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Riassunto libro Manuale del Film, Sintesi del corso di Storia Del Cinema

Riassunto dettagliato del libro manuale del film esame Analisi del Film

Tipologia: Sintesi del corso

2017/2018

Caricato il 17/12/2018

marta-a-borucinska
marta-a-borucinska 🇮🇹

3.7

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Scarica Riassunto libro Manuale del Film e più Sintesi del corso in PDF di Storia Del Cinema solo su Docsity! 1 Riassunti di: Roberta Lamonaca MANUALE DEL FILM La storia del cinema e del suo linguaggio è stata contrassegnata da tre grandi stagioni, che vanno concepite come vere e proprie idee di cinema, che in quanto tali possono anche coesistere in uno stesso periodo, nella filmografia di un determinato autore o addirittura nell’ambito di uno stesso film. Cinema classico metà anni 10 – inizio anni 60 Cinema moderno dalla fine degli anni 50 in poi Cinema post-moderno dalla fine degli anni 70 in poi - volontà di identificazione dello spettatore - prevalenza del racconto - carattere causale degli eventi (causa- effetto) - carattere finalistico del comportamento dell’eroe, che si muove verso la conquista di un fine - spazio in funzione antropomorfica con collocazione centrale del personaggio - messinscena e linguaggio subordinati al racconto e ai personaggi - organizzazione delle sequenze in base a delle costanti secondo un avvicinamento progressivo (establishing shot etc.) - montaggio analitico o invisibile - volontà di rendere lo spettatore cosciente del proprio ruolo, quindi rifiuto dei meccanismi di identificazione bensì ricerca di distanza critica (metalinguaggio, interpellazioni dirette, esplicita presenza dell’autore etc.) - racconto libero e aperto - rifiuto della causalità e importanza di tempi morti, finali indefiniti etc. - carattere problematico e non finalistico del comportamento dell’eroe - spazio non ordinato e libera collocazione del personaggio, anche marginale - montaggio più evidente (ad es. tramite i jump cuts) oppure eclissato (ad es. tramite i piani sequenza) - fusione di caratteri del cinema classico (volontà di coinvolgere lo spettatore) e del cinema moderno (volontà di rinnovamento del linguaggio cinematografico) - racconto molto forte, segnato però da numerose digressioni narrative e temporali che rendono il racconto labirintico - utilizzo della forma pastiche, tramite l’inserimento di riferimenti e citazioni al cinema del passato e il dialogo con ogni forma di comunicazione (tv, pubblicità, computer etc.) - modalità di rappresentazione molto marcata che mira a fare del film uno spettacolo: movimenti di macchina frenetici e spesso difficili e singolari, uso estremo delle lenti, montaggio rapido e aggressivo, utilizzo degli effetti speciali e di musica ad alto volume etc. SCENEGGIATURA E RACCONTO La sceneggiatura è la descrizione più o meno precisa di una serie di eventi, personaggi e dialoghi connessi tra di loro in qualche modo; è anche il processo di elaborazione del racconto cinematografico che passa attraverso diversi stadi, dall’idea di partenza alla sceneggiatura vera e propria: • il soggetto: prima manifestazione concreta di un’idea, piccolo racconto riassunto in poche righe o qualche pagina, che verrà poi ampliato e articolato; può avere esistenza legale • l’adattamento: soggetto di film tratti da racconti o romanzi, lungo centinaia di pagine, che sarà sottoposto a un lavoro di contenimento e di rilettura personale dell’opera di partenza • il trattamento: gli spunti narrativi del soggetto vengono sviluppati e approfonditi, sebbene ancora in forma ancora letteraria, con attenzione all’ambientazione e ai dialoghi, solitamente ancora indiretti • la scaletta: passaggio dal momento letterario a quello della costruzione del film, composto da venti/trenta scene che vengono numerate, e che serve a tenere d’occhio l’intera storia del film • la sceneggiatura: unione di trattamento e scaletta, in cui sono mese in ordine le scene del film, descritti ambienti, personaggi, eventi e dialoghi • il decoupage tecnico: divisione delle scene in singole inquadrature o piani numerati, di cui si indica contenuto, pdv della cinepresa, movimenti di macchina etc. • lo story-board: immagini che prefigurano le inquadrature del film che si possono accompagnare al decoupage • la sceneggiatura desunta dalla copia definitiva del film: descrizione dettagliata del film successiva alla sua lavorazione e realizzazione, che ne permette uno studio approfondito Questo è un processo molto astratto e infatti ogni sceneggiatore segue un proprio metodo. Un grande impulso all’arte della sceneggiatura è sicuramente giunto dall’avvento del sonoro, ma ciò non significa che ai tempi del muto non esistessero grandi sceneggiatori. Il cinema americano classico ha 2 assegnato una notevole funzione alla sceneggiatura (tanto che il compito del regista consisteva soprattutto nel rispettare le indicazioni del decoupage tecnico), mentre invece la Nouvelle Vague ha trasformato la sceneggiatura in uno strumento da rimettere continuamente in discussione. Si può quindi a grandi linee distinguere tra un tipo di sceneggiatura legata al cinema classico, più chiusa e strutturata e che lascia poca libertà al regista durante le riprese, e un tipo di sceneggiatura legata al cinema moderno, più aperta e manipolabile, destinata talvolta a nascere nel corso della realizzazione del film sulla base dell’improvvisazione. Di fatto una sceneggiatura è ultimata quando le sue funzioni vengono meno, cioè quando il film è terminato; in quest’ottica la sceneggiatura è un oggetto effimero, non destinato a durare, bensì a diventare altro, cioè il film. La sceneggiatura ha ovviamente anche una sua funzionalità pratica legata alle concrete possibilità di realizzazione del film: indica i materiali di produzione necessari, i luoghi dove dovranno avvenire le riprese, il numero di attori e comparse da utilizzare, il ricorso o meno a effetti speciali, i tempi necessari alla lavorazione, in sostanza il denaro che occorre per la realizzazione del film ed è quindi permette al produttore di sapere di cosa si tratta e valutare se vale la pena finanziare il progetto o meno. Il termine racconto raccoglie in sé almeno due significati diversi: storia (cosa viene narrato, azioni e personaggi) e discorso (come viene narrato, espressione e mezzi); si potrebbe definire anche come catena di eventi legati fra loro da una relazione di causa ed effetto che accadono nel tempo e nello spazio. A monte della nozione di racconto c’è quella di narratività, l’insieme di codici, procedure e operazioni la cui presenza in un testo ci permette di riconoscere questo ultimo come racconto; l’operazione minimale della narratività è il passaggio da una situazione ad un’altra secondo il seguente schema: equlibrio – evento o serie di eventi – squilibrio – evento o serie di eventi – riequilibrio. A questo concetto hanno dedicato i loro studi numerosi ricercatori: • Vladimir Propp, partendo dall’analisi delle fiabe russe, individuò che queste si costruivano tutte a partire da un ristretto numero di funzioni, ovvero azioni-tipo necessarie allo sviluppo del racconto, evidenziando quindi la presenza di strutture in profondità uguali per ogni storia ma che questa attualizza rivestendole di un aspetto di volta in volta diverso • Algirdas Greimas ha dimostrato come al di sotto di ogni narrazione si ritrovi un modello, che egli definisce modello attanziale, costruito da sei funzioni (attanti) così strutturate: il destinatore assegna ad un soggetto eroe il compito di conquistare un certo oggetto di cui un destinatario potrà beneficiare; nel corso della sua azione il soggetto incontrerà elementi che gli faciliteranno il compito (adiuvanti), e altri invece che lo ostacoleranno (opponenti) • Roland Barthes distingue due grandi categorie di elementi: le funzioni, che hanno il compito di far avanzare la storia, e gli indizi, che hanno il compito di arricchire il racconto; a loro volta questi elementi si suddividono in altre due categorie: - funzioni cardinali o nuclei (momenti della narrazione che fanno a tutti gli effetti procedere il racconto) e catalisi (azioni che si agglomerano intorno a un nucleo senza modificarne la natura) - informanti (elementi del racconto che danno un’informazione esplicita, situando qualcosa nel tempo o nello spazio) e indizi propriamente detti (notazione che implica un’attività di decifrazione) Le osservazioni di questi studiosi sottolineano l’importanza di uno degli aspetti chiavi della narratività: la causalità; infatti il racconto, almeno nella sua forma classica, impone una struttura causale. Il mondo creato dal racconto si definisce diegesi e quindi si indica con diegetico o intradiegetico tutto ciò che fa parte del mondo della diegesi e con extradiegetico tutto ciò che esula dalla diegesi, pur facendo parte del film. In generale si può distinguere tra narrazione verbale (caratterizzata dalla presenza di un’istanza narrante e quindi di un determinato punto di vista) e mostrazione o rappresentazione (diversa da quella verbale, come ad esempio una rappresentazione teatrale). La narrazione cinematografica si colloca a metà strada tra queste due polarità, perché se da un lato, come il teatro, ricorre alla presenza di attori che interpretano personaggi e danno vita ad una serie di azioni, dall’altro il rapporto tra attore e spettatore non è diretto bensì è mediato dalla presenza di un’istanza narrante che mostra i fatti in un determinato modo, inserendo elementi extradiegetici, manipolando il tempo e lo spazio della storia e regolando il flusso delle informazioni diegetiche. Quindi la narrazione cinematografica, così come accade in un romanzo, si basa su due fondamentali principi: selezione (narrando solo alcuni frammenti del mondo diegetico) e combinazione (disponendoli in un certo 5 L’INQUADRATURA L’inquadratura è l’unità base del discorso filmico, definibile come rappresentazione in continuità di un certo spazio per un certo tempo; essa è dunque una rappresentazione che in quanto tale ha una dimensione spaziale e una temporale. L’inquadratura delimita una certa porzione di spazio, definita piano. Ogni inquadratura è il risultato di scelte relativa a due livelli: 1) profilmico: tutto ciò che sta davanti alla mdp; questa nozione è connessa a quella di messa in scena, termine che indica il lavoro di organizzazione da parte del regista dei materiali di ogni inquadratura (scenografia e personaggi, luci e colori, recitazione e costumi etc.) 2) filmico: modo in cui vengono rappresentati gli elementi profilmici attraverso il linguaggio cinematografico La scenografia, elemento di origine teatrale, è la modificazione o la creazione di un ambiente in funzione della ripresa cinematografica e della realizzazione di un film (quando quindi lo spazio ambientale di un inquadratura non è naturale). L’ambiente è spesso legato alle figure, per lo più umane, che vi entrano a fare parte ed è proprio dalla relazione tra ambiente e figure che spesso un’inquadratura trae il suo senso, infatti l’ambienta può dare un contributo essenziale alla definizione dei personaggi che lo abitano (ad es. Quarto Potere, vedi pag. 61). Gli ambienti vengono ricostruiti per ragioni pratiche (film che non potrebbero trovare negli spazi odierni scenari credibili) oppure perché è meno costoso di occupare luoghi reali, specie se si tratta di monumenti. Ma soprattutto la ricostruzione permette di elaborare l’ambiente per renderlo più espressivo e funzionale al controllo assoluto del regista. Ci sono tre modi in cui si può concepire un ambiente: • realista: l’ambiente non ha altra implicazione che la sua stessa materialità, non significa nient’altro che quello che è (ad es. il neorealismo italiano) • impressionista: l’ambiente è scelto e modificato in funzione della dominante psicologica dell’azione, è il paesaggio di uno stato d’animo • espressionista: l’ambiente è esplicitamente artificiale, deformato e stilizzato in funzione simbolica Inoltre agli ambienti naturali e scenografici, il cinema contemporaneo ha aggiunto quelli virtuali, distinguibili in diverse categorie: • ambienti digitali puri (interamente realizzati al computer) o ambienti digitali parziali (immagini reali che sono sottoposte a un trattamento di sintesi per modificarne certe caratteristiche) • ambienti virtuali realistici (che simulano un mondo possibile) o ambienti virtuali fantastici • ambienti virtuali illusori (l’effetto digitale è celato) o ambienti virtuali espliciti (artificialità esplicita) Per realizzare questo tipo di ambienti, il cinema digitale fa spesso ricorso alla tecnica del chroma-key, che consente di far integrare personaggi dal vero con il mondo virtuale (riprendendo il soggetto con uno sfondo di colore neutro o blu o verde, da sostituire poi con immagini fisse o in movimento). Altro elemento base del profilmico è la luce, che si distingue tra: • luce intradiegetica: fonti di luce che fanno parte della messa in scena, della storia raccontata • luce extradiegetica: fonti di luce e riflettenti che esistono solo nella realtà produttiva del film e che non vengono mai ripresi La caratteristiche fondamentali della luce sono quattro: • QUALITÀ: caratterizzata dall’opposizione classica: - illuminazione contrastata: illuminazione diretta che crea netti contrasti tra luce ed ombra, la cui funzione è quella di drammatizzare lo spazio o dar vita a spazi privilegiati; talvolta è realizzata tramite una luce dinamica, illuminazione in movimento che determina una continua reversibilità tra le zone in ombra e quelle in luce (ad es. Amarcord e Psyco, vedi pag. 89) - illuminazione diffusa: illuminazione che da una rappresentazione più omogenea dello spazio e che ricorre in situazioni narrative meno forti • DIREZIONE: percorso che la luce compie dalla fonte al soggetto, secondo diverse traiettorie: - frontale: elimina le ombre e appiattisce l’immagine - laterale: scolpisce il volto e accentua il gioco di luci ed ombre - controluce: stacca la figura dallo sfondo e ne evidenzia i contorni - luce dal basso: deforma il volto creando effetti drammatici 6 - luce dall’alto • SORGENTE: raramente lo spazio profilmico è illuminato da una sola luce, ma almeno da due: - key-light: fonte di luce primaria, che determina l’illuminazione dominante, generalmente posta frontalmente alla figura - fill light: fonte di luce che riempie ed attenua le ombre create dalla key-light, generalmente posta lateralmente - back light: generalmente posta alle spalle della figura, leggermente più in alto • COLORE: la sua introduzione nel cinema risale alla metà degli anni 30, ma è solo negli anni 50 e 60 che il colore si afferma in modo decisivo sul bianco e nero; il suo avvento non determinò significativi mutamenti a livello del discorso filmico, come invece era accaduto per il sonoro, e fu pensato inizialmente come un accrescimento delle potenzialità realistiche del cinema, ma invece negli anni 50 si caratterizzò per la sua natura decorativa e spettacolare. Si possono distinguere diverse tendenze nell’uso del colore: quella realistica contrapposta a quella immaginaria, quella decorativa-estetizzante contrapposta a quella espressivo-psicologico; certo è che il colore, insieme alla luce, gioca un ruolo di primo piano nell’articolazione del significante dell’immagine (i colori chiari attirano lo sguardo più di quelli scuri, i toni caldi più di quelli freddi, o ancora i rapporti dominanti tra primo piano e sfondo possono essere assecondati o rovesciati dal colore etc.). Queste funzioni del colore si ritrovano anche nel cinema in bianco e nero, dal momento che il discorso sul colore si intreccia necessariamente con quello della luce (il chiaro attira più dello scuro), ma ovviamente ciò non vuol dire che ci sia un catalogo di colori che agiscono secondo un orientamento fisso. Si possono individuare tre grandi momenti della storia del colore: periodo del bariolage (anni 50-60, accozzaglia di colori per rendere evidente la presenza del colore), periodo anti-bariolage (anni 60-70, volontà di rendere invisibili i colori) e periodo neo-bariolage (dagli anni 80, forte riaffermazione del colore dai toni pop). L’utilizzo della luce si è evoluto nel corso della storia del cinema: la luce del cinema classico rispondeva a tre imperativi, quali simbolizzazione (la luce si metaforizza), gerarchizzazione (l’attore è l’elemento primario dell’inquadratura), leggibilità (la luce deve rendere ogni immagine chiara e riconoscibile); la luce del cinema moderno invece viene riprodotta così com’è, senza essere trasformata o resa più drammatica. Un ultimo elemento del profilmico è quello che riguarda l’attore e la sua recitazione; questa discende chiaramente dalla recitazione teatrale, ma se ne discosta per alcuni aspetti: - l’attore cinematografico non recita davanti a un pubblico ma davanti a una mdp, quindi viene meno il rapporto diretto tra attore e pubblico tipico del teatro - mentre ogni performance teatrale è unica, quella cinematografica si ripete sempre uguale - al cinema il lavoro dell’attore deve fare i conti non solo con i codici di origine teatrale ma anche con quelli più specificatamente cinematografici (movimenti di macchina, il montaggio etc.), quindi in sostanza la recitazione cinematografica è molto più vincolata alle scelte di regia - l’espressività del volto dell’attore, molto più visibile di quanto non lo sia ad uno spettatore teatrale, acquista un ruolo decisivo - la recitazione cinematografica è spesso discontinua e frammentata, sia per via del montaggio (che costringe l’attore a recitare inquadratura per inquadratura) sia per via dei piani di lavorazione (che spesso impongono di girare insieme scene ambientate nello stesso luogo ma che si trovano in momenti diversi della narrazione) - la recitazione cinematografica è più discreta di quella teatrale, che invece deve ricorrere a gesti evidenti per farsi presente al pubblico Quanto al rapporto tra attore e personaggio esistono diverse linee di pensiero: da una parte c’è l’idea che l’attore debba possedere un repertorio di tecniche precise che gli permette di rappresentare il proprio personaggio, dall’altra il metodo Strasberg, secondo cui l’attore deve rivivere il suo personaggio, identificandosi con lui ed i suoi stati d’animo; a questo modello di identificazione, che può avere forme più o meno blande, si oppone il modello dello straniamento, di origine brechtiana, secondo cui l’attore deve mantenere una certa distanza rispetto al personaggio e recitare in modo da esibire il carattere finzionale della propria performance, in modo che lo spettatore a sua volta non si identifichi con il personaggio bensì instauri con questo un rapporto critico. Si possono poi distinguere tra grandi modalità di stile del discorso attoriale: • recitazione naturalista: l’attore opta per una recitazione quanto più verosimile, neutrale ed invisibile 7 • recitazione sovraccarica: l’attore accentua l’uso del gesto e della voce • recitazione minimalista: l’attore opta per gesti ed espressioni sobri se non addirittura azzerati Altre due modalità di interpretazione sono quella dell’attore replicante, che memorizza gesti e battute e li riproduce davanti alla mdp, e quella dell’attore creativo, che recita a partire da un canovaccio e si affida in parte all’improvvisazione. Ovviamente molte di queste opzioni dipendono anche dal metodo di direzione degli attori di ogni regista: ci sono infatti registi che danno più spazio al lavoro dell’attore e altri che invece prediligono altri aspetti del lavoro di regia; altro aspetto fondamentale del rapporto tra regista ed attore riguarda l’ambito della prossemica, che concerne la collocazione degli elementi nello spazio dell’inquadratura (centrale o marginale, in campo o fuori campo etc.). Sul personaggio influiscono anche gli elementi dei costumi e del make up, il cui ruolo è potenzialmente più importante da quello che assumono in letteratura e nel teatro: giocano infatti un ruolo essenziale per stabilire lo status sociale di un personaggio, le sue inclinazioni, le sue scelte di vita etc. oppure anche il rapporto fra due o più personaggi. Per quanto riguarda il filmico, il primo elemento da analizzare è quello della scala dei piani, cioè delle diverse possibilità di ogni inquadratura di rappresentare un elemento profilmico da una maggiore o minore distanza: • campo lunghissimo: inquadratura che abbraccia una porzione di spazio particolarmente estesa, con funzione principalmente descrittiva e utile a testimoniare la preponderanza dell’ambiente sul personaggio (figura ricorrente nel cinema western) • campo lungo: inquadratura di ampie proporzioni dove però personaggi ed azioni sono più riconoscibili e la predominanza dell’ambiente va di pari passo con lo sviluppo della narrazione • campo medio: inquadratura che coincide più o meno con il pdv dello spettatore teatrale, dominante alle origini del cinema • campo totale: inquadratura spazialmente vicina a un campo medio/lungo che rappresenta per intero un ambiente e mette in campo tutti i personaggi che prendono parte alla scena • figura intera: prima inquadratura che afferma la centralità del personaggio rispetto all’ambiente, dove la figura umana che occupa i due terzi o più della verticale dell’inquadratura • piano americano: inquadratura della figura umana dalle ginocchia in su • mezza figura: inquadratura della figura umana dalla vita in su • mezzo primo piano: inquadratura della figura umana dal petto in su • primo piano: inquadratura della figura umana dalle spalle in su • primissimo piano: inquadratura solo del volto • particolare: inquadratura di una parte di volto o del corpo umano • dettaglio: piano ravvicinato di un determinato oggetto Quella del primo piano è stata senza dubbio la figura su cui si è più dibattuto: ancora agli inizi del 900 il pp era considerato quasi come un vero e proprio tabù, perché, dal momento che il cinema aveva come punto di riferimento naturale il teatro e quindi una rappresentazione simile a quella del palcoscenico, si pensava che un ingrandimento improvviso di una parte del corpo dell’attore avrebbe infastidito se non addirittura turbato il pubblico. D’altra parte molto presto ci fu chi, come Ejzenstejn, cominciò a rendersi conto dell’importanza espressiva che potevano avere i piani ravvicinati di cose o persone, dal momento che il pp da vita ad un processo di intimità tra personaggio e spettatore che innesca meccanismi di identificazione. Inoltre il pp gioca un ruolo essenziale nell’esprimere l’essere di un personaggio attraverso le sole immagini, senza l’ausilio di una voce. Il punto di ripresa o punto di vista della mdp ovviamente non riguarda solo la distanza dai soggetti inquadrati ma anche l’angolazione, l’inclinazione e l’altezza della stessa mdp: a partire da un ipotetico piano ordinario (soggetto centrato, in posizione frontale e ad una distanza media) si possono ipotizzare una serie infinita di riprese di uno stesso soggetto lungo questi tre assi; ogni mutazione mira a conferire una particolare dimensione al soggetto attraverso quindi un uso espressivo delle angolazioni, ad esempio quelle dall’alto enunciano una dimensione di debolezza, mentre quelle dal basso di potenza e superiorità (ad es. Psyco e Quarto Potere, vedi pag. 127-129). 10 IL MONTAGGIO Il montaggio è una fase di importanza capitale nella lavorazione di un film, che consiste nell’unire la fine di un’inquadratura con l’inizio della successiva; questa operazione per lo spettatore si traduce nell’effetto montaggio, ovvero il passaggio da un’immagine ad un’altra (ad es. Psyco, vedi pag. 199). Georges Méliès fu tra i primi a scoprire le possibilità del montaggio, anche se ancora inteso nella forma di montaggio trucco (trucco dell’arresto e della sostituzione è alla base del suo cinema fantastico), ma saranno poi gli esperimenti della scuola inglese a concepire il montaggio; la vera evoluzione del montaggio si ha in America, negli anni di passaggio da cinema primitivo (1902-08) e quello classico (1917-60), ovvero tra il 1909 e il 1916. La transizione da un’inquadratura ad un’altra può avvenire tramite diversi effetti: • stacco: passaggio diretto ed immediato da un piano a quello successivo • dissolvenza che si distingue in tre forme: - d’apertura: l’immagine appare progressivamente dallo sfondo nero - in chiusura: l’immagine scompare progressivamente sino a diventare nera - incrociata: l’immagine che appare e quella che scompare si sovrappongono per alcuni istanti • iris: un foro circolare si apre o si chiude intorno ad una parte dell’immagine • tendina: la nuova immagine si sostituisce alla precedente facendola scorrere via dallo schermo Dal punto di vista spaziale, il montaggio ha il compito di articolare lo spazio diegetico in diverse unità, stabilendo tra queste delle connessioni secondo un certo progetto narrativo; lo stesso vale dal punto di vista temporale, dove il montaggio ha il compito di selezionare i momenti della storia di maggiore importanza e confinare gli altri nel vuoto delle ellissi. Esistono due grandi possibilità di rappresentazione di uno spazio diegetico, entrambe interne alla tecnica del decoupage (gioco di segmentazione dello spazio): • ad un piano d’insieme dell’ambiente seguono diverse inquadrature che lo frammentano e che sono comprese nel piano originario (forma tipica del cinema classico) • lo spazio è costruito attraverso una serie di inquadratura parziali che ne mostrano sempre e solo una parte e mai la sua globalità Quanto al rapporto con il tempo, il montaggio può introdurre all’interno di una sequenza delle brevi ellissi tecniche, che il più delle volte non sono neanche percepite dallo spettatore e il cui compito è quello di abolire i tempi morti e rendere più avvincente la narrazione; inoltre il montaggio determina a livello temporale la durata delle inquadrature, che a sua volta determina il ritmo di una sequenza. A livello intersequenziale il montaggio determina il rapporto fra l’ordine degli eventi della storia o fabula e quello dell’intreccio, attraverso: • flashback: salti temporali più o meno lunghi, diegetici (che prendono vita dalle parole o dai pensieri di un personaggio) o narrativi (propri dell’istanza narrante) • flashforward: anticipazione di un evento futuro, quasi sempre narrativi • ellissi narrative: omissioni esplicite, a differenza delle ellissi tecniche, di fatti irrilevanti alla costruzione della storia e dei personaggi, ma talvolta anche di elementi importanti del racconto. In questo caso di parla di montaggio ellittico, il cui scopo è quello di spingere lo spettatore ad una partecipazione attiva (l’ellissi svolge così nel tempo le stesse funzioni che il fuori campo ha nello spazio nello spazio il fuori campo); un particolare caso di montaggio ellittico è quello della sequenza a episodi o di montaggio, una successione di brevi scenette, che si susseguono in ordine cronologico e forniscono il senso generale. Il montaggio alternato è un chiaro esempio delle capacità del montaggio di narrativizzare insieme lo spazio e il tempo: esso consiste in un’alternanza di inquadrature di due o più eventi, che si svolgono in luoghi differenti di solito simultaneamente e che a volte possono convergere in uno stesso spazio, ed è espressione di un narratore onnisciente (ad es. Il silenzio degli innocenti, vedi pag. 219). D’altra parte il montaggio non è sempre subordinato alle esigenze del racconto, ma può anche essere usato per una semplice descrizione, nella quale le immagini non sono legate da rapporti di consequenzialità. 11 Esistono quattro principali forme e ideologie del montaggio, cui corrispondono altrettanti modi differenti di intendere e pensare il cinema: ! MONTAGGIO NARRATIVO E DECOUPAGE CLASSICO Il cinema classico (stile distinto e omogeneo che ha dominato la produzione hollywoodiana tra il 1917 e il 1960) era caratterizzato dalla convinzione che lo spettatore dovesse assistere allo spettacolo ignaro della componente artificiosa, quindi si prediligeva un montaggio il più discreto possibile; si parla infatti di cinema della trasparenza o montaggio invisibile. Bazin individua tre caratteristiche fondamentali del decoupage classico: - motivazione: ogni passaggio deve essere motivato - chiarezza: ogni passaggio deve presentare chiaramente ciò che sta accadendo - drammatizzazione: ogni passaggio deve mettere in rilievo gli snodi drammatici e psicologici della situazione Quindi nel cinema classico il montaggio è fortemente subordinato alle esigenze della narrazione e per questo deve mantenersi invisibile e puntare alla continuità; deve cioè controllare la forza potenzialmente disgregatrice del montaggio e generale un flusso di immagini scorrevole per facilitare l’immersione dello spettatore nel mondo della finzione. L’istanza di continuità è assicurata dall’utilizzo di un’illuminazione costante ed omogenea, dalla costante centralità dei personaggi nell’inquadratura e soprattutto dai raccordi: • raccordo di sguardo: un’inquadratura mostra un personaggio che guarda qualcosa e quella mostra ciò che viene guardato • raccordo sul movimento: un gesto iniziato da un personaggio nella prima inquadratura si conclude nella seconda • raccordo sull’asse: due momenti successivi di un’azione sono mostrati in due inquadrature, la seconda delle quali è posta sempre sullo stesso asse della prima, ma più vicina o più lontana • raccordo sonoro: una battuta di dialogo, un rumore o una musica si sovrappone a due inquadrature, legandole così tra di loro Un aspetto di drammatizzazione tipico del decoupage classico è la costruzione del climax, intesa come un crescendo graduale degli effetti stilistici e retorici che portano al momento forte di una sequenza narrativa, realizzato attraverso un processo di avvicinamento progressivo generalmente al primo piano della star (ad es. Colazione da Tiffany, vedi pag. 226). Un altro aspetto chiave del decoupage classico è il sistema dello spazio a 180°: la scena da vita ad uno spazio di 180° dal momento che lo spettatore rimane sempre dalla stessa parte dell’azione; questo è ad esempio lo spazio tipico del dialogo, in cui un personaggio guarda il suo interlocutore verso destra e l’altro verso sinistra, dando così in sequenza l’illusione di parlare guardandosi negli occhi. Se questa regola viene infranta avviene il cosiddetto scavalcamento di campo e i personaggi finirebbero per guardare entrambi nella stessa direzione invece che l’uno verso l’altro, generando nello spettatore un certo spaesamento. L’uso dello spazio a 180° determina l’esistenza di altri tre raccordi chiave del cinema classico: • raccordo di posizione: due personaggi ripresi in una inquadratura l’uno a destra e l’altro a sinistra, dovranno mantenere la stessa posizione anche in quella successiva • raccordo di direzione: un personaggio che esce di campo a destra dell’inquadratura dovrà rientrare in quella successiva a sinistra (a meno che non stia tornando indietro) • raccordo di direzione di sguardi: in un dialogo, la mdp dovrà essere rivolta in modo tale che quando un personaggio viene inquadrato, il suo sguardo si diriga verso l’altro Comunque lo scavalcamento di campo può essere attuato grazie a certi accorgimenti, quali il posizionamento della mdp lungo la linea dell’azione oppure l’utilizzo degli inserti (dettagli); inoltre il cinema classico può anche scavalcare il campo senza ricorrere a mediazioni di sorta, purché questo scavalcamento abbia una precisa motivazione. ! MONTAGGIO CONNOTATIVO Il tratto dominante di questo tipo di montaggio è la costruzione del significato ed è tipico della produzione di Ejzenstejn, basata sull’effetto Kulesov, che dimostra come l’associazione di due immagini produce un senso diverso da quello che ognuna di esse ha in sé per sé (es. 2001 Odissea nello spazio, vedi pag. 246). Alla base dell’intera concezione ejzenstejniana del montaggio c’è il conflitto tra due inquadrature o all’interno della stessa e che può essere di diversi tipi: - conflitto delle direzioni grafiche (delle linee) - conflitto dei piani (tra di loro) - conflitto dei volumi - conflitto degli spazi etc. 12 Anche sul piano della costituzione dei rapporti audiovisivi vale la regola del significato: il rapporto fra suono e immagine non deve limitarsi alla riproduzione del reale ma deve darcene il senso. La differenza chiave rispetto al decoupage classico è che mentre questo è fondato sulla continuità, deve farsi invisibile e subordinarsi alla chiarezza della narrazione, il montaggio connotativo è basato su una struttura conflittuale evidente, il cui fine principale è quello della significazione. ! MONTAGGIO FORMALE Il tratto dominante di questo tipo di montaggio è che esso si impone per le sue qualità grafiche/ritmiche e che ricopre quindi una funziona principalmente estetica, ponendo in primo piano gli effetti formali attraverso l’accostamento di immagini che instaurano fra loro un rapporto di volumi, superfici, linee, punti al di là della concreta natura degli elementi rappresentati (ad es. Psyco, vedi pag. 255). Questo tipo di montaggio non è necessariamente in contrasto con quello connotativo e vive il suo momento di massima intensità nel cinema d’avanguardia degli anni 20. ! MONTAGGIO DISCONTINUO Il tratto dominante di questo tipo di montaggio è che esso nega apertamente le regole della continuità classica e le trasgredisce, creando forme di discontinuità attraverso diversi modi: • violazione del sistema a 180°: scavalcamento di campo a prescindere da qualsiasi ragione drammatica (come invece richiesto dal cinema classico), dando vita ad un sistema di rappresentazione dello spazio a 360°, che permette alla mdp di girare intorno ai personaggi di modo che la loro posizione sia di volta in volta rovesciata. • jump cut o falso raccordo: espressione che si riferisce a due diverse forme di raccordi irregolari, ma che sono entrambi soluzioni di montaggio sporche ed irregolari, che esplicitano gli stacchi e li rendono evidenti, costringendo lo spettatore a rendersi conto di trovarsi davanti a un film: - successione di due o più inquadrature di uno stesso personaggio troppo simili l’una all’altra sul piano della distanza e/o dell’angolazione, mettendo così in discussione la convenzione del cinema classico secondo cui due inquadrature consecutive siano sufficientemente differenziate (ad es. Psyco, vedi pag. 259) - successione di inquadrature, sempre su uno stesso personaggio, che, divise da brevi intervalli di tempo, lo mostrano in posizioni che cambiano di netto, senza alcuna transizione da un’inquadratura all’altra • inserimento di inserti non diegetici, che interrompono la continuità narrativa attraverso la brusca intrusione di piani estranei allo spazio e al tempo del racconto e che suggeriscono associazioni metaforiche per determinare il senso di una situazione • sul piano temporale, si interviene sull’ordine degli eventi o sulla loro frequenza oppure sul piano della durata, spesso facendo ricorso alla pratica dell’estensione, dove la durata della rappresentazione è superiore a quella dell’evento rappresentato (attraverso la ripetizione oppure la sovrapposizione temporale, o overlapping editing, in cui l’inquadratura B non inizia dove finisce l’inquadratura A, ma un poco prima) Bazin ha teorizzato due modalità espressive di importanza primaria, legate ad un’altra concezione del montaggio, per la precisione al suo rifiuto, dal momento che quello che nel cinema tradizionale avviene tramite la successione di più inquadrature, con queste due figure si ottiene in un unico piano: • profondità di campo: caratteristica di un’immagine nella quale tutti gli oggetti rappresentati, sia quelli in primo piano che quelli sullo sfondo, sono perfettamente a fuoco; tanto più distanziati sono lo sfondo e il primo piano e quanto più quest’ultimo è vicino all’obiettivo, tanto maggiore è la profondità di campo. Per messa in scena in profondità si intende quindi la disposizione di oggetti su più piani e le loro interazioni. Di fatto la profondità di campo pone lo spettatore in un rapporto con l’immagine più vicino a quello che ha con la realtà, perché di fronte ad essa lo spettatore è sollecitato a dare un proprio contributo e a fare da sé il proprio decoupage. La profondità di campo era molto in uso già nel cinema muto, ma l’introduzione delle pellicole a colori, d che erano meno sensibili alla luce e che quindi necessitavano aperture dei diaframmi più ampie, determinò immagini con messe a fuoco parziali ed effetti di sfocatura (flou); è agli inizi degli anni 40 che questo tipo di messa in scena torna ad affermarsi, grazie alla fotografia di Quarto Potere. • piano sequenza: piano che da solo svolge la funzione di una sequenza o di una scena, pioché è in sostanza l’equivalente di una somma di inquadrature su cui si articola una sequenza. Gli americani utilizzano l‘espressione long take, con la quale si intende una ripresa che non per forza di cose esaurisce un intero episodio narrativo, ma che comunque si caratterizza per un volontario rifiuto del montaggio. 15 Inoltre non bisogna dimenticare che allo stesso tempo un suono può anche suggerire la distanza dalla sua sorgente. Dal punto di vista del tempo è necessario distinguere diversi tipi di suoni: • suono simultaneo: il sonoro e l’immagine si danno in uno stesso tempo narrativo • suono non simultaneo: effetto sonoro che anticipa o segue le immagini; un caso frequente di non simultaneità temporale tra suono e immagini è quello del ponte sonoro o sound bridge, che consiste in brevi anticipazioni sonore appartenenti alla scena successiva ma che cominciano a farsi sentire già dalla fine della scena precedente Un altro aspetto centrale del rapporto tra suono e tempo è quello del ritmo sonoro, costituito da due componenti principali: velocità (determinata dalla durata degli intervalli) e regolarità (determinata dalla coincidenza o meno delle durate degli intervalli). Spesso il ritmo visivo e quello sonoro vengono adeguati l’uno all’altro, ma altrettanto spesso per ragioni espressive si possono creare delle discrepanze ritmiche fra suono, inquadratura e montaggio. Il punto di vista sonoro è detto punto d’ascolto, che si determina in base al volume che indica la distanza dei suoni: si potrebbe anche immaginare una scala di piani sonori non dissimile da quella dei piani visivi. Il rapporto fra queste due scale può dare vita a diverse possibilità, i cui poli estremi sono la coincidenza tra punto di vista e punto d’ascolto (immagini e suoni raccontano la stessa cosa) e il contrasto tra essi (immagini e suoni raccontano due cose diverse, ad es. rispettivamente un allontanarsi e un rimanere). È ovvio che con il dolby e le nuove tecnologie il punto d’ascolto ha aumentato le sue potenzialità, dal momento che i suoni trovano una localizzazione spaziale della sorgente molto più precisa. L’aspetto più interessante del punto d’ascolto è quello che riguarda il piano dell’auricolarizzazione, cioè il rapporto tra ciò che sente lo spettatore e ciò che sente il personaggio; questa si distingue tra: • auricolarizzazione interna: legame tra un suono diegetico e un determinato personaggio, diviso tra: - auricolarizzazione interna primaria: suono dalla dimensione esplicitamente soggettiva, presentandosi in forme in qualche modo alterate, dove quindi il punto d’ascolto dello spettatore coincide con quello del personaggio - auricolarizzazione interna secondaria: evidenziata da determinati meccanismi visivi; anche in questo caso il punto d’ascolto dello spettatore coincide con quello del personaggio, ma ciò è evidenziato sia dall’elemento visivo che da quello sonoro e non solo più da quest’ultimo • auricolarizzazione esterna: suoni non legati a un personaggio, sia diegetici, cioè che il personaggio sente ma che non rivestono alcun significato particolare, sia extradiegetici, cioè che il personaggio non sente Dei tre materiali su cui si fonda il suono al cinema, la voce è sicuramente quello più importante e messo più in evidenza, in quanto supporto dell’espressione verbale; si distinguono tre tipi di parola nel cinema: • parola-teatro: parola del dialogo, le cui caratteristiche sono l’assoluta intelligibilità e l’essere emanata dai personaggi, e le cui funzioni sono varie (informativa, drammatica, psicologica, affettiva) • parola-testo: parola del narratore assoluta, sempre caratterizzata dall‘intelligibilità • parola-enunciazione: parola di personaggi o del narratore, dai contenuti non interamente intellegibili (ad es. La dolce vita, vedi pag. 313) La parola può sostituirsi alle immagini raccontando eventi o situazioni che queste non mostrano; in questo caso spetta un ruolo particolare alla parola del narratore, la cui funzione, sia che essa appartenga ad un personaggio diegetico sia ad un narratore extradiegetico, è quella di rivolgersi direttamente al pubblico per descrivere e commentare gli eventi o per esplicitare l’essere di un personaggio. Nel caso della quantità di informazioni enunciate da parola ed immagini, si hanno i seguenti tre casi: - la parola dice più di quello che dicono le immagini - la parola dice quanto dicono le immagini - la parola dice meno di quello che dicono le immagini 16 Nel caso della qualità delle informazioni enunciate i casi sono due: - immagini e parole dicono la stessa cosa - immagini e parole dicono cose diverse Tra le varie componenti sonore, la musica è stata più delle altre oggetto di una lunga serie di analisi e sistematizzazioni storiche e teoriche. Sin dalla nascita del cinema ci si è incominciati a porre il problema del rapporto tra musica e immagini: negli anni 10 vengono pubblicati i primi repertori musicali, secondo il proposito che la musica dovesse accompagnare lo spettatore e immergerlo nel clima della scena; negli anni 20 invece il cinema d’avanguardia si cerca un rapporto estetico e strutturale tra musica ed immagini, integrandoli fra loro. Ci sono due grandi modi attraverso cui la musica si rapporta alle immagini: • partecipazione: la musica partecipa all’emozione scena assumendone il ritmo e il tono • distanza: la musica si sviluppa in modo autonomo, indipendentemente dalla situazione rappresentata dalle immagini, generando due possibili effetti: volontà dell’istanza narrante di allontanarsi dalla realtà rappresentata oppure ulteriore drammatizzazione generata dal contrasto tra musica ed immagini Anche la musica ha dato vita ad alcune figure dominanti nei modelli di rappresentazione classica: • leitmotiv: tema melodico ricorrente che caratterizza fatti, momenti o personaggi • avvio o interruzione improvvisa: la musica si avvia o cessa di colpo per sottolineare un momento drammatico della scena Anche per la musica vale la distinzione tra musica diegetica, emessa da fonti sonori diegetiche e che assume valenza informativa, e musica extradiegetica, portatrice della prospettiva dell’istanza narrante nei confronti delle situazioni o dei personaggi. Al contrario di quello che accade per la musica, non esiste una copiosa bibliografia sul rumore, dal momento che esso nell’ambito del cinema classico aveva scarsa incidenza. È infatti solo con l’avvento del dolby e della registrazione su più piste che è diventato possibile sentire rumori ben definiti, soprattutto nell’ambito della produzione di genere (fantascienza, film d’azione etc.). Eppure nel cinema la funzione del rumore è essenziale, prima di tutto a rendere più credibile un ambiente; ne consegue la grande importanza del rumore fuori campo. 17 L’ANALISI DEL FILM Questa disciplina si è affermata solo nella seconda metà degli anni 60 e oggi si è conquistata uno spazio di rilievo sia nell’insegnamento universitario che nell’editoria cinematografico; le prime analisi del film erano profondamente influenzate dai modelli dello strutturalismo, ma in breve tempo si sono aperte ad altri campi e discipline quali semiotica, narratologia, teorie letterarie ed artistiche, sociologia, psicanalisi, femminismo, marxismo etc. Questa varietà di aree indica come non esista un metodo universale di analisi del film, sebbene sia possibile rinvenire in essa delle caratteristiche comuni che la differenziano da altri discorsi sul cinema. L’analisi pone come oggetto primario del proprio lavoro il testo filmico, con l’obiettivo di smontarlo e rimontarlo, coglierne struttura e funzionamento. Il primo segno distintivo dell’analisi è quindi la sua aderenza al testo filmico e quindi la sua particolare attenzione al funzionamento significante del film: lo studio del contenuto di un film suppone necessariamente lo studio della forma nella quale questo contenuto viene enunciato. L’analisi sa anche che di un film non si può dire tutto e che quindi è necessaria una prospettiva attraverso cui guardare ad esso. L’analisi del film prende le mosse da una prima, parziale e provvisoria interpretazione del testo; senza un’ipotesi preventiva che la guidi l’analisi non può esistere. L’analisi produce due rischi estremi e di segno contrario: da una parte il desiderio di aderenza al testo può ridurre l’analisi ad una mera parafrasi del film stesso, dall’altra la volontà di dare un’interpretazione nuova e sorprendente del film espone al rischio di deformare i fatti. La volontà interpretativa non va mai confusa con quella valutativa: l’analisi non stabilisce se un film sia bello o brutto, ma vuole solo offrire delle conoscenze sul film che pone come proprio oggetto. Inoltre ormai l’idea l’utopia dell’analisi esaustiva ha ceduto il posto all’analisi del frammento che, rispetto a quella del film intero, consente ovviamente una maggiore precisione nei dettagli; l’analisi del frammento deve però attenersi a due regole fondamentali: il frammento deve essere nettamente delimitato e coerente ed inoltre deve essere sufficientemente rappresentativo del film intero. I principali strumenti dell’analisi del film sono: • strumenti descrittivi: - la sceneggiatura desunta, che consiste nella descrizione delle inquadrature del film nel suo stato finale e che quindi indica numerazione delle inquadrature, resoconto del loro contenuto, trascrizione dei dialoghi, indicazione del tipo di campo e di piano, delle entrate e delle uscite di campo, dei raccordi di montaggio, dei movimenti di macchina, delle musiche e dei rumori etc. - la segmentazione del film nelle sequenze che lo articolano, particolarmente utile perché permette di avere sott’occhio lo sviluppo del racconto e collocare rapidamente ogni momento del film nella sua giusta sequenza - descrizione della singola inquadratura e dei quadri in cui essa può articolarsi - tavole, grafici o schemi riguardo un particolare aspetto del film, la cui elaborazione rappresenta già un primo risultato del lavoro di analisi • strumenti citazionali: un prelievo del corpo del film, una sua sequenza, scena o inquadratura, ma anche la riproduzione della sua banda sonora o il ricorso a schizzi e disegni che evidenziano sono gli elementi pertinenti dell’immagine all’analisi; è chiaro che a questo tipo di strumenti si ricorre più facilmente nelle analisi orali che in quelle scritte, l’unica rischio è che l’esclusivo ricorso ad estratti dia l’idea di un film fatto di singoli frammenti, minando la possibilità di un approccio alla sua totalità • strumenti documentari: dati fattuali esterni al film, che tuttavia possono essere utili per l’analisi, come i dati anteriori e posteriori alla distribuzione del film 20 David, rinvia alla morte e rappresenta la rimozione della libido, e il leopardo, legato a Susan, rappresenta la vita e la libera espressione della libido. Il film si prende dunque gioco del personaggio maschile, privilegiando il punto di vista della donna: il personaggio femminile gioca infatti un ruolo fondamentale, è più dinamico e rilevante di quello maschile e quindi non gli è affatto subalterno, sebbene alla fine del racconto si accetti l’istituzione matrimoniale e la donna ricopra una funzione sociale tradizionale. Un’altra interessante contrapposizione presente nel film è quella tra i due personaggi femminili: da un lato la fidanzata di David, che rappresenta la rigidità, la staticità, l’istanza morale e lavorativa, dall’altro Susan, che rappresenta il gioco, la libertà, la sperimentazione, il dinamismo, la sessualità, presentandosi dunque come un personaggio positivo che fa da detonatore ad una situazione cristallizzata delle relazioni intersoggettive. In particolare, le prime due sequenze del film, nelle quali il soggetto maschile interagisce con le due diverse figure femminili, mettono in scena la dicotomia latente del film, tra due opposti modi di essere, tra staticità e movimento e contengono il presupposto fondamentale cui tutto il cinema classico può essere ricondotto, il dualismo: • la prima sequenza (discussione tra David e la fidanzata nel museo) rispetta tutte le regole del cinema classico, in particolare l’unità dello spazio e il posizionamento dei personaggi al suo interno, e presenta i tratti distintivi della coppia iniziale: David è presentato come un personaggio tra le nuvole, lontano dal mondo dell’azione, sul Alice esercita la funzione di censore del proprio desiderio, spingendolo verso un eccessivo impegno del lavoro. Lo spazio nel quale vengono inseriti è unitario, organico e coerente, ma soprattutto è uno spazio relazionale, che include o esclude i soggetti e li pone in rapporto di alterità l’un l’altro. Per la precisione, man mano che il dialogo tra i due avanza, la loro relazione si fa sempre più fredda ed impersonale e questo è confermato anche dal lavoro registico che dà sì ad Alice un ruolo importante nel dialogo, ma la relega in una posizione secondaria nell’immagine, inquadrandola sempre in modo obliquo e senza mai mostrarne il viso, mentre David è ripreso frontalmente e rappresenta il fulcro dell’immagine. In altre parole, la messa in scena spinge il senso del film in direzione opposta alla diegesi, che invece annuncia l’imminente matrimonio dei due, suggerendo così che il racconto è iniziato con una falsa pista (sin da subito è evidente che quel matrimonio non si farà mai); • la seconda sequenza (casuale incontro di David e Susan al campo da golf) introduce il personaggio di Susan e con essa una rappresentazione dello spazio e un modello esistenziale diametralmente opposti rispetto all’incipit: - la situazione ludica all’aria aperta ed il dinamismo che caratterizza l’intera sequenza si sostituiscono alla serietà e alla staticità del museo - il movimento diventa protagonista e ciò è confermato anche dal dialogo (mentre i due si muovono, parlano anche tra loro molto velocemente) - Susan, a differenza di Alice, viene subito posta al centro dell’immagine, stabilendo una relazione paritaria tra lei e il personaggio maschile, tra i quali la differenza significativa è che è lei a condurre l’azione La messa in scena dunque suggerisce che l’unione tra i due è inevitabile, sebbene David faccia di tutto per allontanare Susan da sé, e che è destinata a formarsi secondo i parametri di Susan: il divertimento e l’irrazionale, il dinamismo e il desiderio. Una sequenza in cui emerge con chiarezza il ruolo attivo del personaggio femminile è la sequenza con cui termina la prima serata; essa presenta una scelta di codici altamente strutturata e consiste in un classico campo/controcampo in cui si alternano piani di Susan e David. Il primo aspetto interessante è che il campo/controcampo si apre e si chiude con Susa, che fa dunque da perno formale alla sequenza, a maggior ragione se si tiene conto che il suo volto occupa anche il piano centrale della sequenza. Inoltre la donna viene inquadrata frontalmente ed è ben illuminata, mentre David viene ripreso in modo obliquo ed in penombra, ed anche la distanza della mdp privilegia il personaggio femminile. Dunque tutte le scelte in ambito visivo spingono lo spettatore ad una identificazione col personaggio femminile; questa centralità visiva rende subalterna la centralità verbale del personaggio maschile, agente principale del dialogo. 21 L’opposizione immagine/dialogo è inoltre rafforzata dall’opposizione gesto/parola, dal momento che le parole di David vengono contraddette da quelle di Susan e soprattutto la sequenza privilegia le componenti non verbali (di Susan) della comunicazione. La sequenza delle telefonate rende definitivamente esplicito come la dialettica sia la forma simbolica del film classico; l’opposizione Alice/Susan viene espressa con inquadrature in cui vengono mescolati elementi comuni e opposti: le due donne sono riprese nel comune atto di parlare al telefono, entrambe sedute ad un tavolo e con un’identica disposizione del profilmico, ma mentre Alice con i capelli raccolti, gli occhiali e la giacca incarna l’ordine e la rigidità, Susan con l’abito lungo di organza (e poi l’entrata in scena del leopardo) evoca il divertimento e la totale noncuranza delle norme sociali. È dunque l’abbigliamento, unico elemento che le differenzia, a stabilire il senso della scena. La struttura binaria del film investe anche i luoghi del racconto, fondamentalmente nella dicotomia tra la metropoli, New York, in cui è ambientata la prima parte del film, e la campagna del Connecticut, dove Susan trascina David: la città è quindi associata a David e al lavoro, il controllo, la ragione, la staticità, mentre la campagna è legata a Susan e dunque al divertimento, al desiderio, al dinamismo e rappresenta il luogo dove le regole vengono meno e David vive una regressione radicale e abbandona la sua rigidità. Alla luce di ciò risulta interessante ricordare la divisione in due grandi modelli che Thomas Schatz fa del cinema classico americano: 1. generi dell’ordine, i cui film sono ambientati in una situazione in cui l’ordine è disgregato e dunque prevale il disordine, il male e la negatività, e i cui personaggi devono ricostruire l’ordine e la giustizia attraverso la loro azione (Notorious, rientra in questo filone); 2. generi dell’integrazione, i cui film sono ambientati in una situazione in cui l’ordine esiste e si pongono il problema di inscrivere al suo interno i personaggi principali, inizialmente non ben integrati in questo ordine, tramite un reinserimento positivo di adesione alle logiche di comportamento della vita sociale (Susanna appartiene a questo filone). DIFFERENZE TRA IL CINEMA DI HITCHCOK E DI HAWKS Hitchcock Hawks grande autore di thriller grande autore in quasi tutti i generi grande uso delle soggettive, allo scopo di favorire l’identificazione dello spettatore uso di inquadrature che danno poco spazio ai primi piani e alle soggettive, quindi più oggettive e costruite dal punto vista dell’istanza narrante volontà di trasmettere allo spettatore un senso di coinvolgimento tramite l’identificazione volontà esclusiva di narrare e non quindi di far identificare lo spettatore 22 OMBRE ROSSE (1939) di JOHN FORD Questo film è considerato uno dei grandi capolavori della storia del cinema; in particolare è passata alla storia una recensione di Michelangelo Antonioni, in cui il film diventa un simbolo di orizzonti perduti e del Mito americano, della mitologia di spazi aperti (in senso sia geografico che mentale) e di nuove utopie di libertà. Ombre rosse è un film esemplare che può essere usato per illustrare i molti modi in cui si può pensare l’analisi di un film, dal momento che permette di portare avanti riflessioni che mettono in relazione il cinema e numerosissime discipline: • cinema e storia: il film non solo rappresenta uno dei momenti mitici fondamentali della storia americana (il viaggio verso ovest), ma fornisce anche informazioni sulla società che lo ha prodotto ed inoltre contribuisce lui stesso a cambiare le modalità e la mentalità di quella stessa società • cinema e letteratura: il film è ispirato ad un noto racconto di Maupassant, Palla di sego • cinema e antropologia: il film può essere letto come una rappresentazione simbolica della società americana e dei suoi feticci • cinema e ideologia: il film si basa sullo stereotipo conservatore, del Mito americano e dell’eroe americano impersonato da John Wayne • cinema e struttura: il film ha una struttura narrativa estremamente semplice e schematica, suddivisibile in circa 30 sequenze, utili per identificare le modalità produttive • cinema e psicanalisi: il film può essere letto nell’ottica del complesso rapporto tra spettatore e schermo, che coinvolge meccanismi psicanalitici di identificazione • cinema e genere: il film è uno dei western più famosi della storia, ma è anche una commistione di altri generi (la romance, il road movie, il travel film – alla base del Mito americano) • cinema e gender: il film offre anche una lettura dal punto di vista degli women studies, della rappresentazione della donna e dei rapporti tra donne all’interno del film • cinema ed etnia: il film propone una rappresentazione tutta al negativo e perfino dei messicani, riconfermando le ideologie tradizionali di Ford • cinema e authorship: il film è caratterizzato dallo stile riconoscibilissimo di Ford, caratterizzato da una cifra ricorrente nelle sue opere La catalogazione potrebbe continuare, tanto il film si offre ad infinite interpretazioni; ciò che in questa sede preme è però l’analisi della messa in scena, allo scopo di dimostrare una certa schizofrenia nel film: infatti se da una parte la pellicola è un caso esemplare del cinema classico hollywoodiano, dall’altra parte però l’autore ne trasgredisce, consapevolmente o no, molte regole, fino a ribaltarne profondamente gli assunti. La trama del film è abbastanza semplice: 1880. Un dispaccio informa un'unità dell'esercito che gli Apache, comandati da Geronimo, sono sul piede di guerra. L'interruzione delle comunicazioni via telegrafo impedisce di avere maggiori informazioni, ma un gruppo di passeggeri, non valutando bene il pericolo e pensando di poter contare sulla scorta dell'esercito, decide ugualmente di mettersi in viaggio sulla diligenza che da Tonto va a Lordsburg. L'equipaggio è piuttosto eterogeneo (il medico ubriacone Boone, la prostituta Dallas, il giocatore d'azzardo Hatfield, il banchiere disonesto Gatewood, lo sceriffo Wilcox, il rappresentante di liquori Peacock e Lucy Mallory, moglie incinta di un ufficiale dell'esercito) e ad esso si unirà poi Ringo, evaso alla ricerca di vendetta (a Lordsburg si trovano i fratelli Plummer, gli assassini del padre e del fratello). I membri del gruppo, inizialmente diffidenti l'uno dell'altro e pieni di pregiudizi nei confronti dei "poco di buono", come Ringo e Dallas, imparano a collaborare grazie all'improvviso parto di Lucy e all'attacco indiano poco prima di raggiungere la meta (dove Hatfield perde la vita). Raggiunta Lordsburg, Ringo compie la sua vendetta uccidendo i Plummer e, con la complicità del medico e dello sceriffo, grande amico di suo padre, fugge verso la frontiera in compagnia di Dallas (vedi pag. 65-69). 25 QUARTO POTERE (1941) di ORSON WELLES Questo film è comunemente considerato uno dei più grandi della storia del cinema; nella sua realizzazione W. compie un’importante scelta relativa alla struttura narrativa, poiché la sua volontà è quella di creare un film prismatico con un personaggio prismatico, cioè un film sulla vita di un uomo osservato da diversi punti di vista. Quindi la struttura narrativa del film è molto differente da quella tradizionale: la storia di Kane è narrata tramite una serie di racconti diversi narrati da personaggi, che lo considerano ognuno in maniera differente e di conseguenza la costruzione del personaggio di Kane si presenta come contraddittoria ed ambigua. A ciò si affianca anche una struttura diegetica dell’intreccio molto più complessa rispetto a quella della storia, dal momento che essa si basa su una clamorosa frantumazione temporale, realizzata attraverso il cinegiornale e i numerosi flashback. Il film allora non fornisce un’unica verità e configurazione riguardo il personaggio di Kane, ma ne propone diverse interpretazioni, affermando così che non esiste una verità oggettiva bensì tante verità e tanti punti di vista, e quindi altrettanti narratori. Dunque la struttura del film è complessa e fortemente innovativa e sperimentale, poiché mette in discussione la logica su cui si basa la grande narrativa moderna di 800 e 900. La ricerca di testimonianze su Kane viene motivata a livello narrativo in apertura del film: si cerca di capire il significato dell’ultima parola pronunciata da Kane prima di morire (“Rosebud”), svelato alla fine del film (è il nome della slitta con cui giocava da bambino, bruciata alla fine del film) dall’istanza narrante, di modo che lo spettatore ne scopre il significato ma i personaggi interni no. In questo modo lo svelamento dell’enigma giunge al suo culmine nel momento stesso in cui se ne vanifica l’importanza, dal momento che l’epilogo del film torna esattamente alla situazione di mistero iniziale. Tutto il film dunque gioca sulla ricerca dell’infanzia perduta di Kane, simboleggiata dalla slitta, che però è anche il simbolo di una falsa pista, visto che come già detto alla fine del film non viene spiegato chi sia realmente Kane; del resto la scritta “No Trespassing” con cui si apre e si chiude il film rappresenta proprio l’impossibilità di entrare nella vita di Kane. I grandi temi del film sono dunque molteplici: la ricerca dell’anima segreta di un uomo, la relatività della verità e l’impossibilità di giudizio, la corruttibilità e la dissolubilità di gesti, azioni, comportamenti e pensieri, la nostalgia per l’infanzia perduta, l’ossessione per la vecchiaia e la morte, il potere inteso come perdita di innocenza e quindi dell’infanzia e di avvicinamento alla morte. È interessante osservare che il tema della relatività della verità e dell’impossibilità di giudizio interessano non solo la struttura e il senso del film, ma in qualche modo anche la sua analizzabilità, dal momento che questo film rappresenta una sfida interpretativa, che si potrebbe definire labirintica. Una possibile interpretazione è quella di leggere la vita del cittadino Kane come la metafora di cinquant’anni di storia americana: la perdita dell’infanzia e l’allontanamento da casa del bimbo, corrispondono anche al passaggio dell’America dall’età pura e incontaminata dei pionieri all’America di Wall Street. In questo senso, molti hanno sottolineato come la madre di Kane rappresenti il perfetto emblema dell’etica puritana del sacrificio, il sacrificio di quell’America lontana e perduta, incarnato nell’affidamento del figlio al tutore-banchiere; del resto lo stesso nome “Mary Kane” suona quasi uguale alla pronuncia americana di “American” Un altro aspetto fondamentale del film da analizzare è quello relativo alla messa in scena: il critico francese André Bazin ha interpretato questa pellicola come uno dei primi esempi del cinema moderno, poiché i suoi due elementi fondamentali sono il piano sequenza e la profondità di campo, figure caratteristiche del cinema moderno. Bazin considera questi elementi come effetti di realismo, ma in realtà la scrittura di W. è estremamente diversificata e lontana dal realismo, tant’è vero che spesso questi effetti sono realizzati attraverso la tecnica tradizionale del cinema muto della sovraimpressione e quindi sono effetti non determinati da riprese realistiche bensì ottenuti tramite un trucco cinematografico. Quindi, a dispetto di quanto sostenuto da Bazin, il film è pervaso da un forte antirealismo delle immagini e segna una netta rottura nei confronti delle convenzioni del decoupage classico, allontanandosi dalla logica realistica e da ogni possibile naturalismo narrativo. Questo carattere antirealistico caratterizza in realtà tutta la 26 produzione di W. ed in particolare F For Fake (1973), in cui W. nei panni di un illusionista racconta cosa sia il cinema e come esso si rapporti al falso, affermando palesemente che il cinema è un’arte in grado di creare finzione ed inganno. Per quanto riguarda l’utilizzo della profondità di campo ci sono due sequenze particolarmente emblematiche: • la sequenza nella locanda in Colorado, che mostra simultaneamente tre spazi di profondità e due azioni separate ed autonome: Kane bambino sullo sfondo come in una sorta di quadro, il padre in secondo piano, in posizione neutra di osservatore passivo, ed in primo piano la madre con colui che si prenderà cura di lui; inoltre il montaggio della sequenza è fortemente simmetrico, sebbene ridotto al minimo; • la sequenza del tentato suicidio di Susan, in cui la profondità di campo è realizzata, come prima accennato, tramite la tecnica della sovraimpressione di due immagini (il sonnifero in primo piano e le azioni di Susan in secondo), quindi in maniera artificiale ed antirealistica. Quanto al piano sequenza, esso è usato in tutti i colloqui del giornalista con i testimoni, scelta che riflette evidentemente una volontà di formalizzazione da parte di W., cioè di costruzione programmata del film. Altri espedienti che testimoniano l’impostazione antirealistica di W. sono: • particolari movimenti di macchina che mirano ad esibire l’apparato cinematografico, tra cui uno dei più famosi è quello che possiede un significativo antecedente M: un movimento di macchina molto sofisticato ed invero impossibile, che attraversa un scritta al neon di un locale e poi entra all’interno del locale passando per un lucernaio, il tutto senza stacchi visibili e quindi come se fosse stato realizzato con un’unica ripresa; • l’utilizzo significativo delle ombre, che assumono spesso precise determinazioni psicologiche, soprattutto per quanto riguarda il rapporto tra Susan e Kane: ad es. nella scena dello spettacolo di Susan Kane è l’unico personaggio che assiste avvolto nell’ombra, poiché si trova in una posizione ambigue ed incerta riguardo il successo o l’insuccesso di Susan, dal momento che il successo di Susan è anche il successo di Kane; successivamente, durante un’animosa discussione tra i due, lui è inquadrato dal basso verso l’alto per indicare il suo carattere forte e prevaricatore, mentre lei è inquadrata dall’alto verso il basso per indicare la sua passività e subalternità, ulteriormente sottolineata dall’ombra creata dal corpo dell’uomo che incombe su di lei – risulta dunque evidente come la scrittura cinematografica assuma un’aperta valenza simbolica per quanto riguarda i rapporti psicologici tra i personaggi; • la scelta di inserire uno sguardo in macchina, procedura assai anomala per il cinema classico; • l’utilizzo di numerose dissolvenze incrociate, in nero, tendine o stacchi netti, che costituiscono un flusso del discorso del tutto discordante con quello classico basato su trasparenza e continuità; • un montaggio sia visivo che sonoro che nega incessantemente la continuità, ad esempio tramite improvvisi salti temporali. Senza dubbio però, la sequenza iniziale e la sequenza finale sono quelle che al meglio rappresentano la natura intrinseca del film e da cui dipende una lettura globale del film generalmente condivisa; si tratta evidentemente di due sequenze costruite su un sistema analogo (stesso tema musicale, assenza di narratori diegetici etc.) ed esplicitamente legate da un reciproco rapporto speculare (come già detto, il film si apre e si chiude con il cartello “No trespassing”): • la sequenza inziale è caratterizzata da una messa in scena estremamente particolare, che va nettamente aldilà della prassi del cinema classico, che da una parte rinvia alla tradizione delle tecniche del muto, per l’uso intensivo del montaggio, della dissolvenza incrociata e della sovrimpressione, e e dall’altra introduce tecniche innovative, come i complessi movimenti di macchina in verticale e in orizzontale. L’intera sequenza presenta una serie di immagini anomale: il parco di Xanadu (luogo stravagante abitato da condor, gondole veneziane, scimmie in gabbia etc.), il paesaggio invernale di una boule de neige (che richiama doppiamente all’infanzia, in quanto gioco da bambini e perché ricorda il paesaggio del Colorado, e che quindi attesta la rilevanza dell’infanzia nell’economia psichica 27 del personaggio), la bocca di un uomo che pronuncia una parola misteriosa (“Rosebund”, nome intorno al quale ruota l’interpretazione del film), la caduta della boule de neige e l’ingresso nella stanza di un’infermiera vista attraverso il vetro deformante della boule de neige (ulteriore elemento di irrealismo e di manipolazione dell’immagine). Un altro elemento che apre interrogativi e contribuisce a costruire l’enigma consiste nel fatto che viene negata un’immagine propria del personaggio Kane, sebbene esso sia posto in inquadratura, poiché ne vengono fornite solo delle immagini parziali; • la sequenza finale è un lungo movimento di macchina inverso a quello iniziale (dall’interno all’esterno di Xanadu) che inquadra un grande spazio divenuto deposito dove i molti di oggetti di Kane vengono bruciati, tra cui anche la slitta Rosebud, il cui significato in questo modo viene comunicato dall’istanza narrante allo spettatore senza passare per la mediazione dei personaggi, per i quali l’enigma resterà irrisolto; questa sequenza sta a rappresentare la fine dell’epopea di Kane, della sua morte e della distruzione totale di quanto resta di lui. Dunque entrambe le sequenze sono caratterizzate da una dimensione fortemente simbolica, che, come già accennato, trova il suo massimo esempio nella scritta “No trespassing” con cui il film si apre e si chiude, posta a ribadire l’impossibilità di entrare davvero all’interno del mondo e della personalità di Kane: la verità profonda su questo personaggio non potrà mai essere svelata. 30 FIORE D’EQUINOZIO (1958) di OZU YASUJIRŌ Tutti i film di Ozu presentano opzioni di regia e di messa in scena che ricorrono puntualmente, quindi analizzare un film di Ozu è sempre studiare il cinema di Ozu, il cui principio costitutivo di base è la ricerca dell’armonia, sia sul piano della forma che su quello dei contenuti. In Fiore d’equinozio questa impostazione emerge in quattro aspetti fondamentali del film: 1. STRUTTURA NARRATIVA È possibile pensare al film come a una commedia in tre atti: • il I atto presenta i personaggi principali ed introduce il tema del matrimonio delle figlie in età di matrimonio; si conclude con il primo punto di svolta: il giovane Taniguchi chiede inaspettatamente ad Hirayama di poter sposare sua figlia Setsuko, con la quale ha una relazione da tempo; • il II atto mette in scena il confronto tra padre e figlia: Hirayama, che si professa un uomo dalle idee moderne e sostenitore la possibilità delle donne di scegliere da sole il proprio marito, si rivela in realtà un conservatore, rifiuta di dare la sua autorizzazione al matrimonio e decide di non partecipare alla cerimonia; l’atto si conclude con il secondo punto di svolta: Hirayama, costretto a cambiare idea dal tranello di Yukiko (che con un abile stratagemma gli fa ammettere che una ragazza intenzionata a sposarsi non deve farsi influenzare dal giudizio dei genitori e quindi lo mette di fronte alle sue contraddizioni), decide di partecipare al matrimonio, ma non perché abbia perdonato la figlia (durante la cerimonia nuziale non sorriderà mai), ma solo perché vi saranno presenti parenti ed amici; • il III atto mette in scena la risoluzione del conflitto: ancora una volta Yukiko (che ha chiaramente un ruolo centrale sul piano dello sviluppo narrativo) fa cambiare idea ad Hirayama e riesce a convincerlo ad andare a trovare la giovane coppia di sposi ad Hiroshima, dove sono andati a vivere dopo le nozze. La prima considerazione circa l’impianto narrativo del film riguarda l’uso delle ellissi: il regista omette due momenti chiave della fabula, cioè il matrimonio e la visita conclusiva risolutrice, privilegiando ciò che precede e/o segue gli eventi forti della diegesi e confermando così un’idea di cinema secondo cui ciò che conta non sono tanto i fatti in sé, ma come ci si arriva, cosa ne consegue e cosa essi determinano nei personaggi. In secondo luogo, è possibile osservare come questo film si costruisce su una struttura costante nel cinema di Ozu già a partire dai film girati tra le due guerre, basata sulle figure della rivelazione e dell’armonia e composta da cinque momenti fondamentali: a. situazione di apparente armonia: Hirayama si dichiara uomo dalle idee moderne b. scoperta di una verità nascosta: Hirayama si scopre essere uomo dalle idee conservatrici c. instaurarsi di un aperto conflitto tra le parti: Hirayama contro Setsuko d. accettazione di una nuova realtà: Hirayama decide di partecipare al matrimonio e. verificarsi di una più autentica forma di armonia: Hirayama muta il suo atteggiamento e decide di andare a far visita alla figlia, determinando l’instaurarsi di un nuovo rapporto di armonia Questo schema è caratterizzato dal fatto che il passaggio dal punto c. al punto d. è spesso privo di qualsivoglia motivazione psicologica: il cambiamento avviene e basta, senza che sia possibile individuarne una chiara motivazione. Inoltre esistono due livelli di scioglimento del conflitto, il primo più superficiale ed il secondo definitivo. 2. RAPPORTO FRA INTRECCIO PRINCIPALE E INTRECCI SECONDARI Questo film sfrutta i sottointrecci in funzione di specchi di quello principale, sviluppandosi parallelamente e rifrettendolo; all’intreccio principale costruito sul rapporto Hirayama/Setsuko, Ozu ne affianca altri due: quello del padre Mikami e della figlia Fumiko e quello della madre Sasaki e della figlia Yukiko, disegnando così tre percorsi narrativi che riguardano il rapporto fra genitori e figli riguardo il tema del matrimonio, ma che si differenziano per diversi motivi: - le protagoniste sono tutte ragazze in età da marito ma che hanno alle spalle diverse situazioni familiari: una ha entrambi i genitori, una solo il padre e una solo la madre 31 - Setsuko si sposa con l’uomo che ama contravvenendo alla volontà del padre, Fumiko rompe i rapporti col padre e va a convivere, Yukiko rifiuta ogni pretendente che la madre le propone e decide di continuare a vivere con lei - la storia di Fumiko assume i toni del melodramma sebbene a lieto fine (il padre finisce con l’accettare le sue scelte), quella di Yukiko fa propri i toni della commedia e quella di Setsuko si muove in equilibrio fra i due ambiti - i destini delle tre ragazze assumono una diversa valenza: Setsuko corona la sua storia d’amore, mentre le condizioni delle altre due sono più incerte, Fumiko perché costretta alla precarietà fuori dal matrimonio e Yukiko perché di fronte al rischio di un futuro di solitudine Il carattere parallelo dei due sottointrecci è inoltre evidenziato dal fatto che sono introdotti dalla stessa sequenza, nella quale Mikami e poi Sasaki vanno a far visita a Hirayama ponendo lui lo stesso problema circa il matrimonio delle rispettive figlie, salvo poi proseguire lungo uno sviluppo autonomo e separato pur accomunato dallo stesso tema; nella fase di risoluzione però i due sottointrecci vengono di nuovo congiunti, poiché il loro scioglimento ed epilogo si svolge in due segmenti adiacenti, all’interno della sequenza in cui anche l’intreccio principale giunge al suo felice epilogo: in un unico blocco di sequenze quindi si giunge ad un triplice scioglimento in cui tutti i conflitti sono risolti. 3. USO DELLE TRANSIZIONI Un’altra delle caratteristiche principali del cinema di Ozu è la particolarità dei suoi piani di transizione, dal momento che egli evita l’uso dei tradizionali campi totali o piani d’insieme, privilegiando invece immagini dalla natura più ambigua, che talvolta non sembrano appartenere né alla sequenza precedente né a quella successiva e che sono spesso definibili come still life shot, in quanto prive di elementi umani in movimento. Queste immagini consistono in veri e propri contenitori di emozioni e si configurano come immagini-sentimento in cui lo spazio ha soprattutto una funzione temporale, cioè quella di prolungare le emozioni messe in gioco dalla precedente inquadratura. Inoltre il modo in cui Ozu organizza i suoi piano di transizione risponde ad evidenti meccanismi di ripetizione e differenza: gli stessi spazi ed oggetti sono destinati a ritornare più e più volta, ma sempre attraverso significative variazioni. 4. RAPPRESENTAZIONE DEI DIALOGHI Ozu elabora dei modelli di rappresentazione delle scene di dialogo alternativi al cinema classico, attraverso un’inedita combinazione di effetti del cinema classico e variazioni di essi. Si prendano ad esempio due scene di dialogo del film: quella tra Hirayama e Mikami e quella tra Taniguchi e Setsuko, la cui struttura è esattamente la stessa, il che rivela una precisa intentio auctoris; sono infatti entrambe composte da 18 inquadrature così articolate: un piano di insieme introduttivo (caratterizzato dal sedersi dei personaggi), una prima alternanza di 7 campi e controcampi, un secondo piano di insieme che si trova esattamente a metà della scena, una seconda alternanza di 8 campi e controcampi e infine un conclusivo piano di insieme (caratterizzato dall’alzarsi di uno dei due personaggi). Questa struttura generale non sembra discostarsi troppo dai modelli del cinema classico, ma a ben vedere le variazioni inserite da Ozu sono notevoli: • in entrambe le scene c’è qualcuno che deve rivelare qualcosa a qualcun altro (Mikami parla della figlia che se n’è andata di casa, Taniguchi spiega a Setsuko perché ha chiesto la sua mano al padre senza dirle niente), ma queste rivelazioni non avvengono in piano ravvicinato, come i modelli di rappresentazione classica avrebbero imposto, bensì nei piani di insieme che si trovano a metà delle rispettive scene, ricorrendo ad una rappresentazione più distanziata che tende a raffreddare la situazione; • il numero di figure cinematografiche è ridotto al minimo, dal momento che si fa uso solo di messi primi piani e mai di primi piani, primissimi piani oppure di classiche inquadrature sul volto di un personaggio ripreso dalle spalle del suo interlocutore; • il personaggio che ascolta non è mai inquadrato ed è mostrato sempre e solo chi guarda; • i personaggi non sono mai inquadrati di sbieco, ma sempre frontalmente, così che gli interlocutori non sembrano guardarsi l’un l’altro, bensì di fronte a sé e quindi quasi verso la mdp e di conseguenza verso lo spettatore. 32 FINO ALL’ULTIMO RESPIRO (1960) di JEAN-LUC GODARD Questo film è considerato il manifesto della Nouvelle Vague e del cinema moderno in generale, poiché mette in discussione la scrittura classica del cinema attraverso un nuovo tipo di approccio al cinema, sia per quanto riguarda le nuove pratiche di regia sia per il montaggio. Si tratta di un film che sostanzialmente si rivela come un testo conflittuale, le cui strategie di messa in scena sono complesse e soprattutto contraddittorie, ambigue. Questo aspetto emerge con chiarezza sin dalla prima sequenza, la cui prima immagine non è quella di una presenza antropomorfica, bensì quella di un giornale, introducendo subito così il mondo artificiale dei mass media, destinato ad avere grande rilievo nel cinema di G. Poi il giornale viene abbassato e appare il volto del protagonista, Michel, la cui immagine e gestualità appaiono subito connotati in maniera contraddittoria, secondo una struttura anfibolica dello stile di messa in scena che come già detto caratterizza tutto il film. Michel infatti porta un cappello troppo schiacciato sulla fronte, ha la sigaretta sul lato della bocca con un’angolatura eccessiva e le occhiate e le espressioni con le quali comunica con la sua complice sono eccessivamente esplicite e quindi mirano ad oggettivare le procedure della messa in scena e della recitazione, mettendo in moto un’operazione che potremmo definire metafilmica. Un gesto particolarmente significativo di Michel è inoltre quello di passarsi il pollice sopra le labbra, in un’evidente citazione di Humphrey Bogart, che da una parte definisce il modello del duro o del gangster americano proprio del personaggio e dall’altra rinvia al noir americano, avviando una dinamica di profonda intertestualità che caratterizza tutto il film. G. quindi presenta un personaggio contraddittorio che però al tempo stesso si costruisce in relazione ai modelli immaginari proposti dal cinema, come a voler comunicare che anche una forte autonomia soggettiva è influenzata dai modelli proposti dal cinema. Un altro aspetto della contraddizione insita nella prima sequenza è legata all’organizzazione della messa in scena in senso stretto, presentata come immediata, autentica e scarsamente manipolata ma al tempo stesso complessa ed elaborata: essa infatti non riflette una rottura poi così forte con la tradizione, perché fa largo uso dei campo/controcampo, ma al tempo stesso l’assenza di un establishing shot iniziale sottolinea già la differenza con il cinema classico. Nella seconda sequenza, dedicata al viaggio da Marsiglia a Parigi, emerge con chiarezza la volontà di G. di rovesciare lo statuto e le tecniche del cinema classico, tramite un’organizzazione della messa in scena piuttosto anomala. Prima di tutto, Michel è quasi sempre ripreso di dietro e di tre quarti, con una macchina presumibilmente a mano e con una luce naturale e neutra, che prevale in tutto il film e il cui scopo è quello di garantire maggiore autenticità. Il risultato è quello di un’immagine da reportage televisivo o da cinegiornale, dotata di un certo alone di verità e composta da inquadrature apparentemente casuali e intenzionalmente “sporche” (non a caso le inquadrature dedicate alle riprese della strada non hanno una grande valenza narrativa). Ma l’aspetto più ambiguo di questa seconda sequenza risiede nell’uso di un montaggio non lineare e discontinuo: G. infatti non correla inquadrature con i raccordi proprio del cinema classico, ma attraverso dei veri e propri salti, i cosiddetti jump cuts, che costituiscono una palese violazione delle regole implicite della messa in scena e generano un’ellissi temporale che mette in discussione la linearità del tempo. L’utilizzo di questa procedura arbitraria, irregolare e provocatoria, riflette il rifiuto di G. delle regole della scrittura del cinema classico e la sua volontà di definirne di nuove, più libere e aggressive. Alcuni dei jump cuts più singolari e anomali sono quelli inseriti nel segmento dell’uccisione del gendarme, costruito in maniera arbitraria e irragionevole così come arbitrario e irragionevole è il gesto compiuto da protagonista. Tutto l’episodio è infatti costruito in modo assolutamente anomalo: G. ne comprime estremamente i tempi (11”), ne riduce al massimo la drammaticità e costruisce l’evento come una casualità assoluta, realizzando così una clamorosa inversione della tradizionale logica rappresentativa e un rovesciamento delle tradizionali gerarchie di valore nella rappresentazione degli eventi, rendendo così l’irrilevante evento e l’evento irrilevante. 35 - le immagini di Claudia che nell’attesa visita una galleria d’arte: questa apparente digressione narrativa serve in realtà a sottolineare l’attitudine a guardare propria di questo personaggio 2. il secondo blocco narrativo, che si svolge tra lo yacht e l’isola, durante il quale i personaggi vengono riuniti in spazi chiusi o circoscritti per seguire i loro movimenti, con particolare attenzione agli sfondi, che tendono a prevalere (spesso la costruzione dell’inquadratura inizia sul paesaggio prima dell’ingresso dei personaggi e vi rimane anche dopo la loro uscita di quadro); in questo blocco avviene l’episodio rilevante della storia, cioè la scomparsa di Claudia, e quindi l’inserimento dell’elemento di mistero e l’avvio dell’indagine 3. gli spostamenti in Sicilia, che determinano il disperdersi errante dei personaggi e la distensione dell’indagine: la scomparsa di Anna in realtà dà luogo a un processo di sostituzione, sintomo di precarietà, sia sul piano del racconto, perché un racconto devi verso un altro (la ricerca di Anna lascia il posto all’avventura tra Sandro e Claudia), sia sul piano dei personaggi (Claudia subentra ad Anna) 4. il finale, che è il momento cruciale dello svolgimento: Claudia, esplorando l’albergo, sorprende Sandro con una prostituta, in una scena di erotismo in flagrante (a questo punto il suo modo di vedere passa definitivamente da passivo ad attivo); i due non si scambino neanche una parola, lei fugge dall’albergo e lui la segue a breve distanza e alla fine si ritrovano in una piazza, entrambi piangono e lei gli accarezza la testa: questo gesto sta a significare che Claudia ha preso coscienza dell’ineluttabilità del provvisorio. Questo finale è la netta esemplificazione di alcune tendenze del cinema di Antonioni, cioè il rifiuto della punta drammatica (tutto è risolto in movimenti e immagini) e la propensione a dilatare il racconto e a prediligere i tempi morti (cioè tutte le occasioni in cui lo sviluppo della storia non prosegue, i momenti apparentemente secondari), però riuscendo comunque a comporre una storia; in questo senso l’autore si muove nell’ambigua zona intermedia della narrazione e ciò rappresenta una cifra saliente della sua modernità. Un altro elemento interessante del cinema di Antonioni e la sua messa in quadro e utilizzazione dello spazio, il quale non si tratta di un semplice sfondo alle azioni, bensì di un elemento di assoluto rilievo, tanto da finire spesso con il prevalere sui personaggi, in un rapporto talvolta invertito tra personaggio ed ambiente; inoltre, spesso la qualificazione dei personaggi deriva dalla loro collocazione. In questo film in particolare si trovano luoghi, scenografie, architetture e percorsi, il cui compito generale è quello di stemperare o sospendere l’azione e prolungare le attese; inoltre è interessante osservare come i luoghi dell’erotismo abbiano sempre carattere di provvisorietà (la stanza di Sandro che sta per essere abbandonata all’inizio del film, le camere d’albergo, il divano nella hall dell’albergo etc.) e quindi contribuiscono all’espressione del tema centrale del film. Inoltre, in particolare negli interni si esplorano i gesti, i comportamenti e i percorsi, soprattutto dei personaggi femminili, che possono sembrare superflui rispetto all’andamento narrativo ma che sono in realtà indicativi dei personaggi; il finale ad esempio, è girato tenendo soprattutto conto degli spazi: i percorsi di Claudia nell’hotel, la scoperta di Sandro con la prostituta e la sua fuga verso l’esterno, il totale della piazza, lo sfondo architettonico con la chiesa di campagna, il campanile e la parete in decadenza e infine la chiusura sulle loro due figure inserite in un spazio ben scandito. 36 2001: ODISSEA NELLO SPAZIO (1968) di STANLEY KUBRICK Questo film rappresenta una pietra miliare della storia del cinema, non solo per l’influenza che ha avuto sul cinema successivo, ma soprattutto per il cambiamento che ha segnato nel modo di fare, guardare e considerare il cinema, cambiamento testimoniato dall’iniziale disinteresse con il quale il film fu accolto e dalla successiva immensa fortuna. Infatti Kubrick fu accusato di aver realizzato un film noioso, in cui sostanzialmente non accadeva nulla, e ciò è dovuto al fatto che lo spettatore tradizionale era abituato ad un tipo di cinema differente, che prediligeva la comprensione della storia e dei personaggi piuttosto che l’atto di osservare le immagini, un cinema quindi usato più per raccontare che per mostrare. Il film di Kubrick imponeva invece un diverso rapporto con lo spettatore e proponeva la visione come esperienza e come atto determinante. La trama è così riassumibile (vedi pag. 229-232): * L'alba dell'uomo (The Dawn of Man) La prima parte del film si svolge nell'Africa di quattro milioni di anni fa: un gruppo di ominidi, guidati da un capo, sopravvive a fatica in un ambiente arido e ostile. Un giorno, davanti alla loro grotta appare misteriosamente un grande monolito nero; gli ominidi, venendovi a contatto, imparano inspiegabilmente a usare gli strumenti per cacciare gli animali e ad estendere il proprio territorio aggredendo ed eliminando i nemici. * TMA-1 La seconda parte del film si svolge nel 1999 (un anno del lontano futuro rispetto al 1968 in cui fu realizzato il film): il dottor Heywood Floyd, presidente del Comitato Nazionale per l'Astronautica americano, è chiamato in missione su una base lunare dove è stato scoperto un grande monolito nero sotterrato ad arte in tempi remoti. Floyd tiene un breve incontro con altri scienziati e poi viene accompagnato a visitare lo scavo con il monolito, nel buio della notte lunare quindicinale. Mentre gli astronauti posano davanti all'artefatto per delle fotografie, esso viene colpito dai primi raggi di sole dell'alba lunare ed emette un forte segnale radio nel cosmo (dopo essere rimasto inerte per quasi 3 milioni di anni). Questo tema ricalca maggiormente il racconto originale di Clarke, con il monolito nero al posto della piramide di cristallo. * Missione Giove (Jupiter Mission) La terza parte si svolge diciotto mesi dopo, nel 2001. Un gruppo di cinque astronauti, di cui tre in stato di ibernazione, è in viaggio verso Giove a bordo dell'astronave Discovery One, con la supervisione del supercomputer chiamato HAL 9000, un'intelligenza artificiale in grado di interloquire con gli esseri umani. Le macchine della serie 9000 sono note per non aver mai commesso errori né omissioni di alcun tipo. Si scoprirà in seguito che HAL è al corrente del reale obiettivo della missione e che gli è stato imposto di non rivelarlo al comandante David Bowman e al suo vice Frank Poole. Questa omissione genera un conflitto interiore nel calcolatore, programmato per collaborare con gli esseri umani senza omissioni o alterazioni di dati o informazioni, che inizia a manifestarsi tragicamente durante il viaggio. Inizialmente HAL segnala un'avaria a un componente per l'orientamento dell'antenna per il collegamento con la Terra, un guasto però che risulta inesistente. Bowman e Poole, preoccupati si confidano dentro una capsula perché HAL non possa udirli, ma il computer legge le parole sulle loro labbra. Divenuto inaffidabile, i due astronauti meditano di disinserirlo ma HAL, che mai ha esperito tale emergenza, parificandola alla morte, opta per l'eliminazione dell'equipaggio. Frank resta ucciso durante un'escursione extraveicolare, investito da una capsula. Quando Bowman esce per recuperarlo, HAL elimina i tre astronauti in ibernazione, disattivando i sistemi che mantengono attive le loro funzioni vitali; impedisce poi a Bowman di rientrare a bordo. L'astronauta vi riesce con una pericolosissima manovra nel vuoto; accedendo quindi al comparto della memoria logica di HAL per disconnetterlo. Prima di disattivarsi si avvia una registrazione audiovisiva destinata all'equipaggio della nave, dove il dottor Floyd svela il vero obbiettivo della missione, noto solamente al calcolatore e ai membri ibernati, citando il monolito trovato sulla Luna diciotto mesi prima della partenza. Il segnale radio emesso in direzione di Giove avrebbe spinto a modificare la missione, da una semplice esplorazione scientifica all'indagine di fenomeni extraterrestri. 37 * Giove e oltre l'infinito (Jupiter and Beyond The Infinite) Nell'ultima parte Bowman arriva in orbita intorno al pianeta gigante, dove avvista un nuovo, gigantesco monolito nero. Prova allora ad uscire ed avvicinarsi con una capsula: una panoramica del sistema gioviano con i satelliti allineati e il monolito pare inghiottire l'esploratore. Una scia luminosa multicolore cancella lo spazio conosciuto. Bowman e la capsula sono accelerati a velocità sconosciute. Scorci di stelle, nebulose, sette ottaedri e panorami di terre sconosciute si alternano fino al materializzarsi della capsula di Bowman in una stanza chiusa, arredata in stile Impero. Sconvolto dall'esperienza, l'uomo esce dalla capsula e mette piede nella camera (adiacente alla quale vi è una stanza da bagno), dove trova un letto matrimoniale e del cibo. Bowman, potendo soddisfare i suoi bisogni primari, sopravvive per un giorno nella sua nuova dimora, in solitudine e in totale tranquillità. Non decifrabile da un'intelligenza umana è il ruolo dello spazio e del tempo: Bowman si trova ad esistere contemporaneamente in punti diversi e a diverse età, vedendo sé stesso invecchiare e seguendo da molteplici punti di vista i diversi stadi della propria vita. Allo stato massimo della sua vecchiaia, Bowman, sdraiato nel letto, vede davanti a sé il monolito e cerca di toccarlo, per poi rinascere in forma di enorme feto cosmico, il "Bambino-delle-Stelle" ("Star-Child" in lingua originale), che scruta la Terra dallo spazio. Si può comprendere che David Bowman non è morto ma si è "evoluto", trasformandosi in una forma di vita superiore. La musica che accompagna questa estrema metamorfosi è l'inizio del poema sinfonico di Richard Strauss Così parlò Zarathustra; tale brano musicale aveva già accompagnato le prime immagini del film, che, con questo richiamo musicale, si chiude in modo circolare. È dunque vero che il film racconta poche cose, o meglio, rielabora tre volte la medesima struttura narrativa, che poi è il modello strutturale di tutte le storie: c’è una situazione iniziale di tensione, un’apparizione, un viaggio di ricerca, una mutazione che si ripete a diversi livelli. Le tre parti del racconto sono quindi tre segmenti autonomi, tutti e tre inerenti al tema del viaggio, di cui rappresentano tre diverse elaborazioni: - l’alba dell’uomo, la mutazione e il viaggio sulla luna - il viaggio della Discovery nello spazio - il terzo incontro con il monolito e il trip nel corridoio stellare Tra questi segmenti e al loro interno esistono numerosissime simmetrie, ad esempio tra il primo e i secondo segmento: come nel primo due branchi di scimmie si contendono le acque dello stagno finché la scimmia Moonwatcher, illuminata dal monolito, scopre la clava e sconfigge il branco rivale, così nel secondo il dottor Floyd, scimmione moderno, deve fronteggiare l’attacco degli scienziati rivali, cioè i russi; inoltre, anche se le scimmie si contendono l’acqua e gli scienziati le informazioni, è interessante osservare che durante l’incontro con i russi a Floyd viene insistentemente offerto da bere. Questa simmetria emerge anche sul piano spaziale, perché anche la grande sala dell’hotel Hilton ha l’aspetto di una landa desolata, soprattutto perché fotografata in profondità di campo e illuminata con un’abbagliante luce bianca. A tre storie corrispondono dunque tre incontri con il monolito, simbolo dell’intelligenza tout court che rappresenta l’ingresso della ragione nel mondo. Questi tre incontri corrispondono alle tre fasi della metamorfosi dalla scimmia all’uomo, dall’uomo all’incontro con l’alieno, dall’incontro con l’alieno alla rinascita finale, ognuna delle quali è in simmetria con i tre grandi accordi ascendenti della composizione musicale di Richard Strauss. In molti hanno individuato un chiaro riferimento a Nietzsche che in Così parlo Zarathustra narra delle tre metamorfosi dello spirito da cammello a leone e da leone a fanciullo. In entrambi i casi infatti il percorso termina con il recupero degli aspetti infantili della percezione, della sensibilità e dell’immaginazione che l’adulto ha perduto o abbandonato. Altri due grandi temi del film che attraversano tutte e tre le storie sono: • il tema del viaggio: viaggio verso la Luna, verso Giove e ritorno a casa • il tema del sapere: il sapere è rappresentato prima dalla clava, che consente alla scimmia di sconfiggere il branco rivale; questo conflitto però si ripresenta a livelli sempre più vasti e complessi
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