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Riassunto libro Manuale del film (Rondolino, Tommasi), Sintesi del corso di Storia E Critica Del Cinema

Riassunto dei primi 4 capitoli del libro "manuale del film"

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 23/02/2019

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Scarica Riassunto libro Manuale del film (Rondolino, Tommasi) e più Sintesi del corso in PDF di Storia E Critica Del Cinema solo su Docsity! 1. Sceneggiatura e racconto Che cosa è una sceneggiatura? Descrizione più o meno precisa, coerente e sistematica, di una serie di eventi, personaggi e dialoghi connessi in qualche modo tra loro. Stadi: I. Soggetto: Prima manifestazione concreta di un’idea. È un piccolo racconto, uno spunto narrativo, il breve riassunto di qualcosa. È solitamente contenuto in poche righe. Talvolta ha mole diversa ed è il caso degli adattamenti, cioè film che non si rifanno a un’idea originale ma a un’opera preesistente. II. Trattamento: Gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi. La storia è elaborata in qualche decina di pagine, l’intrigo è già articolato, la struttura drammatica ha una sua progressione, i dialoghi sono abbozzati ma con uno stile indiretto. III. Scaletta: Si passa dal momento letterario a quello della costruzione del film. Qui il trattamento è selezionato, scandito, suddiviso in scene numerate. La scaletta serve a tenere sott’occhio l’intera storia del film. Trattamento e scaletta interagiscono tra loro dando vita alla sceneggiatura in cui sono messe in ordine tutte le scene del film, descritto con cura ambienti, personaggi ed eventi, indicati con precisione i disloghi. IV. Découpage tecnico: Le scene vengono suddivise in singole immagini, dette inquadrature o piani, che a loro volta sono numerate. Caratteristiche della sceneggiatura: I. Carattere fluttuante e instabile II. Darsi in funzione di un film fatto di immagini La sceneggiatura ha anche una funzionalità pratica: Indica i materiali di produzione, i luoghi delle riprese, numero di attori e comparse, il denaro necessario. Che cosa è un racconto? Il termine racconto raccoglie in sé due significati: 1. Storia: Contenuto o concatenarsi di eventi e di esistenti (personaggi, elementi dell’ambiente) 2. Discorso: Espressione, i mezzi per il cui tramite viene comunicato il contenuto. Il racconto, inteso come storia, è una catena di eventi legati fra loro da una relazione di causa ed effetto che accadono nel tempo e nello spazio. Vicino alla nozione di racconto troviamo quella di narratività. La narratività va intesa come un insieme di codici, procedure e operazioni, indipendenti dal medium nel quale esse si possono realizzare, ma la cui presenza in un testo ci permette di riconoscere questo come un racconto. L’operazione minimale della narratività è il passaggio da una situazione all’altra, il darsi di un evento in qualità di operatore di una certa trasformazione. • Propp: Studiando le fiabe russe, nota come queste, pur raccontando storie diverse, si costruissero a partire da un certo numero di funzioni, cioè azioni-tipo necessarie allo sviluppo del racconto. Ci mostra come dietro ogni racconto, in profondità, si nascondono delle strutture che sono le stesse per ogni storia e che questa le attualizza rivestendole di un aspetto di volta in volta diverso. • Greimas: Studia le strutture profonde del racconto, la sua narratività. Destinatore Destinatario Soggetto Oggetto di valore Adiuvante Opponente Ognuna di queste sei funzioni è definita da Greimas come un attante. Ogni attante non si deve per forza incarnare in un personaggio, ma anche in altre configurazioni. Uno stesso attante potrà assumere diverse figure e un singolo personaggio potrà giocare il ruolo di più attanti. Ogni elemento in un racconto entra in relazione con gli altri elementi dando vita a un tutto organico e solidale. Tutto fa senso. Per Barthes non tutto fa senso allo stesso modo: • Funzioni: Rinviano a un fare e hanno il compito di far avanzare la storia • Funzioni cardinali: Momenti della narrazione che fanno a tutti gli effetti procedere il racconto • Catalisi: Azioni che si agglomerano intorno a un nucleo senza modificarne la natura. • Indizi: Rinviano a uno stato e arricchiscono il racconto • Informanti: Elemento del racconto che dà un’informazione esplicita, che situa qualcosa nel tempo • Indizi propriamente detti: Nozione che rinvia a un carattere, un sentimento, un’atmosfera La narratività è quell’insieme di regole, modi e strutture profonde che presiedono a ogni racconto e ne determinano la manifestazione di superficie, cioè il suo darsi attraverso enunciati verbali o audiovisivi, che ci raccontano di personaggi che si luogo nello spazio e nel tempo secondo una certa logica causale. Racconto cinematografico ♦ Narrazione e rappresentazione: Nella narrazione si può reperire un narratore, cioè un’istanza astratta che da delle informazioni su dei personaggi, degli ambienti, delle situazioni e delle azioni che si succedono in un ordine dato, attraverso l’uso di date parole che lasciano passare un certo punto di vista. Una situazione di questo tipo potrebbe trovare una rappresentazione diversa da quella verbale. Siamo di fronte a quella che potrebbe essere una rappresentazione teatrale. Problema: Capire dove si colloca il cinema, se nella narrazione o nella rappresentazione. A un primo sguardo sembra situarsi sul piano della rappresentazione. Il rapporto attore-personaggio e spettatore non è più diretto ma mediato. Si tratta di una mostrazione (rappresentazione) particolare. Oltre che a mostrare questa istanza ci fa anche sentire. Ciò che essa manopola non sono solo delle immagini ma anche dei suoni. Musica d’accompagnamento: Musica extradiegetica che sentiamo solo noi spettatori. Nella sua funzione di commento, questa musica è un elemento di mediazione fra il film e il mondo diegetico, dà un senso particolare alle immagini. Oltre che nel farci vedere e sentire in un certo modo, nel manipolare lo spazio e il tempo della storia, nel regolare il flusso delle informazioni, la narrazione cinematografica si evidenzia come tale nel momento in cui anch’essa costruisce il proprio operare sui principi della selezione e combinazione. Ogni racconto non narra tutto il suo mondo diegetico di riferimento, ma semplicemente alcuni dei suoi frammenti (selezione) che poi dispone in un certo ordine (combinazione). Il film testimonia della presenza di un’istanza che organizza e struttura in un certo modo la storia e i suoi materiali facendo si che alla semplice rappresentazione si sovrapponga la narrazione. L’istanza narrante è un’entità astratta al di fuori del mondo diegetico. Talvolta questa si fa un po’ più concreta, manifestandosi in modo più esplicito attraverso una voce, una voce di nessuno, una vice senza corpo che introduce e commenta situazioni e personaggi. È la voce di quello che possiamo definire narratore extradiegetico, cioè la manifestazione verbale dell’istanza narrante. parziali di un dato processo temporale. Il sommario è presente al cinema anche a livello del film intero dove il tempo del racconto è minore del tempo della storia. • Ellissi: a una durata determinata del tempo della storia non corrisponde nessuna durata del tempo del racconto. Siamo di fronte a un silenzio testuale, a una soppressione temporale che interviene fra due azioni differenti, fra due scene, fra due sequenze. Funzioni essenziali: eliminare tempi morti, cioè dettagli inessenziali allo sviluppo del racconto, accentuare il ritmo della narrazione, celare un evento di rilievo per poi mostrarlo in un momento più opportuno, interrompere un’azione interessante per determinare suspense. iii. Frequenza: rapporto che si stabilisce fra il numero di volte che un dato evento è evocato dal racconto e il numero di volte che si presume sia accaduto nella storia. ♦ Vedere e sapere: dietro a ogni racconto filmico è presente un’istanza a cui spetta il compito di determinare quelle strategie narrative tramite cui una storia virtuale si trasforma in un racconto concreto. Un ruolo di primo piano fra queste strategie è quello giocato dalla focalizzazione. Con questo termine si intende il modo in cui vengono regolati all’interno di un racconto i rapporti di sapere fra istanza narrante, personaggio e spettatore. La focalizzazione è così una strategia narrativa che si costruisce attraverso la relazione di tre elementi, l’istanza narrante, il personaggio, lo spettatore, e ne regola i rapporti di sapere. Di questi tre elementi uno gode di uno statuto privilegiato: è l’istanza narrante che è l’elemento all’origine del racconto. Decide, sul piano delle strategie narrative, quando e quanto del suo sapere discernere nel corso del progredire della narrazione stessa. Genette articola il rapporto che viene a costruirsi sul piano cognitivo fra istanza narrante, personaggio e spettatore: • Racconto non focalizzato o focalizzazione zero: narrazione onnisciente in cui il narratore ne dice di più di quello che sanno i personaggi. • Racconto a focalizzazione interna: il narratore assume il punto di vista di un personaggio dicendo solo quello che questo personaggio sa. • Racconto a focalizzazione esterna: il narratore non fa conoscere i pensieri e i sentimenti del personaggio, ne dice meno di quanto questi sappia. Varianti: carattere variabile della focalizzazione nell’ambito di uno stesso racconto, in qualsiasi racconto un narratore non si rapporta a un solo personaggio ma a più personaggi, nel rapporto con un solo personaggio il narratore può farci sapere di più rispetto ad alcune cose e di meno rispetto ad altre. Per il racconto cinematografico: è evidente che in un film noi possiamo in qualsiasi momento della storia sapere di più, meno o quanto il nostro eroe. Il discorso si complica a partire dalla specificità del linguaggio cinematografico, specificità che trova uno dei suoi elementi caratterizzanti nell’immagine. L’immagine ci fa vedere, un film racconta mostrandoci delle cose. Mostrandole direttamente o tramite gli occhi di un personaggio. Jost ha introdotto un altro termine: ocularizzazione. Si intende con esso la relazione che si instaura tra ciò che la macchina da presa mostra e ciò che si presume il personaggio veda. L’ocularizzazione si articola in: 1. Ocularizzazione interna: ciò che io vedo è quel che è visto da un personaggio. • Interna primaria: si dà nei casi di quelle singole immagini che decano in sé le tracce di qualcuno che guarda. • Interna secondaria: quando mi trovo di fronte all’alternanza di due immagini che mi mostrano l’una il personaggio che guarda, l’altra ciò che è guardato. 2. Ocularizzazione zero: vedo qualcosa direttamente senza la mediazione di un personaggio a vederlo. Rappresenta uno sguardo esterno dalla diegesi, quello della sola istanza narrante. • Enunciazione mascherata: immagini ordinarie che ci danno a vedere gli elementi diegetici più importanti nel modo più chiaro, facendo dimenticare la presenza della macchina da presa. • Enunciazione marcata: la posizione o i movimenti della macchina da presa sottolineano una certa autonomia dell’istanza narrante in rapporto al personaggio. Rapporto fra ocularizzazione e focalizzazione, fra vedere e sapere: vedere determina un sapere ma un sapere molto parziale. Le informazioni sul mondo diegetico di un racconto filmico non passano solo attraverso le immagini, ma anche tramite altri quattro materiali dell’espressione cinematografica: parole, rumori, musiche e menzioni scritte. Questi diversi elementi possono contraddire l’apparente senso di un’immagine e smentire il presunto sapere dello spettatore. Vedere o sentire non significa per forza sapere. Il racconto seriale L’universo delle serie tv risulta essere una realtà valorizzata, che riflette cioè il sistema di valori del protagonista, del narratore o comunque quello in cui allo spettatore piace immergersi. Attraverso l’analisi delle serie tv americane emerge in modo evidente la paura quale costante fra le emozioni contrastanti nell’era della globalizzazione. Alcuni studiosi ritengono inoltre di poter vedere una certa tendenza etica sottesa alle più riuscite serie tv da Dexter a Breaking Bad: quella per cui, al fine di massimizzare il bene, si può e si deve perseguire il male. Definizione di serie tv: una serie televisiva crea un mondo narrativo duraturo, popolato da un gruppo coerente di personaggi che vivono una catena di eventi lungo un certo arco di tempo. Elementi dello storytelling: I. Personaggi e spazio: personaggi come Fonzie e Richie nel telefilm Happy Days, sarebbero stati sempre, di puntata in puntata, uguali a loro stessi. La fidelizzazione del pubblico era garantita dal ritrovamento di comportamenti ricorrenti e caratteri dai tratti essenziali, in cui ravvisare modelli archetipici e aspetti della natura umana dello spettatore. Negli anni Sessanta è la volta del genere sci- fi che mise in scena alieni, viaggi temporali, guerre atomiche, luoghi nei quali gli spettatori, immedesimandosi nei personaggi, potevano dar forma alle proprie angosce e ai propri incubi. Il Sessantotto generò bisogno di eroi, dove in loro si osserva una nuova attenzione per la psicologia e per la costruzione della storia. Il personaggio acquista un passato, indagato attraverso i flashback, smettono i suoi dubbi e le sue angosce. Negli anni Settanta fanno la loro comparsa anche eroine femminili. Delle serie degli anni Novanta spesso sono protagonisti adolescenti con i loro drammi e le loro difficoltà nell’affrontare le fasi di passaggio. Sono portatrici dell’ottica del giovane a cui la società sembra essere finalmente pronta a dare ascolto. A segnare la svolta è stato Lost, creando un vero e proprio mondo in cui personaggi dalla psicologia complessa e misteriosa coinvolgono emotivamente il pubblico nel loro percorso di crescita nella realtà in cui vengono catapultati. Da Lost in poi, i personaggi acquisiscono sfaccettature sempre più pronunciare e il loro approdo spesso non coincide con la loro redenzione, quanto con la perdizione, sulla quale però lo spettatore non è portato a formulare giudizi etici, piuttosto a aderirvi perché ne comprende le ragioni a riprova dell’eccellente costruzione del personaggio. In modo simile a quanto è successo ai personaggi dei telefilm, anche ambientazione e spazio delle serie tv si sono aperti al mondo e alla complessità. Dalle serie interamente girate in interni, fra salotto e cucina, degli anni Settanta Ottanta si è passati all’atmosfera inquietante, sovrannaturale, quasi horror, alla ricostruzione di ambienti, luci e costumi degli anni Sessanta di Mad Men o a quella degli anni Ottanta di Stranger Things, attraverso musica e oggetti di quel decennio, o ai primi due decenni del Novecento di Downtown Abbey, alle celle carcerarie di Orange is The New Black, ai luoghi maestosi di Games of Thrones. II. Eventi, plot e strategie narrative: gli standard delle serie, che fanno man bassa di soluzioni registiche e di montaggio cinematografiche, sono così elevate da dimostrare come il regista è quasi sempre uno degli ingranaggi di una macchina che funziona grazie alla collaborazione di diverse figure produttive, su cui spicca solitamente lo sceneggiatore. III. Tempo dello schermo, tempo della storia e tempo del discorso: nel caso delle serie tv vi è un’ulteriore dimensione temporale da analizzare, il tempo dello schermo. Si riferisce al tempo della fruizione del prodotto e le sue modalità. La modalità di visione che più si sta diffondendo è il binge watching, che indica la visione in dosi massicce, senza rispettare le scadenze settimanali. Il come si guarda influenza la storia che si vede. Anche rispetto al tempo della storia e al tempo del discorso, alcune fra le serie tv dell’ultimo decennio sono riuscite a costruire meccanismi temporali inediti e sorprendenti con scelte azzardate, lontane dalla linearità. Anche la televisione si è dimostrata in grado di restituire lo scorrere del tempo della vita senza filtri, facendolo combaciare con il tempo di fruizione dello spettatore. IV. Showrunner: è il compromesso tra il concetto letterario di autore e quello industriale di produttore. È il responsabile che controlla l’intero processo di produzione di un telefilm. Lo showrunner è attivo anche nel campo delle web series, storie a episodi concepite per la rete. Generalmente di durata inferiore rispetto alle serie tv, sono spesso opera di autori indipendenti che, possono arrivare rapidamente al successo. Altre volte lo showrunner delle web serie realizza spin off di film, telefilm o videogiochi. 2. L’inquadratura Un film è fatto di immagini in movimento che prendono il nome di inquadrature. L’inquadratura è l’unità di base del discorso filmico e può essere definita come una rappresentazione in continuità di un certo spazio per un certo tempo. Spazialmente l’inquadratura è costituita dalla porzione di realtà rappresentata da un certo punto di vista e delimitata da una cornice ideale costituita dai quattro bordi dell’inquadratura stessa. Temporalmente è costituita dalla durata compresa fra il suo inizio e la sua fine. Peculiarità fondamentali dell’inquadratura: è una rappresentazione, ha una dimensione temporale e spaziale. Il termine inquadratura a volte è sostituito con quello di piano. Più correttamente si dovrebbe intendere con inquadratura il fatto che l’immagine cinematografica è racchiusa da una cornice che inquadra una porzione di spazio, e con piano la porzione di spazio inquadrata. Quando parliamo di inquadratura, intendiamo un delimitare che pone il problema del rapporto fra ciò che di un insieme è mostrato e ciò che invece non lo è, in quanto fuori dai bordi dell’immagine. Quando parliamo di piano, ci riferiamo alla porzione di spazio rappresentata e alle modalità della sua organizzazione e composizione che sono determinate anche dalla cornice che racchiude tale spazio e dagli elementi che lo articolano. Un’altra caratteristica dell’immagine filmica è la sua bidimensionalità. Ogni spettatore sa che dinanzi a un film reagisce come se lo spazio rappresentato sia uno spazio tridimensionale. Questo effetto tridimensionale nasce dal ricorso a diverse tecniche che vanno dall’angolazione, al movimento, alla profondità di campo. Un problema va indicato: quello della prospettiva. La nozione di prospettiva la si può definire come l’arte di rappresentare gli oggetti su una superficie piana in modo che questa rappresentazione sia simile alla percezione visiva che si può avere, nella realtà, di questi oggetti. La prospettiva filmica è l’esatta riproposizione di questa tradizione rappresentativa. Ogni inquadratura è sempre il risultato di scelte relative a due livelli: I. Profilmico: tutto ciò che sta davanti alla macchina da presa, che è li appositamente per essere filmato e fa concretamente parte della storia narrata. Questa nozione è connessa a quella di messa in scena. II. Filmico: concerne il piano discorsivo propriamente detto, il linguaggio del cinema o i modi con cui vengono rappresentati gli elementi profilmici. Ogni inquadratura ci mostra qualcosa e ce lo mostra in un determinato modo. Il modo in cui si inquadra qualcosa è determinato da un progetto e da una soggettività, da un modo di vedere. La nozione di inquadratura presenta un ultimo problema: la parola piano non ha lo stesso significato quando noi parliamo di piano fisso, primo piano o piano di sequenza. Bisogna tenere a mente una grande distinzione: • Inquadrature che danno vita a un solo quadro, una sola immagine, che rimane costante dall’inizio alla fine. Il cinema classico assegna alla potenza espressiva della luce un ruolo primario nei suoi processi di significazione e coinvolgimento emotivo dello spettatore. Sono tre gli imperativi su cui si costruisce la fotografia classica: la simbolizzazione, dove la luce si metaforizza, la gerarchizzazione, dove pone come suo elemento d’elezione primaria l’attore, la leggibilità, dove la luce deve servire a rendere ogni immagine chiara e riconoscibile. Ben diverso è il modo di operare del cinema moderno: le luci del mondo sono riprodotte così come sono, senza essere piegate e trasformate dalla necessità del racconto e del senso. L’illuminazione sarà così drammaticamente indifferente. Ciò che conta è che renda conto del reale e della sua assenza di senso. È solo negli anni Cinquanta e Sessanta che il colore si afferma in modo decisivo sul bianco e nero. L’avvento del colore non determinò dei significativi mutamenti a livello del discorso filmico, come invece era accaduto per il sonoro. L’avvento del colore fu pensato inizialmente come un accrescimento delle potenzialità realistiche del cinema. Più che come un effetto di realismo, il colore si caratterizzò inizialmente per la sua natura decorativa e spettacolare. Non a caso esso fu privilegiato da certi generi come il musical, il cinema dell’immaginario, o il western, che vedeva così esaltati i suoi grandiosi paesaggi. Sarà il perfezionamento delle sue qualità tecniche a determinare, negli anni Sessanta, l’affermarsi del colore anche nell’ambito del cinema d’autore. Si possono distinguere diverse tendenze nell’uso del colore: quella realistica contrapposta a quella immaginaria, quella decorativa-estetizzante in contrasto con quella espressivo-psicologica. È certo che il colore gioca, insieme alla luce e in stretta connessione con essa, un ruolo di primo piano nella composizione dell’immagine, nella sua articolazione significante. È noto come i colori chiari attirino lo sguardo più di quelli scuri, come i toni caldi ci attraggano maggiormente di quanto non facciano quelli freddi. I rapporti dominanti fra primo piano e sfondo possono essere assecondati dal colore ma, anche, rovesciati: i colori vividi in uno sfondo possono infatti accentuare la sua importanza rispetto a ciò che è posto sul davanti dell’immagine. È del resto evidente che queste funzioni del colore si ritrovano anche nel cinema in bianco e nero e che il discorso sul colore non può non intrecciarsi a quello della luce. Il rapporto fra neri, grigi e bianchi è sempre una precisa indicazione di lettura del senso di un’immagine. Non bisogna cadere in un equivoco molto frequente, pensare cioè all’uso espressivo del colore al cinema in un rapporto troppo stretto con la semantica dei colori, ovvero col loro significato simbolico. Al cinema la funzione significante del colore, più che su relazioni definite una volta per tutte, poggia su un processo di costruzione proprio a ogni specifico film. Si tratta di costruire delle associazioni arbitrarie fra un colore e un determinato personaggio o motivo, in modo tale da far sì che le apparizioni successive di quel colore rinviino all’elemento a cui in precedenza era stato associato. Ejzenštein sottolinea come i colori possano essere percepiti molto individualmente. Nonostante ciò, è vero che sui colori esistono alcuni dati generali. Tuttavia questo non vuol dire che ci sia un catalogo dei colori, che infallibilmente agiscono secondo uno stesso determinato orientamento. Il discorso dell’attore, la costruzione del personaggio Nel cinema di finzione ha assunto un ruolo centrale la figura del personaggio, e di conseguenza di colui che per primo se ne fa carico: l’attore. Il suo compito è quello di garantire la rappresentazione cinematografica dell’umano. La recitazione al cinema discende da quella teatrale, ma se ne distanzia per alcuni evidenti aspetti: a differenza di quel che accade a teatro, l’attore cinematografico non recita davanti a un pubblico ma a una videocamera. La performance cinematografica, una volta fissata su pellicola, si ripete uguale a sé stessa a ogni proiezione. Al cinema il lavoro dell’attore è sottoposto a un più massiccio intervento di altri codici che ne determinano la resa espressiva. Il discorso dell’attore, intendendo per discorso la maniera in cui questi interpreta il suo personaggio, i suoi modi e il suo stile di recitazione, deve fare i conti con un discorso filmico che non riguarda solo i codici di origine teatrale, ma anche quelli più specificatamente cinematografici, come i movimenti macchina, la scala dei piani e il montaggio. Al cinema il discorso dell’attore arriva al pubblico in modo meno diretto di quel che accade a teatro, mediato con grande evidenza dal discorso del film. Nel corso di una scena di conversazione le diverse battute degli attori potranno essere riprese attraverso un gioco di montaggio e/o di movimenti macchina. La recitazione cinematografica è molto più vincolata alle scelte di regia, di quanto non lo sia quella teatrale: il discorso dell’attore al cinema arriva allo spettatore attraverso il discorso del film. Il montaggio determina un’evidente frammentazione della recitazione cinematografica non solo per lo spettatore, che vede il suo personaggio in una successione di diversi punti di vista, ma anche per l’attore, costretto spesso a recitare in modo discontinuo, inquadratura per inquadratura, ripresa per ripresa. I piani di lavorazione di un film impongono spesso di girare insieme le scene che si svolgono in uno stesso luogo, anche se queste si trovano in momenti sparsi della narrazione. Tutto ciò fa si che l’attore cinematografico reciti i propri personaggi senza quella continuità che è propria dell’attore teatrale. Ne consegue un’interpretazione spezzata che rende inevitabilmente più complicata l’identificazione col proprio personaggio. Nel complesso la recitazione cinematografica si distingue da quella teatrale anche per una sua maggior discrezione. Al cinema il ruolo del montaggio e dei piani ravvicinati danno sì che, per essere colte, la gestualità e la voce dell’attore possano darsi con minore evidenza. Rapporto fra l’attore e il personaggio: da una parte c’è l’idea che l’attore debba possedere una serie di tecniche ben precise, un repertorio in buona parte stabilito di tipi di movimento, gesto ed espressioni facciali cui fare ricorso per rappresentare dall’esterno il proprio personaggio e i suoi stati d’animo. Dall’altra c’è il sistema che punta a un rapporto interiore fra l’attore e il personaggio, dove il primo non deve più fingere sulla scena stati d’animo che non sono suoi, ma viverli dall’interno in prima persona, in modi intensi e sofferti. Anche se i propri gesti non sono spontanei l’attore nella maggioranza dei casi creerà pur sempre un certo rapporto di identificazione, almeno durante le prove e la recitazione vera e propria, fra sé stesso e il suo personaggio. Al modello dell’identificazione si può contrapporre quello dello straniamento, in cui si nega l’identificazione tra attore e personaggio e si invita il primo a mantenere una distanza rispetto al secondo, e a recitare il proprio ruolo come se lo stesse recitando, esibendo l’elemento di finzione proprio a ogni performance. Stile del discorso attoriale: I. Recitazione naturalista: l’attore interpreta il suo personaggio ricorrendo a una gestualità e a una vocalità che assumono le caratteristiche di verosimiglianza, optando per una recitazione naturale. II. Recitazione sovraccarica: accentua l’uso del gesto e della voce. III. Recitazione minimalista: invece che aggiungere sottrae, e si caratterizza per la sobrietà del gesto e dell’espressione. Modalità di interpretazione: I. Attore replicante: manda giù a memoria una parte, i suoi movimenti, gesti e batture, e li riproduce nel corso della propria performance davanti alla macchina da presa II. Attore creativo: recita a partire da un canovaccio, da una serie di più o meno generiche indicazioni, affiancando una certa parte del proprio lavoro all’improvvisazione. Queste opzioni non sono solo la conseguenza di scelte attoriali ma sono anche frutto di una sorta di contratto, diverso per ogni film, fra il suo autore e l’attore. Ogni regista ha il suo metodo di direzione degli attori. Esistono registi che danno più spazio al lavoro dell’attore e altri che prediligono altri aspetti del lavoro di regia. L’uso del primo piano è un momento in cui il lavoro del regista lascia molto spazio a quello dell’attore e alle sue possibilità di ricorrere al gioco delle espressioni del volto per rappresentare un dato stato d’animo. Anche il ricorso a lunghe riprese, nell’implicito rifiuto di ricorrere al montaggio, fanno sì che l’attore si riappropri di una maggiore autonomia espressiva, dove a contare sono soprattutto i suoi movimenti, i suoi gesti e le sue posture. Un altro aspetto fondamentale del rapporto fra discorso dell’attore e quello del regista riguarda l’ambito della prossemica, cioè di ciò che concerne la collocazione dei diversi elementi nello spazio dell’inquadratura, stabilendo così dei rapporti di vicinanza o lontananza, centralità e marginalità, appartenenza ed esclusione. Il cinema classico ha attribuito ai suoi protagonisti, quindi agli attori e ai divi che li interpretano, una posizione di assoluta centralità nel contesto delle immagini che li mostrano. ♦ Divo: attore che si differenzia per l’immagine semiotica che riesce sempre a imporre ai suoi personaggi. Frutto di un attento processo mediale, questi, a differenza del semplice attore, porta sempre qualcosa di sé in ogni nuovo personaggio. Si trascina dietro una sorta di Io residuo, un passato extradiegetico che incide in ogni sua nuova interpretazione. Aspetti fondamentali del personaggio cinematografico: • Costumi: giocano un ruolo essenziale. All’abbigliamento è spesso assegnato il compito di stabilire lo status sociale di un personaggio, insieme alle sue inclinazioni morali, scelte di vita, atteggiamenti verso il mondo. È un codice derivato dal costume teatrale, ma se ne differenzia perché nel cinema i cambi d’abbigliamento sono più numerosi, e perché il cinema, attraverso la possibilità dei piani ravvicinati, può evidenziare in modo espressivo un certo dettaglio d’abbigliamento. • Make up: è un codice di origine teatrale, ma la possibilità dei piani ravvicinati finisce col conferirgli un particolare peso. Il filmico La scala dei piani e il volto umano Il cinema delle origini si caratterizzava per la costruzione di uno spazio filmico simile a quello teatrale, così come questo era percepito da uno spettatore seduto in una posizione ideale. Questi film erano formati da un’unica inquadratura con la cinepresa fissa, dominavano immagini in cui i personaggi occupavano uno spazio compreso fra una metà e i due terzi della verticale dell’inquadratura, la cinepresa era quasi sempre posta in posizione frontale, ad altezza di sguardo e in modo da collocare i personaggi al centro dell’immagine. siamo di fronte a quello che si definisce grado zero del linguaggio cinematografico, cioè il semplice darsi di quelle condizioni minime affinché un film possa esistere, ma nulla di più. L’inquadratura non implica solo uno spazio profilmico ma anche un punto di vista, quello della macchina da presa attraverso cui questo spazio è visto, ripreso e mostrato allo spettatore. Scala dei piani: diversa possibilità di ogni inquadratura di rappresentare un elemento profilmico da una maggiore o minore distanza. Maggiore è la distanza, maggiore è anche l’ampiezza del campo inquadrato. La scala dei piani parte da inquadrature più ampie distanziate per arrivare a piani più ristretti e ravvicinati. • Campo lunghissimo: inquadratura che abbraccia una porzione di spazio estesa. La sua funzione è di tipo descrittivo. Se la figura umana è presente al suo interno essa è per lo più ridotta a semplice elemento ambientale, subordinata alla rappresentazione del paesaggio. • Campo lungo: è un’inquadratura di ampie porzioni, dove i personaggi e l’azione sono più riconoscibili. L’ambiente vi continua a giocare un ruolo predominante, ma la sua descrizione va di pari passo con lo sviluppo della narrazione. • Campo medio: ristabilisce un certo equilibrio nei rapporti tra ambiente e figura umana dal momento che questa occupa circa un terzo o una metà della verticale dello spazio rappresentato. Ripropone un punto di vista abbastanza simile a quello dello spettatore teatrale. • Figura intera: dove la figura umana occupa un’altezza pari a due terzi o più della verticale dell’immagine, è la prima di quelle inquadrature che affermano la centralità del personaggio, il suo predominio rispetto all’ambiente. Si accentua con le figure successive piano americano, mezza figura, mezzo primo piano, primo piano, primissimo piano, particolare, dettaglio. Il fuori campo ha, sul piano dello spazio, lo stesso ruolo che l’ellissi ha su quello del tempo. In entrambi i casi qualcosa che potrebbe essere rappresentato è invece omesso. Tali omissioni rispecchiano anche quello che è il non-visibile di una società, e della sua cultura, ovvero ciò che in quella società accade ma si evita di rappresentare. Soggettiva e sguardo Esistono delle inquadrature, le soggettive, che occupano nel corso della narrazione filmica uno statuto particolare. Esse esprimono un punto di vista ben determinato che non è solo quello dell’istanza narrante, ma quello di un personaggio. In una soggettiva noi vediamo quello che vede un dato personaggio. Il punto di vista dell’istanza narrante, quello del personaggio e quello dello spettatore coincidono in un unico sguardo. La struttura base del sistema su cui si costruisce una soggettiva è stata definita da Branigan attraverso la seguente articolazione: 1. Punto 2. Sguardo 3. Transizione 4. Posizione della macchina da presa da cui si guarda 5. Oggetto 6. Consapevolezza della presenza del personaggio In una prima inquadratura è rappresentato un punto nello spazio in cui si trova un personaggio che guarda. C’è una transizione, di solito attraverso uno stacco, a una seconda inquadratura in un rapporto di simultaneità o continuità temporale con la precedente. Questa inquadratura mostra un oggetto da una posizione che si presume essere quella del punto iniziale. Ciò che tiene insieme il tutto è la supposizione che il personaggio sia lì, in campo nella prima inquadratura e fuori campo nella seconda, a guardare quell’oggetto. Esistono delle soggettive, definite stilistiche, che recano in sé il marchio della soggettività della visione. Si tratta di inquadrature che invitano lo spettatore a essere lette come soggettive senza essere esplicitamente rapportate allo sguardo di un personaggio. Associati al termine soggettiva troviamo spesso quelli di semisoggettiva e falsa soggettiva. • Semisoggettiva: Inquadratura che pur rappresentando lo sguardo di un personaggio non ne rispetta fino in fondo la posizione. Ciò accade quando la macchina da presa è più vicina o lontana dall’oggetto di quanto non lo sia il personaggio o lo inquadra da un’angolazione leggermente diversa. Come semisoggettiva possiamo inoltre intendere quel tipo di inquadratura che ci mostra una data porzione di realtà così come la vede un personaggio dove, tuttavia, la macchina da presa non ne sostituisce lo sguardo ma si colloca leggermente alle sue spalle, che finiscono così con l’entrare in campo insieme alla nuca. Ciò che è importante qui è l’esistenza di inquadrature che rappresentano il punto di vista di un personaggio, che ci mostrano quel che questi vede. • Falsa soggettiva: Esistenza di inquadrature che, pur simulando un carattere di soggettiva stilistica, si rivelano poi, o si trasformano nel corso della loro durata, in piani oggettivi. Nel suo essere espressione diretta del guardare, la soggettiva pone indirettamente un’altra questione centrale: quella dello sguardo. Può disegnare dei percorsi di lettura privilegiati all’interno del campo o spingersi al di fuori di esso, può suggerire sentimenti, emozioni, può stabilire rapporti tra due o più personaggi, può interpellare lo spettatore rivolgendosi direttamente verso l’obiettivo della cinepresa. È un elemento di importanza basilare nella strutturazione dell’immagine filmica e della sua natura significante. Rapporto tra la soggettiva e i meccanismi di identificazione: • Identificazione primaria: quella dello spettatore con l’occhio della macchina da presa; • Identificazione secondaria: quella coi personaggi; È solo a questo punto che si dovrebbe poter cominciare a parlare di come certe strutture narrative e forme di superficie favoriscano determinati meccanismi di identificazione. Fra queste forme di superfici la soggettiva gioca un ruolo di primo piano. Nell’oggettiva noi vediamo il volto del personaggio su cui si dipingono i segni delle sue emozioni, nella soggettiva noi siamo calati dentro di esso e vediamo con lui e come lui ciò che suscita queste emozioni. Quest’uso della soggettiva è di estrema importanza in quanto ci fa capire come certe soggettive, nel loro alternarsi alle oggettive del personaggio che guarda, non si limitino a rappresentare il punto di vista ottico di quel personaggio, ma ne esprimano quello affettivo spingendo lo spettatore a condividerne le emozioni e i sentimenti. L’inquadratura soggettiva si dà e si rivela come tale a partire dal sintagma che la contiene, cioè dalla determinata successione di inquadrature su cui essa parte. Principali tipi di sintagma soggettivo: • Sintagma soggettivo aperto: successione di due inquadrature • Sintagma soggettivo chiuso: successione di tre immagini • Sintagma soggettivo alternato: si fonda su quattro inquadrature • Sintagma soggettivo rovesciato: implica l’inversione delle posizioni secondo u a successione che prima mostra l’immagine soggettiva e poi quella oggettiva • Sintagma soggettivo differito: ritarda l’enunciazione della soggettiva vera e propria I movimenti di macchina Fondamentale tecnica e modalità d’espressione del racconto filmico che, dal cinema, costituisce uno dei suoi codici specifici, ovvero un elemento peculiare al suo linguaggio e non derivato da altre forme d’espressione. Un’inquadratura può essere definita anche dal suo essere statica o dinamica, indipendentemente da ciò che accade sul piano del profilmico. La dialettica di staticità e dinamismo rapportata a quella tra filmico e profilmico può dar vita a quattro possibilità: 1. Profilmico statico filmico statico 2. Profilmico dinamico filmico statico 3. Profilmico statico filmico dinamico 4. Profilmico dinamico filmico dinamico A determinare la dinamicità del filmico sono, a un primo livello, i movimenti di macchina. È attraverso essi che noi spettatori abbiamo l’impressione di muoverci nello spazio rappresentato, che può acquistare una maggiore profondità. Un’inquadratura dinamica è un’inquadratura che si articola in più quadri mutando i rapporti di distanza, altezza, angolazione della macchina da presa con i principali soggetti rappresentati. I movimenti di macchina aumentano così le nostre informazioni sullo spazio rappresentato, danno ai soggetti e alla loro posizione una dimensione più vivida e definita, ne sottolineano la natura tridimensionale. Ci invitano a muoverci nello spazio, divenendo un surrogato del nostro sguardo e della nostra attenzione. Principali movimenti di macchina e le loro caratteristiche essenziali: • Panoramica: la cinepresa, fissata su un cavalletto, ruota sul proprio asse secondo una certa estensione, in senso orizzontale o verticale. Un tipo di panoramica molto particolare è quella di 360°, dove la macchina da presa esplora tutto lo spazio circostante a partire dalla posizione in cui essa si trova. È un “guardarsi attorno” che tende a esprimere un punto di vista soggettivo. Un’altra panoramica particolare è quella a schiaffo, dal movimento molto brusco e veloce, solitamente legata a un effetto sorpresa. • Carrellata: la macchina da presa è sistemata su un carrello che corre su binari o su un veicolo a pneumatici, camera car. Qui è la macchina da presa tutta a spostarsi nello spazio. Se il movimento macchina è rapportato a quello di un personaggio si parlerà di carrello laterale, quando si muove parallelamente al personaggio; carrello a precedere, quando la macchina precede il personaggio inquadrandolo frontalmente; carrello a seguire, quando la macchina lo segue arretrando o avanzando e inquadrandolo di spalle. • Travelling: movimenti di macchina più complessi che uniscono alle possibilità dinamiche di panoramiche e carrelli quelle di far salire e scendere la cinepresa. Tali movimenti si realizzano attraverso macchine come la gru e il dolly. La macchina da presa è fissata su un braccio mobile, collocato su una piattaforma a sua volta sistemata su un veicolo a ruote o una vera e propria gru, che quindi consente una maggiore possibilità di elevazione e di conseguente spettacolarizzazione dell’immagine. In anni più recenti nuove apparecchiature sono state predisposte. Una di queste è la steadycam: è un’intelaiatura dotata di un sistema di ammortizzatori, indossata direttamente dall’operatore, e su cui viene fissata un’apposita macchina da presa. Essa consente di mantenere la stabilità dell’immagine indipendentemente dai movimenti dell’operatore. • Macchina a mano o a spalla: qui la cinepresa non è più fissata sul cavalletto, ma tenuta dall’operatore fra le mani o appoggiata sulle spalle. Il movimento della macchina procede per sbalzi, scossoni, in modo discontinuo e irregolare. Un problema a parte è posto dalla carrellata ottica, in cui la macchina da presa in realtà non si muove ma, attraverso la variazione della lunghezza focale dell’obiettivo, può dar vita a passaggi da un piano più distanziato a uno più ravvicinato o viceversa. La differenza che esiste, sul piano della rappresentazione dello spazio, fra un carrello e uno zoom è che con il movimento di macchina vero e proprio gli oggetti statici guadagnano, nell’avvicinarsi della macchina da presa, volume e solidità e che lo sfondo si dà con una certa profondità. L’immagine proprietà dallo zoom, invece, dà agli oggetti, dello sfondo e dello spazio in generale, una rappresentazione più appiattita e artificiale. Tipologia dei diversi movimenti di macchina e le loro principali funzioni espressive: • Movimenti subordinati: seguono la traiettoria di un personaggio o un oggetto in movimento, mantenendo costanti la velocità, uguale a quella di ciò che è rappresentato, la distanza e l’angolazione. Sono movimenti di macchina la cui funzione principale è quella di tenere in campo l’elemento centrale del profilmico e di dirigere verso di esso l’attenzione dello spettatore. • Movimenti liberi: prescindono totalmente dai movimenti profilmici, in cui la macchina da presa si muove autonomamente nello spazio rappresentato, per allontanarci da qualcosa e avvicinarsi a qualcos’altro. Da una parte un movimento può avviarsi come subordinato ma poi diventare libero mostrando qualcos’altro; dall’altra esistono diverse gradazioni della subordinazione o della libertà di un movimento. Il rapporto tra filmico e profilmico dà vita a una dialettica del tutto simile a quella già evocata a proposito del rapporto tra oggettiva e soggettiva, sguardo dell’istanza narrante e sguardo del personaggio. Un’importante modalità dei movimenti di macchina subordinati è quella a cui ci si riferisce con l’espressione correzione di campo o re- inquadratura. Si tratta di brevi movimenti della macchina da presa, rapportati a quelli di un personaggio che si sposta all’interno di uno spazio limitato. Compito di questi piccoli spostamenti di macchina è quello di mantenere l’equilibrio e la centratura del piano nonostante gli spostamenti profilmici che continuamente ne minacciano la stabilità. È possibile concludere come i movimenti di macchina implichino due dimensioni: • Relativa allo spazio: i movimenti macchina si possono suddividere sulla base della loro estensione. Un movimento macchina potrà avere anche diverse traiettorie. • Relativa al tempo: contano la durata e la velocità dei movimenti. I movimenti di macchina possono anche essere distinti in: • Movimenti continui: propri di quelle inquadrature che si danno in forma dinamica dall’inizio alla fine. • Diegetici: prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio che racconta o ricorda qualcosa avvenuto in passato. • Narrativi: propri dell’istanza narrante che, senza la mediazione di un personaggio, racconta un episodio passato in un tempo successivo. È sul piano inter-sequenziale che il montaggio introduce, nel tessuto narrativo di un film, delle ellissi. Quasi sempre il passaggio da una scena, o sequenza, a un’altra implica un salto temporale che, potrà essere più o meno marcato. A differenza delle ellissi tecniche, quelle inter-sequenziali, che possiamo definire ellissi narrative, sono esplicite e più che evidenti agli occhi dello spettatore. Esse possono omettere ipotetici fatti irrilevanti alla costruzione della storia e alla caratterizzazione dei personaggi, ma, in alcuni casi, possono tenere nascosti elementi importanti del racconto, che potranno essere successivamente rivelati attraverso un flashback o un dialogo tra personaggi. Quando un film tende a omettere elementi importanti di una narrazione si parla di montaggio ellittico. Questo tipo di montaggio invita lo spettatore a una partecipazione attiva, a lavorare con l’immaginazione. L’ellissi agisce nel tempo assumendo le stesse funzioni proprie del fuori campo che agisce nello spazio. Un particolare caso di montaggio ellittico è quello della cosiddetta sequenza a episodi o di montaggio che allinea un certo numero di brevi scenette, separate nella maggior parte dei casi da effetti ottici, e che si succedono in ordine cronologico. Ciò che è importante è che ognuna di queste brevi scene sia parte di un insieme più ampio che si svolge in una certa direzione narrativa di cui noi cogliamo il senso proprio attraverso questa successione di brevi evocazioni. Il montaggio alternato è un’altra figura fondamentale per comprendere il modo in cui il montaggio narrativizza insieme lo spazio e il tempo. Tale sintagma alterna inquadrature di due o più eventi che si svolgono in luoghi diversi ma simultaneamente e che possono convergere in uno stesso spazio. I due eventi devono avere fra loro un legame diegetico che può essere già stato esplicitato dal racconto o che lo sarà in seguito. Da un punto di vista strettamente narrativo il montaggio alternato, attraverso l’onnipresenza della macchina da presa, è espressione di un narratore onnisciente in grado di informare lo spettatore di eventi che accadono contemporaneamente in più luoghi, conferendogli così un sapere maggiore di quello dei personaggi che prendono parte all’azione. Il montaggio può anche assumere il compito di costruire delle sequenze che si collocano in quel territorio di frontiera del racconto che è la descrizione. In questo caso la successione delle inquadrature non è determinata da un rapporto di consequenzialità: esse vengono semplicemente l’una dopo l’altra, e non l’una a causa dell’altra, solo per descrivere un determinato ambiente o una certa situazione. Forme, funzioni e ideologie del montaggio Il montaggio narrativo e il découpage classico Quando, da un punto di vista stilistico, parliamo di cinema classico ci riferiamo a quello stile distinto e omogeneo che ha dominato la produzione hollywoodiana tra il 1917 e il 1960, uno stile i cui principi sono rimasti sostanzialmente costanti. Ciò a cui questo cinema mirava era dar vita a quello che possiamo definire uno spettatore inconsapevole, che scivolasse docilmente nel mondo della finzione, si proiettasse nella vicenda narrata, si identificasse coi protagonisti del racconto, dimenticandosi di essere al cinema per assistere a uno spettacolo. Affinché ciò accadesse, il lavoro di scrittura del film doveva essere il più mascherato possibile. Ed è qui che si pone il dilemma del montaggio. A un primo sguardo il montaggio si presenta come una forza che disgrega la continuità spazio-temporale della realtà rappresentata, correndo il rischio di allontanare lo spettatore dalla finzione, di riportarlo alla sua vera realtà di spettatore. Il montaggio era un mezzo primario per la costruzione di un film. Si trattava dunque di utilizzare il montaggio, ma, al tempo stesso, di mascherarlo, di renderlo il più discreto possibile, di cancellarne le tracce. È questa l’operazione che dà vita a ciò che si definisce cinema della trasparenza o montaggio invisibile. Ed è proprio questo tipo di montaggio che ha preso il nome di découpage classico. Nel découpage classico la rappresentazione che il montaggio dà dello spazio e del tempo è subordinata alle esigenze della narrazione e alla chiarezza della sua esposizione: il passaggio a un piano ravvicinato servirà a mettere in evidenza un personaggio o un oggetto ogni qual volta lo sviluppo narrativo della sequenza in questione lo richieda, ogni ritorno a piani d’insieme sarà funzionale alla rappresentazione di ciò che ha modificato una certa situazione complessiva e di cui lo spettatore deve essere subito informato. Nel far ciò il montaggio deve anche essere invisibile o insensibile. Ed è qui che affiora un altro dei principi chiave del découpage classico, quello della continuità, il cui fine primario è controllare la forza potenzialmente disgregatrice del montaggio, per far vita a uno scorrevole flusso d’immagini da un’inquadratura a un’altra e facilitare così la proiezione dello spettatore nel mondo della finzione, il suo vivere in prima persona i sentimenti vissuti dai personaggi. A questo riguardo un ruolo essenziale è giocato dal raccordo, il cui compito è quello di mantenere degli elementi di continuità fra un piano e l’altro, in maniera che ogni mutamento d’inquadratura si dia nel modo meno evidente possibile. Tipi di raccordo: • Raccordo di sguardo: un’inquadratura ci mostra un personaggio che guarda qualcosa, l’inquadratura successiva ci mostra questo qualcosa. • Raccordo sul movimento: un gesto iniziato dal personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda. • Raccordo sull’asse: due momenti successivi di un’azione sono mostrati in due inquadrature, la seconda delle quali è ripresa sullo stesso asse della prima, ma più vicina o lontana di questa in rapporto al soggetto agente. • Raccordo sonoro: una battuta di dialogo, un rumore o una musica si sovrappone a due inquadrature, legandole così fra loro. Meccanismo di drammatizzazione tipico del découpage classico: costruzione del climax, inteso come un crescendo graduale di effetti stilistici e retorici che portano al momento forte di una sequenza narrativa. Ognuna delle sue parti si costruisce intorno ad almeno un nucleo di particolare pregnanza che gli conferisce senso e il discorso filmico lavora per mettere in rilievo questo momento anche sul piano figurativo. Un altro aspetto chiave del découpage classico: sistema dello spazio a 180°. Il modo migliore per spiegare il suo funzionamento è quello di partire da una qualsiasi scena di dialogo, costruita sul campo-controcampo, ovvero sul tipo di montaggio che mostra alternativamente due personaggi che dialogano. Il découpage classico avvia solitamente una scena di dialogo con un’inquadratura d’insieme dei due personaggi. Questo piano presenta così coloro che prendono parte alla scena ma stabilisce anche lo spazio nel quale può collocarsi la macchina da presa. L’immaginaria linea d’azione che unisce i personaggi determina infatti due spazi: uno al di qua e l’altro al di là di tale linea. Una volta che la macchina da presa ha occupato lo spazio che definiamo al di qua, essa non potrà più scavalcare questa linea. Ne rimarrà sempre al di qua, dando così vita a uno spazio che non è a 360° ma a 180° e facendo in modo che lo spettatore rimanga sempre dalla stessa parte dell’azione. In questo modo, quando ognuno dei due personaggi sarà inquadrato singolarmente, se lo sguardo del primo è rivolto verso destra, quello del secondo sarà rivolto verso sinistra, dando allo spettatore l’impressione che i due parlandosi si guardino. Se tale regola venisse infranta, se cioè si attuasse lo scavalcamento di campo, tramite uno sbagliato posizionamento della macchina da presa oltre la linea immaginaria che unisce i due personaggi, questi finirebbero col guardare tutti e due nella stessa direzione, creando uno spaesamento nello spettatore. L’uso dello spazio a 180° è un principio operante non solo nell’ambito delle scene di dialogo ma in qualsiasi altra scena o sequenza che faccia parte di un film a découpage classico. Questo determina l’esistenza di altri tre raccordi chiave nel cinema classico: • Raccordo di posizione: due personaggi ripresi in un’inquadratura l’uno destra e l’altro a sinistra dovranno mantenere la stessa posizione in quella successiva. • Raccordo di direzione: un personaggio che esce di campo a destra in un’inquadratura dovrà rientrare a sinistra in quella successiva. • Raccordo di direzione di sguardi: nel corso del dialogo fra due personaggi la macchina da presa sarà sempre posizionata in modo tale da far si che, quando ognuno dei due personaggi viene inquadrato singolarmente, il suo sguardo si rivolga verso l’altro personaggio. Ciò che accomuna questi tre raccordi è dunque la preoccupazione di rappresentare chiaramente lo spazio, in modo che lo spettatore possa agevolmente rendersi conto della disposizione dei personaggi in un determinato ambiente. Lo spazio filmico non deve creare effetti di disorientamento, perché tali effetti sono avvertiti come qualcosa che può distrarre lo spettatore dalla storia. Il découpage classico si fonda sulla necessità di uno spettatore inconsapevole che va aiutato nei processi di scivolamento nella finzione, proiezione nel narrato e identificazione con i personaggi della storia. Da qui l’uso di un montaggio invisibile: l’invisibilità del montaggio si costruisce principalmente attraverso un rapporto di continuità tra piano e piano, che trova il suo più efficace modo di realizzazione attraverso raccordi di sguardo, movimento e d’asse. Un altro aspetto costitutivo di questo montaggio è l’uso di uno spazio a 180° che permette allo spettatore di osservare lo svolgersi degli eventi rimanendo sempre dalla stessa parte dell’azione. L’articolazione spaziale del découpage classico trova due figure fondamentali nel campo/controcampo e nel passaggio da piani d’insieme a piani ravvicinati e poi di nuovo a piani d’insieme. In generale, il découpage classico subordina la rappresentazione dello spazio e del tempo alle necessità della narrazione, dando rilievo a ciò che si vuole affermare come più importante di altro. In ultima analisi il montaggio del cinema classico decide per lo spettatore non solo che cosa questi deve vedere, ma anche come, quando e per quanto tempo lo deve vedere. Il montaggio connotativo Il montaggio del cinema a découpage classico non è l’unica forma di montaggio esistente. A questa forma dominante possiamo rapportare almeno altri tre modelli: • Montaggio connotativo: il tratto dominante è la costruzione di significato • Montaggio formale: si impone per la sua natura grafica e/o ritmica • Montaggio discontinuo: nega i modelli della continuità Ejzenštejn: il suo montaggio trova il suo elemento costitutivo nella costruzione del senso, nella sua volontà connotativa. L’unire B ad A può far si che A venga interpretata dallo spettatore in un modo inedito. Il montaggio si caratterizza così innanzitutto per la sua funzione di produzione del senso. Per Ejzenštejn la rappresentazione filmica della realtà non ha in sé alcun particolare interesse. Ciò che conta è il senso che di essa si cattura attraverso la sua interpretazione. Il cinema non può limitarsi a riprodurre il reale, deve interpretarlo, costituendosi come un discorso articolato. Il montaggio è proprio lo strumento col quale arrivare a questa interpretazione, costruire questo discorso. Il montaggio è produzione di senso. Alla base dell’intera concezione ejzenstejniana del montaggio c’è il conflitto, la collisione tra due inquadrature che si trovano l’una accanto all’altra. Il montaggio è così il principio fondamentale del processo di significazione cinematografica. Esso non riguarda esclusivamente i rapporti fra i piani, ma si costruisce anche come uno stadio dell’inquadratura. Intesa come cellula del montaggio, l’inquadratura deve mettere in gioco gli stessi elementi di conflitto propri del montaggio e essere strutturata in rapporto alle inquadrature che la precedono e la seguono, diventando così parte costitutiva del montaggio propriamente detto. Il montaggio assume ruolo centrale anche sul piano della costruzione dei rapporti audiovisivi. Anche qui si tratta di andare al di là della semplice rappresentazione per entrare nella sfera dell’interpretazione: il rapporto fra suono e immagine non deve limitarsi alla produzione del reale ma deve darcene il senso. Il montaggio formale Un’immagine, nel momento in cui è accostata a un suono, può produrre un significato diverso da quello che essa produce quando ne è ancora priva. Michel Chion parla di valore aggiunto, inteso come il valore espressivo e informativo di cui un suono arricchisce un’immagine data, sino a far credere, nell’impressione immediata che se ne ha o nel ricordo che si conserva, che questa informazione o espressione si liberi naturalmente da ciò che si vede e sia già contenuta nella sola immagine. Sul piano dell’evoluzione del linguaggio cinematografico e del suo stabilizzarsi nelle forme del découpage classico, il sonoro ha certamente assunto un ruolo di primo piano. Sua funzione chiave è infatti quella di giocare un ruolo determinante nell’unificare il flusso delle immagini, nell’attutire quell’effetto di brusca rottura sempre implicito in ogni stacco. La stessa funzione unificante è giocata dal suono ambientale che può rimanere costante e continuo per tutta la durata di una scena frammentata da una successione di diverse inquadrature. Essenziale a questo riguardo è il ruolo della musica che avvolge e immerge le diverse immagini in un unico e continuo flusso sonoro. In sostanza le immagini staccano e il suono unisce. Quella unificante più che essere una caratteristica consustanziale al sonoro è una qualità che gli è stata attribuita da certo cinema. Talvolta esso può muoversi in direzioni diverse. Anche nel cinema classico un particolare evento drammatico può essere enfatizzato attraverso un brusco contrasto audiovisivo, dove lo scontro fra due immagini decisamente diverse fra loro è amplificato da un conflitto sonoro di eguale portata. Il cinema moderno poi ha dato di frequente vita a un esplicito gioco di conflitti sonori al fine di rendere il più evidente possibile il carattere di artificialità proprio di ogni costruzione filmica. Come accade per le immagini, anche il suono è sottoposto a un processo di selezione e combinazione. Una volta selezionati, i suoni vengono combinati fra loro dando vita a un vero e proprio montaggio sonoro. Qui il volume di ogni singolo suono acquista un’importanza particolare. Alcuni suoni saranno regolati su un volume più alto, altri su uno più basso; si tratterà cioè di scegliere quali suoni mettere in evidenza e quali invece in secondo piano. Il montaggio dei suoni e la regolazione del loro volume è quell’operazione definita missaggio. Dal momento che immagini e suoni non rimangono componenti fra loro separate ma instaurano uno stretto rapporto di interrelazione, il montaggio sonoro e quello visivo finiscono col dar loro vita a un’unica forma di montaggio detta montaggio audio-visivo. A differenza di quello delle sole immagini, il montaggio audio-visivo non si dà solo nella forma della successione, bensì anche in quella della simultaneità. Suono e spazio Nell’ambito del montaggio audiovisivo possiamo pensare a due grandi ordini di rapporti fra suono e immagini e fra suono e racconto. Il primo riguarda lo spazio, il secondo il tempo. Dal punto di vista dello spazio possiamo distinguere: • Suono intradiegetico: suoni che provengono direttamente dalla diegesi vera e propria del film, come la voce di un personaggio che parla con qualcuno, il rumore del traffico stradale, il suono di una banda musicale che percorre una via cittadina. • Suono extradiegetico: tipo di sonoro che udiamo noi spettatori ma non i personaggi dei film, che non si colloca nello spazio della storia narrata bensì in quello ideale della sua narrazione. È il caso della musica d’accompagnamento o della voce dell’istanza narrante. In alcuni casi i confini fra questi due spazi possono farsi assai labili e un film può giocare sul loro confondersi. È il caso di certe musiche che iniziano come diegetiche e si trasformano poi in extradiegetiche quando continuiamo a sentirle in una scena successiva. Il suono intradiegetico può essere a sua volta suddiviso in: • Suono in campo: la fonte sonora è all’interno dell’inquadratura • Suono fuori campo: la fonte sonora è al di fuori dell’inquadratura È quindi l’elemento visivo quello che ci permette di distinguere un suono in campo da uno fuoricampo e viceversa. Il suono fuori campo ha spesso la funzione di estendere lo spazio dell’inquadratura, di permetterci di meglio contestualizzarla. Un’altra importante funzione del suono fuori capo è quello di creare un senso d’attesa nello spettatore, di invitarlo ad azzardare delle ipotesi. Chion individua tre tipi di suoni che creano difficoltà a riguardo della loro collocazione fra campo e fuori campo: • Suono ambiente: suono inglobante che avvolge una scena. • Suono interno: si oppone a quello esterno. Quest’ultimo è quello che ha origine da una sorgente fisica ben precisa, il primo proviene dalla realtà interna del personaggio. Si tratta di quei suoni che sentiamo in quanto immaginati o ricordati da un personaggio. Essi corrispondono sul piano sonoro a quelle che, vengono comunemente definite immagini mentali. • Suono on the air: è quello che sentiamo in quanto trasmesso da strumenti quali una radio, un altoparlante, un telefono ecc. la loro sorgente ultima può benissimo essere in campo, ma fuori campo ne è la sorgente primaria. [Suoni extradiegetici = suono over, suoni intradiegetici in campo = suono in, suoni intradiegetici fuori campo = suono off] Accompagnandosi a un’immagine, il suono può dirigere la nostra attenzione su un suo elemento o un altro. Lo spazio rappresentato da un’inquadratura può così essere disarticolato e alcune sue componenti messe in evidenza. Il suono ci invita così a uno sguardo selettivo. Il problema che qui implicitamente si pone è quello della direzione. A partire dagli anni Settanta, la diffusione del suono stereofonico e di altri sistemi multi-canalizzati ha ampliato le possibilità espressive del suono al cinema. Gli altoparlanti non sono sistemati solo dietro lo schermo ma anche nella sala, a destra, a sinistra e dietro gli spettatori. I film che utilizzano queste tecniche, fra cui il dolby è la più diffusa, possono di conseguenza direzionare il suono, far ascoltare allo spettatore delle voci, dei rumori e delle musiche che possono essere agevolmente localizzate come provenienti da diverse direzioni. Secondo Chion un certo uso delle possibilità sonore della registrazione su più piste ha dato vita a una nuova figura filmica e determinato così un certo cambiamento delle regole del découpage cinematografico. Questa figura è quella del supercampo, che si può definire come una sorta di campo audiovisivo, determinato non solo da ciò che l’immagine ci mostra ma anche da quel suono ambiente, fatto di parole, musiche e rumori, che non proviene soltanto dagli altoparlanti disposti dietro lo schermo, ma anche quelli disseminati in sala. Lo spettatore continua ad avere l’immagine davanti a sé, ma il suono ora lo circonda, trascinandolo all’interno di un mondo diegetico. Il supercampo finisce così per porre le basi di una rimessa in discussione di certe forme di découpage tradizionale e nello specifico di quelle che si avvalgono dei piani d’insieme o campi totali. queste particolari inquadrature, che possono darsi all’inizio, nel corso o alla fine di una scena, hanno il potere di collocare i personaggi nell’ambiente di cui sono parte, di dare ad esso una presenza concreta e fattuale. Suono e tempo Una prima ed essenziale distinzione che dobbiamo fare a riguardo dei rapporti fra suono e tempo è quella che concerne la differenza fra: • Suono simultaneo: si realizza quando il sonoro e l’immagine si danno in uno stesso tempo narrativo • Suono non simultaneo: è costituito da quell’effetto sonoro che anticipa o segue le immagini che noi stiamo vedendo in un dato momento. Un caso relativamente frequente di non simultaneità dei rapporti temporali di suono e immagine è quello del ponte sonoro (sound bridge). Si tratta di quelle brevi anticipazioni sonore in cui le parole, le musiche o i rumori della scena immediatamente successiva a quella presente sullo schermo iniziano già a sentirsi prima che se ne vedano le immagini. Un’altra importante particolarità dei rapporti fra suono a tempo è quella individuabile riprendendo la distinzione di Chion fra suono acusmatico e suono visualizzato. A partire da essa possiamo individuare due percorsi: 1. Il suono visualizzato che poi si fa acusmatico: è quello in cui un’immagine è associata a un suono. In un secondo momento sarà solo il suono a comparire, ma ecco che questo suono potrà evocare nella mente dello spettatore quell’immagine a cui era precedentemente associato. 2. Il suono acusmatico diventa diventa visualizzato: è tipico di molti racconti del mistero in cui si preserva a lungo il segreto della causa di un suono, di chi lo produce. Il ritmo è un’altra questione centrale dei rapporti fra suono e tempo. Si può parlare di ritmo sonoro a partire dalle sue due componenti chiave: la velocità e la regolarità degli intervalli. • Velocità: è determinata dalla durata degli intervalli. Se l’intervallo è breve, il suono avrà un ritmo veloce. Se l’intervallo è lungo, il suono avrà un ritmo lento. • Regolarità: nasce sulla base della coincidenza o meno delle durate degli intervalli. Se le durate degli intervalli coincidono, avremo un ritmo regolare, se non coincidono, il ritmo sarà irregolare. Il problema del ritmo al cinema è complicato dal fatto che anche i movimenti di ogni singola inquadratura hanno il loro proprio ritmo determinato anch’esso dalla loro velocità e regolarità. Inoltre anche il montaggio ha il suo proprio ritmo. Spesso il ritmo visivo e quello sonoro vengono adeguati l’uno all’altro come, nel modo più evidente, accade nella gran parte dei musical e nei film d’animazione Disney. Suono e racconto: il punto d’ascolto Come esiste un punto di vista visivo è possibile parlare di un punto di vista sonoro, ovvero di punto d’ascolto. Parlando di punto di vista al cinema, io posso riferirmi ad almeno due diverse dimensioni: una oggettiva, riferita al punto di vista spaziale della macchina da presa, l’altra soggettiva, concernente aspetti più propriamente narrativi e riguardante il rapporto fra sguardo della macchina da presa e sguardo dei personaggi. La nozione di punto d’ascolto può partire da questa differenziazione, fermo restando la necessità di porre alcune distinzioni che riguardano innanzitutto il problema dei rapporti con lo spazio. Al cinema prima dell’avvento della stereofonia, tutti i suoni provenivano solamente dagli altoparlanti posti dietro lo schermo. In questo modo la sorgente del suono non poteva essere localizzata in un punto preciso, bensì dietro una superficie che non cambiava mai. Tuttavia attraverso il volume è possibile distinguere fra suoni vicini e lontani, tanto che si potrebbe immaginare una scala di piani sonori non del tutto dissimile da quella dei piani visivi. Il rapporto tra queste due scale può dare vita a possibilità: coincidenza e contrasto. Il punto d’ascolto ha trovato nel suono stereofonico e nel dolby ulteriori possibilità di esistenza, dal momento che i suoni possono trovare una precisa localizzazione spaziale della loro sorgente a seconda che provengano da dietro o da davanti, da sinistra o destra degli spettatori. L’aspetto più interessante del punto d’ascolto è però quello che riguarda la sua dimensione narrativa, quella cioè inerente il rapporto fra ciò che noi sentiamo e ciò che sente un determinato personaggio. Jost propone l’uso del termine auricolarizzazione. Avremo una distinzione tra: • Auricolarizzazione interna: è quella che àncora un suono diegetico a un determinato personaggio. • Primaria: il suono assume una dimensione esplicitamente soggettiva. Il punto d’ascolto dello spettatore è fatto coincidere con quello del personaggio. Si dà a partire da un’alterazione sonora causata da una particolare condizione del personaggio in ascolto. • Secondaria: determinati meccanismi visivi o di montaggio la evidenziano. • Auricolarizzazione esterna: si dà nel caso in cui i suoni del film non sono ancorati in modo particolare a un dato personaggio. Sono suoni sentiti dal personaggio ma che non rivestono per lui
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