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riassunto libro l'arte nello spazio urbano, Appunti di Storia dell'arte contemporanea

Riassunto del libro l'arte nello spazio urbano, L'esperienza italiana dal 1968 a oggi Arte pubblica: termine che evoca esperienze molto diverse fra loro, dalle operazioni politiche ad altre più ludiche, progetti di trasformazione effimera di luoghi e paesaggi, azioni partecipative, piccoli gesti quotidiani portati all'aperto, forme di esplorazione attiva dei territori. Ma qual è stata la via italiana a questa pratica artistica? Gli artisti hanno seguito molteplici strade, reinventando il rappor

Tipologia: Appunti

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Scarica riassunto libro l'arte nello spazio urbano e più Appunti in PDF di Storia dell'arte contemporanea solo su Docsity! lOMoARcPSD|12344916 L'ARTE NELLO SPAZIO URBANO di Alessandra Pioselli Capitolo 1 1. La crisi della città negli anni sessanta Lo scenario è importante per delineare la condizione metropolitana dove gli artisti agiscono: le esperienze artistiche in strada attorno al 1968 confluiscono nella crisi sociale e urbana che nasce da trasformazioni socioeconomiche e culturali, ma anche di conflitti esplosivi. Gli anni '60, in Italia, furono scanditi dalle lotte operaie e per la casa, mentre i segni dell'insoddisfazione studentesca si manifestarono già nel 1966. L'Italia del '68 è il paese in cui il fenomeno durò più a lungo, subendo un effetto drastico a partire dalla strage di piazza Fontana a Milano nel 1969. L'Italia mutò molto rapidamente durante il boom economico, anni in cui ci fu la transizione del paese da contadino a industriale. Inoltre, anche l'improvvisa industrializzazione, l'abbandono delle campagne e dei monti, lo spopolamento delle aree e la migrazione di massa verso le grandi città modificarono il paesaggio italiano in vent'anni. L'opposizione dei gruppi influenti di potere economico-politico, attorno alla pianificazione territoriale, bloccò le riforme urbanistiche, lasciando il posto all'espansione urbana e alla speculazione edilizia (settore che divenne strategico per la crescita economica e per gli interessi politici). I suoli accrescono smisuratamente di valore passando da agricoli a edificabili, infatti il latifondo urbano si formò negli anni '50 e si accentuò negli anni '60 a causa della crescita caotica delle aree metropolitane. LE città colpite da questo processo di crescita edilizia furono Milano, Napoli, Torino e Roma, processo che portò all'aggressione di pianure e zone interessante dall'espansione del turismo. Nel secondo dopoguerra l'Italia fu l'unico paese d'Europa a rinunciare alla ricostruzione della città e a marginalizzare il piano urbanistico. Nel 1962 venne elaborata una riforma urbanistica dal ministro democristiano ai Lavori Pubblici Fiorentino Sullo, per porre dei limite alla rendita fondiaria privata, vincolando l'espansione delle città alla pianificazione pubblica. Il progetto venne bloccato e ripreso dopo la frana di Agrigento del 1966 e nel 1967 venne approvata la non risolutiva legge ponte. Negli anni '60 le riforme mancate portare ad una espansione dell'abusivismo che continuò nei decenni successivi a causa della politica dell'intervento delle mafie. L'aumento del valore dei suoli influì sul prezzo e sulla scarsa qualità delle case, lasciando poco spazio alla vivibilità urbana e lasciando che le periferie crebbero prive di infrastrutture. Negli anni '70 si costruirono 23 milioni di vani per una popolazione cresciuta solamente di 2 milioni, ma l'edilizia pubblica non superò la quota del 10%. Alla fine degli anni '50 il reddito pro capite degli italiani era aumentato del 60%, ma il divario tra spesa privata e pubblica fu sempre più grande: quella privata di automobili, elettrodomestici etc) fu 5 volte superiore a quella pubblica per scuola, sanità e abitazioni a uso sociale. Nel novembre 1969 con lo sciopero generale dei lavoratori, si aprì anche la questione abitativa e si richiese un equo canone e investimenti dell'edilizia pubblica. Nel 1971 arrivò la legge sulla casa che, però, lasciò irrisolti i problemi. Le lotte per la casa furono un momento di partecipazione popolare: disuguaglianze dello sviluppi economico italiano che avevano condizionato la crescita della città. A causa del risanamento immobiliare le periferie e i centri storici stavano espellendo i ceti popolari, facendo diventare gli spazi urbani il luogo del conflitto. La lotta per la casa divenne il riassunto della lotta di classe che lesse il confine tra i luoghi del potere e quelli dell'emarginazione. Questa era la condizione della città italiana con cui dovettero confrontarsi gli artisti decisi a calarsi nel sociale. 2. Modelli di mostre e happening nello spazio urbano Nel 1967 Eliseo Mattiacci presentò l'opera Tubo: 150 m di tubo di lamiera, smaltata di giallo, percorse le strade di Roma fino ad arrivare alla galleria La Tartaruga. L'opera, a differenza della lOMoARcPSD|12344916 l'azione caricata di un peso e di un'incidenza sociale. Il risultato è che l'arte rimane artistica e non si fa di tutti. 3.Posizioni militanti tra arte e politica A Como, Davide Boriani rivendicò la necessità di richiedere alle amministrazioni comunali un'effettiva politica culturale così che l'estemporaneità degli interventi fosse sostituita da un radicamento nel contesto urbano. La Proposta per Lissone, scritta nel 1968 da Boriani e Alik Cavaliere, i dibattiti di Reggio Emilia e il convengo di Suzzara ripresentarono l'incognita dell'affrancamento dell'arte dall'elitarismo per trovare una nuova dimensione di operare che permetta di entrare direttamente a contatto con la società. Sostenne, insieme al Gruppo T che le opere dovessero essere modelli di laboratorio e fase di una ricerca sperimentale sulla comunicazione estetica che si sviluppa nel contesto delle mostre e del mercato. Dalle ricerche percettive di Arte Programmata che considerano l'opera un exemplum con finalità didattiche e sociali, stavano derivando opzioni che integreranno tali premesse ad altri ambiti della progettazione e della società. Il Gruppo T zero optò per la città come luogo operativo perché come sistema di informazione e di comunicazione offre l'opportunità di verifica e l'integrazione estetica. Questa linea progettuale, metodologica e didattica emerge negli anni '60 ed è alternativa agli ambienti e alle azioni di derivazione pop o povera e al modello performativo dell'happening. Allo spostare la creatività nella comunicazione visiva, nell'insegnamento e nella progettazione partecipata, si esplicitò anche una ricerca dell'interlocutore con le amministrazioni pubbliche che accolgono proposte di gestione cooperativa della cultura integrate nel territorio. A metà degli anni '60 la speranza si concentrò con l'avanzamento della Sinistra e con le leggi sul decentramento amministrativo. Boriani contribuendo alla trasformazione del Premio Piazzetta di Sesto San Giovanni cercò di testare la convergenza tra la pratica creativa e la politica amministrativa del territorio. L'argomento della critica ai luoghi e ai discorsi del potere culturale si fece più sensibile in prossimità delle occupazioni del 1968. Pistoletto fu coinvolto nella stesura di un manifesto in occasione della rassegna del '68, dove invita le persone a collaborare alla XXXIV Biennale di Venezia sulla base di un rapporto non competitivo. L'ipotesi di portare l'arte nella vita era per Pistoletto diversa dalla progettualità di artisti come Boriani, infatti tra i componenti dell'Arte Povera solo Pistoletto e Piero Gilardi portarono avanti una tradizione creativa comunitaria anche con attori estranei ai luoghi istituzionali dell'arte. La decostruzione delle ragioni autoriali e delle pratiche avvenivano con il metro dell'opera processuale, performativa, concettuale, smaterializzata, mentre le gallerie cercavano nuove logiche e nascevano nuovi spazi. C'è un passaggio tra il "fuori" e il "dentro" che è dialettico e guarda agli artisti che lavorano nella città intesa come ambiente sociale. Le istituzioni pubbliche d'arte moderna e contemporanea sono molto poche in questo periodo e non intervengono nello spazio urbano. Le manifestazioni in città (paragrafo precedente) nascevano non per volontà degli artisti, i quali le promuovevano, ma per volontà di amministrazioni locali. Il "fuori" non era per forza la strada, come dice Lea Vergine, non basta l'azione in piazza per cambiare i rapporti. Nel '68 il dibattito sulle riviste riguardo alla misura politica dell'arte che si confronta con i movimenti sociali vide artisti e critici trattare per le occupazioni studentesche e per la Sinistra extraparlamentare. Il '68 rese improrogabile una presa di posizione attorno al ruolo dell'artista, rendendo le cose complicate. Ci sono due segni problematici di fronte all'autonomia della ricerca individuale e l'impegno politico: uscire dal sistema dell'arte e sposare la causa del tout court ("per farla breve"), oppure separare la sperimentazione visiva rifiutando di azzerare l'azione estetica nell'azione politica. Pensare in termini di superamento dell'arte nella creatività collettiva era un'altra strada che sarebbe maturata dopo il '68. Piero Gilardi prende posizione affermando che intende lasciare la metafora dell'arte per partecipare alla lotta rivoluzionaria avviata dai movimenti del '68. La soluzione di non realizzare più mostre e opere venne presa nel 1969, in seguito al tentativo di proporre agli artisti la creazione di mezzi autonomi sia espositivi che informativi. Dal '69 l'artista si impegna ad essere presente lOMoARcPSD|12344916 nell'azione politica e dal 1970 il Collettivo Lenin si impegnò nella produzione di materiali di propaganda e venne contemplato il recupero della tradizione satirica italiana di fumettisti socialisti come Podrecca, Galantara e Scalarini. Il graffitismo americano diede un input meno narrativo e più fantastico alla produzione visiva dei militanti con capacità grafiche che Gilardi chiamava "esperto rosso". Dopo la costruzione del Collettivo La Comune del 1974, ci furono proposte di teatro di strada, murales e striscioni che accompagnarono le manifestazioni politiche e di lotta per la casa. Il 1974 fu una data rilevante per Gilardi perché è l'anno in cui si iniziò a rivolgere uno sguardo critico a sé stessi, alla vita quotidiana, ai rapporti al di là della fabbrica e allo schema capitale-lavoro. La militanza politica iniziò ad essere affiancata da un'attività di animazione in collaborazione con équipe mediche per le persone affette da disturbi psichiatrici e dal 1976, nel quartiere Aurora, per gli anziani, i disabili e le donne. Pochi anni dopo il quartiere venne istituito come parte della rete dei Centri d'incontro di Torino, affidando le attività culturali alla cooperativa con cui lavorava Gilardi. La Sinistra extraparlamentare e l'Avanguardia Operaia non comprese i bisogni culturali di cui donne, giovani e cittadini erano portatori, in quanto erano concentrate sull'obbiettivo della lotta politica, basata sulla trasformazione della società. Solo attorno al 1974 con la nascita dei circoli culturali e dei centri sociali, la cultura divenne oggetto di dibattito politico. In questo momento nacquero sia i centri sociali (bisogni socioculturali) sia i gruppi e collettivi d'artisti (sperimentano l'animazione). Nel 1973 in un terreno della periferia romana, Gianfranco Baruchello avviò Agricola Cornelia, un'azienda agricola che allevava animali e coltivava verdure chiedendosi se la sua azienda fosse tanto artistica quanto i movimenti di Land Art che sono fatti per modificare la superficie. L'opzione era molto diversa da quella di Gilardi, anche se Baruchello era iscritto alla Sinistra extraparlamentare e quindi guardava l'istanza politica su un altro piano. Nel caso di Agricola Cornelia c'è un test ecologico del rapporto etico con la natura sotto il profilo della sostenibilità economica, in polemica con quella che Baruchello considerava la spettacolarità estetizzante della Land Art. L'animazione praticata da Gilardi nacque in ambito teatrale e pedagogico. Dal 1969 Torino fu centro propulsore di esperienze nei quartieri e nelle scuole con la partecipazione di figure importanti. Dal 1975 la pubblica amministrazione della città sostenne la creazione dei centri d'incontro, di strutture culturali e di altre iniziative incentrate sul miglioramento della qualità di vita dei quartieri. L'attività di Gilardi con il Centro Aurora coinvolse circa 1500 persone e il punto culminante dell'occupazione fu la parata di quartiere per il Carnevale del 1980. Dopodiché iniziò la burocratizzazione delle strutture decentrate, la diminuzione della partecipazione e la dispersione dei gruppi politici. Gilardi, nonostante la distanza dal sistema dell'arte, non rinunciò all'espressività, ma alla riproduzione degli oggetti e all'autorialità. La creatività doveva essere prodotta dalle relazioni, mentre l'espressività divenne il mezzo di auto-rappresentazione delle soggettività entro il binario della lotta di classe (esempio: l'invenzione della festa di carnevale che guarda alla collettività). Riemerge anche il tema della micro emotività che Gilardi approfondì a metà degli anni '60 e che si sviluppò nella ripresa della dialettica uomo-natura e uomo-tecnologia. 4.Azioni effimere, mappature,derive,antropologie A Napoli nel 1969 venne postato un annuncio in cui si chiedeva la presenza di un filosofo per sostare in un giardino pubblico per un certo periodo di tempo a disposizione di coloro che avrebbero posto delle domande. A questo annuncio parteciparono circa 40 filosofi, ma una volta selezionato l'incaricato, l'azione non venne fatta ma l'inserzione sancì l'esordio della Galleria Inesistente. Altri eventi effimeri creati da questo gruppo furono l'incendio di copertoni d'auto sulla cima del Vesuvio nel 1969 che fu scambiato per un'eruzione, provocando il panico nella popolazione oppure l'azione del lancio di braccia di plastica da un aereo o l'aggiunta di un leoncino a quelli in pietra del Monumento ai Martiri. Si tratta di azioni che creavano un humor comico per scuotere gli animi dei napoletani dalla pigrizia, più che guardare alle questioni sociali. L'atto di inserire oggetti nel tessuto urbano fu praticata negli stessi anni da Franco Mazzucchelli lOMoARcPSD|12344916 nell'Italia settentrionale, traendo una ricerca diversa, ma destabilizzante. Dopo varie prove svolte nel 1964, Mazzucchelli nel 1968 posò un'elica sinuosa sulle dune della Camargue. Fu il primo della serie di gonfiabili in pvc che l'artista chiamò Art to Abandon, lasciando che apparissero senza preavviso per le strade e che venissero portati via dalla gente o distrutti dal tempo. A differenza degli oggetti gonfiabili pop degli UFO Urboeffimeri (1968) (esempio di esperienze radicali), oggetti che fungevano da veicolo per la comunicazione pseudopubblicitaria, gli elementi di Mazzucchelli meno irriverenti e più interattivi furono messi a disposizione della gente. L'artista fotografò i movimenti dei passanti e registrò le loro reazioni, intervistandoli. I gonfiabili primeggiavano nella città, effimeri, contro l'immutabilità dell'architettura costruita di forme geometriche oblunghe, coniche, spiraliformi studiate in rapporto alla conformazione dello spazio che le avrebbe ospitate. Il Grande cocomero in piazza Meda a Milano (1970) fu un'opera che dimostrò la dispersione per strada degli elementi di cui era costruito. I gonfiabili si presentavano come motori di un happening in cui le regole erano stabilite dall'accidentale beneficiario. Non a caso, attorno alla metà degli anni '60 artisti e architetti europei e americani sperimentarono l'uso dei gonfiabili che suggerirono dinamiche urbane fluide e ludiche. L'emergere di realtà antiespressive e l'attenzione alla morfologia urbana avvicinarono l'architettura italiana e internazionale all'intenzionalità di alcuni artisti. La sfiducia nel Movimento Moderno, nelle discipline progettuali monopolizzate in Italia dalla politica, la consapevolezza dello stato di crisi della città, portò alla trasformazione dell'architettura in comportamento, ovvero l'individuo diventa produttore del proprio ambiente. Per questo, l'aspetto performativo divenne modello fondamentale di comportamenti non alienanti, per liberare l'uomo, come scrive Andrea Branzi, dai parametri formali e morali che impediscono all'individuo di realizzarsi completamente. Le utopie urbane dei radicali riflettono l'idea di una società plurale e diversificata nelle soggettività non omologate. A Germano Celant si accoglie il termine "radicale" applicato a tendenze riguardanti l'architettura e il design, trovando affinità con la processualità delle opere povere, pensate per il libero progettarsi dell'uomo. Le visioni radicali si riassumono nel design che si rivolgeva all'abitare privato come luogo dell'elaborazione creativa dell'individuo. La posizione di Riccardo Dalisi fu eccentrica in quanto distante dall'immaginario pop e dalle predisposizioni comportamentali e perché divenne una vera e propria animazione con utenza disagiata rispetto alla forma dell'happening. La creazione della Global Tools fondata nel 1973 dai progettisti radical, doveva essere una sorta di scuola per stimolare il libero sviluppo della creatività individuale. Vi era l'intenzione di pianificare dei seminari aperti al pubblico sul corpo, sulla costruzione e sulla comunicazione, i quali però non vennero realizzati anche se furono il segno di uno spostamento verso un'azione didattico-laboratoriale che avrebbe coinvolto le persone in una progettualità più grande della performance urbana. Negli anni '70 le strategie dadaiste e provocatorie della Galleria Inesistente vennero scavalcate dall'esigenza di far emergere una creatività sociale che consentisse di setacciare la realtà metropolitana e il suo substrato antropologico e popolare. Ugo La Pietra fu una figura importante in questo campo perché contribuì a comunicare sulle pagine delle riviste In, Progettare Inpiù, Brera Flash e Fascicolo le esperienze dei radicali e degli artisti impegnati sul tema della città. La Pietra, a differenza dei compagni architetti, mescolò esperienze pittoriche e influenze austriache più che inglesi. Nel 1967 avviò la ricerca sul Sistema disequilibrante che si concluse nella creazione di dispositivi immersivi tecnologici o di strutture praticabili che avrebbero isolato l'individuo dal contesto per fornirgli stimolazioni spazio-temporali inconsuete (come nel tunnel realizzato per Campo urbano). L'interesse per le variazioni introdotte in un sistema da un elemento di disturbo confluì nelle ricerche pertinenti al sistema disequilibrante dalla scrittura segnica degli esordi pittorici e dalle tessiture organizzate in tensioni tridimensionali dal 1966-1967. La Pietra, con le esplorazioni intraprese dal 1969, iniziò a inventariare i segni dissonanti presenti in contesti disciplinati: I Gradi di libertà (1969-1972), un ciclo di proposte di attività culturali nelle biblioteche decentrate di Milano che attraversarono le zone periferiche fino lOMoARcPSD|12344916 nel sociale e nei cicli di incontri che si tennero al Centro internazionale di Brera (1976-1977). L'avanzamento del PCI alle elezioni regionale del 1975 e alle politiche del 1976 ebbero modo di dare speranze riguardo il cambiamento e alla politica di decentramento appoggiata dalla Sinistra. Il PCI sostenne il decentramento, considerandolo fattore della presenza attiva dei cittadini nelle sedi in cui si forma la volontà politica e amministrativa. Crispolti lanciò l'appello alle forze politiche riguardo l'accoglienza dell'operatività estetica partecipativa che si considera uno strumento territoriale. Con decentramento si intende uno strumento di realizzazione della democrazia partecipativa, ma anche il superamento del rapporto produttore-fruitore e il ribaltamento del rapporto tradizionale centro-periferia. Per molti significava essere disposti a partecipare come prospettiva operativa cooperativa. Si cercò di sperimentare una gestione sociale della cultura, cercando di integrare le istituzioni democratiche, in quanto si valuta che la collaborazione degli operatori con le istituzioni avrebbe evitato posizioni astratte. Questa discussione divenne per l'Italia meridionale e per gli operatori una battaglia culturale e politica rilevante. 3.Riccardo Dalisi: architettura d'animazione Le esperienze di Riccardo Dalisi superarono la dimensione effimera dell'happening per avviare una progettazione fondata sul rapporto diretto e sociale. Le opere di Dalisi furono luoghi e non il corpo indifferenziato della cittadinanza (collettività che Tommaso Trini denunciò come entità astratta). Dalisi alla fine degli anni '60 iniziò a lavorare al quartiere Traiano, portando gli studenti a confrontarsi e a scontrarsi con i bambini del quartiere. In questa realtà trovò la rappresentazione delle condizioni di crisi della città e di Napoli. Il quartiere Traiano venne realizzato tra il 1958 e il 1960 durante il commissariamento del Consiglio comunale che, sciolto nel 1958 per gravi problemi amministrativi, fu il risultato di tale politica. Il quartiere diventa il luogo dei ceti più bassi nonchè il più grande quartiere di questo tipo di Napoli. Tra il 1969 e il 1971 Dalisi decise di progettare un asilo, ma solo nel 1971 si trasferì nel quartiere con gli studenti universitari, la struttura per l'infanzia era stata pensata, ma non realizzata. A differenza di Giancarlo De Carlo che criticò l'operato del quartiere, Dalisi guardò alla didattica e avviò un'esperienza creativa con i bambini attraverso il disegno, l'invenzione di oggetti e di strutture tridimensionale e spaziali, utilizzando tecniche e materiali poveri. L'incontro con questo mondo senza convenzione, fu concepito da Dalisi come un rigeneratore per l'architettura e la didattica. Lo spaesamento urbanistico del Traiano è esito di una visione funzionalista dello spazio e per Dalisi questo è stata un'occasione per studiare le connessioni tra spazio architettonico e società, ma anche la reale portata delle tecniche di intervento e dei metodi di progettazione. Invece, l'incarico fu visto come un'operazione professionale (guadagno e occasione per disegnare dei buoni edifici). Una volta completato il quartiere venne abbandonato a sé stesso. Le lotte per la casa che Napoli visse, furono per Dalisi un momento di verifica dell'uso dello spazio: fu osservatore partecipe interessato ad altre zone disagiate. La pratica dell'architettura d'animazione mise in discussione la didattica universitaria in sintonia con le istanze del 1968. Dalisi spinse gli studenti a mettersi alla prova in una situazione concreta e difficile. Vari furono i problemi che Dalisi e gli universitari dovettero fronteggiare: scoppiarono tensioni tra i bambini e gli studenti e Dalisi. Si ricorda la devastazione del laboratorio da parte dei bambini, anche se l'intento dell'animazione era di liberare il potenziale creativo dei bambini, portandoli a confronto con lo spazio. Le tensioni furono manifestazione della mancanza di vivibilità in un luogo privo di mezzi. Riuscendo a chiarire l'esperienza, Dalisi percepì che l'immersione del quartiere avvenne attraverso l'immaginazione creativa dei bambini. Nell'infanzia di questi bambini, Dalisi ricercò l'ingenuità con la speranza di trovarla all'interno della società e di riconosce la sua sensibilità nel considerare i bambini soggetti attivi e nel valorizzare la reciprocità dell'azione educativa. Si tratta di sperimentare sistemi linguistici per la promozione della creatività popolare e quindi di dare a tutti il modo di esprimersi graficamente e spazialmente e di contribuire alla formazione del proprio spazio. La partecipazione consiste nell'accessibilità a un processo di maturazione creativa ed emancipatoria dei quartieri sfavoriti. Il tentativo di lOMoARcPSD|12344916 realizzare laboratori di produzione fu la reazione al bisogno di dare un risultato concreto e tangibile e se questo lavoro riesci, l'animazione dimostra di aver avuto uno sviluppo e di aver concorso a una crescita del quartiere. La produttività divenne una proposta politica che consisteva nel ridare importanza alla microeconomia appartenente alla quotidianità napoletana, alla vitalità preindustriale disprezzata e abbandonata dalle classi dirigenti. Per questo, Dalisi decise di guardare alla questione urbanistica in maniera socioeconomica e politica. Il valore dato alla tecnica povera e popolare e alla visione ingenua dell'infanzia, presuppone un'idea di cultura, di società e di economia a partire dalla dualità centro-periferia, alto-basso, produttività tecnologica-povertà che implica slittamenti e traduzione che segnano la ricerca dell'architetto. La realizzazione del quartiere Traiano si concluse nel 1974, ma Dalisi proseguì la ricerca sulla cultura popolare e le esperienze di produzione creativa collettiva: a Ponticelli nel 1975 con gli anziani nei cortili delle vecchie case contadine, nel centro storico di Napoli, nei quartieri Siberia e Marianella. 4.Il caso Piazzetta, Sesto San Giovanni, 1973-1976 Esperimento di congiunzione tra l'operatività artistica e la comunità urbana. Questo gruppo di artisti mirò a mettere a confronto diretto l'arte e la cittadinanza, esponendo i quadri in concorso in piazza. Nel 1973 all'esposizione all'aperto si affiancarono 8 interventi che sostituirono alla relazione arte-società l'incontro con i tre luoghi emblematici della produzione sociale: il quartiere, la scuola e la fabbrica. Sesto San Giovanni era città di impegno culturale, sociale e politico alimentato nel tempo dalle lotte partigiane e operaie. Il contesto in cui si formarono gli artisti del Piazzetta, provenivano da realtà operaie e di Sinistra. Dal 1969 Giuliano Barbanti seguì attività creative con i bambini (sperimentazione didattica). Barbanti, in occasione dell'edizione Piazzetta 73, tenne insieme a Mario Mondani un laboratorio didattico con i bambini (storia inventata e cavallo-gioco per un giardino pubblico) (vedi testo a pag 50). Vennero inoltre raccolte le testimonianze di ex abitanti e si disegnò la topografia delle baracche, trasferendo l'attenzione sulla condizione di vita degli immigrati soggetti alle contrazioni dell'industria e agli interessi del mercato immobiliare. Il Centro Culturale Ricerca, con il pittore Vitale Petrus, realizzò un murale collettivo, l'assalto al muro fu imponente e il tema sfuggì di mano, per questo motivo il risultato fu incoerente per ammissione degli stessi proponenti che stimarono positivamente l'intervento dal punto di vista della liberazione della creatività collettiva e della proposta politica di lotta considerata come mobilitazione di massa. Si parla di limite quando si sceglie di lasciare che il bisogno delle persone si esprima liberamente, attraverso l'uso di strumenti tecnico-espressivi. Il Collettivo Lavoro Uno nacque a Milano nel 1972-1973 con lo scopo di rapportarsi alla realtà dei lavoratori e a quella popolare, propose la realizzazione di un progetto in due parti (vedi testo a pag 51-52). Tra i membri del gruppo ci fu la consapevolezza che gli artisti avrebbero dovuto entrare meglio nella realtà operaia e il vandalismo fu sintomo della scarsa presenza sociale dell'artista, sentito come un corpo estraneo non produttivo. L'operazione non tenne conto delle esperienze dei singoli, del loro vissuto e delle soggettività. Barbanti conobbe Boriani durante l'occupazione della Triennale di Milano nel 1968 e pensò di coinvolgerlo nell'esperienza di Sesto San Giovanni. Dall'incontro con Boriani nacque l'idea di un comitato promotore del Piazzetta che funzionasse da struttura permanente in grado di portare una progettualità capace di inserirsi nelle iniziative sociali e urbane. Il comitato dichiara che se si parla del ruolo sociale dell'artista e di cultura alternativa, deve essere nella misura in cui l'uno e l'altra vengono creati, ovvero in condizioni di parità, all'interno del movimento dei lavoratori, intorno a problemi concreti e politicamente funzionale all'organizzazione collettiva, concludendo che il modo di fare arte si fonde con gli interessi politici. Il comitato scelse la strada del rapporto con le strutture pubbliche capaci di esprimere le esigenze dei lavoratori. Lo sguardo si ampliò all'intera città, punto di frizione incisivo. L'amministrazione comunale accolse il mutamento di rotta della manifestazione facendo suo l'avanzamento culturale di tutti i partecipanti per una gestione nuova e democratica della città. Nel 1974 emerse il tema dell'incomunicabilità che si precisò nella volontà di un luogo lOMoARcPSD|12344916 di ricostruzione della vita sociale. Il progetto definitivo di sistemazione polifunzionale dell'area recepì le indicazioni degli abitanti del quartiere (videotape, schede-questionario). Il progetto creò un ambiente ricco di problemi, capaci di restituire la contrastante realtà quotidiana del quartiere. Le pareti prive di finestre vennero usate per l'esecuzione di grandi murales sulla storia di Sesto San Giovanni, mentre le parti dei muri più vicine al suolo riservate ai contributi della popolazione (sorta di lavagna con manifesti, testimonianze scritte, proiezioni). Lo spazio pubblico non realizzato per mancanza di fondi, venne colmata dalla presenza reale dei cittadini. Sempre nel 1974 al comitato del Piazzetta venne commissionato il progetto del parco Carlo Marx su un'area abbandonata destinata al verde. Varie idee arrivarono dagli studenti delle scuole: capanna, rifugio, luogo per esperimenti botanici. Rielaborando le proposte, venne formulato un progetto (vedi testo a pag 54). Il Piazzetta partecipò alla Biennale di Venezia del 1976 su invito di Crispolti attraverso Boriani. La crisi economica si intersecò con l'attuazione delle motivazioni politiche. Con la mancanza di risposte da parte dell'amministrazione sestese e la fine del mandato dell'assessore che aveva appoggiato il progetto, l'esperienza del Piazzetta si concluse. Per Chirici, l'artista è chiamato a rispondere a esigenze connesse alla partecipazione popolare, a esigenze reali della gente e alle rivolte sulla riappropriazione degli spazi urbani. Il coinvolgimento popolare a Sesto fu cercato con i mezzi dell'assemblea, dell'intervista, del questionario, dell'animazione secondo modalità proprie della progettazione partecipata. Importante sarebbe di riuscire ad affrontare e risolvere su piccola scala i problemi emersi dal coinvolgimento della gente nelle questioni territoriali. I professionisti che condivisero l'esperienza del Piazzetta spinsero affinché l'operatività culturale nel sociale fosse riconosciuta come strumento da parte degli enti locali. Per qualche anno ci riuscirono, trovando nel Comune di Sesto dei canali ricettivi e di largo concorso delle forze locali nel contesto del decentramento amministrativo, anche se i processi non arrivarono a compimento (vedi testo a pag 55). Capitolo 3 1.La stagione dei collettivi Tra il 1974 e il 1975 nacquero gruppi e collettivi d'artisti che si formarono per condivisione di intendimenti sociopolitici. Gruppi militanti furono quelli che richiamarono l'impegno sul campo. Come per il gruppo del Piazzetta, il binomio arte-società sostituì arte-vita, dettagliandosi nel rapporto tra gli strumenti tecnico-espressivi e gli ambienti dell'organizzazione sociale: fabbrica, scuola, quartiere, spazi marginali. Come afferma Maurizio Vitta, la società perde la sua indeterminatezza che derivava dall'ariosità concettuale del termine, per ritrovarsi nei contorni del consiglio di quartiere, del sottoproletario urbano e delle amministrazioni pubbliche. La dimensione estetica, nel suo atto di trasformazione sociale, sarebbe affiorata dalla creatività collettiva, dalla condivisione di mezzi con la mediazione dell'artista operatore estetico. Chierici avvertì che per far diventare le istanze dell'estetico una nuova dimensione della vita bisogna trasformare sé stesso e il proprio ruolo, altrimenti il binomio arte e società rimarrebbe utopico o peggio ideologico (tema della cooperazione caro a Crispolti). I centri culturali e sociali che proliferano lungo gli anni '70 si configurano come fenomeno urbano ed elettivo del quartiere come nucleo dell'azione primaria. Si tratta di centri che spostano l'attenzione dalla fabbrica a istanze legate alla socialità e alla vivibilità urbana. Le declinazioni furono diverse: interlocutori, rapporto con la creatività, modi di dialogo con le istituzioni pubbliche e culturali, rappresentanze politiche e di quartiere. (vedi testo a pag 59) 2."Non c'è significato, c'è solo il significato politico: il Collettivo Autonomo di Porta Ticinese Nel 1973 gli operai di Porto Marghera indossarono delle maschere antigas durante una manifestazione contro una richiesta che richiedeva di recarsi in fabbrica con una protezione sul volto. Giovanni Rubino ideò un manichino con il viso coperto dalla maschera, l'intervento venne lOMoARcPSD|12344916 Davide propose Identific-azione, una proiezione di immagini d'interni domestici sulle facciate delle case del centro storico, per focalizzare l'attenzione sulla vita quotidiana contro il consumo turistico e identitario della città. Quest'operazione e il manifesti del 1975, avvennero contestualmente alle politiche di risanamento intraprese dal Comune, sensibile al mantenimento della compagine sociale. Il risvolto culturale è atto a rivitalizzare l'economia legata all'antica tradizione dei metalli e della ceramica. Gli aspetti sociali, paesaggistici, antropologici e di cultura materiale avvennero in pratiche di gruppo in cui la manualità, la gestualità, la scrittura diventano nuovi segni per un riscatto della cultura urbana. Ideazione di una "casa" dove vivere per sette giorni sotto gli occhi del pubblico, condividendo con loro le attività (vedi testo a pag 68). Dopo le ultime esperienze comuni del 1979, il gruppo si disperse e i presupposti teorici della collettività del gruppo, entrarono nei percorsi individuali degli artisti degli anni successivi. 5.Socializzare i media: il Laboratorio di Comunicazione Militante e la Fabbrica di Comunicazione Nel 1976 un gonfiabile di Franco Mazzucchelli mise in moto la festa d'occupazione dell'ex chiesa di San Carpoforo nel quartiere di Brera a Milano, sostenuta da un gruppo di collettivi e di artisti milanesi. Nacque l'idea di un progetto che non disperdesse le forze dei singoli artisti e gruppi, ma che fosse una rivendicazione in grado di imporre alle istituzioni la necessità di spazi e strumenti verificati nel sociale. L'ex chiesa divenne Fabbrica di Comunicazione e funzionò come centro autogestito e ponte tra la produzione creativa, i centri sociali, il mondo giovanile, il quartiere e la città, assumendo i referenti sul terreno sociale per rompere i meccanismi di riproduzione e perpetuazione della cultura istituzionale. L'enunciazione di un programma qualificato per dare al luogo riconoscibilità culturale a livello cittadino, si scontrò con le posizioni degli esponenti politici e sindacali che furono coinvolti nel progetto di tutte le forze del quartiere. Un ulteriore scopo dell'occupazione era quello di riconquistare il centro cittadino, contestando il progetto della Grande Brera del sovrintendente Russoli, che prevedeva un museo diffuso in varie sedi storiche del quartiere. Il risanamento della zona di Brera rischiò di compromettere la sua costituzione popolare e artigiana. L'ex chiesa venne sottratta dal progetto, ma il PCI accusò gli operatori della FDC di ondeggiare tra demagogia e corporativismo folklorico e di aver avviato un'operazione ambigua che non ha nulla a che vedere con il consiglio di zona, il comitato di quartiere e la CGIL a causa della diversità di concezione dello spazio. La FDC rifiutò influenze politiche a favore della ricerca sperimentale e giovanile, mentre gi organismi politici di quartiere avrebbero voluto che la gestione fosse condivisa con tutte le forze democratiche in loco. Il PCI, inoltre, non trovò un bilanciamento nel movimento studentesco poco propenso a uscire dallo stereotipo dell'arte per le masse. Il gruppo appena costituito con la mostra "Strategia d'informazione", formato da Nives Ciardi, Giovanni Columbu, Tullio Brunone, Ettore Pasculli e Paolo Rosa, improvvisa animazioni di strada alle Colonne di San Lorenzo e in piazza San Simpliciano con gonfiabili in pvc. Si tratta di momenti di festa per riappropriarsi della città. Vennero realizzati laboratori sulla destrutturazione della comunicazione mediale tramite l'animazione teatrale, l'uso della fotografia e della videocamera. Inoltre, si pensò di affidare ai giovani gli strumenti per decifrare i testi visivi e verbali. La FDC si mostrò sensibile nei confronti della sperimentazione didattica, ospitando le scuole a proporsi come luogo innovativo di interscambio tra flussi sociali e culturali di diversa natura. Si diede voce alla cultura metropolitana giovanile e si creò un laboratorio tecnico-audiovisivo. Il LCM fu l'unico a pensarsi nell'orizzonte dello sviluppo tecnologico mediale, consapevole delle trasformazioni antropologiche di cui era portatore. Il sociale fu materia di processo e non di luogo, tenendo a specificare una distinzione rispetto a pratiche che non si spostavano dalla condizione autoriale dell'opera. Dopo aver trovato l'appoggio del PSI, la Fabbrica di Comunicazione chiuse per un mancato sostegno istituzionale a cui anelava per avere durata e stabilità. La Fabbrica di Comunicazione fu assorbita dal Centro internazionale di Brera, che terminò l'attività nel 1992. Sul finire degli anni '70, gli artisti lOMoARcPSD|12344916 proseguirono individualmente e il tema dell'autogestione sembrò non avere più senso e la problematica del rapporto tra arte e sociale è di essere fuori dalle nuove emergenze culturali. Capitolo 4 1.I centri storici: una questione aperta Negli anni settanta si diffusero in Italia le mostre di scultura nelle città. A confronto con gli happening e le pratiche partecipate, tali esposizioni possono sembrare maniere conservatrici di uso dello spazio urbano. Prendendo come esempio la mostra di Spoleto del 1962, e le successive manifestazioni di Rimini, Parma e Fano come case history, emerge una complessità di questioni sul ruolo della scultura e sulle motivazioni culturali che stanno alla base di queste occasioni. L'obiettivo di democratizzare la cultura fu una delle ragioni che portò le amministrazioni locali a sostenerle. I temi più importanti furono: la critica allo spostamento negli spazi urbani di opere realizzate in studio e indifferenti al contesto e l'alternativa dei lavori site specific, come per esempio Volterra 73 che sarà il tentativo di superare la logica della scultura non connessa alla specificità del luogo. Queste mostre si tennero nei centri cittadini (cuore della socialità, soprattutto nei piccoli abitati). Lo sviluppo economico e urbanistico italiano riversava sollecitazioni su queste zone, che assieme alle aree adiacenti, costituivano i nuclei storici. La scultura era alla ricerca del ruolo che lo spazio urbano e lo spazio storico devono assumere. Autori come Mauro Staccioli, Francesco Somaini, Nicola Carrino si misurarono con le sedimentazioni del tempo, chiedendosi che senso potesse acquisire il segno plastico in rapporto alla storia, alla memoria e alla socialità. Si tratta di argomenti appartenenti al dibattito sulle discipline dell'architettura e dell'urbanistica che riguardavano il nesso tra modernità e storia, Dal secondo dopoguerra crebbero in Italia le controversie attorno al destino dei centri storici che interessavano il ruolo della memoria in un paese che si stava rapidamente modernizzando, provocando fratture sociali e culturali. La questione girava attorno all'integrazione dell'architettura moderna nel contesto storico: se fosse lecita, come potesse avvenire, come recuperare la tradizione nel progetto del nuovo. Ogni scelta rivela una visione della città e rimanda all'idea di cosa conservare e trasformare di una nazione. Questo implica la realizzazione di un'identità di un paese che si stava affiancando dal passaggio culturale della ruralità. La plasticità immette la contemporaneita nello spazio storico sottraendolo al fare del passato un museo. Dagli interventi emerge una precisa funzione della scultura: rilanciare il tessuto urbano nell'aspetto processuale e performativo. La scultura passava dall'essere educativa, e quindi mettere a disposizione di tutti dei valori estetici, all'essere trasformativa. Il segno costruisce la città. Il concetto di centro storico come luogo da tutelare fu sancito in Italia dalla Carta di Gubbio del 1960, chema con stabilì il principio della conservazione sia del patrimonio fisico, sia dell'identità sociale. La discussione sulla nozione di centro storico e sui modi di conservazione e intervento fu vivace tra gli architetti e gli urbanisti italiani, recepita a livello legislativo, solo dal 1967/1968. Dal secondo dopoguerra, restando il centro la zona più dotata di servizi e infrastrutture della città italiana, crebbe la rendita fondiaria urbana ed edilizia tanto che i valori di rendita aumentarono. Il fenomeno della museificazione iniziò a interessare i luoghi di pregio. Il concorso di questi fattori innesco un moto di cambiamento dei centri urbani, con l'espulsione dei ceti popolari che avvenne a velocità diverse a seconda delle aree geografiche. Dalla fine degli anni sessanta la questione socioeconomica acquistò un peso nel dibattito sui centri storici. Il significato stesso di centro storico fu oggetto di controversie. Nel 1973 venne attuato il piano di recupero del vecchio nucleo di Bologna, assunto a livello europeo, l'assessore all'Edilizia popolare Pier Luigi Cervellati denunciò l'assenza sia di una legislazione in materia, sia di linee culturali che comprendono correttamente il problema. Per Cervellati la questione doveva essere affrontata incentivando lo sviluppo socioeconomico del centro storico. Le questioni attorno alla mutazione sociale dei centri storici sollevavano il tema dell'espropriazione della memoria. L'analisi del concetto di bene lOMoARcPSD|12344916 culturale porta a considerare i centri storici come parte del patrimonio inscrivibile nella definizione e spinge verso il riconoscimento del valore del territorio e della cultura materiale che ne era espressione. Tutte queste motivazioni resero il centro storico un luogo problematico per cui collocarvi una scultura non poteva essere un'operazione neutra. Ogni società costruisce rappresentazioni e scale di valori che determinano cosa dimenticare, cosa inserire nel regno del patrimonio e cosa leggere nel paesaggio. L'Italia è anche la nazione dei nuclei urbani abbandonati o devastati dagli eventi naturali. A Matera, per esempio Pietro Consagra installa sculture "faro" sui Sassi sfollati. Nella nuova Gibellina l'opera d'arte assume una funzione catartica. Il dibattito internazionale sull'arte nello spazio urbano (art in public space), tra gli anni sessanta e settanta, affronta il passaggio dalle drop sculptures alla site specificity. Per quanto riguarda il nostro paese, la domanda sulle peculiarità italiane nel rapporto tra scultura e spazio urbano è aperta. Il confronto con la storia infiamma la cultura europea del secondo dopoguerra, ma in Italia la via alla modernità è problematica. La parabola della scultura "costruttiva" italiana si basa su un assunto politico-sociale. Le esperienze italiane regalano una ricca casistica forse non abbastanza valutata, anche se è stato prodotto un ricco patrimonio di riflessioni. In seno ai Congressi Internazionali di Architettura Moderna, sono i progettisti italiani a mettere sul tavolo il problema della storia. Nelle esperienze artistiche e progettuali italiane ci sono i recuperi dell'artigianalita, antropologie e tradizioni popolari. Inoltre c'è un'emergenza che riguarda le compromissioni del paesaggio naturale e urbano italiano, Una strada della scultura che sceglie di misurarsi con questa situazione fatta di contesti particolari, emergenze sociali, modernizzazioni alle spinte politiche e impegno civile, tra utopie, pragmatismi e soluzioni linguistiche. 2.Decorazione e Democrazia: le mostre di "sculture in città" ll 22 maggio 1962 compare per le strade di Spoleto un manifesto a firma della Giunta municipale per informare i cittadini che, il borgo avrebbe accolto una parata di sculture moderne (chiamata "Sculture nella città"), la rassegna ideata da Giovanni Carandente si tenne in concomitanza con la quinta edizione del Festival dei Due Mondi e con il sostegno dell'Italsider. "Sculture nella città" si presento come una novità, in quanto fino ad allora la committenza pubblica attorno alla scultura in Italia e in campo internazionale aveva favorito la realizzazione di rassegne all'aperto nel verde o la collocazione di singole opere. A Spoleto 102 sculture di 53 artisti, rappresentativi della storia dell'arte plastica del xx secolo, furono collocate nel centro storico. Donato alla città, l'imponente Teodelapio di Alexander Calder si innalza ancora oggi nella piazza della stazione per la quale fu creato (vedi testo a pag 76). Per Carandente l'originalità dell'iniziativa spoletina rispetto alle rassegne nel verde stava nel ritrovare il senso di una committenza che sostenesse la creazione di opere apposite, integrate formalmente e concettualmente al sito. Le produzioni commissionate dall'Italsider furono studiate per i luoghi cui furono destinate, la concordanza tra scultura e contesto guidò la scelta delle rimanenti. L'obbiettivo di Carandente fu provare che la scultura moderna poteva dialogare con un centro storico di pregio come quello spoletino medievale senza intaccarne l'armonico equilibrio, un confronto che per il Comune fece vivere le sculture nei luoghi nei quali si svolge la vita di ogni giorno. Disponibile a tutti, la scultura era un bene comune di cui la cittadinanza si sarebbe presa cura. La funzione del "museo a cielo aperto" riassumeva ragioni estetiche, educative e civiche, di cui Spoleto fece da apripista. Nel corso degli anni '70 furono diverse le mostre di sculture in citta che si svolsero nei centri storici e durante l'estate per criteri di fruibilità. Un'offerta artistica giudicata sofisticata, indirizzata in primo luogo ai cittadini, avrebbe contribuito allo sviluppo culturale del centro urbano (vedi testo a pag 77). Il tema della democratizzazione della cultura fu centrale per le amministrazioni sostenitrici. Per il sindaco di Rimini Città Spazio Scultura, con l'immissione dell'arte moderna nel tessuto quotidiano della città, proponeva ai cittadini l'obiettivo di un modo diverso, più popolare di accostarsi alle opere d'arte e più umano di fruire dello spazio urbano. L'assessore alle Attività culturali del Comune di Parma, scrisse che l'arte deve essere alla merce di tutti, uscire dai musei, dalle case private e essere in lOMoARcPSD|12344916 4. Scultura e contesto storico: il segno critico A Volterra, Enrico Crispolti ebbe modo di sviluppare le riflessioni teoriche sula vocazione urbana della scultura affrontate con Francesco Somaini, per cui il segno plastico era destinato al confronto con il testo urbano in cui situarsi come presenza monitoria e conoscitiva. Tale segno assumeva un ruolo rivelatore dei nodi strutturali e semantici al fine di riscattare i valori simbolici ed emozionali. Attraverso Operazione Arcevia Comunita Esistenziale e Campo del Sole, Crispolti approfondì la scultura a dimensione ambientale. Precisò tale indicazione come contributo alla formulazione di soluzioni progettuali relative a funzioni dello spazio urbano, con ruolo simbolico, emotivo e memoriale, intervenendo nella definizione della qualità visiva, dei significati e dell'identità dell'ambiente. Mauro Staccioli, Nicola Carrino e Francesco Somaini riflettevano sulla scultura come elemento non pacificante. All'inizio degli anni '70 Somaini visse l'esperienza delle commissioni pubbliche statunitensi e la spazialità urbanistica della metropoli americana e maturò l'idea della scultura come segno dissonante e contraddittorio della perdita di memoria e del funzionalismo tecnologico. Propose di ritrovare il respiro della città tramite presenze plastiche dirompenti che avrebbero toccato i nervi sensibili di uno spazio urbano disgregato sotto le spinte del consumo: dispositivi traumatici, allarmanti, psicologicamente ed emotivamente attivi sul corpo individuale e collettivo. Lo spazio razionalista sarà invaso da conformazioni organiche, come se fosse l'inconscio della città a prendere forma. In un borgo storico come Volterra, la scultura avrebbe indicato la via di una modernità non consumistica per sottrarre quel tipo di luoghi alla città antica, posizionandoli nella contemporaneità. Alla perdita museale dei centri storici, Somaini oppose tracce plastiche dense di richiami simbolici antropologici, animate dalla forza delle visioni che colpiscono per rimettere in circolo energie sedate. Il disegno di Il lago è ancora profondo (1974) lascia spazio all'immaginazione di una scultura galleggiante per il lago di Como, un enorme imbuto ancorato al fondo che avrebbe dato agli abitanti la percezione della sua profondità. Il Grande Gelso dietro al palazzo dei Gonzaga di Mantova, proposto con un fotomontaggio del 1977 appare nelle vesti di una presenza emanata dall'inconscio della civiltà contadina che la città stava oscurando, seguendo lo sviluppo industriale. All'inizio degli anni '70 una parte della riflessione sul ruolo della scultura contestò l'approccio cosmetico alla città e mirò verso l'approfondimento del rapporto ambientale, abbracciando aspetti di crisi dello scenario urbano e di perdita della memoria. la crisi venne percepita come il frutto del trauma causato dalla modernizzazione e dalla divisione degli spazi e dei temi urbani in funzione consumistica. Realizzati dal 1969 in galleria e dai primi anni '70 anche nel quadro urbano, i Costruttivi trasformabili di Carrino furono concepiti come strutture modulari modificabili attraverso la permutazione delle componenti. Distanti dai progetti visionari ed espressionisti di Somaini, i Costruttivi criticavano l'invariabilità delle strutture minimaliste. L'azione combinatoria degli elementi attivava varianti situazionali e la presenza di elementi strutturali agiva sulla decodificazione dell'organizzazione formale dello spazio. Le possibilità presenti nell'atto del comporre e scomporre, suggerivano una spazialità costituita da mutevoli relazioni tra le parti. All'interno della citta, i Costruttivi funzionarono da dispositivi d'attacco dell'immutabilità della forma, della scansione, dei tempi e dei ritmi urbani. La scultura per Carrino interviene nello spazio delle relazioni: se la forma è il luogo dell'estetico e il luogo è la forma del politico, l'arte agisce atraverso il luogo nel contesto sociale e politico. L'artista precisò che tali strutture di elementi permutabili in forme chiuse o aperte risultavano essere la somma di tutte le trasformazioni e di tutti gli interventi stratificati nel tempo, di esperienze date dall'uso. Se s considera la città una compenetrazione di dimensioni spazio-temporali, nella forma urbis, la scultura concepita da Carrino aggiunge una successione di momenti spaziali e temporali e sarà generatrice di esperienze e di atti trasformativi dello spazio. Il principio partecipativo del valore plastico-strutturale allinea Carrino al contesto critico dell'azione sociale degli anni '60 e '70. Staccioli, nel 1968 abbandonò la politica per la poetica, per il parlato plastico, vissuto come esigenza di dire alla società. La socialità diventò una dimensione restituita attraverso il segno lOMoARcPSD|12344916 (vedi testo a pag 85). La mostra volterrana Sculture in città (1972) rappresento per Staccioli la prima occasione per lavorare nell'ambiente storico urbano, inserendo una teoria di pali neri inclinati lungo le mura etrusche e una diagonale di piramidi di ferro nella piazza dei Priori. Questi elementi, essendo formali con l'architettura materializzavano l'idea di una barriera. La presenza di un ostacolo visivo e percettivo testimonia il sentimento di rottura che per l'artista rimandava allo spiazzamento fisico e psicologico provocato dallo sradicamento culturale dell'Italia rispetto al suo passato storico e rurale. La Barriera (1970) e gli Anticarro (1970/1979) attestavano una condizione di violenza e fragilità. L'agire nella città storica e il farsi carico della sua memoria ormai frantumata marcò la differenza tra il lavoro di Staccioli e le coeve esperienze minimaliste e postminimaliste statunitensi. Più avanti, negli anni nella piana di Ozieri, in Sardegna, Staccioli segnalò con tre grandi sfere rosse (dal 1995 permanenti), le presenze storiche del paesaggio appartenenti a epoche diverse. I sedimenti memoriali all'interno della contemporaneità, confluirono anche nel dibattito architettonico italiano del secondo dopoguerra, nutrendosi della critica alle procedure e alle derive del principio d'astrazione razionalista. 5. Pietro Consagra a Matera Nel 1952 la legge speciale firmata da Alcide De Gasperi avviò lo sfollamento dei Sassi, per progettare l'edificazione di nuovi quartieri. La presenza di apporti culturali d'avanguardia e l'entità delle trasformazioni agrarie del materano convertirono la città in un laboratorio urbanistico e sociale. In poco più di dieci anni, però, circa tredicimila persone furono costrette ad abbandonare le proprie abitazioni. Coordinato dal sociologo Aldo Musacchio, nel 1971 Il Politecnico fu incaricato dal Comune di Matera di compiere un'indagine socioeconomica per indicate le linee guida del recupero dei Sassi. Venne evidenziata la necessità di dare alla zona un ruolo funzionale in un piano di sviluppo urbanistico ed economico. Solo nel 1986 fu messa in moto la riqualificazione che portò all'iscrizione di Matera tra i siti dell'Unesco nel 1993. La scultura si confronta con la storia, denunciandola. Nel 1978 l'artista dispose 11 sculture in vari punti dei Sassi e della Murgia. Le lamiere traforate inquadrarono scorci dell'ecosistema urbano ormai disabitato. Armonizzò una partitura bidimensionale di vuoti e di pieni che entrano in sintonia con i valori plastici strutturali dell'insediamento rupestre. Lo scultore fu invitato dal circolo culturale La Scaletta in occasione della presentazione dei quindici progetti del concorso internazionale d'idee previsto dalla legge per il risanamento dei Sassi del 1971, promulgata in virtù della sensibilità verso il patrimonio socioantropologico dei centri storici (il concorso si chiuse senza vincitore). Diversi progetti esaltarono le potenziali funzioni terziarie o turistiche dei Sassi, senza ipotizzare la possibilità di un ritorno alla funzione di centro abitato. Apprezzando l'opera di Consagra, il critico Flavio Caroli domandò se nell'ambiente dei Sassi si potesse concepire la bonifica attuata nella moderna realtà borghese di Bologna, in riferimento al piano di recupero del centro storico della città nel 1974. Il dubbio di Caroli fa intuire l'esitazione culturale nell'immaginare un destino moderno dei Sassi, ma anche l'impossibilità di risanamento senza l'affrancamento socioeconomico. Consagra scrisse con polemica una lettera, in cui accusò le classi dirigenti di avere rovinato le città italiane per interessi speculativi, e gli architetti di collaborazionismo. Incitò così i cittadini a formare un fronte dell'arte che chiamasse gli artisti al salvataggio dei Sassi al posto degli architetti e a guidare e a controllare tecnici e artigiani. Pochi mesi dopo venne stilata la Carta di Matera, e Consagra fondò il Fronte delle Arti che propose il coinvolgimento degli artisti presso le sedi decisionali in materia di tutela del paesaggio e delle città. L'ipotesi era gia stata avanzata dall'artista alla commissione per il nuovo disegno di legge della Biennale di Venezia, e fu rilanciata a Matera con urgenza. Cosi facendo, Consagra rivendicò un ruolo per gli artisti. In un suo libro Consagra aveva teorizzato la bidimensionalità come forma dell'accoglienza e della disponibilità, opposta alla tridimensionalità come forma della difesa, fortezza e luogo di culto. La centralità prospettica e la chiusura tridimensionale dell'oggetto sono simbolo del potere; scegliere la frontalita significa ridimensionare le pretese religiose e sociali accumulate attorno alla lOMoARcPSD|12344916 scultura, creando un rapporto diretto e frontale con lo spettatore." La città frontale sarebbe stata l'estensione della democratica bidimensionalità, ma per Crispolti la sperimentazione della spazialità libera, rimaneva un'astrazione urbanistica, catartica ed evasiva. Pensando alla crisi dell'architettura, Consagra immaginò una società estetica non funzionalista, non tecnologica, non standardizzata. Sul piano contestuale della città storica, solo l'arte avrebbe saputo amalgamare la modernità all'antico. Consagra definì i Sassi un tesoro unico (non ancora toccati dalla bruttezza speculativa). Consagra invocò la responsabilità dell'artista a difensore della spiritualità dell'oggetto sociale e fornì indicazioni concrete: il risanamento doveva rispettare le tipologie storiche secondo i principi del restauro conservativo. L'artista aveva esperienza nell'usare le materie, lo spazio, i piani e le forme esistenti, in vista della dedizione nel toccare una particolare opera d'arte. I Sassi sono l'opera d'arte. Non fu chiara la progettualità che il Fronte delle Arti avrebbe avanzato se avrebbe dovuto accumunare pochi artisti di chiara fama implicati in ricerche attorno al tema del grande oggetto, ovvero la città, considerata un'opera d'arte, con il rischio di elevarla sopra le sue trasformazioni storico-sociali. Chi avrebbe nominato gli artisti di chiara fama? Quale sarebbe stato il meccanismo del loro accreditamento? si tratta di domande facilmente formabili, già avanzate assieme alla notazione che per la rinascita dei Sassi, non si potesse tenere conto che è dalla consapevole collaborazione e partecipazione degli abitanti che dipende il successo di ogni iniziativa. La Lettera ai materani fu il frutto di un solido impegno civile che contribuì a porre l'attenzione sul ruolo degli artisti nelle città, dall'altra, però, ebbe sfumature elitarie, assunse il problema estetico e ad assumere il problema estetico, anche se relegò la complessità socioeconomica di un processo di sviluppo che coinvolge la popolazione senza il quale le arti visive si sarebbero ritrovate nuovamente a fare decoro. 6. Gibellina, Friuli, Vesuvio Il grande oggetto di Consagra prese la forma del sinuoso Meeting di Gibellina, l'edificio in cui l'artista tradusse le teorie sulla città frontale. Le suggestioni culturali della Sicilia, distinsero anche la totemica Stella del Belice (1981) che accoglie i visitatori lungo la strada statale. L'area scultura evocava per Consagra le luminarie delle feste siciliane. Molto si è parlato della nuova Gibellina, edificata dopo che il terremoto devastò, nel gennaio del 1968, la valle del Belice. Città di nuova fondazione, divenne un altro laboratorio d'avanguardia per architetti e artisti. Il sindaco Ludovica Corrao volle creare un museo a cielo aperto, chiamando gli artisti a definire tramite le loro opere l'immagine della città. La campagna fu lanciata nel 1976, ma la maggior parte delle opere fu realizzata dagli anni ottanta. Le case furono assegnate agli abitanti nel 1982 e si trovarono a vivere in un assetto urbano radicalmente diverso da quello vecchio. Le fotografie e le narrazioni su Gibellina tendono frequentemente a porre l'accento sull'effetto straniante, metafisico, del luogo entro cui si ergono isolate le presenze degli artisti, quasi che la vita fosse assente: memoriali, arredi urbani, culture. Corrao ritenne che l'arte potesse elevare lo spirito e riscattare le coscienze. Distrutto il passato, sarebbe stato necessario produrre segni che costituissero una nuova memoria. Gli autori delle emergenze architettoniche e plastiche sostennero tale impronta e reputarono Gibellina uno straordinario esperimento, tentativo unico in Italia di dare forma a un'idea futura di città. Le critiche si concentrarono sull'estraneità delle opere al contesto, sull'autoreferenzialità, sulla mancanza di un organico piano di inserimento nell'impianto urbanistico, sulla disconnessione rispetto all'identità del territorio. Il Belice fu terra di mobilitazioni sociali fin dall'inizio degli anni cinquanta. Il centro studi e iniziative per la piena occupazione, fondato da Danilo Dolcia a Partinico nel 1957, coinvolse la popolazione in un lavoro di pianificazione alternativa dal basso attorno a questioni ferritoriali come la gestione delle terre agricole e delle acque. Assieme alle esperienze di Lorenzo Barbera a Roccamenna, questo fu un rilevante momento di progettazione comunitaria, finalizzato all'emancipazione sociale ed economica. La partecipazione delle collettività locali condusse alla stesura del Piano organico di sviluppo della valle del Belice. La Marcia per la Sicilia Occidentale portò migliaia di persone verso lOMoARcPSD|12344916
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