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riassunto libro Letteratura Cavalleresca, Schemi e mappe concettuali di Letteratura Italiana

Sintesi libro sulla Letteratura cavalleresca di Marco Villoresi

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

2023/2024

Caricato il 22/06/2024

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Scarica riassunto libro Letteratura Cavalleresca e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Letteratura Italiana solo su Docsity! LA LETTERATURA CAVALLERESCA Introduzione Nel secolo precedente a Petrarca, i testi arturiani e carolingi avevano acquisto una notevole importanza, erano stati rielaborati ed erano stati presti come punti di riferimento per la stesura di opere originali. Questi testi comprendevano tutte le realtà sociali e politiche, in ambito signorile come in quello comunale, divennero così parte integrante della civiltà medievale italiana. Le storie e personaggi cavallereschi erano presenti e vivi nell’immaginario collettivo, romans e chansons saranno argomento di riflessione per i maggiori ingegni, raffinata lettura adatta gli otia di corte, strumento di propaganda politica e religiosa, manuale di comportamenti erotici e militari, popolare trastullo da repertorio giullaresco. Dal XII secolo l’onomastica e la toponomastica documentano la veloce penetrazione e l’influenza delle storie cavalleresche nella penisola italiana, lo si vede dai nomi che emergono dalle carte d’archivio, ma soprattutto dal nome del personaggio di Gano, nell’iscrizione riportata su una lapide della cattedrale di Nepi preso Viterbo, datata 1131, che conferma la rapida diffusione della Chanson de Roland. Orlando, eroe e martire, si mostrerà sui portali delle chiese italiane come in quella del duomo di Verona insieme al compagno Ulivieri e sulle vetrate della cattedrale di Chartres. Altre rappresentazioni degli eroi carolingi e arturiani si trovano nelle città del nord e del centro Italia, come Verona, Modena, Fidenza, Roma. Intorno alla fine del secolo XII, i primi documenti letterari tra cui quello di Goffredo di Viterbo, ci permette di capire la precisa conoscenza delle fonti cavalleresche che questi personaggi avevano. Goffredo dedica molti versi, all’impresa dell’imperatore dei cristiani in terra di Spagna e alla descrizione dei vaticini di Merlino intorno alla fama di Artù e alla sua morte, sulla quale nasce la leggenda del palazzo incantato posto all’interno dell’Etna, riportata da Gervasio di Tilbury negli Otia imperialia. Francesco d’Assisi nella sua opera, il santo immagina i suoi fratelli di povertà animati dalle virtù di Carlomagno, Orlando e Ulivieri, oppure li paragona ai cavalieri arturiani. Per cui nei suoi testi troviamo uniti i valori religiosi a quelli militari, siamo nel periodo in cui l’Italia e l’Europa sono segnate dal periodo delle crociate, ricordate dalle masse popolari e dai cantatores francigenarum. Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo, risalgono i primi documenti sull’attività giullaresca in alcuni centri della penisola. È con le composizione dei poeti della scuola siciliana, tra cui Jacopo da Lentini che capiamo il loro nozionismo cavalleresco. Dante è il primo a presentarci i primi giudizi estetici e morali sulla letteratura cavalleresca e in generale sulla cultura cortese. Dante conosce bene le più importanti opere dei due cicli, fa riferimento a Merlino e anche a dei passi dei testi. Nel Convivio nomina Lancillotto come nella Comedia, insieme a Ginevra, diventa il corrispettivo letterario di Paolo e Francesca, i cognati amanti confinati nel cerchio dei lussuriosi insieme a Tristano. Inoltre in apertura del XVI canto del Paradiso Dante con un richiamo al Lancelot paragona l’atteggiamento di Beatrice a quello della Dana di Malohaut, Ginevra. Mentre per gli eroi dell’altro ciclo, per Dante Carlomagno e Orlando, come Goffredo di Buglione e Roberto Guiscardo, sono martiri della fede degni di venerazione. E come conferma del valore esemplare che Dante da ai personaggi romanzeschi, Gano sarà posto insieme a Mordret, luciferino nipote di Artù, fra i traditori dei propri congiunti e della patria. Diversamente dai personaggi del ciclo arturiano, che tra ‘300 e ‘400 furono soggetti a censure, i personaggi carolingi furono visti con grande rispetto e ammirazione. Boccaccio, in una nota di pagina del Corbaccio, descrive con sarcasmo una vedova che si eccita alla lettura del Lancillotto e di Tristano. Per la vedova quei cavalieri sono simboli di virilità sessuale, in questo modo anche Boccaccio pone i personaggi della Tavola Rotonda in una posizione subalterna rispetto a quella che li riserva ai combattenti per la fede e per l’impero. Si tratta quindi di una inferiorità più morale che letteraria, a tal punto che nell’ultima parte del secolo XIV si registra una diminuzione della vena creativa arturiana, e di conseguenza, di un grande incremento della confezione di testi carolingi. Ma dalle compilazioni francovenete e dai romanzi di Andrea da Barberino capiremo che si avrà, sempre di più, una contaminazione con le strutture del ciclo arturiano, unendo armi e amori. Il 1 rapporto gerarchico tra i due cicli verrà ribaltato con Boiardo con cui i romanzi arturiani diventeranno la base preziosa dei grandi poemi del Rinascimento. Capitolo 1 La letteratura arturiana in Italia fra XIII e XIV secolo I primi centri di diffusione del romanzo arturiano Fra il 1160 e il 1180 Chretien de Troyes componeva la serie dei romans in ottosillabi narrativi che avrebbe condizionato l’immaginario cortese e cavalleresco europeo. I testi di Chrétien erano focalizzati su un unico eroe della corte arturiana. Mezzo secolo più tardi si ebbe una summa di narrazioni arturiane in cui venivano trattati più episodi e personaggi collegati l’uno all’altro secondo una tecnica d’intreccio, entrelacement, ciò permetteva di creare una trama fitta e varia. Le redazioni romanzesche in prosa della materia arturiana ebbero un immediato successo in tutta Europa. La più antica testimonianza della circolazione in Italia dei romanzi cavallereschi è contenuta in una lettera Datta febbraio 1240, nella quale l’imperatore Federigo II si dichiarava lieto di aver ricevuto il libro di Palamedès, conosciuto come Guiron le Courtois. Negli stessi anni i cronisti e i poeti della corte federiciana cospargevano le loro opere di riferimenti a personaggi ed episodi dei romans, a conferma della penetrazione della cultura cavalleresca nella realtà siciliana. Altri centri culturali italiani sedi dei testi francesi erano senza dubbio le corti padane, nelle biblioteche signorili degli Sforza, dei Visconti, dei Gonzaga, degli Este. Al problema della provenienza dei manoscritti arturiani giunti sino a noi, sono prese in considerazione la Toscana occidentale e la Liguria. Vi sono state scoperte delle note a margine di questi codici, scritte in lingua ibrida italo-francese, questo fa pensare a una collaborazione tra amanuensi pisani prigionieri in seguito alla battaglia della Meloria (1284), che segnò la fine della autonomia pisana e la l’espansione fiorentina, e i redattori e illustratori genovesi. Nelle carceri di Genova l’attività scrittoria era abitudine e questo vi è documentato nella trascrizione del Milione di Marco Polo, a opera di un suo compagno di prigionia, Rustichello da Pisa, che diventa autore di una delle prime rielaborazioni in Italia di romanzi del ciclo arturiano. È proprio lungo l’asse tirrenico Genova-Pisa che i romans in lingua d’oil trovano un terreno privilegiato per la loro irradiazione. La compilazione di Rustichello e altri romanzi in lingua d’oil scritti da autori italiani Dalla seconda metà del Duecento alcuni autori italiani cominciano a comporre testi di matrice arturiana in lingua d’oil. La lingua francese non era più una lingua d’élite ma era divenuta lingua internazionale del commercio. Di Rustichello abbiamo poche informazioni ma sappiamo essere l’autore di un corposo romanzo composto da due parti: - Meliadus - Guiron le Courtois Rustichello scrive su commissione del principe Edoardo, erede al torno d’Inghilterra e appassionato cultore dei costumi e letteratura cavalleresca. La cosa certa è che le fonti principali di Rustichello sono soprattutto il Tristan, il Lancelot, il Guiron le Courtois. I suoi testi sono come una enciclopedia di vicende romanzesche, Rustichello riduce, seziona e poi, con la tecnica dell’entrelacement, collega le avventure e i personaggi appartenenti ai vari canovacci romanzeschi. Le Phrophécies de Merlin furono scritte fra il 1276 e il 1279 da un anonimo veneziano, ritenuto un frate minore antighibellino. Nel prologo oltre a lodare la lingua francese come miglior mezzo espressivo, nomina maistre Richart come traduttore su commissione dell’imperatore Federico II. Il mago celebra una funzione polemica dell’opera, in quanto dietro le profezie di Merlino si nascondono le divinazioni attribuite a Michele Scoto e le offese di Gioacchino da Fiore che vogliono mettere sotto accusa i crimini morali della chiesa di Roma. L’autore del Chevalier errant è Tommaso III marchese di Saluzzo, che tra il 1394 e il 1396, si cimentò nuovamente con la lingua d’oil, per la creazione di una nuova opera in cui il cavaliere- autore, in compagnia del valletto Travail e della donzella Esperance, intraprende un lungo percorso attraverso i regni di Amore, Fortuna e Conoscenza. In questo testo si ha un gran contributo della letteratura arturiana per sottolineare le avventure di amore e di guerra. La figlia dello scrittore, Rizarda, nel 1431 sposò Niccolò III d’Este per cui il Chevalier errant diventerà “libro di famiglia”. 2 Capitolo 2 LA PRODUZIONE CAVALLERESCA IN LINGUA FRANCOVENETA Una nuova lingua per il romanzo: il francoveneto Verso la fine del Duecento, a Treviso, Lovati de’ Lovati, assiste alla recitazione di un cantastorie che, pur nella sua rozzezza ed ignoranza, cerca di farsi intendere attraverso la deformazione linguistica da un pubblico che, come lui, non conosceva molto bene il francese, ma percepiva il fascino, di una lingua dilettevole e facile a parlarsi. Questa lingua verrà definita poi lingua francoveneta o francolombarda che si sviluppò tra Treviso e Padova, Venezia e Verona, Mantovana e Ferrara fra la metà del XIII e la prima parte del XV secolo. Fu la lingua con cui non solo vennero trasmessi numerosi classici del ciclo carolingio, ma anche composti nuovi romanzi cavallereschi, come ad esempio l’Entrée d’Espagne o la Prise de Pampelune. Questi ultimi testi sono una cerniera fra la produzione cavalleresca medievale in lingua d’oil e le rielaborazioni toscane sulle quali si basa l’epica rinascimentale in lingua volgare. Con i romanzi francoveneti si supera la fase d’importazione dei materiali letterari d’oltralpe. Sul piano linguistico si assiste alla progressiva italianizzazione delle forme, notiamo mutamenti grafici, fonetici, morfologici mentre sul piano ideologico, dopo il tramonto della società feudale, i testi presentano una nuova situazione sociale. Questi mutamenti sociali, linguistici, letterali avvengono in un arco cronologico dilatato, in cui si distinguono 3 periodi: - Il primo: intorno alla metà del XIII secolo offerti ad un pubblico aristocratico che non ha bisogno di mediazioni linguistiche - Il secondo: coincidente con la fase dell’espansione della borghesia cittadina nel secondo Duecento, che induce gli autori cavallereschi a modificare l’impianto linguistico e i parametri ideologici dei testi, per inventare ex novo episodi e personaggi - Il terzo: fra l’inizio e la metà del XIV secolo, che vede la società borghese diventare aristocrazia per poi creare un prodotto letterario nuovo, intriso di elementi raffinati e colti. Dai classici carolingi ai romanzi “italianizzati” della Geste Francor Se tra gli scaffali della libreria estense sono i romanzi arturiani a prevalere, viceversa nella raccolta dei Gonzaga vi sono maggiori titoli inerenti al ciclo di Carlomagno. Si tratta di romanzi en vers e oggi si conservano per lo più nella Biblioteca Marciana di Venezia. Appartenuto ai Gonzaga vi è un codice francese che contiene la redazione della Chanson de Roland in lasse assonnavate e una versione dell’Aspremont più ampia rispetto a quelle francesi, importante anche perché fonte di molte delle rielaborazioni toscane tardo-trecentesche e quattrocentesche, sia in prosa che in ottava rima. Inoltre in alcuni manoscritti troviamo narrate in francoveneto le vicende di Huon d’Auvergne, che verranno riprese e ampliate da Andrea da Barberino. Il documento cavalleresco in lingua francoveneta, proveniente dal fondo gonzaghesto, conserva la Geste Francor di Venezia, ossia sei canzoni connesse una all’altra. Il codice risale alla metà del ‘300 ma è chiaramente una copia di un manoscritto più antico. Questi testi dimostrano una vision du monde borghese e dimostra come fosse andato avanti il processo di appropriazione della matière de France, non soltanto la lingua, ma anche il contesto e i personaggi vengono italianizzati. Il codice Marciano ci offre un affresco cavalleresco che anticipa il lavoro di riorganizzazione della materia carolingia che porterà a termine Andrea da Barberino. Le grandi aspirazioni collettive, sia etiche che religiose, sulle quali si fondava la civiltà feudale vengono subordinate da contesti familiari, anche dai personaggi della famiglia reale. La materia sembra più vicina al genere novellistico e alla realtà borghese, caratterizzata da complotti, tradimenti, persecuzioni, sostituzioni di persona, matrimoni in crisi, amori illeciti. L’atteggiamento assunto dall’anonimo nei confronti dell’imperatore ci dà la misura del cambiamento ideologico, ad esempio il personaggio di Carlo viene svilito e il suo mito distrutto. Questo risulta evidente soprattutto nel Macaire in cui Blanchefleur, la bella e giovane moglie dell’imperatore, viene accusata da Macario di Maganza di adulterio. L’autore sottolinea l’inettitudine di Carlo, egli non è più il defenseur de la foi, perché con i suoi comportamenti semina discordia nel mondo cristiano. Dunque, nei romanzi francoveneti si hanno posizioni contrarie sia alla monarchia che ad una società imposta secondo le regole feudali. Nel Macaire l’autore mostra la sua simpatia verso le classi subalterne, esemplare è il personaggio di Varocher, un carbonaio che si erge a difensore della bistrattata regina, guadagnandosi gli appellativi di çentil homo valent di loial e dito hon dimostrando che le virtù individuali valgono molto di più dei privilegi di nascita. Ha una nobiltà d’animo non di sangue, è il simbolo di una classe sociale in ascesa e di una nuova 5 realtà politica ed economica, self-made-man che ha saputo cogliere al volo una buona opportunità, trasformandosi da rude abitatore dei boschi in perfetto çivaler, non temendo nemmeno la comparazione a Orlando e Oliviero. L’Entrée d’Espagne Scritta tra il 1320 e il 1340da un anonimo “Patavian” che afferma di ispirarsi alla cronaca dello pseudo Turpino, proveniente dal fondo cavalleresco dei Gonzaga. L’Entrée composta di sedicimila fra endecasillabo e alessandrini, ci è pervenuta mutila di circa uN quarto della storia. Si tratta di un romanzo strutturalmente ben costruito, che narrando i fatti precedenti della rotta di Roncisvalle, ambisce a gareggiare con il modello romanzesco medievale, la Chanson de Roland. Lo scrittore padovano scrive per lettori avvertiti e di buon gusto, e il suo romanzo si propone ad un pubblico di rango sociale elevato. Nell’Entrée si narrano eventi che precedono la rotta di Roncisvalle: - La prima parte della storia è incentrata sulla campagna di Carlomagno in Spagna, che si conclude con la conquista della città di Nobles. In cui si ha il duello tra Orlando e Feragu che rappresenterà un modello per tutti gli scrittori di romanzi cavallereschi. - Nella seconda parte Orlando, a causa di una discussione con l’imperatore, decide di abbandonare la Francia e di raggiungere la Terra Santa. Qui il paladino ricorre alle sue più profonde risorse morali per non restare del tutto soggiogato dalla bellezza di Dionés, figlia del soldano di Persia. - Al suo ritorno in Europa, un eremita gli predice il suo tragico destino: troverà la morte sette anni dopo la conquista di Pamplona, Carlo offre al nipote la corona dell’impero, ma il paladino, sapendo che ha solo sette anni di vita, rifiuta, per cui andrà per il mondo a conquistare terre e a convertire i pagani. La dottrina religiosa di Patavian è di buon livello, mentre quella classica è scolastica ed è presente nel romanzo con frequenti citazioni, talora in latino. Il Padovano ha ben presenti i testi principali della narrativa epica e, soprattutto, romanza. Egli, oltre ai poemi di Enea e di Troia e al Roland, maneggia numerose canzoni di gesta, per valorizzare il sostrato storico delle imprese di Carlo e di Orlando, è notevole l’influsso della cultura cavalleresca bretone. In più occasioni il poeta padovano richiama a degli episodi del ciclo di Artù, come il duello tra Tristano e Moroldo o le vittoriose campagne di Febus; e le avventure di Orlando nelle terre d’oriente risultano condizionate dalle ambages degli eroi bretoni. Nelle terre di Persia, il Miles Christi, si trasforma in un cavaliere errante che senza meta va incontro a esperienze di vita e di fede. Le novità più interessanti riguardano il personaggio di Orlando, nell’Entrée vediamo le prime conversioni ideologiche del paladino che verrà portato a compimento da Boiardo e da Ariosto. Il padovano sembra capire le potenzialità di uno sfruttamento comico di Orlando, che implica una degradazione del ruolo epico del personaggio. Anche col personaggio Estout, Astolfo, cavaliere inabile, destinato ad interpretare il ruolo del comico, anzi del “buffone” nella compagnia cavalleresca. Purtroppo, la lacuna testuale più ampia riguarda le gesta di Orlando in Oriente. Il Roman d’Alexandre, récit de voyage ci presenta un reportage esotico in cui le imprese dell’eroe macedone rappresentano il modello con il quale Orlando vi è confrontato. Nella prima parte del romanzo lo troviamo ad osservare sulle pareti del castello di Nobles “toz le batiles d’Alixandre” una sorta di ripasso dell’avventurosa lezione del predecessore prima di intraprendere l’iter in Pagania che si concluderà con la conquista di Gerusalemme. Ma nel poema francoveneto abbiamo dei versi nuovi grazie alla rielaborazione di certi passi del Milione, evidente nella parte in cui Orlando, accompagnato da Sansonetto, si avventura nel regno di Persia con il compito di reclutare un esercito da opporre alle schiere di Malcuidant. Dal libro di Marco Polo vengono prese curiosità etnologiche, come le consuetudini sessuali delle Gent di Sidoigne, che offrono le proprie spose agli stranieri di passaggio. Il Padovano sapeva che insistere sui personaggi femminili significava aprire le porte all’amore e quindi alla tradizione bretone, dando così l’opportunità di variare e innovare stilisticamente il dettato cavalleresco carolingio. La Prise de Pampelune di Nicolò da Verona Viene considerato come un romanzo che si offre come continuazione dell’opera del Patavian. La Prise de Pampelune è contenuto nel manoscritto francese di ascendenza gonzaghesca. Il poeta Nicolas è stato identificato con Nicolò da Verona, autore di altre due opere: 6 - Passion: in cui ammette di aver narrato molte storie in lingua francese - Pharsale: poema epico di ispirazione lucanea dedicato nel 1343 a Nicolò I, signore di Ferrara e di Modena La Prise non è datata e non sappiamo se è stata scritta prima o dopo la Pharsale. Nicolò si ricollega all’Entrée, anche se incapace di porsi allo stesso livello del Patavian, riprendendo però i caratteri dei personaggi e gli stessi tratti stilistici e retorici. Con la Prise abbiamo un impianto dietetico immobile tipico delle più antiche chansons de geste. Questo romanzo è un monotono susseguirsi di scontri, battaglie, l’unica cosa rilevante è il piglio “nazionalistico”, più padano che italiano, che emerge quando entra in scena Desiderio, re dei lombardi. Nell’assedio di Pamplona il coraggio di Desiderio risultano decisive e al sovrano italiano gli viene concesso il diritto di chiedere all’imperatore un premio. Desiderio vuole la libertà e l’indipendenza dei lombardi, e possiede il paese più bello e ricco al mondo per cui non vuole altre terre o reami. Gli ultimi romanzi francoveneti: la Guerra d’Attila e l’Aquilon de Bavière La Guerra d’Attila del notaio bolognese Nicola di Giovanni da Casola e l’Aquilon de Bavière di Raffaele da Verona radicalizzano le innovazioni tematiche e stilistiche porporate dal Padovano nell’Entrée, privilegiando gli elementi romanzeschi rispetto a quelli epici. L’Attila scritta fra il 1358 e il 1368, è conservata in due codici cartacei autografi, sedici canti di varia lunghezza, che non sono giunti alla conclusione, indirizzati però a una ristretta clientela cortigiana. Il poema è dedicato da Nicola a Bonifazio Ariosti, zio del marchese Aldobrandino III d’Este. Nel romanzo Nicola celebra la dinastia attraverso fantasiosi eroi, come Foresto d’Este, formidabile condottiero che sarà ricordato nella Gerusalemme liberata, e suo figlio Acarino, antagonista anche in amore del re degli Unni, al quale sottrarrà Gardena. Nicolò anticipa la storiografia rinascimentale dedita alla casa estense. Anche se non sono mesi in scena i cavalieri di Carlomagno, l’Attila è un romanzo cavalleresco. I modelli e le fonti primarie sono l’Entrée d’Espagne, l’Aspremont, l’Ogier. L’autore vuole mostrarsi cronista e non romanziere. Nell’Attila vi sono numerosi elementi magici, è strettamente legato alle fables de Breton, inoltre alla battaglie in campo aperto si alternano le cortesi passioni di dame e cavalieri di chiara ascendenza arturiana. Lo stesso Attila non è solo presentato come un truce guerriero ma anche come innamorato di Gardena, regina di Damasco. Il personaggio di Gardena, è il centro propulsore della tematica amorosa che in qualche modo è l’anticipazione di Angelica nel poema del Boiardo. L’Aquilon de Bavière è un romanzo pastiche, in cui si mescolano metri e lingue, motivi e situazioni narrative importati da altri generi. Raffaele ha una cultura enciclopedica, autori classici e medievali, poesia religiosa e amorosa, romans arturiani e opere didascaliche, che rifonde nel testo. Nell’Aquilon le ambages arturiane vengono riproposte ad esempio nell’episodio con protagonista l’incantatrice Sibille di Valnoire. Orlando viene presentato come l’erede di Galaad, entrambi cavalieri perfetti sulla via della santità. Raffaele come Nicola, inserisce numerosi personaggi femminili adatti alla magia e alla seduzione, come Dido, la bella figlia dell’Amirant di Cartagine e soprattutto l’amazzone Gaiete, nipote di Pantasilee. Gaiete ha una personalità forte ed affascinante, esperta di magia che incarna il modello romanzesco della donzella guerriera e innamorata. È proprio nell’Italia del nord-est che si sperimentano i nuovi romanzi d’armi e d’amore. L’Aquilon de Bavière fu composto tra il 1379 e il 1407, giunto sino a noi in un’unica copia autografa a dimostrazione di una limitata circolazione. Egli dimostra di aver fatto ricorso alla lingua francescha per dilettare un pubblico eterogeneo. Siamo in una stagione che segna il trionfo della lingua toscana, con la quale Raffaele, dimostra di avere una buona dimestichezza, come testimoniano le nove ottave che hanno funzione di proemio e le altre poste in chiusura di romanzo. Si pensa quindi a un soggiorno in Toscana di Raffaele, perché indica con precisione i nomi e i luoghi di essa, mentre riguardo al rilievo sulla ricchezza di Firenze, secondo Raffaele originata da un dono di Orlando per restaurare la città distrutta dall’invasione di Attila, è stato interpretato in vista della rivalità politica tra i Visconti e la repubblica fiorentina. Raffaello probabilmente era stato cliente di Giangaleazzo Visconti, forse trasfigurato sia nel personaggio di Orlando che in quello di Aquilon, che infatti avrà sul cimiero il sarpant verd, simbolo dell’arma viscontea. 7 Storie cavalleresche e ideali borghesi Con Andrea il romanzo cavalleresco carolingio viene “italianizzato”. Le innovazioni applicate dal narratore si rifanno a componenti retoriche, stilistiche, letterarie e morali, che ritroviamo nella produzione letteraria toscana, nelle opere di Per Giovanni Fiorentino, di Antonio Pucci, di Franco Sacchetti, che rinnovano una tradizione popolare. Quindi tra un duello e un assedio, ci sono degli intrighi di stampo comico-cavalleresco, i proverbi e le sentenze si alternano ai principi religiosi ed etici che illuminano gli itinerari dei cavalieri nei regni ultramondani. Grazie alle prose barberiniane, il prodotto cavalleresco si “toscanizza”. In questi romanzi vediamo una svalutazione di quegli ideali epici, politici e religiosi, il sistema cavalleresco è cambiato perché diverso è il contesto sociale in cui opera lo scrittore, come è diversa l’aspettativa dei lettori. A Firenze la mentalità di tipo feudale era stata contaminata dalle costumanze della società comunale di stampo borghese ed è questa nuova realtà sociale che troviamo presente nei testi barberiniani. I pericoli per i cristiani vengono dalle rivalità tra i casati più che dalle invasioni degli infedeli. Le baruffe familiari, i tradimenti, le faide si rinnovano di generazione in generazione distolgono l’attenzione dalle priorità collettive, sia politiche che religiose. Tutto ciò contribuisce a familiarizzare l’epos e ad annullare l’impatto drammatico degli avvenimenti narrati: il tono da solenne si fa domestico, la morale di fondo intimamente borghese. Grazie al compromesso tra versatile e fiabesco, tra cronaca e fantasia, possiamo parlare di letteratura d’evasione. Andrea va incontro ai gusti, alle esigenze di quella società si artigiani e mercanti che è attratta da favole cavalleresche ma che tende sempre al realismo e alla concretezza, un pubblico non raffinato. Il romanzo in prosa è più adatto per la classe media, come un piacere casalingo, da camera e non da piazza per un’utenza non colta ma alfabetizzata. I romanzi di maggior successo: Reali di Francia e Guerrin Meschino I Reali di Francia, stampati per la prima volta a Modena da Pierre Maufer nel 1491, si tratta del più importante romanzo di Andrea che si impose come testo base, come introduzione alla cultura cavalleresca, in cui non si leggono solo biografie di personaggi del ciclo carolingio, ma si dà conto della storia dei casati. Le biografie degli eroi sono una la fotocopia dell’altra. Se l’infanzia è sempre costellata da persecuzioni e da ingiustizie, l’adolescenza è vissuta altrettanto pericolosamente, i cavalieri sono costretti a stare lontano dalla patria, fino a che circostanze favorevoli non li permettano di mette in mostra la propria forza e il proprio valore, in guerra o durante una giostra. Lo schema prevede che fiorisca l’amore tra l’eroe e una principessa che non sia di fede cristiana, ma che si convertirà. Infine, il cavaliere recupera la sua identità rientrando in possesso del suo status sociale che l destino avverso gli aveva sottratto. Nonostante la rigidità dell’impianto narrativo Andrea riesce sempre a variare le storie, l’abilità del narratore sta nell’alternare guerre con ozi di corte, amori e tradimenti, avventurosi viaggi e lunghi assedi. Andrea vince la monotonia e non annoia i suoi lettori, che si aspettano di vedere soffrire il loro eroe, ma che alla fine vogliono sia la giustizia a trionfare. Guerrin Meschino: tradotto in francese nel 1490 e in spagnolo nel 1512 Princeps: stampata a Padova per Bartolomeo Valdezochio nel 1473, è il primo romanzo cavalleresco ad uscire da una tipografia Col Guerrino Andrea scrive un perfetto modello di romanzo di iniziazione, oltre che di formazione. Quella di Guerin è la quete, la ricerca di se stessi, delle proprie origini, del proprio ruolo nella società. La quete di Guerrino si fonda sulla graduale esperienza delle cose, della vita e della morte. Guerrino, homo viator, giunge alla conoscenza della propria retta individuale compiendo un lungo pellegrinaggio attraverso un mondo conosciuto, dando l’opportunità al narratore di descrivere uno spazio geografico che dalle terre orientali all’Irlanda. Le nozioni geografiche e topografiche di Andrea, che scrisse il suo romanzo circa un secolo prima del viaggio di Colombo, si dimostrano aggiornate. Sicuramente aveva presente la Cosmographia di Tolomeo nella traduzione di Jacopo d’Angelo da Scarperia. Andrea fa ricorso alla cultura enciclopedica medievale e a testi letterari e Scientific come il Roman d’Alexandre, il Dittamondo di Fazio degli Uberti, La composizione del mondo di Ristoro d’Arezzo, Il Milione di Marco Polo. Il suo è un livre des merveilles con accurate descrizioni di paesi e popoli, notizie e curiosità folkloristiche, inserti geografici fantastici e leggendari. Il Guerrin Meschino mette in evidenza le qualità narrative di Andrea, la sua abilità nel mescolare, modellare e compattare in forme nuove materiali di provenienza diversa. Inoltre l’avventuroso 10 Guerrin Meschino ci propone un ritratto del lettore ideale dei romanzi di Andrea. In questo libro i mercanti toscani potevano rileggere la quotidiana epopea in cerca di maggiori fortune. Un testo anonimo, il Rambaldo, è una sorta di testo preparatorio del Guerrin Meschino, più che una imitazione dello stesso. Il manoscritto reca una firma di un misterioso “B.citadino fiorentino”, che la B sta per Barberino è un’ipotesi da rifiutare, si tratterà sicuramente dell’iniziale del copista. 11 Capitolo 4 LE STORIE DEI PALADINI DI FRANCIA NEL XV SECOLO Tra prosa e ottava rima: la produzione cavalleresca nel Quattrocento La Toscana per gran parte del Quattrocento, è il ruolo della capitale della letteratura cavalleresca italiana per due cause, entrambe agevolate dall’autorità della lingua che si parlava sulle rive dell’Arno, che favorirono questo primato sia nella produzione in prosa che in quella in versi: - il lavoro di riorganizzazione dei materiali carolingi svolto da Andrea da Barberino, che educò le generazioni seguenti di scrittori al riciclaggio delle vecchie partiture romanzesche - l’efficacia poetico-narrativa dell’ottava rima enfatizzata dalla riproduzione a stampa Raffaele da Verona apriva l’Aquilon de Bavière con un breve preambolo di nove ottave, come un piccolo antipasto toscaneggiante prima di dedicarsi alla prosa francoveneta. Dopo le sei dedicate all’invocazione religiosa, la settima e l’ottava sono spese per illustrare la materia trattata, mentre l’ultima era concepita a modo di scusante per non avere l’autore la competenza e l’abilità per scrivere l’intera storia usando delle “dolce rime d’otto versi”. La rinuncia all’uso della lingua volgare e dell’impianto strofico, non evidenziano solo la scelta stravagante ma simboleggiano la ripresa dei modelli strutturali della letteratura cavalleresca toscana, ossia il cantare in ottava rima e la prosa di romanzo alla Andrea da Barberino. La grande maggioranza dei testi carolingi in prosa ed in ottave risalgono tra il secondo e il terzo quarto del secolo, ovvero tra la generazione di Andrea da Barberino e quella di Luigi Pulci. Il Cantare dei cantari, appartiene alla prima metà del Quattrocento, nei suoi versi l’anonimo richiama la trama di alcuni romanzi di Andrea da Barberino (Reali di Francia, Aspramonte, Nerbonesi) del Rinaldo da Montalbano, della Spagna, dell’Ancroia, menzionando anche un episodio, ossia l’avvelenamento di Tirante a Anfrosina, coppia di giganti amici di Rinaldo, che si legge nel tardo Innamoramento di Carlo Magno. Il romanzo carolingio in prosa volgare anticipa e prepara quella dei poemi in ottava rima ma se la trasposizione in ottava rima fu dato dai camerini che riadattavano i romanzi in prosa per il loro pubblico di strada, solo con lo sviluppo dell’editoria, prende il via la traduzione in versi di tutti i canovacci in prosa disponibili sul mercato. Fortuna e sfortuna del romanzo cavalleresco in prosa Siamo privi di un aggiornato censimento dei manoscritti cavallereschi pervenuti, ma per quello che concerne la produzione toscana, è grazie al bibliofilo Giovanni di Domenico Mazzuoli, detto Stradino, se possiamo farci un’idea della presenza dei etti cavallereschi in prosa oltre l’età della stampa e del trionfo dell’ottava rima. Alla sua morte, avvenuta a Firenze nel 1549, lo Stradino lasciò al duca Cosimo i volumi accatastati nel suo “armadiaccio”, cosicché molti romanzi cavallereschi, definiti dallo Stradino “Rinaldini”, poterono trasferirsi nella biblioteca della famiglia Medici. La collezione del Mazzuoli è utile perché ci consente di verificare la fortuna del cliché romanzesco che si afferma con le narrazioni di Andrea da Barberino. Le avventure cavalleresche di Carlomagno e dei paladini in Spagna, nei territori governati dal re Marsilio, sono tra le più celebrate, sia in prosa che in ottava rima. La Spagna toscana in prosa è più trada e si conserva nel manoscritto Mediceo Palatino. Pur essendo fedele ai tracciati dell’Entrée e della Chanson de Roland, la Spagna in prosa ha pochi punti di contatto con il testo di Li fatti de Spagna, mentre è addirittura conflittuale con il rapporto con la Spagna in ottave. La materia contenuta nei testi risale al ‘400 e la matrice barberiniana è molto evidente, si pensa infatti che Andrea da Barberino fosse il più importante autore delle vicende romanzesche in terra di Spagna. Viene considerato come un catalizzatore cavalleresco, un Omero medievale, ad esempio il testo anonimo, Fortunato, conservato nel manoscritto Panciatichiano, narra in stile barberiniano una storia molto simile a quella del Guerrino, e dunque del Rambaldo, incentrata sulla queste dei genitori e movimentata da lunghi viaggi in terre remote. Tra le prose di romanzo successive o contemporanee ad Andrea da Barberino, si ha protagonista Dudone, risalente ai primi decenni del ‘400. Il testo anonimo ha molti punti in comune con il Rinaldo di Montalbano e con il Danese, e dimostra perciò la conoscenza dei contenuti romanzeschi. Un altro esempio è il Rinaldino da Montalbano che è incentrato sulle gesta di un paladino e su episodi sentimentali, condito da vivaci spunti novellistici. La saga rinaldiana Rinaldo, nipote dell’imperatore e cugino di Orlando era il personaggio più amato dal pubblico. Gran parte delle avventure cavalleresche giunte sino a noi lo vede protagonista assolute, infatti intorno al suo nome si è costruita un’interminabile saga. Rinaldo da Montalbano è il titolo sotto cui 12 Capitolo 5 IL ROMANZO CAVALLERESCO IN TOSCANA NEL SECONDO QUATTROCENTO Ludi cavallereschi nella Firenze del Magnifico La vocazione cavalleresca dei fiorentini aveva radici antichissime. Se nella prima parte del Duecento, nella Firenze rievocata nostalgicamente da Dante attraverso le parole di Cacciaguida, le brigate dei giovani erano intitolate alla Tavola Rotonda, nel corso dei due secoli successivi la moda delle costumanze cortesi e la passione per i simboli cavallereschi prendevano ancora più vigore. Il popolare scrittore, prendendosi beffe della vanagloria militare dei fiorentini, ammetteva che si trattava di sentimenti cavallereschi più virtuali che sostanziali. Il fascino degli ideali e dei costumi cavallereschi seduce anche i nuovi signori di Firenze, forse più della cultura classica, perché propedeutica alla creazione di leggendarie genealogie e alla celebrazione di giovani casati come quello mediceo. Il mito fiorentino di Carlo Magno e la fortuna della letteratura carolingia nella cerchia medicea Le tems revient, il motto francese. Le consuetudini cortesi e cavalleresche erano dovute anche ai legami con la monarchia d’oltralpe, resi ancora più saldi dopo che nel 1461 era salito al trono Luigi XI. Nel 1465, ancora vivo Piero, il re francese concedere di ornare l’arma medicea con i gli d’oro di Francia, mentre 5 anni più tardi Lorenzo, potrà fregiarsi del titolo di consigliere e ciambellano dello stesso Luigi XI. La Francia, rappresentava il modello supremo di eleganza cortese, di nobiltà cavalleresca. A Firenze la politica ispirava la poesia, cosicché nel secondo ‘400 praticare l’epopea carolingia era come rendere omaggio alla Francia. La figura del grande imperatore medievale era come un punto di tangenza tra letteratura e storia, tra leggenda e fede, inoltre Carlomagno poteva rappresentare un simbolo di forza militare e di devozione turca contro l’invasione turca. La leggenda della devastazione e della ripresa della città di Firenze fu riproposta più autorevolmente da Donato Acciaiuoli (1429-1478) nella Vita Caroli Magni, dedicata a consegnata il 2 gennaio 1462, nella redazione latina, a Luigi XI dalla legazione della repubblica fiorentina recatasi in Francia in occasione dell’incoronazione. Acciaiuoli ritrae Carlomagno come un prototipo del buon principe, forte, giusto e amante della cultura. Per l’Acciaiuoli non è solo il salvatore della città, ma il vero padre della civiltà fiorentina. La devozione alla figura di Carlomagno inoltre viene confermata sia nel Morgante di Luigi Pulci, sia nella Carlias, iniziata a scrivere intorno al 1465 da Ugolino Verino (1438-1516) su commissione dei Medici. In questo poema trovano spazio le leggendarie “imprese fiorentine” dell’imperatore, che fanno da sfondo alle prove di valore svolte nella guerra contro i longobardi da un antenato dei Medici, affiancato da altri milites della nobiltà fiorentina. A queste opere si aggiunge anche il Ciriffo Calvaneo, composto sempre sotto il volere dei Medici, da i fratelli Pulci. I compiti degli scrittori sono ben distinti sul piano tematico, stilistico e linguistico, così come è differenziato il pubblico di riferimento: - Il Verino si rivolge al più esigente e raffinato versante umanistico - L’Acciaiuoli si accoda ad una tradizione storicistica cara alla classe oligarchica e alto-borghese - Le ottave dei fratelli Pulci stuzzicano la fantasia popolare rinfrescante il materiale letterario trasmesso dai cantari. Se l’Acciaiuoli, da buon biografo, ripercorre per intero la vita dell’imperatore, agli altri poeti spetta soffermarsi su alcune fondamentali azioni militari di Carlo: - Pulci nel Morgante racconta le imprese dei paladini, della Rotta di Roncisvalle e la conquista della Spagna. Siccome si vuole celebrare l’intera dinastia di Carlomagno, i Pulci incentrano l’azione del Cirillo al tempo in cui regnava Ludovico il Pio, figlio dell’imperatore - Verino nella Carlias narra la conquista di Gerusalemme e la guerra contro i longobardi La Carlias di Ugolino Verino Iniziata nella metà degli anni ’60, impegnò Verino per tutta la sua vita. Ultimò il poema nel 1480, ma continuò a sistemare il testo per altri trenta anni per paura dei giudizi di personaggi illustri come, Poliziano, Giovanni Pico della Mirandola, Giovanni Pontano, ai quali ne sottopose la lettura. Il poema in 15 libri si conserva in un manoscritto di 5 codici, ciascuno dei quali deposto in una diversa redazione che non fu mai dato alle stampe. La Carlias fu inviata in Francia nel 1493 come dedica al re Carlo VIII. 15 Verino sperimentò, provando a conciliare sul piano stilistico e tematico tre diverse componenti letterarie: - quella virigiliana - quella dantesca - quella cavalleresca Ciò viene dimostrata dalla trama divisa in tre parti: - Nella prima Carlo, dopo essere naufragato in Epiro, giunge alla corte di Giustino, a cui narra le imprese in Terra Santa, concluse con la vittoria dei Franchi sugli eserciti di Tibaldo, Poro e Solimano. - Nella seconda parte l’imperatore trovandosi nei presi del tempio della Chimera si avventura in un viaggio ultramondano, durante il quale ripercorre i tre regni dell’inferno, del Purgatorio, del Paradiso - Nella terza parte Carlo passa in Italia per liberarla dai longobardi. La Toscana invia a Carlo 300 cavalieri comandati da 3 duci: un Medici, un Capponi, un Adimari. Nel frattempo Marsilio di Spagna, Agolante di Libia e Serpentino di Lusitania uniscono i loro eserciti a quelli del re longobardo Desiderio. Ai combattimenti partecipa anche il gigante Burrato, convertito al cristianesimo al tempo della guerra in Terra Santa. Quando Orlando, in compagnia del fiorentino Gino Capponi, raggiunge il resto dei cristiani, la guerra si avvia a una felice conclusione. Desiderio si rifugia a Pavia, che però viene presto espugnata. Il vittorioso Carlo si dirige verso Roma, ma si ferma prima a Firenze, che ricostruisce quasi per intero cingendola di nuove mura. A Roma, il papa Adriano incorona Carlo imperatore, che infine se ne torna ad Aquisgrana, dove si celebra il suo trionfo. Nell’ultima parte Verino fa grande riferimento alle storie dei paladini, dovuto allo stimolo del successo del Morgante di Pulci. Riprende anche l’Aspramonte e i Reali di Francia per le guerre combattute da Orlando in Calabria e al Danese e al Morgante per il personaggio del gigante Burrato, alla Spagna per il Serpentino. Inoltre ricordiamo anche l’Ugo di Alvernia di Andrea da Barberino in cui il protagonista svolge un viaggio nell’oltretomba. Altri romanzi, romanzieri e canterini nella Firenze del tardo Quattrocento L’editoria fiorentina non sembra favorire i titoli cavallereschi quanto i generi popolari, come i poemetti storici e leggendari, i cantari agiografici, le sacre rappresentazioni. Cioè si spiega anche per la continua fortuna del romanzo d’ispirazione barberiniana. In età laurenziana, molti testi francesi, compresi alcuni romanzi cavallereschi, furono tradotti e messi a disposizione di un più largo pubblico grazie alla buona volontà di alcuni letterati di secondo piano, come ad esempio Carlo Del Nero (1434-1480), figlio di Pietro Veneziano. Erano una famiglia di mercanti legati al potere mediceo sin dai tempi di Cosimo. Negli anni della signoria del Magnifico, Carlo rivestì ruoli politici di un certo livello e per due volte fu castellano di Livorno. Interessato alla letteratura, si dedicò alla divulgazione della poesia cortese e cavalleresca d’oltralpe in seguito ad un suo breve soggiorno a Montpellier nei primi anni ’60. Oltre al volgarizzamento della Belle dame sans merci di Alan Chartier, il Del Nero nel 1476 tradusse in prosa il Paris et Vienne, una tra le più celebri narrazioni cavalleresche, conosciuta in tutta Europa. La traduzione di Carlo è letterale, a parte qualche pezzo modificato per rendere scorrevole la narrazione e per approfondire alcuni aspetti sentimentali e patetici della storia. Lorenzo di Iacopo degli Obbizzi (1440-1485) originario di Lucca, la sua famiglia, un tempo potente, era legata alla parte guelfa, ma fu sbandita nel primo ‘300 quando il condottiero ghibellino Uguccione della Faggiuola prese possesso della città. Un ramo della famiglia si trasferì a Prato, dove Lorenzo nacque e trascorse la sua giovinezza. Autore anche di ballate, poemetti storico-leggendari e testi devozioni, Lorenzo compone il suo primo romanzo cavalleresco, La storia dei quattro cavalieri di Francia, nel 1472. L’opera è suddivisa in 52 cantari in ottava rima. Le avventure dei paladini, si accavallano l’una dopo l’altra e a parte qualche ripresa dantesca, il testo è essenzialmente cavalleresco. Riprende spesso il Danese e i Cantari di Rinaldo ma non il Morgante. Dello scrittore ci rimango altre 3 romanzi: - Il libro di Tapinello figliuolo di Rinaldo - Il libro del franco Malignetto figliuolo di Malagigi negromante - Il libro del valentissimo Arguto figliuolo del Danese Uggieri In questi romanzi scritti tra il 1475 e il 1478, l’Obbizzi abbandona l’ottava rima per la prosa, accogliendo i precetti di Andrea da Barberino. 16 Il più celebre canterino di epoca laurenziana fu Antonio di Guido (1420-1486) ricordato con stima e affetto da Pulci in chiusura del Morgante. Di lui i rimangono rima sacre e profane, ma sappiamo che nel suo repertorio vi furono anche canzoni di gesta. 17 secondo Astarotte anche gli abitanti dell’altro emisfero che ignorano Cristo possono essere redenti, se hanno bene operato, mentre sono destinati alla dannazione i musulmani e i giudei perché negano l’unica vera fede, quella cristiana. Questo diavolo è un esempio di umiltà spirituale che denuncia il peccato e l’errore dei mortali. Le fonti del Morgante Nell’ultimo cantare del Morgante Pulci ci offre delle indicazioni riguardo alla sua cultura cavalleresca. Pulci si riferisce in primo luogo alle composizione di Andrea da Barberino, ricordando alcuni episodi dei Reali di Francia e riassumendo parte dell’Aspramonte. Inoltre vi sono citazioni di personaggi ed episodi specifici di 3 opere anonime: - Rinaldo da Montalbano - Danese - Spagna: sfrutta la redazione in ottava rima Dimostra anche la conoscenza della Spagna in prosa e dall’analisi del Rinaldo da Montalbano e del Danese capiamo che Pulci aveva presente le partiture in prosa appartenenti al ciclo rinaldiano. Nel 1869 un giovane studioso pubblica un articolo in cui dice che aveva rintracciato all’interno del manoscritto Palatino 78 una primitiva sceneggiatura del Morgante, quasi del tutto coincidente con esso, fonte diretta dei primi 23 cantari, ovvero del Primo Morgante. Si trattava di un testo popolare di 61 cantari, mutilo all’inizio e alla fine, destinato alla recitazione in piazza che fu chiamato Cantare di Orlando. Pulci passò in questo modo dal rango di “rinnovatore” del genere romanzesco a quello di “rifacitore” di un cantare anonimo. Si può concordare sul fatto che Pulci avesse sott’occhio un canovaccio che riportava a grandi linee una storia simile, ma certo non uguale a quella dell’anonimo canterino. Tra le diverse ipotesi vi è quella che può considerarsi come la più naturale: sia l’anonimo canterino che Pulci potrebbero aver fatto riferimento ad una fonte comune, non necessariamente un cantare, magari una prosa di romanzo che potremmo interpretare come una delle tante puntate del ciclo rinaldiano che nel secondo ‘400 venivano trasposte in ottava rima. A differenza dei canterini, Pulci poteva apporre il suo marchio d’autore, i suoi interventi erano in grado di dar nuova vita a quei canovacci. Gli ultimi 5 cantari del Morgante, confermano la missione artistica del Pulci, ossia di dare una nuova dignità letteraria ai tanti copioni cavallereschi del secolo XV. La Spagna in rima e in prosa diviene la fonte principale del “secondo Morgante”, incentrato sul tradimento di Gano e sulla tragedia di Roncisvalle. Anche in questo caso, Pulci inventa nuovi personaggi, dilata e trasforma alcuni episodi, anticipa gli avvenimenti, mescola e contamina nella sua opera materiali presi da altri testi. Biografia e poesia nei cantari sulla dolorosa rotta Tra il 1475 e il 1476 ci fu una contesa ideologica e culturale tra Pulci, il Dei, il Bellincioni, depositari della tradizione volgare fiorentina, e il Ficino e gli altri dotti dello studio, promotori del nuovo sapere. Pulci si espose più degli altri scrittori scrivendo sonetti che mettevano in ridicolo le tesi dei neplatonici. In questo momento il rapporto tra Pulci e Lorenzo de’ Medici va deteriorandosi ma senza una rottura definitiva. Per cui Pulci, nell’ultimo decennio della sua vita decide di mettersi a servizio del condottiero Roberto da Sanseverino, e trascorse gran parte del tempo lontano da Firenze, in particolare dopo la morte di Lucrezia Tornabuoninnel 1482. Si capisce che in questa fase della cultura fiorentina per un letterato della cerchia laurenziana investire il proprio talento nel settore cavalleresco non aveva più molto senso, se non come scelta controcorrente. Pulci però ritenne la trappola ordita da Gano ai danni di Orlando, argomento in grado di dare un nuovo slancio al suo poema. Gli ultimi cantari, per cui, non si ha più quella libertà d’azione come nella prima parte del testo, si ha una frattura stilistica, il narratore altera il suo punto di vista e cambia il registro espressivo, caricando di nuovi significati la sua opera. In realtà dietro al testo si nasconde una trama costellata di divagazioni astrologiche, filosofiche e religiose, che fanno riferimento alla storia personale di Pulci e ai mutamenti culturali in atto nella Firenze medicea. L’intero poema nasconderebbe un percorso di ascesi come quello della Commedia di Dante: - prima parte (cantari I-IX) dedicata agli atti ribelli e alle ambages sensuali dei paladini e con rappresentati con stile comico, il grande caos infernale - seconda parte (cantari XI-XXIV) che si apre alla passione, giocata tra pratica cavalleresca e idealismo stilnovistico 20 - ultima parte (cantari XXV-XXVIII) incentrata sul martirio di Orlando con l’aggiunta dello sterminio degli infedeli e la conquista di Spagna, un ritrovato destino dell’umanità, una nuova consapevolezza etico-religiosa sorta in seguito al compimento di un itinerario di purificazione I cantari possono essere interpretati anche come un tentativo di riabilitare il “primo Morgante”, apprezzato dal popolo ma censurato dall’élite letteraria e religiosa. In alcuni passi Pulci inizierà a celebrare l’immoralità dell’anima o a riconoscere le sue colpe con cui tenta di difendersi attraverso le lezioni religiose del suo alter ego, il diavolo Astarotte. Pulci nel 1483 ormai stanco di discutere, un anno prima della morte, scrive la Confessione, un poemetto dedicato alla Vergine, inteso come atto di purificazione e volto alla spiegazione degli errori del passato. Fu fra’ Mariano da Gennazzano, predicatore agostiniano a cui Luigi aveva affidato le cure della sua anima tormentata. Ma ciò non fu sufficiente a evitare al cadavere del poeta la sepoltura in terra sconsacrata. 21 Capitolo 7 LA LETTERATURA CAVALLERESCA IN TIPOGRAFIA La fortuna editoriale dei testi cavallereschi in ottava rima Con la Schiatta dei paladini di Francia, composta da Michelangelo di Cristofano da Volterra tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, possiamo verificare l’offerta dei libri cavallereschi su prodotti a stampa. Nel cantare del Volterrano, si contano 33 titoli, tutti di appartenenza carolingia tranne la Tavola Ritonda e i Cantari di Carduino. Michelangelo è nato nel 1464, e si occupa dell’ottava rima, è una figura di tradizione tra la piazza e la tipografia. Impegnato nella rielaborazione del materiale barberiniano, ci ha lasciato l’Incoronazione del re Aloysi, una riduzione in ottave dell’ultima parte del terzo libro dei Narbonesi, e una versione, sempre in ottava rima, dell’Ugo d’Alvernia, interpolata con spezzoni dell’Aiolfo del Barbaricone. Anche le prime 59 ottave della Schiatta dei paladini di Francia, sono una trasposizione in versi della rassegna genealogica contenuta nell’ultimo capitolo del VI libro dei Reali di Francia. Sia l’Incoronazione del re Aloysi che la Schiatta dei paladini di Francia furono commercializzate a mezzo di stampa. Ciò però non avvenne con l’Ugo d’Alvernia, contenuto nel Manoscritto Palatino 82, scritto da Michelangelo per la gran parte del 1488. Il manoscritto contiene un elenco di libri che Michelangelo dichiara di aver letto più volte, si tratta di un repertorio della cultura canterina, in cui spicca la presenza dei testi cavallereschi che a partire dagli anni ’70, iniziarono ad essere stampati nelle tipografie italiane, in particolare in quelle padane. A partire dalla seconda metà degli anni ’70 il romanzo cavalleresco divine il genere letterario a più alta commercializzazione. Venezia diviene capitale dell’editoria rinascimentale, fu anche il centro di produzione cavalleresca più attivo, ma anche città come Milano, Bologna, Firenze, Roma e Napoli diedero il loro contributo alla pubblicazione e allo smercio di libri di cavalleria. Gli incunaboli cavallereschi Il Guerrin Meschino fu il primo romanzo ad avere l’onore della stampa. Mentre il primo testo cavalleresco in ottava rima fu l’Altobello, pubblicato a Venezia nel 1476 da Antonio Pasqualino. Questo poema suddiviso in 32 cantari, dove si narrano le gesta gloriose del giovane discendete di Priamo e di suo fratello minore Troiano a fianco dei paladini di Carlo, godette di un gran successo. Sempre a Venezia nel 1479 fu pubblicato l’Ancroia, uno dei romanzi cavallereschi più interessanti, che entra la fine del ‘400 andò a stampa altre quattro volte. Del Rinaldo da Montalbano, conosciamo l’edizione napoletana senza note tipografiche databile intorno alla fine degli anni ’70, cui seguirono due edizioni veneziane nel 1491 e nel 1494. Il 1483 è una data di snodo nell’ambito del genere cavalleresco: Boiardo tra l’autunno del 1482 e la primavera del 1483, dà alle stampe l’opera che muterà la maniera di scrivere i romanzi cavallereschi. Lo sfruttamento commerciale delle storie dei paladini L’invenzione di Gutenberg, provoca molti cambiamenti nella produzione, diffusione e recessione dei testi. L’abbattimento dei costi e dei tempi di confezione del libro favorisce un consumo letterario più ampio, specie di questi generi popolari come il romanzo cavalleresco. Emergono cosi le strategie di composizione e di vendita dei testi, un’opera di riciclaggio, di rimescolamento e di interazione di materiali cavallereschi che garantisce per decenni una ricca produzione di titoli. Queste opere destinate ad una consumazione rapida, subiscono ogni tipo di manipolazione, sono soggette a frequenti riscritture (rapporti tra Morgante e l’Orlando laurenziano), ad ogni sorta di contaminazioni intertestuali (tra le versioni in ottava rima del Danese e dell’Ancroia) a sorprendenti accorpamenti (gli ampi spezzoni del Rinaldo inseriti nell’ultima parte della Trabisonda o, viceversa, la sutura nella parte centrale del Rinaldo). In sostanza, possiamo dire, che i canterini si misero immediatamente al servizio della tipografia. Uno dei modi più semplici per rimettere in circolazione un romanzo cavalleresco sul mercato era quello di cambiargli il titolo, che a volte poteva essere una trappola. Se il romanzo cavalleresco nega le strutture narrative e tende ad agevolare la ramificazione di nuove storie, la diffusione testuale sarà organizzata secondo piani editoriali. Teso ad alimentare le aspettative dei lettori disposti ad affezionarsi ad eroi e storie tra loro collegate, è il lavoro editoriale svolto dagli anonimi operatori di tipografia sul copione dell’Innamoramento di Carlo Magno, composto nella sua versione integrale da 74 canti. All’inizio degli anni ’90 un editore bolognese, Bazaliero Bazalieri, cominciò a pubblicare sezioni dell’Innamoramento di Carlo Magno, mensilmente, anticipando la tecnica di smercio propria del 22 all’attenzione degli autori e del pubblico su basi letterariamente più solide e moderne. Si tratta quindi di una rifondazione. Il neobretonismo nell’Innamoramento de Orlando Nel 1475 a Ferrara venne pubblicato il Teseida di Boccaccio, autore ben presente sullo scrittoio del Boiardo, come Dante e Petrarca. Il Teseida con protagonista Teseo, è il più prestigioso tra i testi in ottava rima della tradizione volgare italiana volti a coniugare elementi epico-cavallereschi ed amorosi. Boiardo guardava soprattutto ai modelli arturiani, sui quali appoggerà i fondamenti ideologici del poema. Non più il solito racconto lineare dei canovacci carolingi, le monotone trame, ma un insieme di avventure in uno spazio romanzesco allargato dove agiscono decine di personaggi “rinnovati” e mossi da amore, a cominciare da Orlando. L’Innamoramento de Orlando si presenta come un progetto di rinnovamento artistico e culturale che ha il suo luogo di attuazione e propaganda nella corte di Ferrara. Si ha l’intenzione di comparare l’età dell’oro, in cui si hanno le favole amorose e guerresche, e la felice contemporaneità in cui domina la signoria estese, per questa ragione molti proemi divengono un gioco di specchi che determina momenti di piena autocontemplazione tra pubblico cortigiano e personaggi del romanzo. La corte di Ferrara può presentarsi al pari di una moderna Camelot e in effetti, Boiardo presenta Tristano e Lancillotto come emblemi parlanti, di un tempo antico ma ormai recuperato e presente. Le molte “cose dilettose e nove” proposte dal Boiardo L’amore è il tema portante del Boiardo che agita e muove all’azione cavalieri e dame, sempre attive e determinanti ai fini dello sviluppo della narrazione. Già in alcuni testi canterini potevamo notare che cominciava ad essere offerto, maggiormente, uno spazio ai personaggi femminili (in qualità di irresistibili amanti, amazzoni, maliziose incantatrici), e agli episodi amorosi. Eppure con l’Inamoramento de Orlando l’eros entra sulla scena cavalleresca, specialmente il primo libro, può essere interpretato come una sorta di triumphus Cupidinis incentrato sul principio ovidiano secondo il quale Amor omnia vincit. Su Orlando la passione provoca un terremoto psicologico, Boiardo ci consegna un personaggio totalmente nuovo che spesso dimentica i suoi doveri militari e morali. L’amore per Angelica diventa diviene l’unico impulso alla vitalità cavalleresca del paladino, si uniforma così alla mentalità e ai comportamenti degli eroi della Tavola Rotonda, e nella sua posizione di cavaliere innamorato, viene equiparato a Tristano e Lancillotto. Un anno prima della pubblicazione dell’Inamoramento de Orlando viene pubblicato l’Innamoramento di Carlo Magno in cui l’ignoto scrittore opera una deformazione psicologica in chiave comico-sentimentale del personaggio di Carlo, il caposaldo morale e militare dell’Occidente, per certi versi simile a quella che Boiardo compie su Orlando. La trasformazione del miles Christi in un ridicolo servo di Cupido, potrebbe essere stata agevolata dalla lettura delle disavventure erotiche dell’imperatore, vittima di una forma acuta di demenza senile. Alla tematica amorosa si aggiunge la dimensione magica e meravigliosa lasciata in eredità dai cavalieri del ciclo carolingio, già consolidato nei canovacci della Spagna e dell’Ancroia, che hanno influenzato le trame del poema. Boiardo inserisce nel romanzo molte fate, maliarde e fattucchiere, a partire dalla stessa Angelica fino ad Alcina, la sorella di Morgana, che si mostrano sempre pronte ad organizzare percorsi pericolosi per mettere alla prova il valore dei cavalieri. Molti di questi episodi nascondo dietro un significato allegorico. Nell’Inamoramento de Orlando non si ha più l’invocazione religiosa ma Boiardo richiama l’attenzione del pubblico con brevi riferimenti a quanto narrato in precedenza. Già nell’ambito carolingio non era una soluzione nuova, nei Cantari di Rinaldo e nell’Antonello si rintracciano degli esordi nei quali all’invocazione sacra subentra una considerazione di carattere etico, ma Boiardo la raffina inserendo una piccola serie di proemi discorsivi di varia materia: sulla fortuna, sulla diversità dei desideri degli uomini, sulla Fama, sull’amicizia. L’abilità narrativa di Boiardo è cimentata attraverso l’inserimento dei brani novellistici nel tessuto del romanzo, tutto ciò grazie alla sua profonda cultura classica. Boiardo ha avuto come modello principe, l’Asino d’oro di Apuleio, con cui ha avuto la possibilità di valutare i meccanismi che consentivano un’alternanza dei registri, ovvero la possibilità di amalgamare le diverse novelle nel plot romanzesco, variando il contesto tematico senza alterare la struttura del poema. All’interno dell’Inamoramento de Orlando vi sono 7 novelle, 5 nel primo libro e 2 nel secondo. Ad esempio alla novella di Narciso, ricorre al Roman de la Rose più che al terzo libro della Metamorfosi di Ovidio. 25 Il trattamento delle fonti Due degli autori più presenti nel romanzo sono Stazio e Plauto. Le opere guerresche di Stazio, poeta romano, agiscono nel corso dell’intero poema mettendo a disposizione molte similitudini o suggerendo materiali per la descrizione di mostri o di scene violente. Tuttavia le tracce staziane più visibili sono nei primi canti del secondo libro—> pag.167 Diverso è il caso della ripresa dei Captivi di Plauto, una delle commedie latine che si andava volgarizzando al fine della rappresentazione scenica. Boiardo nel canto XI e il XIII del secondo libro riadatta la commedia di Pluto nel romanzo, i personaggi borghesi dei Captivi vengono sostituiti dai cavalieri dell’Inamoramento de Orlando, mentre la struttura della fabula resta inalterata. 26 Capitolo 9 IL ROMANZO CAVALLERESCO FRA L’INAMORAMENTO DE ORLANDO E IL FURIOSO L’eredità boiardesca Possiamo dire che Boiardo aveva fatto del rompano un genere anarchico, capace di andare oltre gli schemi del genere. Gli stereotipi sia strutturali che tematici di matrice boiardesca fu propedeutico all’apertura di una stagione della conservazione narrativa. Fino alla metà degli anni ’20 del ‘500, il poema di Boiardo rimase il testo guida per gli operatori del genere cavalleresco. I continuatori dell’Inamoramento de Orlando Nei primi anni del ‘500 inizia la stagione delle continuazioni del capolavoro di Boiardo, tra cui nel 1505 Ludovico Ariosto. Alcuni scrittori minori come, Niccolò degli Agostini, Raffaele Valcieco da Verona e Pier Francesco de’ Conti da Camerino, esibirono sin dai proemi una devozione alla musa boiardesca, cercando di sfruttare il successo dell’Inamoramento de Orlando per uscire dall’anonimato e godere di una gloria riflessa. Gli editori che investono sul prodotto boiardesco si trasformano nei veri committenti, ad esempio lo stampatore Niccolò d’Aristotele de’ Rossi, conosciuto come Zoppino, viene presentato dall’Agostini e dal Valcieco come il regista di alcune operazioni poetiche e commerciali, condotte a saziare la curiosità del lettore. Niccolò degli Agostini, soldato veneziano e poeta, autore dei tre libri del: - Inamoramento di Messer Tristano e madonna Isotta (1515-1520) - Inamoramento di Messer Lancillotto e madonna Isotta (1521) - Un libro ispirato ai Reali di Francia intitolato Le orrende battaglie de’ Romani Fu il più costante tra i commutatori del testo boiardesco, composto di 11 canti, il primo dei tre libri con i quali portò a compimento l’Inamoramento de Orlando fu publicato nel 1505 e dedicato a Francesco Gonzaga. Nel 1514 uscì la seconda parte in 15 canti, dedicata al conte d’Alviano, capitano delle milizie della Serenissima repubblica di Venezia; e probabilmente nel 1521, l’Agostini diede alla stampe i 7 canti dell’Ultimo e fine de tutti i libri de Orlando Inamorato. Agostini riprendendo i percorsi dell’Inamoramento de Orlando, non dà mai l’impressione di rifarsi ad una precisa rotta narrativa, inoltre non riesce mai a recuperare e riproporre il genuino registro boiardesco, mostrandosi così un imitatore grezzo e superficiale. Nonostante ciò ricorre pesantemente al linguaggio allegorico, aspirando a ricavare per il suo pubblico un messaggio moralizzato. Le ottave cavalleresche si riempiono di personificazioni che danno vita a qualche psicomachia funzionale alla rieducazione di un personaggio che è uscito dalla “retta via”. Raffaele Valcieco da Verona fu un magister dotato di una preparazione scolastica, lo vediamo dalla passione per la grammatica latina e per i giochi di parole che manifesta nella sue ottave. Godeva dell’appoggio di Francesco Maria I della Rovere, signore del Montefeltro e duca d’Urbino, città nella quale compose la sua opera posta sotta la protezione poetica del Boiardo. Lo scrittore veronese manifesta la sua devozione per l’Inamoramento de Orlando, cogliendo nella prima parte della sua opera l’auspicio di ridare una dignità epica alla storia, quasi un riequilibrio tra istanze carolinge e suggestioni bretoni, cercando di mantenere il profilo boiardesco dei personaggi principali. Pier Francesco de’ Conti da Camerino, autore oltre che di testi in ottave e terza rima, dei 16 canti del Sexto Libro dello Innamoramento de Orlando intitulato Rugino, come si legge nel proemio dell’edizione del 1525, è dedicato al duca Giovan Maria da Varano. Con i signori di Camerino, il marchigiano aveva legami di parentela. In chiusura del romanzo, Pierfrancesco prometteva una nuova puntata intitolata a Rugino, nella quale veniva narrata la morte di Gano. La continuazione di Pierfrancesco è caratterizzata da divagazioni novellistiche e da omaggi all’innamoramento de Orlando. L’autore crea nuovi personaggi, specie gagliardi imberbe e fanciulle in fiore, e li immerge in un’atmosfera cortese di scuola boiardesca. Narra di giostre e tornei combattuti da acavlieir per amore di dama piuttosto che di battaglie in campo aperto a difesa della fede cristiana. Il protagonista, Rugino, domina ogni competizione cavalleresca sia in Oriente che in Occidente. Altri romanzi e romanzieri tra Boiardo e Ariosto Tra l’ultima decade del ‘400 e gli anni che precedono l’uscita del primo Furioso (1516) vengono compositi e pubblicati nuovi romanzi, testimonianze di una fase di transizione cavalleresca che ci consente di capire meglio l’Ariosto. Nel periodo in questione mancano opere di rilievo, per cui il vero obiettivo dell’Ariosto è quello di proporre un’opera in grado di eccellere. 27 Capitolo 10 L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto Vita e produzione letteraria di Ludovico Ariosto Il 22 aprile 1516 viene pubblicato a Ferrara il Furioso di Ludovico Ariosto. Il romanzo, best-seller del Rinascimento, suscita ammirazione tra lettori di elevato rango letterario. Il Furioso incontro subito il consenso del vasto pubblico raggiungendo picchi di vendita e nel giro di un decennio divenne l’exemplum narrativo principe per i romanzieri, affiancando prima e sostituendo poi il modello boiardesco, diventando anche un classico. Molte notizie sulla vita e sulla personalità di Ariosto le ricaviamo dalle Satire - definite un “diario in pubblico” ricco di dettagli intimi circa la quotidianità del poeta, di riflessioni morali e di commenti sulla società del tempo - composte nel periodo successivo alla pubblicazione della prima edizione del romanzo. Dalle Satire emerge il profilo di un uomo pronto a scelte professionali decise e responsabili, ad esempio: - nella I satira si spiegano le ragioni del rifiuto di seguire Ippolito d’Este, che era stato alle sue dipendenze per quasi due decenni, quando nel 1517 fu nominato vescovo di Agria in Ungheria; - nella IV satira, invece, si narrano le difficoltà inerenti l’incarico di commissario della Garfagnana, che pure Ariosto ricopriva con grande destrezza Ariosto però è anche geloso della propria indipendenza e sempre attratto dagli agi di una vita più tranquilla dentro le mura ferraresi, propedeutica all’esercizio poetico: - nella VII ed ultima satira, incentrata sul rifiuto di trasferirsi a Roma in qualità di ambasciatore del duce di Ferrara, si chiude con una specie di elogio della “sedentarietà” e con una richiesta al suo signore, da cui dipende la sua esistenza economica Ludovico nasce l’8 settembre 1471 a Reggio Emilio, era figlio di una nobildonna, reggiana, Daria Malaguzzi, e di un importante funzionario degli Este, Niccolò Ariosto. Intorno all’età di 15 anni il padre lo avvia agli studi giuridici, ma il giovane preferisce frequentare gli ambienti letterari della corte ferrarese e seguire le lezioni dell’umanista Gregorio Elladio da Spoleto o quelle del filosofo Sebastiano dell’Aquila. Ludovico inizia a comporre poesie comico-realistiche in volgare a carmi in latino, lasciando intuire le qualità poi nelle Rime. Ama dedicarsi, sia come attore che scrittore, all’attività teatrale, che nella corte di Ferrara di Ercole I era assai praticata. La vasta produzione drammaturgia di Ariosto dimostra come questa passione rimanga forte per tutto il corso della sua vita: - nei primi anni ’90, compone la Tragedia di Tisbe - mentre nel 1508 scrive la sua prima commedia in prosa, la Cassaria, che inaugura la stagione del teatro classicheggiante del Rinascimento - ci saranno poi altre commedie sia in versi che in prosa: i Suppositi, rappresentati a Ferrara nel 1509, il volgarizzamento del Formione di Terenzio, il Negromante, iniziato a stendere nel 1509 e rappresentato nel 1528 a Ferrara insieme alla Lena. Il destino professionale del poeta è legato ai signori di Ferrara: - nel 1498 Ludovico entra al servizio del duca Ercole I - nel 1503 viene assunto, grazie ai buoni uffici di suo cugino Pandolfo Ariosto, dal cardinale Ippolito d’Este Alla celebrazione della famiglia d’Este, Ariosto si era già dedicato al progetto dell’Obbizzeide, in terza rima, incentrato sulle imprese di Obbizio d’Este, antenato dei signori di Ferrara, che alla fine si dimostra un romanzo d’armi e d’amori di ispirazione boiardesca, nonché un’anticipazione del Furioso. Dopo la morte del padre, Ariosto è costretti a sobbarcarsi la cura della numerosa famiglia. La sua situazione patrimoniale lo costringe ad accettare l’incarico di capitano della rocca di Canossa e rende quasi obbligata la scelta di prendere, nel 1503, gli ordini minori, che garantivano il godimento dei benefici ecclesiastici. Nel frattempo ricopre il ruolo di uomo di fiducia del cardinale Ippolito, svolgendo complicate missioni diplomatiche. Ariosto non ha una vita facile, mentre scrive il Furioso, cerca di garantirsi una sistemazione che li permetta di portare avanti i suoi interessi letterari. Nel 1513 quando sale al soglio pontificio Leone X, Ariosto spera di ottenere qualche buono incarico, ma il papa di casa Medici raffredda le sua ambizioni, limitandosi a concedergli solo il beneficio della parrocchia di Sant’Agata. Lo scrittore, già padre di due figli, Giambattista e Virginio, nati da due diverse relazioni, si innamora di Alessandra Benucci, che sposerà segretamente molti anni più tardi. Nel 1518, sciolto il rapporto con Ippolito d’Este, Ariosto entra al servizio del duca Alfonso. Il rapporto col nuovo signore è di alti e bassi: 30 - nel 1521, dovendo finanziare la guerra contro Leone X, Alfonso sospende lo stipendio di Ariosto - l’anno successivo accetta l’incarico di commissario della Garfagnana - nella seconda metà degli anni ’20 riprende la sua carriera diplomatica: Alfonso gli affida delicate ambascerie a Roma, Firenze, Venezia e lo vuole al suo fianco quando incontra l’imperatore Carlo V, l’ultima nel novembre 1532 a Mantova Un mese dopo l’Ariosto, si ammala gravemente e morirà l’anno successivo, il 6 di luglio, e sarà sepolto nel monastero di San Benedetto. Il libro di una vita: le tappe della composizione del Furioso tra revisioni linguistiche e ampliamenti testuali Nonostante si ritenga che l’Ariosto abbia iniziato a concepire e a dare forma al suo poema intorno al 1505, la prima notizia certa sull’opera è datata 3 febbraio 1507 che ricaviamo da una lettera di Isabella d’Este Gonzaga al fratello Ippolito. In questa lettera capiamo che il Furioso, ancorché primitivo, piacque molto alla marchesa e le tornarono in mente le relazioni letterarie che ebbe con Boiardo e Cieco, a conferma di quel ruolo di lettrice privilegiata della produzione cavalleresca contemporanea. Altre notizie del Furioso sono sparse negli epistolari di altri esponenti delle dinastie al potere a Ferrara e a Mantova. Nel luglio 1509 Alfonso d’Este chiede al cardinale Ippolito il romanzo di Ariosto, definito “gionta”. - Nel luglio del 1512 Ariosto in una lettera inviata al marchese Francesco Gonzaga ci fornisce più informazioni intorno allo stato della sua opera, presentato come continuazione del poema boiardesco. - Tre anni dopo, nel settembre 1515, in una missiva del cardinale Ippolito a Francesco Gonzaga, il romanzo concluso e pronto per la tipografia. Del Furioso, del primo in particolare, era sottolineata la padanità, il suo essere prodotto letterario tipico, con una nobile tradizione e capace di migliorarla ulteriormente. Pur avendo un marchio d’origine, l’opera ambiva a conquistare un pubblico più vasto e a trovare consensi letterati di uomini di cultura tra i più prestigiosi. Grazie ad alcuni consulti e giudizi di questi letterati Ariosto potè aggiustare il poema sia sul piano linguistico che testuale. L’Ariosto compone il Furioso nel mezzo del dibattito della lingua, prima della seconda uscita del Furioso, datata febbraio 1521, Ariosto ebbe modo di incontrare più volte Pietro Bembo a Roma. Questa frequentazione documentata sin dal 1519 produrrà effetti visibili sulla lingua del romanzo, in particolare dell’ultima edizione del 1532. Ariosto era devoto a Bembo per dare una veste corretta ed elegante ai suoi versi, e ciò venne dimostrato in una lettera del febbraio 1531. Le analisi testuali, mostrano che non è necessario aspettare la edizione definitiva del 1532 per vedere le innovazioni dell’Ariosto. Già l’usus linguistico del Furioso del 1516 mira all’omogeneità e alla razionalizzazione dei fenomeni, discostandosi dai dettami della produzione cavalleresca precedente. Ariosto limita la koiné padana, ossia la presenza dei dialettismi, che sono ancora molto presenti nel poema boiardesco, per avvicinarsi il più possibile al toscano letterario trecentesco, utilizzando i modelli del Canzoniere del Petrarca e del Decameron del Boccaccio. Nella lingua del poema del 1516 notiamo ancora molti latinismi ma sul piano sintattico e retorico- stilistico il poeta, sin dalla prima edizione, elimina le costruzioni paratattiche, caratteristiche della produzione canterina, sostituiti con modelli più articolati e complessi. L’ottava dell’Ariosto si dimostra uno strumento poliedrico, adatta alla narrazione, alle parentesi lirico-musicali, all’intervento fuori campo, di stampo filosofico o discorsivo, dell’autore. Nella prima edizione sono presenti l’enjambements, che rimarranno responsabili dell’andamento gradevole del verso ariotesco. Il Furioso si differenzia dagli altri etti cavallereschi per una maggiore cura dei dettagli e per molte innovazioni, compreso un uso più marcato e coerente della punteggiatura. La seconda edizione del Furioso, come la prima, è composta di 40 canti, per cui il libro mantiene la precedente fisionomia. Nell’edizione definitiva del 1532, stampata a Ferrara da Francesco Rosso di Valenza, l’Ariosto compie modifiche più sostanziali, non solo sul piano linguistico ma anche strutturale e contenutistico. Il nuovo testo è composto da 46 canti, in certi casi si tratta dell’aggiunta di corposi episodi che vanno ad unirsi con la vecchia partitura senza discordanze, in altri, si tratta di più modeste integrazioni che si possono interpretare come un contributo alla cronaca politica e culturale del tempo. L’Ariosto intervenne nel testo anche in tipografia, con mutamenti in corso d’opera anche significativi, sono state individuate 227 varianti. 31 Il poeta ferrarese morì, meno di un anno dopo l’uscita della terza edizione del Furioso, sognando una nuova stampa del suo poema. Il contenuto del romanzo e la sapienza narrativa dell’Ariosto Il Furioso è una continuazione dell’Orlando Innamorato anche se ci regala inaspettati sviluppi. La trama del poema si articola intorno ad altri due nuclei narrativi, oltre a quello dell’ossessiva passione di Orlando per Angelica: - La storia sentimentale di Ruggero e Bradamante - Lo scontro tra cristiani e saraceni che occupa l’intera scena del romanzo, specie quando Agramante e i suoi mori tentano l’assedio di Parigi Il romanzo è privo di argini spazio-temporali, il movimento dei personaggi, in fuga perenne da un definitivo destino, è costante e continuo, nel susseguirsi di venture e inchieste, propedeutici all’intreccio di storie che alimentano una storia che non avrà fine. Ariosto sa che il segreto di una grande opera sta nella sua organizzazione narrativa e nella sua rappresentazione. È una poetica costruita sulla paradossale presenza degli opposti - vita e morte, sogno e realtà, verità e illusione, amore e tradimento, commedia e tragedia - che è specchio delle dinamiche mondane e dell’inesauribile moto universale. Il Furioso mira alla coesistenza di questi contrari, ricerca l’equilibrio nella discontinuità della rappresentazione. In virtù della mente ordinatrice del poeta ha come ideali la misura e la compattezza, la molteplicità dei temi, l’intreccio degli episodi, l’affollarsi dei personaggi, il frenetico alternarsi degli effetti risultano incastonati nel disegno narrativo unitario e compatto del poema. La saggezza dell’ironia: i messaggi del Furioso Nella lettera di richiesta di stampa indirizzata al doge di Venezia il 25 ottobre 15115, l’Ariosto dichiarava di aver scritto il suo romanzo con lo scopo di suscitare lo “spasso” di quel pubblico di élite. Il successo del Furioso viene constatato ulteriormente da un’altra lettera della marchesa di Mantova scritta il 15 ottobre 1532, a seguito della pubblicazione della terza edizione del poema. I lettori erano sollecitati dall’autore ad andare oltre al godimento, Ariosto ripropone il principio classico del docere delectando. L’intero romanzo è di matrice allegorica, può essere letto come una figurazione delle travagliate esperienze che l’individuo deve affrontare nel corso della vita per raggiungere la virtù e la conoscenza. Basti pensare ai personaggi di Orlando e Ruggero, a come Ariosto organizza il loro destino narrativo che allude ad una concezione etica: - Orlando dopo essere diventato pazzo a causa dell’amore, interpreterà nell’ultima parte del Furioso il suo ruolo archetipo, tornerà ad essere il personaggio nobile della Chanson de Roland, pronto a morire per la gloria della chiesa e dell’impero - Ruggero, provati tutti i tipi di sentimento e compiute le più varie avventure, completa il suo cammino di perfezionamento spirituale attraverso la conversione al cristianesimo e il matrimonio con Bradamante L’Ariosto partendo dal contesto cortigiano elabora una morale che consente di mettere in evidenza i comportamenti dell’uomo rinascimentale. In alcuni canti abbiamo proprio la denuncia alle contraddizioni della società e dell’ambiguità spirituale di ogni azione umana, al punto che Ariosto contribuisce all’investigazione psicologica del ‘500, spesso si concentra sui rituali del vivere sociale tra l’essere e l’apparire, tra la verità e la finzione, e svela una realtà “mascherata”, che ignora i più genuini valori morali. La forza delle passioni si ciela dietro ogni atto di pensiero che ha la sempre la meglio sulla debole natura umana, rendendo possibile la costruzione di un mondo fondato sulla virtus e sulla ratio. Per mettere a nudo questa verità l’Ariosto usa sempre un tono canzonatorio, consapevole dei rapporti tra le varie gerarchie sociali e della varietas dei comportamenti umani. Non ci sono prove certe sull’ispirazioni riprese da Ariosto dalle opere di Erasmo da Rotterdam, ma è evidente, la convergenza del punto di vista artistico e spirituale tra i due. Il testo Encomium può spiegare l’atteggiamento di distacco attraverso il quale vengono poste nel Furioso le illusioni su cui si fonda l’ordine sociale. Il Furioso riesce a fornire un’immagine fantasticamente deformata ma riconoscibile dell’attualità del proprio tempo, della mobile e sempre precaria vita di corte, della inquieta società cinquecentesca nella quale l’uomo gode e soffre del sogno di una conquistata realtà individuale, di una libertà mentale ancora tutta da esplorare. Ariosto svelando la complessità del suo presente storico attraverso l’immaginario cavalleresco e della civiltà cortese ha saputo consegnare a noi lettori, la metafora di quei cavalieri “erranti” dietro le loro illusioni, prigionieri inconsapevoli della loro immaginazione e dei loro sentimenti. 32
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