluivano in una predominanza di elemento artistico. Infine, l’ultimo passaggio da storico-artistica a storica segna il ruolo dell’archeologia come scienza che tiene conto dell’analisi della cultura filologica, materiale e storico- artistica. Si diffonderà la MODA DEL GRAN TOUR: le grandi famiglie di Europa accorrevano nei centri culturali principali per vedere i grandi monumenti. Roma era il principale centro di irradiazione di un mercato dell’arte fortemente influenzato da questa moda. Si diffonde il fascino della ruina con la conseguente circolazione di idee e persone. Le statue diventano espressione dell’oggettivo, della classicità e di armonia. Gli studiosi si ritroveranno ad accettare che l’arte greca non è un’arte perfetta. SECONDO CAPITOLO: WINCKELMANN La nascita dell’archeologia come studio delle opere d’arte in quanto documenti di civiltà e di cultura possiamo attribuirla a Johann Joachim Winckelmann (1717-1768). Winckelmann nacque a Stendhal, figlio di un povero maestro calzolaio. Nel 1738 si trasferì nella città di Halle come studente di teologia dedicandosi però all’arte greca e alla letteratura. Facendosi opportunamente cattolico si recò a Roma diventando col tempo, famoso e ricercato con la carica di Conservatore delle Antichità di Roma. Fu questo suo successo ad essergli fatale poiché verrà ucciso a tradimento in un hotel a Trieste. È a lui che attribuiamo il merito di aver trasportato lo studio dell’arte antica dalla mera erudizione verso concetti generali che fossero di guida alla comprensione dell’arte antica e al ricavarne elementi di vitale interesse per il proprio tempo. Con lui non si parla più di fascino della ruina, i suoi obiettivi erano:  cercare di scoprire l’essenza dell’arte attraverso lo studio degli antichi;  rintracciare le leggi che regolano la perfezione di un’opera d’arte e ne fanno un esempio di bellezza;  la ricerca di un’estetica assoluta basata sulla perfezione delle opere antiche. La ricostruzione della cronologia è indispensabile per lo studio di un’opera d’arte in quanto la comprensione di quest’ultima ha inizio proprio attraverso la fissazione della cronologia. Per Winckelmann era necessario inquadrare l’opera d’arte in un contesto cronologico (grande progresso rispetto agli studi precedenti). Fino a lui il mondo dell’arte antica appariva come un unico blocco, un ammasso di opere di sculture e statue frammentarie senza alcun tipo di prospettiva storica. Occorreva trovare un metodo per stabilire la cronologia poiché non si poteva far affidamento solo sulle fonti scritte (quelle di Plinio ad esempio, riferivano la cronologia dei maggiori artisti ma non le opere a loro attribuite). Winckelmann arrivò a definire un metodo per fondare una cronologia: il criterio dell’analisi stilistica soffermandosi sull’indagine formale delle opere d’arte. La sua teoria era corretta ma nella pratica egli non sapeva di prendere in esame TERZO CAPITOLO: L’ARCHEOLOGIA FILOLOGICA La più diretta evoluzione del misticismo di Winckelmann è la nascita nel 1830 dell’archeologia filologica. La filologia come indagine e sistemazione dei testi letterari e della loro trasmissione era sorta nel tardo ellenismo con Friederich August Wolf che ottenne di essere immatricolato come studioso di filologia e non di teologia. La filologia si affermò in Germania e si divise in due grandi rami:  grammatica comparata;  critica dei testi. Fu questo metodo che indirizzò la ricerca archeologica volta a ricostruire la storia della scultura greca. Grazie alla scuola filologica si scopre che Winckelmann non aveva mai preso in esame degli originali greci ma delle copie di età romana. Dal 1830 in poi l’archeologia diventa una scienza diretta dalle scuole di studiosi tedeschi infatti, la Germania vide in se stessa l’erede diretta della civiltà greca. Tra i grandi protagonisti dell’archeologia filologica ricordiamo:  FRIEDERICHS: identificò in una serie di copie il Doriforo di Policleto, la statua canone della formazione classica.  BRUNN: tracciò la prima vera storia dell’arte greca dal punto di vista degli artisti (“Storia degli artisti greci”).  OVERBECK: raccolse e classificò il materiale iconografico e mitologico sulla base delle citazioni del Brunn e pubblicò dei testi formando una raccolta che rimane ancora oggi punto di riferimento e strumento di lavoro.  FURTWAENGLER: va ad integrare i testi corrotti attraverso la fotografia e la memoria. Elenca statue e monumenti mettendo in evidenza anche ciò che si dice nelle fonti antiche. Si caratterizza per una grande capacità tecnica , pertinenza ed oggettività. L’obiettivo fondamentale della scuola filologica fu il riconoscimento dell’opera originale attraverso:  Studio dei testi antichi e di notizie relative agli artisti e alle opere famose;  Correzione filologica dei testi corrotti;  Messa a confronto delle versioni di un’opera per definire gli elementi alla base dell’originale (da un lato le copie di età romana dall’altro le fonti antiche che menzionavano i grandi artisti greci). Gli autori attuano quindi un processo di associazione. La prima identificazione fu quella dell’Apoxyomenos No in una copia in marmo scoperta nel 1849 in Trastevere tra le rovine di una casa privata di età imperiale. L’originale in bronzo, era stato portato a Roma e posto da Agrippa davanti alle sue terme. Questa identificazione fu resa più facile per l’atto compiuto dalla figura che presupponeva l’uso dello strigile e dal fatto che non furono trovate altre repliche della stessa statua (non era un’opera famosa). Le statue greche erano in bronzo (una lega leggera) mentre quelle romane erano in marmo. Un elemento fondamentale nella traduzione di un originale da bronzo a marmo è quello dei puntelli. Essendo il marmo più pesante del bronzo, l’equilibrio statico della statua viene meno ed era quindi necessario un punto di appoggio (un tronco d’albero, una colonnetta). Tanto più l’artista era bravo, tanto meno il puntello risultava invadente. Un primo esteriore criterio di identificazione fu sicuramente la presenza del puntello (dove ci sono puntelli la statua è una copia). Nel processo di riconoscimento delle statue più importanti ci fu sicuramente la scoperta del Doriforo di Policleto da parte di Friederichs, statua che risolse il problema centrale dell’arte greca nel problema del passaggio dall’età arcaica all’età classica poiché la figura rappresentata era stante, virile e ignuda, non impegnata in un’azione precisa ma sul punto di compiere un movimento che è solo accennato. Molti studiosi affrontarono anche il problema della rappresentazione del corpo. Nel periodo arcaico il Kouros (statua virile ignuda) non rappresentava nessun personaggio in particolare né una divinità, nonostante nei primi tempi si pensasse fosse una rappresentazione di Apollo. Il kouros così come la kore, può essere identificato come un ex voto o sopra una tomba come memoria, segno. Rappresentava la bellezza in modo astratto senza incarnare necessariamente qualcosa di specifico. Nella secolarizzazione dell’arte il problema fu non uscire da questa figura ma di darle la possibilità di movimento attraverso la plasticità e nuove proporzioni. Questa ricerca dura per tre generazioni e trova la sua soluzione con il Doriforo di Policleto. Il suo riconoscimento fu dovuto al Friederichs che associò il Doriforo alla statua del museo di Napoli. Come giunse Friederichs all’identificazione del Doriforo? Egli notò che di questa statua atletica c’erano molte copie e capì che si doveva trattare di un’opera famosa. Attraverso lo studio della capigliatura, giunse alla convinzione che si doveva trattare di un’opera in bronzo. Per cui eliminò i puntelli e studiò la composizione della figura che doveva rivelare la volontà dell’artista di armonia ed equilibrio. Analizza il chiasmo che crea il senso di equilibrio e allo stesso tempo la possibilità di movimento della statua. Inizialmente trova una corrispondenza fra la sua analisi e l’equilibrio descritto dalle fonti antiche rispetto a Lisippo. Essendo quest’ultimo ancora impregnato di arcaismo si fece risalire l’originale al V secolo il che concorda con le fonti (trovò anche corrispondenza in una descrizione della statua da parte di Plinio che parlava della perfezione classica) che trattano di Policleto come di colui che non andò oltre, nel movimento delle figure, alla flessione delle ginocchia. La figura del Doriforo giuntaci incompleta viene ricostruita dal copista di Napoli che aveva posto nella mano del Doriforo una lancia (Doriforo > portatore di lancia). Procedendo con sistema analogo a quello di Friederichs, altri studiosi cercarono di identificare numerose copie. Questo portò allo studio delle copie romane più che degli originali messi in luce nelle campagne di scavo. La tendenza a costruire una storia dell’arte greca sulle copie trovò il suo maggior rappresentante in Furtwaengler che approfittò dei progressi della fotografia e della sua conoscenza e memoria visiva avendo così successo nelle identificazioni (tra le più discusse l’Athena Lemnia di Fidia). Il pericolo maggiore di questo metodo era dato dal fatto che si finiva per ricostruire l’arte greca tramite le copie, dando così una visione fredda e neoclassica dell’arte greca, che al contrario era animata da una potente energia. Questo metodo detto filologico, poiché parte dalla fonte letteraria e non dall’opera stessa, ha avuto due effetti: 1. perdita di importanza degli originali greci (si sono trascurati); 2. qualità artistica subordinata all’iconografia artistica (si perde l’analisi della qualità artistica). Alcune delle ricostruzioni filologiche sono rimaste definitive come, ad esempio, quelle dovute ad Heinrich Brunn dotato di grande intelligenze critica dell’opera d’arte. ESEMPI 1. Il Brunn ricollegò al “gladiatore morente” del Museo Capitolino il gruppo Ludovisi fino ad allora interpretato come Arria e Paeto e riconobbe in queste figure i barbari collegandole alla notizia di Plinio circa gli artisti che avevano celebrato le battaglie condotte contro i Galati da Attalo I e da Eumene II. 2. Le figure di combattenti ritrovate nel 1514 a Roma e identificate come Orazi e Curiazi furono poi disperse (a Napoli nella Collezione Farnese, a Venezia). Il Brunn riunì anche una statua del Vaticano e una del Louvre e li ricollegò ad un passo di Pausania che descrive un dono del re Attalo sull’Acropoli di Atene di quattro gruppi di figure raffiguranti la Gigantomachia, la Amazzonomachia, la battaglia di Maratona. In altri casi le attribuzioni furono messe in discussione qualche tempo dopo averle accettate come la vicenda di Eirene e Ploutos di Kephisodotos. In un primo momento furono interpretati dal Winckelmann come Giunone Lucina e dopo poco, sempre dallo stesso, come Ino-Leucotea col piccolo Bacco. Fu ritenuta anche un originale di Fidia, interpretata come Gea (in base anche ad una moneta del tempo). Interviene poi il Brunn dimostrando innanzitutto che si trattava di una copia di età romana e che si collocava tra il V e il IV secolo dato il panneggio ancora severo della figura femminile (V secolo). Egli determinò anche l’occasione nella quale fu realizzata: la pace con Sparta del 375. Nel porto del Pireo fu poi ritrovata una replica in marmo del fanciullo che reggeva una cornucopia e in tal modo andava a sostenere la ricostruzione del Brunn. Altro problema sorge nell’identificazione dell’autore: Brunn riteneva che fosse da attribuire al Kephisodotos padre di Prassitele, mentre Furtwaengler riteneva che Kephisodotos fosse il fratello maggiore e non il padre. Altra proposta viene del Rumpf secondo cui l’opera non poteva essere attribuita al 375 a.C. a causa dello stile e nota, invece, una stretta somiglianza tra Eirene e i rilievi delle basi delle colonne del secondo Artemision di Efeso (ricostruito nel 340-30 con Alessandro Magno). Con questa cronologia si andrebbe ad identificare l’originale in marmo e l’autore in nessuno dei due Kephisodotos ma in Prassitele. Questi esempi non vogliono sminuire l’importanza dell’archeologia filologica che produsse un primo ordinamento del materiale superstite ma che si rese ridicola quando si trasformò in gioco con fini di carriera accademica. PITTURA Non abbiamo a disposizione molto della pittura arcaica o classica, sappiamo solo che esistono delle rappresentazioni pittoriche del mondo greco del periodo ellenistico. Anche per la pittura si cadde in un equivoco: si pretese di ricostruire la pittura classica andata perduta attraverso la pittura di età romana, detta pompeiana. Altro errore sta nel guardare alla pittura pompeiana con lo stesso occhio con cui si considererebbe una pittura a noi contemporanea e a considerarla unicamente come pittura romana. Quando si parla di Pompei, si parla di qualcosa di imprescindibile, un momento chiave per l’arte antica, uno dei contesti meglio ricostruibili del mondo antico (città romana del I secolo). La scuola filologica riconobbe in una serie di quadri delle riproduzioni di pitture originali greche. Si trascurò il fatto che le pitture davano testimonianza del tempo nel quale furono eseguite e risalendo da esse si potevano ricostruire i problemi affrontati dalla pittura greca. L’operazione di identificazione nella pittura era ancor più difficile che per la scultura e inizialmente ci si basò su dei criteri che poi sono apparsi fallaci. Ad esempio, si cercò di risalire alle pitture originali greche sulla base delle pitture di Ercolano e di Pompei (si cercavano descrizioni nelle opere che corrispondessero alle pitture ritrovate) e si partì dal concetto che nella pittura greca non potessero esserci sfondi paesistici perché in contrasto con i criteri accademici, di perfezione, di candore ed equilibrio plastico che l’estetica winckelmanniana aveva attribuito erroneamente alla scultura. Queste fonti hanno trasmesso un’immagine dell’arte greca basata su canoni estetici veri solo in parte. Abbiamo già posto in evidenza tra i fondatori della scuola filologica Brunn, che pur basando le proprie indagini sulle fonti letterarie e la ricostruzione degli originali attraverso le copie, fu colui che dimostrò un maggiore intuito artistico, formulando dei giudizi più adeguati e ponderati. Pose l’accento anche sulle singole personalità artistiche nella loro originalità creativa. Molti studiosi si sono occupati dello studio del testo di Plinio ma ricordiamo due ricerche che fanno riferimento ai due autori in particolare presi in esame da Plinio: Schweitzer su Xenocrates di Atene e Silvio Ferri sulla statua di Policleto. I due autori che ispirano l’opera di Plinio sono Xenocrates e Apollodoro. Apollodoro era un grammatico, allievo ad Alessandria del grande Aristarco. La sua opera era dedicata al re di Pergamo, Attalo II e conteneva biografie di artisti celebri in cui va ad esaltare Fidia e Prassitele fino ad arrivare a Lisippo e la decadenza. Xenocrates, scultore ateniese, scrittore e discepolo di Lisippo. Per lui, Lisippo rappresenta il massimo punto d’arrivo dell’arte greca ed è da lui che parte la spinta iniziale verso lo stile ellenistico. C’è una differenza tra le informazioni riportate da Apollodoro e quelle di Xenocrates, ma Plinio sembra metterle sullo stesso piano. Grazie a Schweitzer che ha ricostruito i frammenti di Xenokrates inseriti nel testo di Plinio, si è giunti ad una valutazione più precisa delle fonti. Attraverso Xenocrates, Lisippo ci appare come il sommo artista , il perfezionatore di tutto il percorso artistico fino a Michelangelo. La peculiarità di Lisippo è nella sua visione personale posta alla base della creazione artistica e non più nella tradizione della scuola. Lui rappresenta gli uomini per come sembrano essere e non per come sono secondo un’impostazione antiaccademica e rivoluzionaria. Occorre riprendere alcuni passi del Sofista (dialogo platonico) in cui si polemizza contro la tendenza verso nuove visioni più personali e verso la prospettiva. Platone riteneva il pittore che utilizza la prospettiva come un ciarlatano che confonde la realtà (dà a vedere ciò che non è nella realtà), inganna i sensi. Questa tendenza alle illusioni ottiche entra in pieno nell’arte greca con Lisippo ed è quella che apre la strada al periodo ellenistico, opposta all’impostazione di Apollodoro prevalente, però, come fonte di Plinio. In un passo di Plinio si dice che dopo una determinata Olimpiade, l’arte morì e poi “rivisse”; morì dopo il 296-293 a.C. e tornò in vita tra il 156-143 a.C. la morte dell’arte corrisponde al III secolo, cioè al periodo ellenistico; la sua rinascita è l’inizio del movimento classicistico. Tutte le varie fonti latine (Vitruvio, Cicerone, Quintiliano, sono portate dalla cultura del loro tempo ad una visione neoclassica dell’arte. Ecco perché bisogna valutare i giudizi di Plinio come testimonianza del gusto nel tempo nel quale essi stessi scrissero. Un giudizio diventa storico solo quando entrano in gioco tutti gli elementi della realtà storica del tempo. Anche lo studioso Ferri cadde in errore pensando che se si fosse restituita una corretta traduzione del testo di Plinio, questo avrebbe modificato anche il nostro giudizio critico. Sicuramente alcune delle sue ricostruzioni sono interessanti poiché andavano a precisare la terminologia degli scrittori antichi. Ad esempio. Gli studiosi interpretavano la parola “quadrata” come “tozza”, per le proporzioni più massicce delle figure di Policleto rispetto a quelle di Fidia. Il Ferri, per capire cosa si intendesse con questo termino, attuò una nuova traduzione del testi pliniano per cercare il corrispondente greco e arrivò a tradurre “signaquadrata” come “statue composte in base ad un ritmo chiastico” (non bisogna però pensare di aver interpretato in maniera più corretta l’arte di Policleto ma solamente di aver dato un contributo). PAUSANIA Scrive un secolo dopo Plinio, visse nel II secolo ed è un autore greco, che scrive in greco in età romana. La sua opera rientra in un genere di scritti del tardo ellenismo i cui autori vengono detti “periegeti” cioè descrittori di viaggi. Infatti, la sua opera è una sorta di guida turistica, un viaggio che ci fotografa la Grecia del II sec. Alcuni critici non credono che sia adatta la definizione semplicistica di guida, in quanto la sua opera doveva essere intesa come una raccolta di informazioni sulla Grecia intervallate da descrizioni di luoghi, per rendere l’opera più leggera. Della sua opera ci restano dieci libri, privi di proemio e di chiusura, probabilmente lasciati interrotti dall’autore. Quest’opera segue un ordine geografico molto chiaro: comincia dall’Attica, dal Laurion, passa per il Peloponneso, poi Arcadia, Focide ecc. L’intenzione di Pausania non era quella di creare una guida turistica, ma un libro di lettura fornendo la conoscenza dei luoghi e dei monumenti per ripercorrere la storia della Grecia, intervallando narrazioni mitologiche. Pausania sfrutta le opere degli storici e dei periegeti precedenti ma soprattutto dei poeti Omero e Pindaro. La sua opera è una fonte diretta parziale; non ha visitato tutto ciò di cui ci parla ma è certo che alcuni luoghi di maggiore importanza li abbia visitati (Acropoli di Atene, Santuario di Olimpia e di Delfi) poiché è emersa una corrispondenza precisa tra le sue descrizioni e ciò che è stato rinvenuto tramite gli scavi. DESCRIZIONE DEL SANTUARIO DI OLIMPIA La descrizione del santuario inizia nel capitolo X. Ci parla delle decorazioni, elementi architettonici, del tempio di Zeus e dell’Ermes di Prassitele. 1. Si parte dal suo centro dove era ubicato il tempio di Zeus. 2. Andando verso nord si passa per il tumulo di Pelope verso l’Heraion (tempio di Hera precedente a quello di Zeus) le cui colonne in legno erano state sostituite da quelle in pietra. 3. Qui si interrompe la descrizione topografica e parte l’elenco di tutti gli altari contenuti nel santuario (informazioni riprese da documenti ufficiali). 4. Si riprende il percorso topografico con la descrizione dell’Heraion in cui si conservava l’arca di Kypselos, una cassa di legno di cedro con pannelli d’avorio. L’arca viene descritta in tutti i particolari della decorazione (importante repertorio di episodi mitologici corrispondenti allo stile del VI secolo) ripresi sempre da descrizioni già redatte. 5. Si descrivono i monumenti prossimi al tempio, come le statue di Zeus nell’ordine in cui furono ritrovate le basi. 6. All’interno del tempio, dove le colonne unite alle pareti formavano piccoli ambienti o cappelle, Pausania parla di un Hermes di Prassitele (di cui non si ha notizia in altri autori). Si era quindi messa in dubbio la veridicità delle informazioni di Pausania fino al momento in cui, durante gli scavi dell’Heraion, fu rinvenuta la statua (caduta dal suo piedistallo) proprio dove aveva indicato Pausania: nella seconda cappella della navata sinistra del tempio. Subito sorgono delle nuove difficoltà perché la statua rinvenuta nel 1877 durante gli scavi tedeschi è stata identificata come l’Hermes con Dioniso infante, celebrata come l’unica statua originale di uno dei più grandi scultori dell’antichità quasi intatta. La datazione proposta era il 340 ma l’aspetto eccessivamente morbido del modellato, provocò delle polemiche. Furono, quindi, accolte da molti le osservazioni di Carl Blumel, scultore che osservò come sul dorso dell’Hermes si poteva riconoscere l’uso di ferri (scalpello a 3 punte) mai usati prima del tardo ellenismo e dell’età romana. Accertato quindi che la statua era una copia di età romana, si negava quindi che fosse un originale di Prassitele. Blumel propose anche un’altra soluzione per accontentare coloro che avevano un’idea diversa dell’arte di Prassitele: poiché dalle fonti emergono ben quattro artisti di nome Prassitele, lui propose di identificare l’autore con il Prassitele del II secolo d.C. Ancora oggi il dibattito è aperto. Ad Olimpia, Pausania descrive i due frontoni del tempio di Zeus nelle singole figure. Quando queste furono rinvenute negli scavi, furono ricomposte seguendo le descrizioni del Pausania con qualche incertezza (a destra di chi guarda o rispetto alla statua?). Pausania, inoltre, attribuisce un frontone a Paionios (Peonio di Mende) e l’altro ad Alkamenes (Alcamene) ma la critica moderna ha potuto attribuire i frontoni al medesimo autore (probabilmente Maestro di Olimpia) e anche escludere completamente i due nomi proposti da Pausania. Nel caso di Paionios si può documentare come sia nato l’errore di Pausania: davanti al tempio è stata trovata una Nike di Paionios attestata come tale dall’iscrizione sulla base della statua. Questa Nike però, è lontana dallo stile dei frontoni, le cui sculture sono databili tra il 470 e il 460 a.C. Inoltre, nell’iscrizione è detto che gli abitanti di Messene e Naupatto dedicano la statua come bottino di guerra (si è pensato alla guerra di Sfacteria-425). In piccolo c’era un’altra iscrizione, fonte dell’errore di Pausania. In questa iscrizione si parlava di Peonio come l’autore degli acroteri del tempio di Zeus. Gli acroteri prima dell’ellenismo erano solo delle decorazioni del frontone mentre dopo andarono ad identificare l’intero frontone. Per quanto riguarda l’attribuzione ad Alkamenes ci sono solo ipotesi da considerare. La più convincente si basa sull’osservazione che alcune statue appartenenti agli angoli inferiori del frontone erano in marmo diverso. In qualche modo a Pausania il nome di questo scultore doveva essergli arrivato in correlazione con la decorazione del frontone (sappiamo che si affidava spesso a quello che dicevano i custodi dei santuari). LUCIANO Vissuto al tempo degli Antonini, Luciano di Samosata fu l’ultimo fra i tardi scrittori del mondo greco a dimostrare sensibilità artistica. Parla di opere d’arte descrivendo le proprie sensazioni e il proprio giudizio in seguito a esperienze dirette e attuando confronti con artisti classici. Descrive le opere più famose con citazioni degne di fede, attendibili:  Le nozze di Rossane e Alessandro > ci dice che il quadro oggi si trova in Italia;  La famiglia del Centauro > ci dice che il quadro portato via da Silla si trovasse sopra una nave affondata a Capo Malea ma che egli ne ha vista una copia accurata dell’originale. ATENEO Grammatico e sofista nato in Egitto, vissuto poi ad Alessandria e Roma nel III secolo d.C., compose un’opera erudita “I dotti a convito” dove i convitati intrecciano conversazioni che danno modo all’autore di raccogliere una serie di notizie di carattere enciclopedico. Tra queste ricordiamo due descrizioni: padiglione regale e corteo festivo di Tolomeo II e processione trionfale di Antioco IV. Ricaviamo documenti interessanti per conoscere le corti ellenistiche e gli arredi in metalli preziosi oltre che le statue. Ricordiamo anche la descrizione della nave costruita per Ierone II di Siracusa con un pavimento di mosaici con episodi dell’Iliade. QUINTO CAPITOLO: LE GRANDI IMPRESE DI SCAVO Nella ricostruzione della storia dell’arte antichità, dobbiamo tenere conto anche dei materiali monumentali e del loro ritrovamento ai fini dello studio dell’arte nel mondo classico. Lo studio si serve di tre vie diverse: 1. conoscenza delle fonti scritte; 2. conoscenza dei materiali reperiti dagli scavi; 3. criterio metodologico per portare le nozioni a conclusioni di carattere storico. Dal Winckelmann la nostra conoscenza dell’arte antica ha fatto numerosi progressi avendo acquisito, attraverso gli scavi, una notevole quantità di materiale da analizzare. Nel 1733 nasce in Inghilterra, a Londra, la società di dilettanti, un gruppo di uomini appassionati di archeologia e dotati di mezzi di fortuna in grado di portare avanti campagne di scavo. Questi cominciarono a finanziare viaggi ed accodarsi a spedizioni fatte dal governo inglese con intenti colonialistici. I nomi di Clarke, Dodwell e Cockerell sono connessi alle prime spedizioni in Grecia con Pausania alla mano. Non poteva ancora essere definita come attività di scavo ma di scoperta. Perché si facevano gli scavi? L’obiettivo era quello di arricchire e recuperare oggetti preziosi. Si venne a creare un grande mercato intorno allo scavo poiché musei e collezioni private che acquistavano gli oggetti. Dal 1738 al 1766 erano stati intrapresi in Italia gli scavi di Ercolano, e dal 1748 quelli di Pompei (miravano al recupero dell’oggetto più che alla conservazione del sito) che portarono alla luce tesori di pittura e diedero inizio alla moda dello stile pompeiano. Gli scavi ad Ercolano vennero interrotti date le difficoltà che fu creato un villaggio. Gli scavi di Delo sono importanti perché ci danno informazioni sul periodo tardo- ellenistico e sulle pitture parietali pompeiane del periodo. Sono stati ritrovati i precedenti della decorazione pompeiana del primo stile (descritta da Vitruvio). Sempre per iniziativa francese, nel 1879 si compiono anche gli scavi a Delfi, il cui santuario era il più grande dopo quello di Olimpia. A differenza di Olimpia però, in mezzo alle rovine del santuario si era insediato un piccolo paese. Questo rese meno fertili gli scavi oltre alla posizione di Delfi che impediva il formarsi di un humus protettivo poiché era ubicata a mezza costa su una montagna. Si è potuta ricostruire la pianta del santuario grazie ai resti del villaggio più moderno, ai kouroi (Kleobis e Byton), alle metope del tesoro degli ateniesi, ai fregi. Altre spedizioni di scavo  Nell’antica Trysa in Asia Minore dove fu riconosciuto un heroon (area sepolcrale) circondato da un recinto decorato da lastre a rilievo.  Nel mausoleo di Alicarnasso (grande sepolcro monumentale a forma di piccolo tempio) ad opera di un inglese (Newton) nel 1867 e il cui materiale scultoreo risiede al British Museum. Le sculture del Mausoleo sono da attribuire a Skopas, Leochares, Timotheos che secondo le fonti avevano decorato il monumento (solo Skopas è stato però confermato). Buschor formulerà poi un’ipotesi che andrà a spiegare le divergenze stilistiche nel tempo. Nel 1871 Schliemann iniziò gli scavi nella Troade dove, non solo scoprì Troia ma tentò anche di identificare tra gli strati della città quello che corrispondesse al periodo dell’incendio (non identificò il livello corretto). Scavò anche a Micene dove scoprì il tesoro di Atreo e la tomba di Clitennestra, mettendo in luce oggetti d’oro appartenenti alla civiltà pre-ellenica. Schliemann non era un archeologo esperto ma un appassionato che dimostrò, con Omero alla mano, la veridicità delle fonti antiche. Essendo uno scavatore improvvisato andò a distruggere alcune testimonianze irrimediabili. Schliemann ebbe come compagno nei suoi viaggi l’architetto Dorpfeld, le cui ricerche hanno messo in evidenza l’età elladica e micenea nelle isole e nel continente greco. Questi studi furono poi continuati da altri studiosi: Evans si concentrò sullo scavo e sul restauro (troppo aggressivo) del Palazzo di Cnosso, grandioso e intricato; gli scavi italiani hanno messo in luce nella zona di Festo, un palazzo meno sontuoso ma maggiormente distinguibile nelle fasi di costruzione. La Banti andò a rivedere la cronologia del materiale di scavo e giunse a conclusioni più convincenti di Evans che si era basato solo sulla ricostruzione dell’arte pre-ellenica. Altro progresso fu compiuto da Levi che continuò gli scavi e tramite un’accurata osservazione della stratigrafia è giunto a conclusioni cronologiche inconfutabili e spostano la prima fase della civiltà cretese al 2000-1850 a.C. (rispetto alla datazione di Evans 2800-2000 a.C.). Nel 1953 fu decifrata dall’architetto Ventris e il filologo Chadwick, l’alfabeto della lineare B, una lingua pre-greca che identificava l’ultima fase della civiltà micenea. Decisiva fu la scoperta di Blegen nel palazzo di Pilo, di una tabella con iscrizioni relative all’inventario dei vasi. Altre conferme sono giunte da disegni e iscrizioni da Cnosso. Gli scavi italiani misero in luce una villa a Haghia Triada da dove proviene un sarcofago di grande interesse, sia per l’arte che per il culto. Verso la fine dell’800 Si intrapresero gli scavi nel cimitero del Dipylon per approfondire la conoscenza dello stile geometrico (serie di stele funebri del V e IV secolo). Si andava approfondendo la conoscenza dell’Acropoli di Atene. I propilei erano stati inclusi in torri di fortificazione e con la demolizione di queste ultime venne alla luce così tanto materiale da poter ricostruire sia i propilei che il tempio di Athena Nike. Inoltre, fu rinvenuta tutta la documentazione dell’Acropoli arcaica > i Persiani distrussero l’Acropoli e tutti i monumenti esistenti nel 480 a.C. L’Acropoli era l’emblema dei conflitti greco-persiani. Dopo la vittoria definitiva sui Persiani, la nuova generazione iniziò la ricostruzione dell’Acropoli (che sarà poi quella di Pericle). Fu allargata l’area alla sommità dell’acropoli mediante un muro e tra il muro e la roccia furono deposti tutti i resti degli ex-voto (doni che il fedele porta alla divinità; non possono essere distrutti o allontanati dall’area sacra; venivano usati per fare piani di livello battuto o pozzi) danneggiati. Questo riempimento tra muro e roccia fu chiamato colmata persiana e i pezzi in esso rinvenuti sono datati al periodo precedente al 480 a.C. (terminus post quem > cronologia relativa). Questa data segna una svolta che incide in tutti gli aspetti della società greca.  Si passa da società aristocratica a democratica;  Nasce il principio dell’isonomia (eguaglianza diritti e libertà);  Si passa da periodo arcaico allo stile severo (480 a.C.-450 a.C.) Gli scavi della fine dell’800 misero in luce tutti i frammenti dell’Acropoli, che furono catalogati e pubblicati. Il lavoro si poté dire finito con la pubblicazione da parte di un inglese Payne delle sculture arcaiche dell’Acropoli (1936). Dotato di grande intelligenza di lettura d’arte, fece alcune scoperte molto importanti che contribuirono a porre in evidenza la scuola attica come centro di produzione di alta qualità e promotore di nuove invenzioni formali:  AFRODITE DI MARSIGLIA (O KORE DI LIONE)> Scoprì che il torso di una kore proveniente dalla Francia meridionale e conservata a Lione combinava con la parte inferiore di una statua frammentaria trovata nella colmata persiana. Questa scultura si dimostrò appartenente all’Acropoli, mentre fino ad allora era stata ritenuta ionica poiché rinvenuta in una zona di antica colonizzazione ionica e vestita col chitone ionico. PERIODO DI PANIONISMO > vista l’importanza delle colonie ioniche si ritenne di influenza o di arte ionica tutta la scultura di età arcaica trovata ad Atene.  CAVALIERE RAMPIN > combinò la testa Rampin con un torso di cavaliere dell’Acropoli, restituendoci il primo esempio di statua equestre della Grecia. Payne si fa fare un calco della testa del cavaliere molto preciso soprattutto nel punto di rottura che vide poi combaciare perfettamente con il torso dell’Acropoli. A causa del mercato di vendita dell’antiquario molte opere furono scomposte e smembrate. Con il Furtwaengler si aveva quindi l’ultima espressione tipica dell’archeologia filologica che ricostruiva la storia dell’arte attraverso le fonti e le copie della storia dell’arte. Gli archeologi si sono trovati di fronte al problema di studiare tutti i nuovi ritrovamenti e ad ordinarli. Dopo la prima guerra mondiale, lo studio della storia dell’arte antica entrò in una nuova fase. La sosta, provocata dalla guerra, fece sì che gli studiosi si preoccupassero di approfondire i problemi posti dalle opere messe in luce. Se l’Ottocento è stato il secolo della ricerca sistematica e dell’ordinamento, la prima metà del Novecento ha visto iniziare un approfondimento di problemi, un costante tentativo di intendere l’opera d’arte nei suoi valori intrinseci. L’interesse per la problematica storico-artistica si va affievolendo mentre cresce l’interesse per la problematica storica. SESTO CAPITOLO: RICERCHE TEORICHE E STORICISMO NEL NOVECENTO Alla fine del periodo filologico, si trova una figura di studioso che va posta in evidenza: Emanuel Loewy, austriaco, fu il primo a coprire una cattedra di archeologia classica all’Università di Roma. È il primo archeologo che cerca di riprendere quello che era stato uno dei punti fondamentali nella teoria del Winckelmann ossia la ricerca dell’essenza dell’arte. È influenzato dal pensiero positivista diffuso in quel periodo e cerca quindi di porre lo studio dell’arte antica su un fondamento teorico generale; ritiene che alla base della riflessione ci dovesse essere la speculazione teorica. I suoi studi fondamentali sono:  La natura nell’arte greca più antica;  Migrazioni tipologiche. Questi due scritti sono importanti perché riassumono i due punti essenziali della teoria di Loewy: 1. rapporto tra arte greca e vero; Con Loewy si abbandona il concetto di idealizzazione delle forme reali e di istituzione di forme ideali (che superassero la natura) tipico di Winckelmann e si afferma il concetto di realismo dell’arte greca sicuramente più in linea con posizioni storicistiche ben precise. 2. persistenza iconografica, di modelli, idee e schemi nel corso del tempo. L’elemento dell’iconografia veniva ignorato molto spesso dagli archeologi; si doveva tener presente che il fondamento di una determinata produzione è l’artigianato. Non ci troviamo di fronte alla personalità isolata di un artista capace di produrre un’opera d’arte da sé, ma davanti ad un artigiano. Negli artigianati si forma un patrimonio di tradizioni tecniche e iconografiche e nel corso del tempo si giunge ad innovazioni profonde. Dalla persistenza iconografica si hanno esempi nell’arte cristiana nella quale la scena della natività dal periodo bizantino a quello gotico presenta sempre lo stesso schema (madre accanto alla culla del bambino) fino a Pisano che introdurrà nella rappresentazione un contenuto psicologico. Il punto è che finché esiste una forte tradizione artigiana nell’arte, la persistenza degli schemi iconografici è molto forte. Quando si studia una rappresentazione bisogna esaminare la provenienza dello schema iconografico e, dopo, valutarne la posizione storica e il contributo dell’artista. Questo cercò di fare Loewy, non tenendo conto però della distinzione fra schema iconografico e contenuto /forma artistica. La tradizione iconografica può essere rivestita di un’espressione formale differente. Al suo studio segue quello di Julius Lange, il quale si occupò di approfondire il problema del rapporto tra arte e natura attuando una prima revisione delle teorie winckelmanniane sulla base del Positivismo. Il Lange fu il primo ad osservare e definire alcune delle leggi della concezione artistica del periodo più arcaico dell’arte greca:  la frontalità si manifesta nel fatto che ogni rappresentazione subisca uno schiacciamento;  perdita di volume;  mancanza di profondità, la figura appare lineare e simmetrica. Da queste leggi, Lange desumeva le caratteristiche dello stile arcaico. In particolare prese in esame la legge della frontalità e si rese conto di quanto, questa legge, dominasse qualsiasi arte primitiva del tempo (ad esempio l’arte egiziana). Il Lange ritenne la frontalità diretta conseguenza dell’incapacità di avvicinarsi al vero, di esprimere la varietà che il vero porta con sé. Tale conclusione era strettamente legata alla concezione empirica e positivistica dell’Ottocento: l’arte era completamente distaccata dalla personalità dell’artista (il che consiste in un errore così come lo era far confluire tutto nella personalità). Inoltre, il Lange non si accorse del fatto che la frontalità e la simmetria erano diventate due caratteristiche di alto stile nell’arte greca. Giudicando la frontalità come elemento primitivo di incapacità dell’artista, si ribadiva il concetto di provvisorietà dell’arte arcaica (vista come stadio di preparazione, passaggio all’arte classica) Giovanni Morelli andò a richiamare l’attenzione sulla riconoscibilità dell’artista: ogni artista è dotato di un linguaggio, un codice o un particolare (un cifrario). Attraverso il cifrario possiamo determinare la paternità di una determinata opera d’arte (tecnica della pennellata, rappresentazione di un particolare). Se prima l’ideale dello studioso era quello di catalogare ed inquadrare un’opera o un artista senza vedere lo sfondo storico, ora lo storico dell’arte credette di poter limitare la propria attività a definire delle categorie artistiche. Si considerava la classificazione delle opere come fine e non come lavoro preliminare, come strumento. SETTIMO CAPITOLO: PROBLEMI DI METODO Abbiamo definito, in questo percorso, come iniziatore dell’archeologia Winckelmann e come proseguimento e superamento della sua teoria l’archeologia filologica. Al tempo stesso si riscopre il mondo greco anche mediante imprese di scavo. Noi oggi sappiamo, sul mondo arcaico, molto di più di quanto ne sapesse Plinio soprattutto grazie all’affinamento dell’indagine stilistica iniziata da Wickhoff e Riegl. Questa indagine, portata avanti dal Wolfflin, esamina l’opera d’arte nella sua qualità fissando le sue caratteristiche formali allenando l’occhio alla lettura della forma artistica e sensibilità. In ogni artista si può scoprire un processo di svolgimento che cambia da una generazione all’altra. Nell’arte greca non si è in grado di delineare il percorso e lo svolgimento dei singoli artisti ma di un particolare periodo attraverso lo studio dei caratteri stilistici. In questo periodo storico, l’estetica e la metodologia critica crociana e le categorie del Wolfflin sono penetrate nell’archeologia inglese, francese e tedesca. Secondo le fonti, lo stesso Bianchi Bandinelli (allievo di Croce > estetica crociana) è partito dal pensiero crociano sviluppando una sua concezione teoretica nel campo estetico e storico superando la valutazione filologica in funzione di una valutazione critica della genesi dell’opera. Pur inserendosi nella via segnata dal Croce, Bianchi Bandinelli capì da subito che non poteva seguirla fino in fondo. L’identità tra il giudizio critico e il fare storia proclamata dal crocianesimo non appare sostenibile di fronte alla produzione dell’antichità. Il far consistere lo scopo della ricerca storico-artistica con il definire il grado di poeticità di un’opera si dimostra insufficiente di fronte al legame stretto tra opera d’arte e le premesse politiche che ne determinano la creazione. È evidente, inoltre, che la parola creazione debba essere sostituita dalla “produzione” (mentre ricordiamo che la concezione crociana sembra presupporre una creazione artistica che non conosce limiti alla propria intuizione poetica). Ciò che accade nell’archeologia tedesca dopo il passaggio da catalogazione dei fatti ad interpretazione dell’opera, è una fuga verso l’irrazionale e il mitologico a causa della mancanza di base di un metodo storico. In questa fase, emerge la figura di Ernst Buschor, professore di Monaco e uno degli studiosi più in vista per preparazione specialistica e per sensibilità verso la forma artistica. Egli presentò il percorso dell’arte in sei cicli successivi all’ordine prestabilito e chiusi in sé. Secondo Buschor, comprendere storicamente l’opera d’arte significava inquadrarla nel ciclo ad essa pertinente:  Mondo della prescienza > fino al VIII sec a.C. > viene riconosciuta una spontanea intuizione artistica ed un’alta esecuzione tecnica;  Mondo della realtà esistente >secoli VII-VI a.C. > parziale consapevolezza intellettualistica dell’artista poiché nasce una concezione religiosa dell’arte;  Mondo della eccelsa determinatezza > secoli V-IV fino ad Alessandro (influenza Winckelmann) > si formano le premesse per il ritratto;  Mondo dell’immagine e dell’apparenza > fine IV- I sec d.C. > i ritratti più dettagliati sono quelli creati dall’immaginazione e non dal modello (ritratti di ricostruzione);  Mondo dell’artifizio > I-III sec d.C. > la statua non è sentita come cosa viva ma come oggetto d’arte e si produce un’opera che serva ad ornare la casa per il piacere di avere tra le mani un bell’oggetto;  Mondo dei segni o simboli > III-V sec d.C. > le statue diventano statici monumenti che non esprimono la vita esteriore o la vita dello spirito ma solo la situazione sociale e la dignità di chi domina. Secondo questa costruzione, ogni civiltà passa attraverso questi sei cicli ed in uno di essi trova la sua più compiuta espressione. Questo irrazionalismo appartiene ad una delle tante costruzioni fatalistiche della storia (il mondo retto su una sistematica preordinazione) in cui è caduta la cultura germanica. Questo tentativo del Buschor rientra nell’indirizzo della scuola “morfologico-culturale” secondo il quale ogni civiltà esprime un determinato aspetto del mondo e l’uomo dà forma ad uno di questi vari aspetti. Tutte le osservazioni del Buschor diventano inefficaci nel momento in cui si analizza l’appartenere ad un determinato ciclo; dato che i sei cicli si ripetono all’infinito, ogni civiltà che si sussegue doveva trovare la propria espressione artistica nel ciclo successivo. Dopo il glorioso periodo della scuola filologica, anche nella ricerca della Germania è mancata la base di un metodo critico e storico, e di un’estetica non accademica. Il difetto è stato quello di voler incasellare la storia entro rigidi sistemi preordinati. Il pensiero del Croce influenzò Sedlmayer, della scuola viennese, che risalì al concetto di struttura: qualcosa che legasse e fosse comune a tutte le opere d’arte, finendo per cadere, però, in un determinismo razziale ed etnico. Queste ricerche di struttura sono state perseguite da altri studiosi senza giungere ad alcun tipo di conclusione. Nel definire la storia dell’arte, bisogna prima definire l’opera d’arte nella sua storicità individuale e poi in rapporto con il suo determinato ambiente. In ogni opera bisogna condurre una duplice ricerca: da quali schemi iconografici discende e in che cosa tali schemi vengono (o no) innovati; da quali premesse ideologiche viene determinato il contenuto. Va precisato, però, che è illusoria la ricerca di un metodo scientifico poiché il fatto artistico non è comprensibile con i metodi delle scienze esatte. In Germania rimasero ancora a lungo le categorie e gli schemi del Wolfflin ignorando così la ricerca della personalità artistica. Ad esempio, per tutto il periodo arcaico ci si era limitati a suddividere lo stile in tre scuole: dorica, ionica e attica. Molto spesso questi schemi sono risultati ingannevoli: la Kore di Lione definita ionica, è stata poi attribuita al mondo attico dal Payne così come la testa Rampin. Dopo il fallimento di queste suddivisioni, si è iniziata la ricerca delle individualità artistiche per sostituire al riconoscimento dell’opera collettiva quella del Maestro. Ma anche in un secondo tempo anche la ricerca della definizione di maestri ha degenerato un facile schematismo privo di valore critico. Con queste premessi possiamo definire nel corso del tempo i lineamenti di una ricerca della storia dell’arte:  classificazione e inquadramento cronologico dell’opera d’arte attraverso una ricerca filologica con l’aiuto di testi letterari ed epigrafici o materiale archeologico;  indagine storica sulla base del materiale classificato per ricostruire lo svolgimento della produzione artistica e individuare le forze motrici che determinano quello svolgimento. Per giungere alla storicizzazione dei fenomeni occorre ricondurre lo svolgimento della storia dell’arte ai fatti della società del suo tempo. Bianchi Bandinelli sostiene che l’opera d’arte sia un’interpretazione storica della forma. L’arte è espressione di gruppi socialmente attivi (secondo un approccio sociologico) e ogni opera è veicolo di un messaggio, prodotto di circostanze economiche (teorie di Marx) nonostante ci sia chi sostiene che l’arte sia estranea alle contaminazioni della sfera politica ed economica. Pur essendo molto influenzato dalle teorie marxiste, Bianchi Bandinelli non cade nell’errore di ridurre l’arte e la storia al mero fattore economico: tutto dev’essere inserito in un contesto storico (Chi ha commissionato l’opera? Chi l’ha prodotta? L’opera com’è?) tenendo conto sia dell’approccio filologico (kunstwollen, stile e fonti) sia dell’aspetto economico (l’opera viene commissionata e per questo è un prodotto). Bianchi Bandinelli ci tiene a sottolineare che l’opera d’arte sia espressione di un gruppo socialmente attivo ma non necessariamente dominante. La sua teoria apporta delle novità per il suo approccio sociologico:  l’arte è libera di esprimersi in un ambiente sociale;  è il prodotto dell’espressione dell’artista;  è il risultato delle conseguenze di circostanze economiche, storiche e sociali. Gli archeologi si attengono alla ricerca storica ponendo l’indagine formale del prodotto artistico a servizio di una conferma della cronologia e della ricostruzione di contatti commerciali dai quali si possono dedurre anche conclusioni di storia politica e, ovviamente, economica. Il problema complesso della storia dell’arte deriva dalla natura stessa dell’evento artistico, il quale è da un lato il prodotto storico di una civiltà, ma anche espressione di un bisogno indistinto, in un certo senso biologico, della natura umana. Nell’arte non esiste progresso ed è qui che risiede l’universalità del suo linguaggio. Per comprenderlo bisogna storicizzare il prodotto artistico e sottoporlo a giudizi di valore seguendone gli sviluppi nella sua esperienza. La storia dell’arte antica è un’indagine della formazione degli elementi che costituiscono la forma artistica nei vari periodi storici: interpretazione, definizione critica dei valori espressivi, valutazione del significato sociale e culturale. APPUNTI FERRARA ARCHEOLOGIA TEORICA Secondo Giannichedda, l’archeologia è una disciplina pratica che studia oggetti concreti per la ricostruzione storica. La sua, non è un’archeologia del monumento, della statua ma dell’uso pratico. I protagonisti non sono i manufatti ma gli uomini che li hanno realizzati; l’archeologo è una sorta di regista della ricostruzione storica (il film). Negli anni 30 emerge la figura di Gordon Childe che, nei suoi studi di carattere antropologico, riesce a trovare una lettura da archeologo. Si aveva difficoltà a comprendere quali fossero i cambiamenti culturali e grazie a lui si darà una definizione di cultura utile all’archeologia. I gruppi culturali sono quindi i resti, gli utensili, i riti funebri o gli ornamenti. Secondo Childe ci sono degli elementi caratterizzanti di ogni cultura; sarà proprio grazie a questa sua teoria che riuscirà a comporre un mosaico di culture diverse, dando nomi e storie a popoli che facevano parte della storia degli analfabeti (la preistoria) ossia quei popoli di cui non si conoscono fonti scritte. Negli anni 60 nasce la New Archaelogy, il prodotto di una cultura non europea, un’archeologia materialista. Prende vita nei campus americani trasformandosi in un vero e proprio movimento culturale che diventerà espressione di un nuovo tipo di approccio, quello speculativo. Si contrappone all’archeologia tradizionale (antiquaria, archeologia filologica). Viene anche definita archeologia processuale: l’archeologia si fonda su una modalità processuale ossia un processo evolutivo in funzione dell’ambiente. L’ambiente condiziona le scelte politiche, tecniche e sociali poiché la società è frutto del processo evolutivo legato all’ambiente e le caratteristiche della società sono conseguenze dirette dell’ambiente. Le critiche mosse dalla New Archaelogy a quella tradizionale si riassumono in tre punti: 1) l’archeologia tradizionale è incapace di leggere il funzionamento della società; 2) considerava l’opera solo nella sua bellezza senza valutare i dati storici a disposizione; 3) non aveva una base teorica (criticano l’eccessiva generalizzazione sulle società antiche poiché non è dimostrabile). I new archaeologists portano avanti degli esperimenti sociali sul comportamento umano: non si limitavano all’etnografia (studio delle società) per capire come funzionavano i popoli più antichi, ma sperimentavano replicando i procedimenti antichi per comprenderli, entrando realmente a contatto con quel tipo di società. Il concetto fondamentale di Binford si basava sulla teoria del medioraggio: si cercavano collegamenti tra società presenti e passate attraverso degli esperimenti. Si è dimostrato che più si è lontani
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