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Riassunto libro le mani sul cuore, Appunti di Pedagogia

Riassunto libro Le Mani sul Cuore per pedagogia del lavoro di D'Aniello

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 28/01/2022

AuroraP988
AuroraP988 🇮🇹

4.2

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Scarica Riassunto libro le mani sul cuore e più Appunti in PDF di Pedagogia solo su Docsity! Introduzione In prospettiva pedagogica le trasformazioni post-fordiste del lavoro e, in particolare, il rapporto tra il lavoro produttivo di marca industriale e le così dette bio - politiche del lavoro. In un Paese che si regge su una rete di piccole imprese che ha uno dei più elevati contingenti europei di lavori autonomi, porre a tema il lavoro industriale può sembrare un controsenso. La curvatura industriale è invece da ricondursi al fatto che la delineazione industriale occidentale della processualità contemporanea del lavoro non prescinde dalla rilevanza pubblica correlata alla sua connotazione e categorizzazione moderna. Gorz scriveva a questo proposito che ciò che noi chiamiamo “lavoro”: È un’invenzione della modernità. La forma in cui lo conosciamo, lo pratichiamo e lo poniamo al centro della vita individuale e sociale, è stata inventata e successivamente generalizzata con l’industrialismo. È un’attività richiesta e riconosciuta utile da altri, che si svolge in una sfera pubblica e attraverso la quale acquisiamo un’esistenza e un’identità sociale» Al centro di questo discorso si colloca la rincorsa post-fordisticamente bio-politica verso l’autoalienazione del soggetto che lavoro, la quale insistendo sulla dimensione antropologica e sociale, sollecita interrogativi sul senso e sul significato che assumono le sue esigenze cognitive, creative, relazionali e psico-emotive. L’attenzione si sposta poi sull’evoluzione del capitalismo, fino ad individuare nell’onere pedagogico il mezzo per raddrizzare le strutture economiche e soddisfare le istanze realizzative della persona, edificando al contempo un lavoro e una società a misura d’uomo, o meglio di un uomo che non sia quello oeconomicus. Capitolo 1: Ritratto di un lavoro Il termine “post-fordismo” non ha ancora una definizione precisa, infatti quella del post- fordismo è una forma in divenire, modellata da variabili difformi, che non ha ancora raggiunto una sua compiutezza esaustiva. A motivo della genericità del termine c’è chi si appella all’espressione: - “terziarizzazione del lavoro”, ma questa espressione, come nota S. Negrelli, «lascia parecchio in ombra le trasformazioni che pure stanno interessando i contenuti di quelle prestazioni e delle attività manifatturiere, che mantengono tuttora un ruolo innovativo fondamentale» Più accettabile, per Negrelli, è l’espressione: - “lavoro della conoscenza”, poiché pone l’accento su doti sempre più reclamate all’interno delle imprese e non solo. Davanti a queste alternative, rimaniamo dell’idea che il termine migliore sia “post - fordista”, perché segna una linea di demarcazione e una discontinuità nei confronti del “fare” fordista, e nella consapevolezza di non essere al cospetto di un profilo cristallizzato. Rispetto al fordismo: - Cambia il rapporto con la macchina: La perfetta combinazione e sinergia tra l’organizzazione scientifica di F.W. Taylor e la catena di montaggio di H. Ford richiedeva un lavoratore addestrato nei tempi e nei movimenti ai ritmi della linea di assemblaggio, addestrato nei tempi e nei movimenti a tenerne il passo, istruito ad assolvere compiti semplici e minuti dettati dalla sua velocità come dalla divisione tecnica delle operazioni da svolgere, pronto, celere e disciplinato: in poche parole un’appendice della macchina. Anche Taylor diceva:” Al lavoratore non viene chiesto nessuna iniziativa. Gli viene affidato un compito e diventa uno strumento.” Adesso viene chiesta maggiormente una sorveglianza e conduzione della macchina. - Cambia il modo di produrre: Dalla produzione di massa alla produzione di lunghe serie di beni standard da introdurre nel mercato dopo averne verificato la qualità solamente a valle del ciclo di lavorazione, si è passati alla “produzione snella”, cioè a produzioni brevi e differenziate che assumono come principio guida quello taylosrista del “just it time”, sollecitando l’avvento di nuove parole chiave: o realizzazione in tempo reale (“just in time”) a seconda della domanda effettiva o eliminazione degli sprechi, per soddisfare un’istanza di qualità totale o tensione verso il miglioramento continuo - Cambia la natura stessa della prestazione: Da mansione passa a ruolo. Contrariamente alla mansione tayloriana, il ruolo si interfaccia con le aspettative di intraprendenza, flessibilità e relazionalità connesse con una specifica trama interpersonale e esige un’integrazione di più compiti in seno ad una persona ed entro un gruppo, differentemente dalla fabbrica fordista. In questo arco di tempo sono stati elaborati nuovi approcci al lavoro e all’industria e con essi anche nuove configurazioni della vita sociopolitica collegata al lavoro e all’industria. Assieme alla qualità, la flessibilità è l’idea guida che pungola il movimento post fordista e a concentrarla gioca un ruolo insostituibile proprio il connubio tra lo sviluppo delle macchine e tecnologico e l’assunzione del JIT (che è un sistema produttivo che garantisce la continua e perfetta simmetria tra l’offerta dei beni prodotti e la domanda che proviene dal mercato). Quello fordista invece è un sistema PUSH/PULL: - Push: si procede “per spinta” da monte a valle. - Pull: consente “aggiustamenti continui alle fluttuazioni della domanda che tira la produzione”. Nella filosofia giapponese, con spreco non si intende solo l’abbattimento dei costi, ma la pulsione all’essenziale, dunque pure all’annullamento dei magazzini di stoccaggio, dei tempi morti di attesa, degli spostamenti inutili ecc. Dall’incontro occidentale tra i dettami dell’officina di T. Ohno, in cui è dominante il JIT, e un nucleo ora tecnologico aperto e progredito giungono così le prime contro-risposte flessibili alla rigidità operativa delle modalità fordiste. La progressiva metabolizzazione del concetto nipponico di “coordinamento orizzontale” sostentata dall’ininterrotto avanzamento tecnologico, ha fatto in modo che venisse abbandonato: - Il governo centralizzato in favore di autonomi gruppi poli-competenti ed interrelati che agiscono responsabilmente per traguardare obiettivi interiorizzati e coerenti con quelli complessivi dell’azienda. - La gerarchia verticale in favore della “gerarchia piatta”. - La mono-dimensionalità routinante in favore della suddetta integrazione dei compiti e della necessità di un incessante dialogo intersoggettivo. Ci concentriamo ora sulla relazione tra flessibilita’ e la clientela. La “mutazione del cliente”, conseguente alla mutazione delle premure consumistiche, stimola ulteriormente la desumibile orditura della trama comunicativo- relazionale che postula per la cogente cooperazione tra lavoratori, l’armonizzazione del team work, il coordinamento tra i reparti e i gruppi. In questa prospettiva ciò che è stato riportato sul tema ha esortato tanto il fiorire di luoghi di ascolto e dialogici entro il recinto aziendale, quanto il ricorso ad interfaccia-utente informatiche che servono la soddisfazione del cliente (customer satisfaction), il colloquio con il medesimo per la configurazione del prodotto, la rilevazione statistica delle scelte e delle predilezioni e la loro traslazione in nuove progettualità. Il tutto per tener dietro ad un’altra dimensione non trascurabile del post fordismo: attention economy, ossia l’attenzione alla collimazione tra domanda e offerta. Vediamo ora la flessibilita’ nello specifico sullo spazio –gestionale Assottigliandosi le dimensioni imponenti e diluendosi nella “morfologia reticolare” questa permette di usufruire immediatamente e con costi minori di risorse di più territoti, anziché solo di uno. La flessibilità appena trattata può quindi essere intesa come: - flessibilità tecnico-produttiva - flessibilità organizzativa - flessibilità comunicativo-interattiva - flessibilità architettonica - flessibilità spazio-gestionale e accantonando quella architettonica, le sue sfaccettature possono a loro volta riassumersi in quella tecnica-produttiva ed organizzativa, chiamando entrambe in causa la coesione tra fare e essere. Il paragrafo appena concluso ha preannunciato come certi fattori, dall’innovazione tecnologica all’avvento del mercato globale e alla rimodulazione organizzativa delle imprese, favoriscano la ricerca di una feconda unione tra fare ed essere, lasciando intuire qualche risvolto dell’esser che interessa la questione ancora non pienamente sviscerata della “disponibilità lavorativa”. Tema della conoscenza Nel fordismo la conoscenza costituì una risorsa insostituibile, ma questa è stata calata in forma scientifica dall’alto e incorporata come “intelligenza tecnica” nella tecnologia, nelle macchine e nelle norme operative, in basso, ossia agli impiegati e agli addetti alla fase esecutiva, permaneva solo l’eco lontano. Il lavoratore rimaneva all’oscuro del sapere che animava la sua attività, e non poteva partecipare alla crescita dello stesso, generando nuova conoscenza, ma doveva ingoiare pillole astratte che lo costringevano ad un’anoressia cognitiva. Attualmente invece la conoscenza costituisce un atout imprescindibile. Vi è infatti la necessità di un apprendimento continuo. Inoltre come dice E. Rullani, il lavoro oggi è un lavoro cognitivo, che impiega la mente del lavoratore per controllare le macchine, risolvere problemi, comunicare ecc. Le imprese che si ispirano la modello giapponese si fondano sulle colonne portanti della qualità totale e del kaizen. Il kaizen è un onore spiccatamente intellettuale che si carica sia del tamponamento delle emergenze (retaggio fordista) sia dell’effettivo miglioramento del processo produttivo. Esso richiede il confronto serrato tra le diverse competenze possedute dai membri del gruppo e quelle insite in gruppi differenti che collaborano, attivano discussioni, sperimentano eventuali modificazioni. Si va quindi formando una conoscenza innervata dalla “pratica in azione”; co-costruita nella sua propagazione critica, attraverso la riflessione individuale e comune che ne fa affiorare gli ineffabili elementi taciti; alimentata dall’evenienza dei problemi stessi, dalle risoluzioni contestuali rinvenute e dalle innovazioni operative escogitate. L’immagine del lavoratore, tenendo fermo questo spaccato cognitivo, sembra lontana anni luce da quella dell’uomo-ingranaggio di Chaplin in Tempi moderni e sembra più vicina a quella di un artigiano tecnologico. Si va quindi formando il lavoratore “snello”, ossia quel lavoratore che sa conciliare i vantaggi della produzione artigianale con quella di massa, evitando l’elevato costo della prima e la rigidità della seconda. Nell’impresa post-fordista quindi si apprende con il fare, con la ripetizione del fare, con la sintonizzazione tra fare-riflettere-immaginare. Le considerazioni fatte finora portano a considerare l’impresa post-fordista come un learning organization, poiché si basa su apprendimenti individuali e di gruppo, che incidono sul cambiamento culturale e dell’intera organizzazione. Una learning organization è tale quando sussiste un sistema cooperativo che rende patrimonio collettivo informazioni e conoscenze desunte da certe scoperte ed esperienze. In essa gioca un ruolo importante l’emersione del “tacito”. Secondo il concetto del knowledge conversion (conversione della conoscenza) elaborato da Nonaka prendendo le mosse degli studi di Anderson vi sono 4 modi di convertire la conoscenza in linea con uno svolgimento a spirale crescente che procede dal soggetto per arrivare ad un gruppo formato da persone animate da reciproca fiducia, all’organizzazione dunque e da ultimo ad un livello inter - organizzativo. 1) Da tacita a tacita (socialization) senza affidarsi al linguaggio, per mezzo dell’osservazione, dell’imitazione e della pratica. 2) Da esplicita a esplicita (combination) per mezzo di riunioni o conversazioni anche telefoniche che riconfigurano le conoscenze individuali fino a originare nuove conoscenze. 3) Da tacita a espicita (externalization) per mezzo dell’uso delle metodologie interno ad un gruppo della sequenza metafora- analogia-modello, in cui: -la metafora è cruciale per l’esplicitazione comprensibile dall’altrimenti inesprimibile -l’analogia serve a la passaggio dall’immaginario al logico -il modello è ciò che racchiude la compiuta esteriorizzazione ora estendibile all’organizzazione tutta. 4) Da esplicita a tacita (internalization) per mezzo dell’azione che trasla dell’externalization in una nuova e comune conoscenza tacita. COMUNICAZIONE E RIFLESSIONE È da tener presente che nella visione di Nonaka tacito ed esplicito sono complementari e cointeressati da una mutua interazione tendente all’infinito. Si può quindi capire che la comunicazione è utile ad allargare i confini della conoscenza nota in vista di una conoscenza inedita e, soprattutto, la comunicazione puntella da metafore e analogie è utile alla Se è vero che il lavoro post-fordista offre uno scorcio inusitato su un terreno di educabilità umana, è altresì vero che uno dei principali fertilizzanti destinato a renderlo rigoglioso è il configurarsi dell’ambito lavorativo quale ambito di relazioni virtualmente tese alla: - coltivazione della sana interdipendenza - vicendevole valorizzazione sul versante etico - enucleazione intersoggettiva delle potenzialità - alla prossimità affettivo-emotiva Con il termine “virtualmente” si intende l’avverbio come riferito ad una situazione di nuovo potenziale e alla prospettiva delle virtù. L’educabilità che si mostra con il volto post-fordista dell’operare non rinvia unicamente alla mera euristica di aree di educabilità, ma è collegata alla domanda formativa. Competenze inerenti alla domanda formativa: a. per sostentare tutto quello che è stato rendicontato e adeguarsi ai cambiamenti tecnologici, recepire e volgere in rinnovati orientamenti produttivi e qualitativi le tendenze culturali rispondenti a rinnovati desideri consumistici e promuovere “lavoratori generativi”, ossia lavoratori che “significano” contestualmente e socialmente il proprio agire e che dalla dialettica dei significati sprigionati dall’accerchiamento cognitivo-riflessivo della prassi generano deviazioni progettuali innovative e creative. b. È importante avere un atteggiamento etimologicamente “com - prensivo”, di cura dell’altro e di predisposizione all’ascolto attivo che sia idoneo a sorreggere: o la comunicazione stessa o l’architettura dei dinamismi emotivo-relazionali È importante riprendere il tema della competenza emotiva e fermarsi sul dato interculturale. La competenza emotiva serve per aggiungere la sua indispensabilità nel farsi padronanza educata dell’intelligenza emotiva, del “sentirsi” e del “sentire”, nonché leva di gestione dell’ansia derivante sia dalle implicazioni della presenza psicologica sia dal collaborare e sia dall’integrazione impegnativa degli uffici individuali. Il dato interculturale serve per ricordare che in Italia e altrove sale ancora la quota dei lavoratori immigrati e incalza la premura del diversity management, per raggiungere vantaggi competitivi con l’inclusione delle differenze che non trascurino vantaggi umani ricavabili dall’accettazione ed interazione delle diversità. c. Queste competenze vanno ad agganciarsi a quelle vivificate prima e al di fuori dell’ambiente lavorativo. Il lavoro post-fordista squarcerebbe il velo che fino a poco tempo fa ostacolava la percezione anche in minima valenza educativa, la sua conformazione illuminerebbe con occhio di bue più spazi di educabilità autoctona, la loro messa in chiaro darebbe adito ad un allenamento formativo teso a facilitare un “e-ducere” già in divenire e questo trarre fuori e fortificare il fattore umano potrebbe essere ulteriormente perfezionato da un’augurabile cointeressenza pedagogica finalizzata a portare a compimento un empowerment che sarebbe ormai avviato. Insomma il luogo di lavoro diventerebbe finalmente un luogo di autoeducazione e di relazioni educativamente orientabili. Capitolo 2: Il lavoro alla prova della critica Il lavoro fordista è stato fisicamente estenuante, ma è stato sopportato per decenni, attraversato da qualche malcontento organizzativo, ma sopportato a lungo. Il perché di questa accettazione è spiegabile dalla regolazione sociale (svolge una funzione poietica nei confronti dell’economia, ne argina i risvolti viziosi e ne stabilizza i processi rendendoli accettabili) che rese culturalmente ammissibile la vita di fabbrica. Revelli ritiene che il post-fordismo sia fondato sul disordine, intendendo con ciò il destrutturare quanto aveva creato il fordismo, il disarticolare e il procedere nella direzione opposta, e parte appunto dall’antitesi della regolazione, ossia la deregolazione. Quando si affacciarono alla finestra i problemi innescati dal tramonto della produzione di massa, dalla saturazione del mercato, dalla crisi fiscale, dalla caduta del saggio di profitto, dall’ingrossamento smisurato della spesa pubblica legata al welfare e dalla nascente diversificazione e internazionalizzazione dei mercati, il capitalismo rivide i propri termini di compromesso e della propria incidenza ideologico-politica. Nell’arco di un quarantennio si è transitati: - dal keynismo al neo-liberismo, centrato sulla supposta efficacia auto-regolativa dei mercati, con annessa e graduale privatizzazione delle imprese dapprima sottoposte al controllo statale. - dalla curvatura sui diritti del lavoro alla deregolamentazione degli stessi. - dalla rilevanza della mediazione sindacale alla graduale deistituzionalizzazione dei sindacati. In aggiunta, considerati l’insuccesso in cui si imbatté la produzione di massa, la recessione che seguì, l’incapacità dell’economia reale di fornire tassi di profitto soddisfacenti, si è assistito pure all’ipertrofia dell’economia finanziaria, che negli anni ha acquistato sempre più autonomia. Quindi quello che Drucker chiama il “grande cambiamento” o che Beck definisce “cambiamento assiale” che conduce a una “seconda modernità”, è una svolta economico - sociale che ha per primattore il ripensarsi del capitalismo nell’uscita del fordismo e che non si alimenta solo di tecnologie all’avanguardia, e di rinnovare modalità organizzativo - produttive, ma di un’inversione di marcia che al contempo le sostiene e le trascende, apportando a un mutamento epocale. Per quanto concerne il lavoro, la prima risultanza di questo mutamento, è l’evidente smarcamento capitalista da una situazione divenuta insostenibile al cospetto della competitività internazionale, dei precari equilibri finanziari e della velocità delle riconfigurazioni produttive e di mercato. Dalla sconfitta fordista e dal nuovo scenario complesso, il capitalismo ha appreso che per crescere e tornare ai fasti del passato occorre deregolare. Dal punto di vista della deregolazione occupazionale non è che la precarietà e la disoccupazione non siano avvertiti – La polverizzazione solidale provocata dalla precarietà si ripercuote sull’interruzione di una continuità interattiva auspicabile per conferire linfa vitale al procedere identitario, un procedere già intaccato alla radice dalla discontinuità occupazionale. A sua volta il dissolversi di fermi punti di riferimento e confronto aggrava un’insicurezza di base indotta dalla focalizzazione sul coinvolgimento del lavoratore, sulla sua autonomia e responsabilità. Le riflessioni di Lipovetsky e Serroy aiutano a comprendere meglio questa insicurezza: avvalorando l’ idea che il successo o lo smacco in fatto di competenza dipendano del tutto dall’individuo in prima persona, l’impresa post tayloriana suscita angoscia, disistima, sottovalutazione di sé, e in un ambiente in cui le pressioni del breve termine crescono incessantemente, unitamente a quelle della flessibilità salariale, gli individui vivono con timore della valutazione permanente e con paura di non essere all’altezza delle esigenze dell’impresa. Allontanandoci dalla solidarietà del gruppo omogeneo e concludendo con la precarietà, diamo spazio ai suoi risvolti sul piano operativo. In precedenza si è detto che il lavoratore “snello” sa conciliare i vantaggi della produzione artigianale con quella di massa e si è descritto il lavoratore post-fordista come una sorta di artigiano tecnologico. L’evoluzione del lavoro lo ha permesso ragionevolmente; la precarietà tende a sconfessare questa comparazione. Infatti perché un artigiano sia tale occorre conquistare una maestria che si raggiunge solo con il tempo e con l’acquisizione di dominanze specifiche maturate in rapporto prolungato con una o più persone. Se si vuol parlare di artigiano forse questa etichetta può essere attaccata sulle uniformi di alcuni core workers, sicuramente non su quelle dei “periferici” condannati ad un apprendistato reiteratamente rinnovabile d’occupazione in occupazione. I legami precari ascrivibili al lavoro post-fordista, risultano congeniali ad un capitalismo che voglia minimizzare un’ipotetica onda d’urto dal basso, atrofizzando una pulsione motivazionale diretta all’opposizione politica e a ricreare appartenenza. Al contempo la precarietà impone il nomadismo biografico, la destrutturazione temporale e le progettualità esistenziali a scadenza, mentre questo nomadismo e la frammentarietà relazionale impediscono il soggettivarsi della persona nella duratura apertura agli altri. La precarizzazione del lavoro comporta ineludibili “derive sociali”, ma nella prospettiva pedagogica, e non in quella sociologica, comporta innanzitutto il liquefarsi della ventilata aspettativa che il luogo di lavoro possa tradursi in un luogo di relazioni educative. Lo smarrirsi di motivazioni interattive che oltrepassino il mero rispetto ad una collaborazione performante per proiettarsi in una sana interdipendenza educativa e in una liberazione della persona a se medesima tramite un incontro con l’alterità che conduca a una vicendevole crescita in umanità, verifica alle fondamenta queste speranze pedagogiche. Sennet dichiara che, in teoria, ogni impresa post-fordista chiede collaborazione, ma, nei fatti fa di tutto affinché non ve ne sia di autentica. “All’interno delle aziende, anche le relazioni sociali sono a breve termine, anzi è pratica manageriale che i gruppi di lavoro non durino più di 9-12 mesi, per evitare che i dipendenti tendano a radicarsi troppo, cioè che si formino le gai personali. Ma se vengono a mancare le motivazioni correlate a solide dinamiche interpersonali e, con queste, il basamento per il progresso identitario, e se lo spegnersi della solidarietà sotto vari profili porta Cesareo a sentenziare che la fabbrica ha perso la sua centralità identitaria, allora dove trovare sorgenti motivazionali e di identificazione? Nel lavoro in sé? Nonostante la precarietà, i magri stipendi, l’ansia, il senso di colpa, la solitudine, non si può negare che l’esperienza lavorativa sia ancora un’esperienza rilevante. Perché al lavoro, pur con la sua discontinuità, si passa gran parte della vita. Tuttavia non è nel lavoro in sé che si trovano le suddette sorgenti, ma viene visto come mezzo per adagiarsi sullo sfondo di un determinato orizzonte valoriale. Infatti alla domanda sul che cosa rimanga persistente in termini motivazionali/identitari è lecito rispondere, come afferma Labate, che questo qualcosa è la merce. Labate asserisce che la premura di costruire legami e di costruirsi un’identità, non è soddisfatta oggi, attraverso la mediazione con altri esseri umani, né con il processo produttivo, né solamente in rapporto al prodotto. La merce è immancabilmente presente agli occhi e al cuore come la vera guida ontologica. Il lavoratore potrà anche cambiare occupazione, potrà entrare e uscire da differenti contesti lavorativi, ma la “cosa consumabile” non scomparirà mai dalla sua vista., assurgendo ad una sorta di dimora ospitale e confortevole dell’essere. Così più che un luogo di relazioni educative, il lavoro diventa lo spazio per una nuova “centralità identitaria”, lo spazio privilegiato per attuare “una colonizzazione delle produzione dei valori”. Inoltre anche il piacere di andare al lavoro per rivedere certe persone è subordinato a un dominio di precarietà il cui monito è essenzialmente quello di fondersi con l’immaginario del consumo. Nel lavoro post-fordista, eliminata la solidarietà, le instabili e superficiali interazioni offerte e le motivazioni discendenti sono comandate dalla difesa della crucialità simbolica della merce evocata con Revelli. Una crucialità affermatasi nel fordismo, benché attenuata da relazioni umane ad ogni modo resistenti ed esaltata nel post-fordismo. Ci concentriamo ora sul segnalare come l’ingresso nella società dei consumi principiano con la risoluzione economica del conflitto operaio. Ossia con la praticabilità della conversazione di molti artigiani, ancorati al valore della produzione, all’etica e alla nobiltà del lavoro e a cardini di legami “umano - assistenziale” col prestatore d’opera in operai persuasi alla disciplina della macchina e a non reclamare l’antecedente libertà ed autonomia per mezzo, oltre della certezza salariale, delle tayloriane tariffe differenziali, e quindi dell’accesso al consumo. Da qui in avanti, secondo Bauman, qualsivoglia aspirazione a quella libertà ed autonomia si sublima nel consumo, ma le cose sono cambiate rispetto al consumo e all’idea di consumo che hanno dominato fino alla terza fase della rivoluzione industriale. Non si può nemmeno più parlare di società del consumo, ma dell’iperconsumo. Ai beni standard del sistema fordista si è sostituita un’economia reattiva nella quale le variabili di tempo, innovazione e rinnovamento sanciscono la competitività di imprese orientate non al prodotto in sé e per sé, ma al consumatore e al mercato, dunque alla politica del brand, alla fidelizzazione del cliente, alla creazione del valore per lo stesso. Al contempo, marketing, comunicazione e distribuzione sono progrediti a livelli inauditi e l’influenza dell’iper consumo si riflette sia nelle imprese, sia nel complessivo funzionamento dell’economia, laddove regnano incontrastati l’azionista da un lato, e il consumatore dall’altro. Una volta che gli habitus della solidarietà di classe sono dimenticati, la civiltà del desiderio fa breccia nel produrre e nell’essere dei lavoratori, che sono i primi consumatori. Il consumo personalizzato, tirato in ballo nel primo capitolo, si evolve, ridimensiona la distinzione di status, e si trasfigura in una soddisfazione centrata sulla salute e la distrazione, o fisico – emotiva, o sensoriale – estetica, che si fa domanda cogente sempre più preoccupate di assecondare la “ricerca delle felicità private” dato che l’iperconsumo mira residualmente al riconoscimento distintivo (dall’altro da sé) e tanto alla distanza dall’altro, al riconoscimento dell’indipendenza e della mobilità sociale. Il bene non è materia, è il tramite simbolico per un appagamento riservato che l’impresa deve fare proprio tramutandolo in “world – making” e “sense – making”, in un “mondo di significati”, e colui che partecipa direttamente con il corpo, la conoscenza, la creatività, le emozioni ecc. si nutre di questo world-making e sense-making. Wenger puntualizza che “la pratica umana di fatto è un universo, un universo di significato, nel quale l’apprendere è inscindibile dalla relazione con il mondo sociale che ci circonda, perciò nell’apprendere è in discussione l’intera identità, ciò che siamo e ciò che vogliamo essere. Non vi è dubbio che vi sia un’alleanza tra l’intra e l’extra –lavorativo nel puntellare un’identità modellata sul consumo o sull’iperconsumo, sull’ “io compro, dunque so che sono” e non vi è dubbio che il lavoro attualizzi una colonizzazione verbale. L’assorbimento “consumerico” e la cura della “marca” leniscono l’ansia post-moderna derivante dall’assenza di coordinare orientative espresse dalle tradizionali culture di classe e, dall’esasperato individualismo, portando alla luce quello che il nostro chiama “individualismo egualitario”. Quindi il comune concentrarsi della tensione iper-consumistica distoglie dall’angoscia dell’ “interdipendenza in assoluta solitudine”, rassicurando su un “indipendenza in compagnia”, mentre l’immaginario omologato dell’iperconsumismo distoglie dalla paura dell’altro, invitando a confidare che non siamo così diversi. Le attività extra-lavorative che hanno dato corpo alla vivacità individuale, alla capacità di improvvisazione e collaborazione, sono reclamate dal lavoro per sfruttarle: “è il sapere vernacolare che l’impresa post-fordista mette al lavoro e sfrutta”, insieme a: - quella “principale forza produttiva” che è la conoscenza - al giudizio - all’intuizione - al livello di formazione e di informazione - la facoltà di apprendimento Gorz chiama questo uno “sfruttamento di seconda mano”, utile a canalizzare il “prodursi umano”. L’ostacolo ad una simile sottomissione potrebbe essere rappresentato dal fatto che, entro un rapporto salariale, è impossibile attualizzare un “coinvolgimento totale”, giacché è nel proprium contrattuale di questo rapporto la distinzione tra le parti, e quindi la separazione degli interessi, garantendo con ciò una frontiera tra la sfera del lavoro e quella della vita personale. Per oltrepassare questa frontiera, sono stati pensati vari metodi, tra cui quello di far partecipare i dipendenti agli utili dell’impresa, ma il solo che si mostrerà atto a traguardare lo scopo sarà l’abolizione completa del salariato e, con essa, della differenza tra soggetto e impresa. Ciascun lavoratore dovrà diventare “imprenditore di sé stesso” e fornitore di servizi individuali. Nell’attesa che si compia questa “società post-salariale in gestazione”, bramata dal neo-liberismo, la deregolamentazione dei diritti e la precarizzazione costituiscono le prove generali dell’estinzione, e quindi sono le benvenute. Così mentre aspettiamo la venuta dell’“imprenditore di sé”, qualsivoglia potenzialità umana sta già soccombendo al governo del calcolo-economico. Parlando di discorso biopolitico, bisogna parlare di Marazzi, il quale si concentra sull’incorporazione prettamente funzionalistica della comunicazione necessaria ai fini organizzativo-produttivo basandosi sul contrasto assunto per cui il produrre, come l’“economico”, si fonda sulla centralità dei flussi informativo- comunicativo. In linea con i precedenti si collocano: - Combes e Aspe → unitamente a Lazzarato - Frequentatori del “circolo di Multitudes →al pari di Gorz Secondo i primi la cosa più evidente rispetto al passato è che, attualmente, il lavoro aderisce alla persona e non l’opposto, esigendo una “mobilisation totale” della mente e della dimensione psico emotiva che si fa portatrice di una servitù rinnovata. Per il secondo, sulla medesima scia, il capitalismo biopolitico, ribalta la visione tradizionale, indifferente alla “soggettività pratica”, introiettando utilitaristicamente nel lavoro intelletto ed emozioni; il che è attiguo all’accento posto nella capitalizzazione della conoscenza e dell’affettività da Fumagalli. Infine anche Rullani, riconosce nella simbiosi post-fordista tra vita e produzione la sorgente di un conflitto antropologico da sanare con una mediazione di senso. Il capitale post-fordista somiglia al videogioco Tetris: 1. Per andare avanti e vincere (puntando oltre che su sé stesso e la propria riproduzione finanziaria, su un lavoro che sia snello, flessibile, in sintonia temporale e qualitativa con al domanda, competitivo ecc.) 2. Occorre giustapporre progressivamente una serie di mattoncini (deregolazione, baricentro spostato sull’universo simbolico della merce) 3. smaltire file di mattoncini (costi umani e sociali) 4. accatastare nuove file di mattoncini (assorbire l’integralità dell’umano) In quest’ultimo senso, se è vero che per la definizione del lavoro non si sono rivenuti grossi problemi nel selezionare il lemma post-fordista, è altrettanto vero che le riflessioni che hanno condotto fin qua legittimano un arricchimento semantico della definizione stessa capace di offrire quella precisione inizialmente introvabile e, in quest’ottica potremmo parlare di lavoro antropofago e, a monte, di capitalismo antropofago. È nell’aggettivo la sua ambizione a fagocitare il propriamente umano nella multidimensionalità delle sue funzioni e dei suoi spazi, spingendosi verso territori inesplorati che si credevano inviolabili. La significativa profondità dell’essere era prima disfunzionale. Conoscere, apprendere, comunicare, interagire, cooperare e il carico di riflessività ed emozioni che questo comporta perturbavano un ambiente che doveva attenersi soltanto alla guida di una razionalità superiore, imposta. La rappresentazione Weberiana e Tayloriana dell’organizzazione hanno concorso a sostentare la dicotomia tra logos e pathos nei luoghi di lavoro. Oggi la razionalità è uscita dalla caverna da cui lasciava intravedere la propria ombra. Deve essere condivisa, la conoscenza deve circolare, guadagnare punti di vista, negoziazioni, deve propagarsi, creare creatività e innovazione. E con essa il pathos deve essere affrancato dalla prigione extra-lavorativa nella quale era rinchiuso e liberto verso le radure produttivistiche dell’utile. Marcusianamente parlando, si dice che il fare produce l’essere. Oggi essere e fare sono un tutt’uno, e l’essere diventa merce, più del lavoro in sé perché ne è il presupposto. E con l’essere diventa merce l’inedito, perché serve. È merce quello che si è appreso dall’esperienza, l’habitus esistenziale, il modo di approcciarsi agli altri l’inclinazione a fronteggiare i problemi ecc. Il capitalismo, dopo aver preso la mento e la testa, ha messo le mani sul cuore, investendo il lavoro di un’ipertrofia senza precedenti e senza limiti. Per paura che stringa troppo, l’uomo si piega, si inchina, sperando che oltre l’orario di lavoro, ritorni a pulsare regolarmente, ma pure in questo caso le mani sono sul cuore. L’asservimento all’utile mediante il lavoro, è ormai radicato nel midollo e si riflette nel quotidiano e nella sua mercificazione. Così quella femminilizzazione del lavoro che poteva far pensare a un ripristino di condizioni di crescita, si riduce all’unione di due metà di una mela inghiottita in un sol boccone. Tutto è destinato alla produttività. In cambio c’è lo stipendio. Il lavoro mangia la vita. Il capitalismo antropofago, non “azzanna” a campo aperto, ma aspetta che sia la “preda” ad immolarsi, operando per mezzo di stratagemmi persuasivi. Il terrore della disoccupazione, la scintilla del denaro che accende un modello di desiderio tarato sull’accesso all’iperconsumo, la stimolazione del desiderio di sollecitudine e rispecchiamento che parrebbe soddisfarsi in un lavoro sociale, ma che è invece avvizzito dal controllo, dalla parvenza della cura e dall’esortazione competitiva a rendersi “egregi” per sopravvivere. Da qui, la produzione coestensiva alla riproduzione, la caduta nella trappola biopolitica. Non è l’evoluzione tecnologica la causa, ma la deriva antropologica servita da una capitale autofago (finanza) e antropofago che rovescia il mito di Egina, trasformando gli uomini in formiche. Il lavoro post-fordista non è propriamente il labor arendtiano, perché non esclude, mentre lo si esercita, pensieri, riflessioni, giudizi, valutazioni. Piuttosto è un labor di seconda generazione, finalizzato sì al sostentamento e al consumo, ma accompagnato dal completo autosfruttamento della persona. Capitolo 3: Metamorfosi pedagogiche del lavoro Molti degli studiosi che abbiamo incontrato nel volume hanno scorto delle potenzialità nell’avvento del post-fordismo e del lavoro post-fordista, e poi hanno rallentato di fronte ad un’evidenza che rende inattuabile quella potenzialità. Però non si sono arrestati e hanno tentato di individuare delle soluzioni collimate alle proprie prospettive disciplinari di interesse. Ad esempio Gorz, Moulier, Boutang, Beck sono rispettivamente sostenitori di: - un reddito garantito, svincolato dal tempo di lavoro, diretto ad assicurare il recupero di attività sottratte alla difesa dell’utile e restituite alla dimensione politica, alla cooperazione sociale. - di un reddito minimo che favorisca l’emergere di un sapere e di una creatività non mercificabili e riconosca la profondità sociale del non-utile. - di un reddito di cittadinanza che corrisponda un tot al lavoro d’impegno civile. Altri studiosi non citati, come Latouche, non hanno scorto delle potenzialità e propongono una fuga dall’economia di mercato e dalle sue devianze lavorative e un ripiegamento sulla decrescita serena intensa quale transizione dal globale al locale e ritorno a rapporti di convivialità improntati alla moderazione e alla frugalità. Il “mercato” non è un male in sé e per sé e la sua richiesta di sostituzione, concordato con Danani, pare implicare l’accettazione della stessa logica riduzionista che oggi ammorba l’economico. Il male è altrove, non nel mezzo, ma nel fine, è altresì nel capitalismo antropofago e giustappunto nella logica riduzionista. Mancini afferma che il capitalismo è un organismo complesso a struttura triadica: 1. Al livello più superficiale, ma concretissimo, esso è un sistema organizzativo che attiene alla sopravvivenza materiale degli individui, alla produzione, alla distribuzione e al consumo dei beni, alla circolazione di denaro. 2. A un livello intermedio, già più profondo del primo, il capitalismo è una cultura, cioè una forma di civiltà complessiva. 3. Questo livello costituisce la radice della cultura utilitaristica, liberista, capitalista. È un livello del capitalismo come mito. Quindi seguendo l’ordine verticale della struttura e scendendo dal piano terra al piano inferiore, rinveniamo una cultura che trascende la sostanza di servizio materiale del capitalismo, e che attraverso l’estensione pervasiva ad ogni campo esperienziale soggettivo, gruppale, istituzionale, determina l’egemonia ipermoderna del capitalismo stesso e la colonizzazione di qualsivoglia sfera umana da parte della sfera economica. In luogo della ricchezza umana ha perciò fatto prevalere la ricchezza materiale e le sue distorsioni utilitaristiche, alimentando un immaginario del desiderio. Su questa indiscussa sovranità economica è stato detto a proposito dei suoi riflessi politici nell’ambito dell’eurozona, dove i destini delle nazioni dopo la crisi non sono sorretti da Il capitalismo rifugge le relazioni genuine e usa le relazioni lavorative post-fordiste per i propri scopi, facendo leva su quello che rimane dell’apertura all’alterità. Se le considerazioni sulla dominazione economica e sui suoi riduzionismi funzionalistici aiutano, per un verso, a perfezionare il discorso biopolitico sull’antropologia risucchiata nel lavoro, accentuando il senso dell’ineludibile fagocitazione della persona vista come meccanismo intelligente, dotato di sentimenti, di affetti e di abilità relazionali; per un altro verso aiutano a chiarire il significato di quei dubbi mossi alla fine del primo capitolo circa la formazione post-fordista. In effetti se l’economia, da ancella dell’etica, si è elevata a sua dominatrice, se il principio dell’utile è sovrano e se la persona che lavora resta un congegno del congegno produttivo, non pare azzardato pensare che la formazione, le competenze e lo stesso apporto formativo di marca pedagogica siano utilizzati per un mero obiettivo efficientistico. Nonostante lo stile argomentativo prescelto, duro, talvolta provocatorio e volutamente teso a mancare la concretezza di certe tendenze, non si esclude affatto la speranza di un cambiamento e, come anticipato, la pedagogia può contribuire e l’educazione può e deve fare molto. Dobbiamo essere consapevoli che le cose possono anche evolversi in senso economicamente totalizzante, dando luogo a uno scenario estremo. Nell’affrontare il progetto di industrializzazione, la (ri)produzione degli umani, allo stesso modo che la biotecnologia industrializzata, la (ri)produzione delle specie animali e vegetali, tira in ballo gli studi sull’intelligenza artificiale per constatare come tutto si stia muovendo verso un “allontanamento dall’organico” che non presenterebbe una rottura, ma un naturale proseguimento evoluzionistico. Gorz, in particolare, rivela come per molti è più che plausibile che tra qualche decennio l’intelletto sarà completamente travasato nelle macchine e le macchine saranno rapidamente molto più intelligenti degli uomini, inducendoli ad espandere la componente non biologica dell’intelligenza: per non soccombere saranno costretti a incorporare nel loro sistema nervoso quantità crescenti di neuroni artificiali. Viene quindi a formarsi una “minuscola élite” che avrà le competenze necessarie per controllare e orientare i grandi sistemi di intelligenza macchinica; il passo sarebbe breve, portando al potere totale di questa su una massa inutile, poiché il lavoro umano sarà diventato superfluo. All’élite non resterebbe altro che eliminarla. Gorz coglie l’occasione di queste “visoni” per condannare l’aspirazione di una certa scienza ad emanciparsi finalmente dal genere umano. La realtà aumentata non è una novità. Gli smartphone ci offrono opportunità esperienziali ed essa è impiegata in altri campi, dall’automobilistica, alla chirurgia robotica. Non sembra quindi insensato immaginare che tra poco l’esistenza extra-lavorativa possa incappare in uno sfruttamento di uno stadio superiore dopo quello bio-politico descritto, dando “valore” alle piazze, alle strade, ai luoghi di ritrovo, agli ospedali, alle scuole, alle università ecc. Come non sembra insensato immaginare che in futuro anche l’interfacciamento guidato con estranei possa dar adito ad incrementi senso – percettivi e all’accesso a benefit spendibili, passando dalla geo-localizzazione virtuale alla antropo – localizzazione. Attendendoci al primo caso, il lavoro è aleatorio e forse l’economia addiverrà allo scopo di non vincolare il consumo alla sua stabilità. Si potrà tranquillamente essere disoccupati, girare tranquillamente all’area aperta, riscuotere e pagare, presumibilmente ricevendo il supporto di sponsor che credono nelle nostre capacità di intrattenimento e beneficiano di compensi derivanti dalle pubblicità che affollano i siti in cui vengono esaltate le nostre imprese digitalizzate. Si può ammettere che in futuro macchine intelligenti si potrebbero accollare per intero molti lavori, portando anche alla scomparsa di “lavori umani”. Ma la passa che dapprima svolgeva non sarà inutile, al contrario è lecito supporre che sarà utile al fondarsi strutturale di un nuovo lavoro, congeniale a spazzar via tante problematiche correlate al rapporto tra capitale e lavoratori dipendenti e ad ampliare il perimetro bio-economico: un lavoro di gioco e di consumo. Restando sulla realtà aumentata e sulla video-spettacolarizzazione, potremmo figurarci un terminale incrementato economico del privato incarnato da persone che, mentre si “divertono”, concedono al miglior offerente l’esteriorizzazione consumabile del proprio interno e, indossando abiti ad hoc, esibendo oggettistica, cibo ecc. veicolano brand ai quali è diretto il loro stesso desiderio. Ribadiamo che il male non è: - il mercato - il consumo - il profitto Il problema resta sempre quello di ricondurre a fine esclusivo: - le distorsioni utilitaristiche del mercato - l cortocircuito produzione – iperconsumo - il profitto Il problema resta un’antropologia produttivistica che non concede la soddisfazione convergente di un doppio bisogno e che, tramite la distribuzione del “noi” possibile nel lavoro, strumentalizza un bisogno e le capacità che potrebbero agevolarne l’esaurimento realizzativo per appagare soltanto l’altro. Il capitalismo finanziariamente autofago non ha abbandonato il lavoro, ma ha abbandonato il lavoro tradizionalmente inteso e sta abbandonando la sua società, lasciando i lavoratori sempre più soli, fragili e perciò assoggettabili nella loro interezza. Con tale antropofagia e l’identificazione della persona nella macchina perfetta ritiene forse di raggiungere il massimo dell’efficienza, ma si sbaglia. Senza un sostrato umano, annullando quei ascrivibili a quella solidarietà, l’uomo finisce per lavorare male. Se non c’è riconoscenza, nel senso di riconoscere uno spazio di gratuità ed “emergenza” umana, se non c’è un noi che prelude ad uno scambio, non c’è contropartita sul versante di un impegno coinvolgente e collaborativo. A rimetterci sono la persona e l’impresa. Dovrebbe essere raccolta una sfida culturale e quindi, spiccatamente educativa, a cui la pedagogia non può sottrarsi. A nostro avviso la sfida dovrebbe essere su due livelli ad incastro, tendenti a dar corpo a un continuum. L’idea del reddito garantito, specie se visto come leva di recupero di qualità incondizionatamente umane, cooperative, comunitarie, socio-politiche destinate successivamente a riverberarsi sulla concezione del sociale, non verrebbe accontentata, ma interpretata come una necessaria, ma non sufficiente soluzione di accompagnamento temporaneo ad una ricomprensione culturale e che espugna le devianze associate alla “volatilità” del capitalismo globalizzato. Il perché il reddito garantito sia temporaneamente necessario ma non sufficiente è da ricondursi al fatto che sono scarse le energie umane ed interumane non contaminate dall’ “economico” e dal lavoro economicamente recepito. È chiaro che la sfida sia improntata ad una tensione per così dire regressiva. Non illudendosi che sia gestita in solitario dal pedagogico, ma che: - sia supportata da una revisione democratica, politica, istituzionale - mira a ripristinare una società del lavoro e il suo “spazio pubblico” Alternativamente a questa regressione, è legittimamente comprensibile guardare avanti, attestare la deriva economica come irrefrenabile, attendere il compiersi della società post - salariale, accettare l’ineluttabilità del precario-impresa bio-politicamente vinto e confidare nel reddito garantito per riprendersi in mano la vita al di là all’economia, o contro l’economia. Vi è la consapevolezza nitida di andare controcorrente rispetto alle lezioni di Gorz. Seguendo questa alternativa le cose possono peggiorare, e potrebbe spingere a un “educarci a un non lavoro”, ma prima di gettare la spugna occorre provare a rieducarci al lavoro ed economicamente, respingendo non l’economia, ma questa economia. Vendendo quindi al proprium pedagogico della sfida culturale, approfondiamo il primo dei livelli menzionati. Fino a ieri l’educazione economica è stata assente nel nostro sistema educativo, o meglio, era scolasticamente surrogata da un’educazione saltuaria sovente impartita da istituzioni bancarie nazionalmente o localmente accreditate su tematiche note: - il valore del denaro - il valore del risparmio Seppur limitata l’opera educativa non era disprezzabile, perché inerente ad esperienze che potevano accrescere una consapevolezza. Era invece discutibile quando queste istituzioni trasmettevano messaggi che racchiudevano la sostanza degradata dell’“economico”, tentando di incuneare convincimenti che avevano a che fare con l’equivalenza tra lavoro e consumo e tra lavoro e felicità. La neo-approvata Legge n. 107 del 13 luglio 2015, ha cercato di rimediare in parte all’assenza rammentata prevedendo un potenziamento della conoscenza in materia economico-finanziaria per la scuola secondaria. Per trovare il cuore pulsante della sfida economica, però, bisogna partire dalla scuola primaria, e soprattutto non dovrebbe fermarsi ad un’alfabetizzazione circostanziata alla progettazione, i predetti apprendimenti e slanci identitari vengono esaltati, supportando peraltro lo sviluppo dell’intelligenza etico-sciale dell’intelligenza emotiva, e dell’autostima. Ma la cosa più importante è che i bambini imparino presto ad avvertire il senso umano del lavoro e a individuarne il suo fine sommo, quello di servire la persona e il suo bisogno realizzativo. Prendendo spunto dalle narrazioni degli alunni, Mignanelli racconta che per loro “il lavoro diventa gradualmente un modo per soddisfare prioritariamente un bisogno intrinseco, motivante e ricco di sé e per sé”. Grazie al lavoro “possono testare i propri limiti e potenzialità, appagando un’esistenza primariamente personale, e trovano estrema gratificazione e quello che riescono ad ottenere, nonostante la fatica che ha comportato”. Questo ricorda la concezione di lavoro di Freinet: il lavoro come “soddisfacimento di quel bisogno di vita e di attività che è come il barometro della nostra potenza specifica”; “chiamo lavoro esclusivamente quell’attività che si sente tanto intimamente legata all’essere da divenirne come una funzione, il cui esercizio è di per sé il proprio soddisfacimento”. Con l’educazione alla collaborazione e l’affacciarsi della consapevolezza di un lavoro per l’uomo si potrebbero arginare precocemente le deviazioni etiche ed antropologiche dell’agire economico, pure in ordine al consumo. In questo senso E. Mignanelli rileva che con il lavoro diminuisce l’appetito corrispondente e si depotenzia l’immaginario correlato: la soddisfazione che i bambini provano con il fare in sé e quella derivata dai beni che considerano “necessari” li fa progressivamente allontanare dai richiami consumistici e a non ricercare un qualsivoglia surplus, perché sono già compiaciuti di quanto creato. Tutto quello che è stato riportato si riflette anche sui genitori, i quali, finiscono col condividere modalità collaborative e riflessioni critiche sul lavoro, sul consumo e sull’economia in generale. Il caso Serendipità rafforza l’idea di partenza ed insegna che dal basso si può effettivamente ripartire per edificare comunità fiduciose nella possibilità di cambiare l’esistente e in grado di diffondere un diverso “credo” in cui rispecchiarsi per delucidare una verità deliberata dagli articoli economici, fatta di solidarietà e di equilibrio entico - antropologico. La sua apprezzabilità deve quindi spingere il “pedagogico” ad assumersi l’onere di estendere la forza educativa, invitando a moltiplicare gli esempi di questo tipo nel privato come nel pubblico, restituendo alla collaborazione, al lavoro, al consumo e all’economia il posto che meritano entro il sistema educativo di istruzione, dalla scuola primaria in avanti. In gioco non c’è solo il lavoro ma una visione del mondo e di chi lo abita. Sempre muovendo dal locale, l’ideale non “au-topico” sarebbe connettere esperienze attigue a quelle descritte in teoria, in pratica e strutturare una rete educativa nazionale ed internazionale, dove docenti, dirigenti, alunni, genitori, cittadini, possono ritrovarsi, intensificare l’opera ed amplificare la loro voce. L’altro livello pedagogico della sfida culturale attiene alla formazione professionale in senso lato e lo scacchiere dei movimenti possibili invoca almeno due mosse: - la critica formativa - la resistenza formativa Nel paragrafo precedente si è parlato dell’opportunità di una ripresa della dimensione educativa dell’istruzione. Precisando il concetto, sembra che il sistema di istruzione sia piuttosto economicamente ingabbiato in una sorta di organizzazione funzionalmente adattiva, tesa a subordinarlo ad una prepotenza valoriale e ad un immiserimento apprenditivo/finalistico che esclude obiettivi diversi dalla proiezione nell’economico. Di converso, l’istruzione non dovrebbe assecondare il proprio suicidio, ma riassettarsi come luogo di autonoma costruzione di valori, dedicato a sviluppare identità critiche, nei confronti dell’economico e di altri universi, e costruttive di panoramiche nelle quali sia possibile rinvenire orizzonti antropo - pedagogici di più largo respiro. La proiezione suddetta, a sua volta, appare ben più pervasiva se prestiamo attenzione alle iniziative europee degli ultimi anni in materia di riordino della formazione professionale iniziale. Rivedendo il senso della missione socio-economica affidata alla formazione professionale di cui si è parlato nel primo capitolo, lo stesso si potrebbe fare per la formazione continua. D’altronde, come rileva Angori prendendo le mosse dalle riflessioni di Barros sul passaggio dalla lifelong education al lifelong learning, siamo innanzi a un cambiamento di paradigma che evidenzia l’imporsi di un sotto - riduzionismo educativo. Il lifelong learning e le politiche che lo puntellano paiono servire minimamente le persone e massimamente le premure economiche. Come anticipato, questo è un risvolto del dominio economico su quello politico segnatamente della rappresentazione bio-economica della formazione professionale in genere (a partire dalle aziende), al pari di quella dell’apprendimento (per tutta la vita). Quindi il pedagogico dovrebbe ottemperare, culturalmente, al dovere di opporsi a tale visione riduttiva e di cimentarsi in una resistenza formativa perché, come appena rimarcato, è nondimeno per la formazione che passa una concezione etica ed antropologica che “trascura la richiesta di soggettività, il desiderio di autorealizzazione, il bisogno di significatività esperienziale”. Nonostante la legittima speranza che uno stravolgimento culturale possa essere attuato anche per mezzo di ragazzi che andranno ad infoltire la schiera di lavoratori dipendenti, la rigenerazione culturale non può non guardare alle imprese e a chi le dirige. In quest’ottica un esempio è dato da quei casi di comunità di pratica pedagogicamente mediate, ove a processi cognitivi e di apprendimento funzionali alla produzione e all’innovazione creativa si coniugano processi educativi di sviluppo soggettivo ed intersoggettivo. Sempre con l’occhio rivolto alle imprese e chi le dirige, il pedagogico può ancora molto: - attraverso i convegni, seminari, giornate di studio sulla formazione iniziale, continua a aziendale; - attraverso contatti e confronti periodici con quelle aziende che ospitano come tirocinanti gli studenti di scienze dell’educazione e della formazione. - attraverso incontri con gli esponenti del mondo del lavoro chiamati ad attestare la congruenza dell’offerta formativa dei corsi di laurea per formatori o esperti nei processi formativi. Più che i mezzi (formazione pedagogica e dote pedagogica) le occasioni, nello specifico, dovrebbero essere inoltre sfruttate dal pedagogico per entrare maggiormente nei contesti lavorativi, inseguendo un duplice scopo di sequenza: 1. incrementare lo studio sistematico, per evitare che il proprio posto sia occupato impropriamente da altre discipline ed avanzare così sul piano della riappropriazione epistemologica della formazione al lavoro e nel lavoro. 2. accendere da dentro la luce di una rivoluzione persona-centrica, arricchendo l’addestramento manageriale e illustrando sul campo e fattualmente i vantaggi ricavabili da una formazione che sposi la causa della prestazione con quella della motivazione di senso e significato umani ed interumani, ossia della pienezza umana. Contrastare azioni che mirino unicamente all’efficienza e al funzionale e, viceversa, promuovere azioni che stimolino la sintonizzazione e l’armonizzazione tra diverse parti della personalità inquadrandole in una cornice educativa che si inserisce in un più ampio diritto ad esprimersi in ogni circostanza dell’esistenza, non è una sfida da consegnare alla volontà dei singoli. L’ideale sarebbe dare corpo a una rete nazionale ed internazionale di ricercatori/formatori di varia estrazione e collocazione e imprenditori/manager “illuminati” impegnati in presenza e on-line a divulgare il verbo pedagogico e ad osteggiare certe logiche riduttive, fino a incidere sulla stessa revisione degli assunti che informano le politiche del lifelong learning nella loro complessità.
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