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Riassunto libro: LIBRO D'OMBRA - Junichiro Tanizaki (AGGIORNATO 2020), Sintesi del corso di Architettura

riassunto e conclusione personale

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 11/10/2020

vittoria-lachi
vittoria-lachi 🇮🇹

4.4

(27)

38 documenti

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Scarica Riassunto libro: LIBRO D'OMBRA - Junichiro Tanizaki (AGGIORNATO 2020) e più Sintesi del corso in PDF di Architettura solo su Docsity! LIBRO D’OMBRA La breve opera di Tanizaki è una difesa pacata della civiltà orientale, partendo non da teorie estetiche o concetti lontano dalla realtà, ma da cose molto pratiche. «V’è forse, in noi Orientali, un’inclinazione ad accettare i limiti, e le circostanze, della vita. Ci rassegniamo all’ombra, così com’è, e senza repulsione. La luce è fievole? Lasciamo che le tenebre c’inghiottano, e scopriamo loro una beltà. Al contrario, l’Occidentale crede nel progresso, e vuol mutare di stato. È passato dalla candela al petrolio, dal petrolio algas, dal gas all’elettricità, inseguendo una chiarità che snidasse sin l’ultima particella d’ombra». Tanizaki mette a confronto il punto di vista giapponese, che trova nell’ombra e nelle sue infinite sfumature tutta la bellezza, vissuta nell’equilibrio dei sensi, e quello occidentale, fatto di luce abbagliante e frastornante, che privilegia la vista a discapito degli altri sensi. Questo “Elogio dell’ombra” vuole mettere in risalto la diversità delle estetiche orientale ed occidentale, non per contrapporle, ma per capirle meglio cercando di ricollocarle nel proprio contesto in assenza del quale spesso molti oggetti vengono snaturati, abbruttiti. Non sottovaluta l’inevitabile progresso, nato dalla Rivoluzione Industriale di fine 700, che cambia totalmente il modo di vivere di molti paesi dell’occidente e di cui lo stesso Giappone non resta immune: a partire dall’immediato dopoguerra, infatti, sarà una delle nazioni più industrializzate del mondo. Ma comunque si chiede come sarebbe oggi la società se Occidente e Oriente avessero sviluppato civiltà scientifiche distinte: la colpa è del Giappone, che doveva usare un atteggiamento meno servile con l’Occidente, così ora tutto sarebbe stato diverso, orientale. Porta quindi l’esempio della penna stilografica, che se fosse stata inventata da un orientale avrebbe al posto della punta in metallo le setole di un pennello, e così anche la carta e persino la letteratura sarebbero diverse. “Abbiamo lasciato la strada che percorrevamo da millenni” → in questo i giapponesi sono sfavoriti rispetto agli occidentali, che invece hanno continuato sempre sulla stessa linea. Si chiede l’origine di gusti tanto dissimili: gli orientali, secondo Tanizaki, si rassegnano all’ombra senza repulsione, invece, gli occidentali non hanno mai amato l’ombra come i giapponesi, credono al progresso (vuol mutare di stato) e passano dall’oscurità alla luce. Così passa dalla candela al petrolio, fino alla fredda luce elettrica che non lascia nessun angolo in ombra. In pochi decenni anche i giapponesi hanno iniziato a voler illuminare tutto con le lampadine, arrivando secondi in consumo elettrico solo all’America: la corsa al progresso è ormai inarrestabile. Polemizza contro gli eccessi dell’illuminazione elettrica, in un paese smanioso di imitare quasi con fanatismo gli Stati Uniti (parliamo del Giappone del 1935). L’atmosfera della casa giapponese tradizionale, tutta un gioco di penombre con la sfilza di paraventi e pannelli scorrevoli, viene quasi violentata ed avvilita dall’avvento della lampadina, per non parlare di tutti quegli oggetti d’arredo e perfino gli abiti, o addirittura l’ideale femminino (celato nella casa come in uno scrigno), creati proprio per risaltare in quella penombra e che alla luce fredda che snida ogni atomo di buio perdono tutto il loro fascino. Ai giapponesi non piacciono le cose lucenti, al contrario degli occidentali che lucidano ogni superficie fino a farla brillare, perché per loro è più bella la patina del tempo, le tonalità un po’ opache, offuscate, caliginose, lasciano annerire le superfici. La lacca si ammira in penombra → è tinta per accumulo di strati di oscurità. L’ombra è qualcosa di positivo (come il silenzio eloquente). Bellezza = negazione della vista (come la donna Heian). L’autore sottolinea, partendo dall’analisi di oggetti di uso comune, degli spazi abitativi, del cibo, fino al tradizionale teatro Nō, come in Oriente ci sia stata per secoli una ricerca costante dell’equilibrio tra luce e ombra. Si sofferma sul fascino dell'ombra, esaltato dalla cultura tradizionale giapponese e messo in pericolo dal diffondersi dei modi della civiltà occidentale. È la bellezza dei gabinetti tradizionali, distanti dall'abitazione ed immersi nell'ombra, così in contrasto con l'esigenza moderna di luminosità; della carta giapponese, dell'inchiostro, dell'argenteria che, diversamente dall'Occidente, acquista valore estetico con la patina lasciata dal tempo → per gli occidentali la patina significa sporcizia e mancanza di igiene. La casa giapponese tradizionale ha un delicato equilibrio di luci ed ombre: il tokonoma (una rientranza nella parete, colma di nulla e di buio, nella quale si collocano un dipinto o dei fiori che rende inferiore ogni altro ornamento) serve appunto ad aggiungere una nicchia d’ombra alla stanza → nelle stanze in cui abitano, gli occidentali illuminano ogni angolo e imbiancano pareti e soffitti. Rasano i prati, che agli orientali piacciono cosparsi di cespi selvosi. Anche i fantasmi sono diversi: quelli giapponesi sono senza gambe, quelli occidentali hanno gambe e la trasparenza del vetro →secondo lui la trasparenza è eccessiva e toglie bellezza. “In modo speciale, poi, i Cinesi pregiano la giada. Solo uomini dell'estremo oriente possono amare una pietra così; il suo fondo, dalla luminescenza torbida e neghittosa, sembra contenere l'aria cristallizzata dei secoli. Non ha, la giada, né i colori puri del rubino o dello smeraldo, né la fulgidezza del diamante. Che cosa vi troviamo allora di tanto attraente? È difficile spiegarlo, ma, quando la osservo, sento che la giada è inconfondibilmente Cinese, e mi sembra di vedere tutto il lungo passato di una civiltà, ispessito e coagulato in quel suo interno opaco e nuvoloso.” Appare evidente che il design di qualsiasi oggetto, dalla penna stilografica al tetto, dal piatto alla finestra, per Tanizaki non può limitarsi solamente alla sola sua funzionalità ma deve, sia ad oriente come in occidente, saldarsi con il gusto, la bellezza, il piacere dell’uso, in cui anche la tradizione non diventa un limite invalicabile. L’autore descrive la grande importanza che ha avuto la foglia d’oro nella decorazione dei luoghi sacri. In particolare, insiste su come la stretta relazione fra la fiamma delle lanterne e i riflessi sui particolari dorati, abbia nei secoli evocato il sacro ed il magico nell’anima degli uomini. In una casa labilmente illuminata, l’oro serviva da collettore di luce. Gli antichi usavano foglie o polvere d’oro non solo come simboli di ricchezza, ma anche come sorgenti luminose. Argento e altri metalli presto si offuscano; la luce dell’oro perdura e continua a rischiarare alloggi tenebrosi. Tanizaki parla in questo modo dei problemi che si devono affrontare per costruire una casa tradizionale giapponese (l’architettura è il primo ambito in cui sente questo conflitto tra classicità e modernità): l’illuminazione, gli shōji, il riscaldamento, la stanza da bagno, il gabinetto… Soprattutto in quest’ultimo insiste che ci siano necessariamente penombra, pulizia e silenzio. Fa l’esempio di una persona che vuole costruire una casa: “un uomo con sensibilità estetica si torturerà su ogni particolare”; come armonizzare le cose moderne con l’architettura classica? Di fronte al dilagare degli oggetti e delle comodità introdotte dall’Occidente, Tanizaki si chiede anche:” Perché rinunciamo ai nostri gusti? Perché non tentiamo di conciliare il nuovo con la nostra sensibilità?”. Un capitolo parla anche dei tetti: la bellezza delle grandi cattedrali occidentali è legata allo slancio dei tetti, che sembrano trafiggere il cielo con pinnacoli acuminati. Al contrario, ne templi buddhisti nere tegole riparano l’intero edificio che si accuccia sotto la loro ombra densa e protettiva. Si direbbe che per le costruzioni tradizionali orientali niente sia importante come la vastità e la pesantezza della copertura. L’impostazione di questi tetti è simile all’apertura di un parasole: marca sul terreno un perimetro d’ombra che ha il dominio; là aggiusteremo poi la casa. Anche le case occidentali hanno un tetto, che tuttavia non sembra tanto destinato a schermare la luce solare, quanto a proteggere delle intemperie. Si cerca di ridurne il carico d’ombra, e si studia, per ogni locale, l’esposizione migliore ai raggi del sole. Questa volontà è evidente nelle abitazioni occidentali. Il tetto occidentale è un copricapo privo di falda; è stata quasi completamente asportata perché anche le finestre più alte potessero ricevere la luce solare. L’ampiezza delle gronde giapponesi dipende sicuramente anche dal clima, dai materiali da costruzione, da tutto un insieme di fattori. La mancanza di mattoni, di vetro, di cemento deve aver contribuito ad espandere lo spazio coperto; forse, all’inizio, si voleva difendere la fragile casa giapponese dalle oblique sferzate della pioggia e del vento. Gli antenati orientali scoprirono la beltà dell’ombra e, a poco a poco, impararono a usarla per fini estetici. La spoglia eleganza delle stanze giapponesi è fondata, per intero, sulle infinite gradazioni del buio. Del sole che brilla sul giardino non ci raggiunge che uno spento riflesso, filtrato attraverso la carta opalescente dello shoji. Questa luce mitigata e indiretta è l’elemento estetico più importante della casa giapponese. Perché quietamente e silenziosamente penetri, così debole ed estenuata, nella casa, rivestono i muri con intonaci di colore neutro. È incantevole la luce incerta e delicata che entra e indugia nelle nostre stanze, simile all’ultimo bagliore del tramonto. Questo scurimento, supera ogni altra decorazione.
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