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riassunto libro pedagogia della famiglia Pati, Sintesi del corso di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative

riassunto dettagliato della terza e quarta parte del libro pedagogia della famiglia di L. Pati

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 13/03/2019

19giulia98
19giulia98 🇮🇹

4.3

(70)

47 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica riassunto libro pedagogia della famiglia Pati e più Sintesi del corso in PDF di Pedagogia dell'infanzia e pratiche narrative solo su Docsity! PARTE TERZA: CRITICITÀ DELLA VITA FAMILIARE CAP. 1 – La famiglia di fronte alle sofferenze L’umana condizione di sofferenza si radica sempre in un evento doloroso, critico e si connette strettamente con il soggettivo processo interpretativo dello stesso evento. Se, il dolore è identificabile con l’elemento scatenante una situazione problematica, la sofferenza invece va intesa come espressione del modo personale di vivere quella situazione problematica. Per questo motivo è da concepire come effetto che scaturisce da una circostanza dolorosa. Dal punto di vista pedagogico, riflettere sulla situazione di sofferenza significa prendere in considerazione una dimensione della vita suscettibile di condizionare il divenire personale e familiare. Di conseguenza, nella famiglia, i singoli soggetti che la costituiscono di rivolgono a specialisti per essere aiutati a superare le condizioni di disagio esistenziale che stanno attraversando. 1. Dolore e sofferenza: caratteristiche dell’esistere umano Felicità e dolore rappresentano un binomio indissolubile della condizione umana in quanto, la vita umana è fatta di gioia ma anche di sofferenza. Classificazione degli stati di sofferenza umana: • Dolore fisico = quello che fa urlare il corpo, vera e propria costante delle varie età della vita • Dolore dell’anima = quello che sconvolge la mente e il cuore, fattore che interviene a contraddistinguere la crescita umana soprattutto dall’adolescenza in poi (ossia il momento in cui insorge il desiderio di progettare, di dare significato a sé stessi, al mondo e ai propri simili) In questo contesto emerge la capacità dell’uomo non solo di percepire visivamente e razionalmente la vita ma, soprattutto di sentirla. Capacità che permette all’uomo di percepirsi nella propria complessità e di estendere tale complessità alla percezione dell’alterità. La sofferenza è un aspetto della vita che aiuta a dare risalto al valore della soggettività, infatti non esiste una sofferenza uguale ad un’altra. Nel suo divenire temporale quindi, la vita umana non si svolge in maniera lineare ma, è sottoposta ad inciampi, lacerazioni o stacchi improvvisi. Di conseguenza, dal punto di vista educativo, occorre riflettere su come ri – orientare tali vincoli, impotenze e cadute, per evitare che essi si insinuino nel procedere evolutivo personale e prendano il sopravvento, è indispensabile intervenire con competenze efficaci per ridare forza ai legittimi desideri di felicità e serenità personali. Non si può quindi educare l’uomo ad evitare il dolore e la sofferenza ma, si può aiutarlo ad affrontarli, a viverli e soprattutto a superarli. La persona che soffre chiede in modo esplicito e tacito, sostegno e incoraggiamento e per tanto, la pedagogia è chiamata ad interrogarsi su quali siano le modalità educative migliori per accompagnarla nella ricostruzione di sé, nel futuro e nella speranza. L’uomo deve essere in grado di imparare a collocarsi in una situazione anche se difficile o fonte di sofferenza, per identificare possibili vie d’uscita. 2. Sofferenza e dimensione relazionale Se la persona è un essere dialogico, chiamato all’incontro con il tu, questo influisce anche sulla condizione di sofferenza e di benessere. Infatti, sia che soffra o che gioisca, la persona è sempre in relazione (la felicità e la sofferenza nascono dal rapporto intrecciato con il mondo delle cose, delle persone e dei significati). La sofferenza può essere suscitata da differenti situazioni dolorose come morte di una persona cara, problematicità delle relazioni familiari, amorose o amicali, insorgenza di una malattia grave di un parente o un amico. Si tratta di condizioni che non devono essere trascurate e che, affondano le radici in un rapporto disturbato con sé stessi (es. scarsa accettazione di sé, disorientamento verso il futuro, paure delle scelte da compiere ecc.) Lo stato di sofferenza poi influisce sempre in modo diretto o indiretto, sulle reti di rapporto in cui la persona è inserita e a cui partecipa. Ancora una volta quindi, la pedagogia è chiamata a riflettere su tali aspetti dell’esistenza, nella consapevolezza che l’aiuto offerto a chi soffre va modulato in prospettiva relazionale. Questo significa che il sostegno offerto va orientato a suscitare un cambiamento di prospettiva esistenziale. Si tratta cioè di intervenire per fare della sofferenza un fattore di cambiamento personale e relazionale dato che, famiglia e reti amicali sembrano essere gli spazi relazionali che meglio si prestano ad offrire sostegno educativo. E se le reti amicali tendono a sfuggire alle indicazioni pedagogiche poiché informali, la famiglia è adatta a recepirle, per delineare la migliore organizzazione del proprio funzionamento educativo. Questo in altre parole significa che riconoscimento, accolgienza e dialogo familiari si costituiscono come base relazionale da cui il soggetto in stato di bisogno, può muoversi per ridare senso al proprio vivere la vita. La realtà del dolore, collegata all’aspirazione alla felicità, chiama in causa l’istanza della cura. Cura educativa che si delinea come modalità educativa attraverso la quale la persona è sollecitata a dare senso al dolore e, ad intravedere in esso segni di speranza (di felicità, di un domani diverso, di guarigione). Aver cura dell’altro significa quindi sollecitarlo ad avere cura di sé, a fare leva sulle proprie capacità di recupero, a disporsi al cambiamento e al miglioramento. 3. La famiglia tra sofferenza e cura educativa Non è difficile rilevare al giorno d’oggi, forme di sofferenza familiare. Esse non sono però da confondere con le difficoltà che fanno parte del regolare processo di comunicazione interpersonale suscitato nello spazio domestico. soggettività. In aggiunta, bisogna ricordare che il contributo educativo va calibrato in riferimento alle modalità di reazione della persona che soffre. La persona davanti al dolore può reagire in uno dei seguenti modi: • Maniera “asintotica” = sofferenza di tipo lineare che evolve verso la risoluzione. In questo caso, l’intervento educativo è di accompagnamento temporale. • Modalità della “falsa partenza” = il soggetto diventa preda di acute forme di sconforto, sino alla depressione. In questa situazione, l’intervento educativo deve fare leva soprattutto sulla ricostruzione interiore della persona e sul recupero graduale del desiderio di vivere. • Modalità di “superamento” = la persona si mostra indifferente verso quanto è accaduto o addirittura ostenta uno stato di evidente e falsa euforia. L’intervento educativo deve aiutare la persona a percepire la realtà, quindi a collocare gli accadimenti nel loro giusto contesto di significato. Verso ciascuna delle modalità è necessario intervenire affinché il soggetto interessato sia aiutato a conseguire un nuovo stato di equilibrio personale e relazionale. La famiglia come già detto sembra avere possibilità di azione, di essere cioè risorsa a sé stessa nel complesso o vero uno dei suoi membri in quanto è in grado di attivare strategie di coesione e di cooperazione che portano ad una condivisione del dolore. Quando invece la sofferenza riguarda una sola componente e le cause risultano esterne alla famiglia, quest’ultima non riesce a delinearsi come risorsa e di conseguenza, il soggetto interessato necessità di aiuto esterno. 6. Forme di sostegno educativo Esiste un sostegno educativo reale e un sostegno educativo auspicato. Entrambi mettono l’accento sulla rete relazionale familiare. • Sostegno reale = in esso si distingue il sostegno emotivo – affettivo (capacità di stare accanto, di stare vicino) e il sostegno strumentale (sollecitazione a fare qualcosa). Il supporto educativo in questo caso è precisato come espressione di accolgienza, comprensione, affettività intensa in cui la componente empatica svolge un ruolo primario, in questo senso il sostegno emotivo – affettivo si mostra come elemento idoneo ad incoraggiare al recupero o al rinforzo della stima di sé. esso inoltre favorisce lo sviluppo dell’intelligenza intrapersonale, in forza della quale il soggetto interessato può realizzare una conoscenza profonda della propria vita affettiva. Per quanto concerne invece le modalità d’intervento, il sistema domestico agisce con modalità dialogiche e di conforto (sostegno, comprensione, dialogo, ascolto, interesse). • Sostegno auspicato = le persone che soffrono manifestano il desiderio di poter stabilire un rapporto con una persona vera, con un interlocutore significativo, con un soggetto adulto capace d’intessere una relazione profonda. Il caregiver auspicato è quindi colui che è delineato come persona forte, disposto a capire la persona in condizione di bisogno, pronto a riconoscere il valore altrui, disponibile a dialogare, ascoltare e consigliare. L’adulto investito di responsabilità educative svolge un compito prioritario nel sollecitare i soggetti interessati a imparare a so – stare con la sofferenza. Inoltre, il caregiver è colui che aiuta la persona in stato di bisogno a ricercare vie di soluzione e a riequilibrare la propria vita con la riscoperta di valori prescelti. 7. Caratteristiche del modello educativo Il compito primario del modello educativo adulto è quello di facilitare negli interlocutori la ri – definizione di una vera e propria sintassi axiologica, attraverso la quale procedere alla ri – costruzione di significati lacerati. A lui, spetta in particolare, muoversi in due direzioni: • Aiutare a dare senso alla sofferenza sollecitando movimenti di trasformazione e di potenziamento de sé, impegnandosi in una riprogettazione esistenziale. • Offrire la possibilità di raccontare la propria situazione di sofferenza. Il poter narrare costituisce un passo importante per superare lo smarrimento. Si può narrare sia in maniera diretta che in maniera metaforica. Riflettere sull’esperienza personale, narrarla, darle un senso, per il soggetto interessato significa muoversi in una triplice direzione: • Dare ordine al proprio vissuto, rileggendo con un certo distacco, attivare processi interpretativi alla luce di come si è nell’oggi, al momento in cui ci si racconta agli altri e a sé stessi (l’io narrante si rivolge ad un tu capace di ascoltare l’interiorità della persona che narra) • Rilevare le tracce del passato sul proprio modo di essere nel tempo presente • Recuperare gli insegnamenti che scaturiscono da un’esperienza trascorsa di dolore, per disporsi meglio al tempo recente e per guardare al futuro. Si sente poi la necessità di attuare un processo di apprendimento attraverso il quale la persona interessata precisa il proprio sé in riferimento a chi ascolta. Questo significa che Io narrante e interlocutore attivano un processo d’interpretazione in cui ciascuno di essi rileva dal racconto tratti inediti, significati nascosti, elementi trascurati che aprono le vie al superamento della condizione in cui si versa e alla riprogettazione esistenziale. L’intervento educativo quindi esige da parte dell’adulto alcuni atteggiamenti di base: • Riconoscere la persona che soffre = riconoscerlo vuol dire eleggerlo a interlocutore unico di una situazione, andando quindi oltre la rilevazione del fatto doloroso e avviando un processo di effettiva personalizzazione della relazione • Accogliere colui che soffre con le sue debolezze e i suoi limiti ma, anche con le sue potenzialità e le sue risorse così da costruire una relazione calda e accogliente • Sostare con l’interessato nella situazione di sofferenza anche con il silenzio, dato che spesso non c’è bisogno di parole per aiutare colui che soffre. È sufficiente fargli capire che si partecipa al suo travaglio interiore • Incoraggiare a rintracciare in sé stessi e nel mondo circostante elementi di speranza e di apertura. Bisogna aiutare l’altro a capire che, nonostante la situazione in cui versa, è ricco di risorse che deve solo imparare a conoscere per poi utilizzarle. L’incoraggiamento diventa anche condivisione di affetto e di partecipazione empatica. CAP. 2 – Conflitti di coppia e mediazione educativa Nei momenti in cui si è in presenza di uno stato conflittuale, viene a crearsi uno spazio vuoto che isola ciascuno nel proprio vissuto e che contribuisce a separare sempre più le persone, a renderle estranee e sempre più sole. Questo perché il confliggere, ossia l’atto costitutivo del conflitto, concerne una modalità dello stare insieme connotato in modo negativo in quanto ogni parte coinvolta vuole mantenere la sua posizione e non ha nessuna intenzione di modificarla. Il conflitto fa parte del vivere e proprio per questo, non è possibile evitarlo. Esso infatti procede di pari passo con il divenire dei rapporti umani e poggia sulla diversità esistenziale dei soggetti interagenti. A questo punto ci si chiede chi media il conflitto e come lo si possa orientare. 1. Dall’essere del conflitto all’essere in conflitto: il valore della relazione dialogica L’essere in conflitto diviene una modalità relazionale che assume la perturbazione come strumento di riconoscimento reciproco. Tale agire può essere il punto di partenza dal quale far ripartire la relazione, anche se in difficoltà e divenire uno strumento di crescita e di trasformazione. Da esso derivano caos e instabilità, si perdono i punti di riferimento che normalmente ci rassicurano, si genera la di non poter sapere cosa accadrà o che cosa ci accadrà (per scoprirlo è necessario il dialogo, il confronto, il non rimanere in una posizione di stasi). Il conflitto infatti è ovunque: cercare di collocarlo può aiutare l’uomo a riconoscerlo. Bisogna quindi non e evitarlo per riuscire infine a superarlo. I nostri desideri si incrociano con quelli degli minaccia. L’essere funzionali rimanda alla capacità di porsi l’uno di fronte all’altro, domandosi reciprocamente. Sappiamo che molti conflitti si presentano nelle diverse fasi della vita di coppia ma è normale che le coppie discutano. La cosa diventa problematica quando le coppie scelgono di sperarsi perché non riescono più a sostenere una relazione conflittuale, non si ha più l’interesse di condividere i propri spazi oppure perché uno dei due membri della coppia sente il desiderio di intrecciare un nuovo legame affettivo venendo meno al sostegno reciproco, all’accoglienza delle diversità e al progetto esistenziale elaborato in passato. Con l’espressione crisi di coppia intendiamo il cambiamento che investe il rapporto dei partner, modificando la condizione di buona vicinanza che viene trasformato in uno stato di sofferenza che di conseguenza darà vita a sentimenti negativi come rabbia, noia, risentimento, colpevolizzazione ecc. La crisi esprime poi la rottura di un equilibrio e la modifica degli schemi abituali di comportamento e per questo motivo, la coppia o procede nell’impegnarsi in un percorso evolutivo e trasformativo o pensare di rompere il legame. La crisi di coppia può e deve essere vista però come un fattore di crescita e di sviluppo. Può tuttavia diventare pericolosa quando l’esasperazione del conflitto spinge uno dei coniugi a colpire e distruggere definitivamente l’altro. Al contrario, se il conflitto viene ben gestito, diviene un elemento funzionale alla crescita della coppia, nonché al suo rafforzamento. È positivo se non offende la dignità dell’altro. Sappiamo però che il conflitto porta sempre con sé un disagio, il quale può essere acuto o cronico. Nel primo vi è il brusco attivarsi di un confronto, attraverso la messa in discussione delle posizioni dell’altro mentre, nel secondo si è in presenza di una situazione critica costante. Dobbiamo poi ricordare che, al mondo d’oggi vi è un’impreparazione a vivere il rapporto d’amore in virtù di una progettualità consapevole e cosciente delle possibili trasformazioni temporali che a sua volta comportano una mancanza di disponibilità a volere integrare e mediare le differenze, inoltre si tende a concepire la coppia come luogo rifugio. 3. Mediazione e relazione di coppia: la speranza dell’educazione Davanti agli occhi di tutti è ormai noto il profondo disagio relazionale che oggi le coppie stanno vivendo. Ciò chiama in causa la pedagogia della famiglia che deve sviluppare riflessioni sempre più rigorose sul valore ed il significato della relazione coniugale autentica e che deve proporre modalità più feconde per far sì che la medesima si fondi su una mediazione dialogica costante nel tempo e nello spazio. Mediare significa promuovere una cultura del dialogo, del rivolgersi all’altro, tesa alla ricerca della verità, ma soprattutto all’armonia dei contrari e al riconoscimento delle diversità. La mediazione è una virtù relazione, è un rivolgersi all’altro che prevede un confronto nel quale l’io e il tu si riconoscono reciprocamente. Inoltre, la mediazione offre la possibilità di effettuare il passaggio dal passato al presente, per guardare con fiducia al futuro. È un atteggiamento che il soggetto mette in atto in quanto essere in conflitto crea sofferenza e porta le persone a ritirarsi, ad allontanarsi dagli altri, a non avere il coraggio di guardarsi dentro. Iniziare a mediare con sé stessi e con gli altri invece può aiutare la coppia a modificare la sua condizione di immobilità. Non è una riparazione ma bensì una trasformazione. La mediazione diventa educativa quando accoglie il disordine originato da un conflitto e lo rende esplicito, gli offre uno spazio e gli da tempo. un tempo che diviene il miglior mediatore tra l’io e il tu che si scontrano; permette ai membri della coppia di poter parlare per essere ascoltati ed ascoltare, rende possibile un confronto che favorisce l’espressione dell’intensità della sofferenza, facilitando così l’evoluzione di una situazione per trasformarla in un’occasione di crescita e di riprogettazione esistenziale. La mediazione educativa crea speranza perché significa apertura e cercare soluzioni anche quando queste non sembrano esserci, è certezza di avere qualcosa da dire, dare, ricevere. Attraverso questa speranza il progetto di vita coniugale viene riformulato per essere vissuto in tutto il suo impegno, con tutta la sua forza e, soprattutto nel desiderio di cambiare. Questo perché la mediazione si presenta come un cammino della coppia, un percorso rivolto a tutte le coppie che, mira alla prevenzione ed alla promozione del significato del legame d’amore, per in presenza di uno stato di conflittualità. Enfatizza la responsabilità personale dei membri della coppia nel prendere decisioni e diviene strumento di collegamento dei loro valori in quanto mira all’autenticità di una relazione fondata sulla sincerità e sulla fiducia. Diviene un’opportunità che mira alla cura e alla ricostruzione di un equilibrio relazionale. CAP. 3 – Disagio familiare e interventi di sostegno educativo Famiglie in difficoltà, famiglie multiproblematiche, famiglie a rischio sono le espressioni che vengono maggiormente utilizzate per indicare una situazione di disagio più o meno grave e che, non consente a tale entità sistemica di adempiere alle sue funzioni essenziali. Un tratto considerato rilevante nell’ambito delle famiglie è la loro capacità di combinare insieme affettività e normatività. La famiglia di oggi sembra infatti propendere o eccedere nell’accudimento e nella protezione, nell’accomodamento e di chiusura su sé stessa. Questo rende più difficile l’uscire fuori, il mettersi in gioco rispetto alle diverse sfide dell’esistenza e quindi, riduce la capacità di reggere di fronte ai fallimenti e agli insuccessi. Da molti studi è emerso come, la figura del padre sia quella che rappresenta il rapporto con l’esterno, la qualità dell’interazione tra il sistema famiglia e gli altri sistemi (tradizionalmente è inteso come il ponte verso la dimensione del lavoro e verso la vita sociale) e che, contiene al suo interno componenti educative riguardanti la gestione delle norme e spingersi verso una piena realizzazione del proprio sé. inoltre, è emerso come la maggior parte dei fenomeni riportati sopra sia riconducibile alla crisi o morte del padre o in una ristrutturazione della paternità. Partiamo affermando che un passaggio fondamentale è verso la paternità come autorità, nel senso di far crescere, sviluppare. È evidente però, che viviamo una crisi dell’autorità in quanto alcune principali coordinate del vivere civile, sociale e individuale che rappresentano la base per potersi immaginare come adulti, crisi che poi si presenta anche nell’assenza di limiti che caratterizza un mondo in cui sono immersi i giovani. Il concetto di rischio familiare quindi finisce per un verso per legarsi all’organizzazione sociale ed ai suoi valori e, per l’altro al fatto che la famiglia odierna si riconferma come luogo per eccellenza al cui interno poter sperimentare e costruire forme di equilibrio che faticosamente si cerca di conquistare nella vita sociale. In questo modo, la sua debolezza potrebbe diventare la sua rinnovata forza. 1. Famiglie a rischio sistemico Affrontiamo ora il tema del disagio familiare a partire da una concezione che non oppone in maniera dicotomica famiglie sane e famiglie che non lo sono. Tale concezione adotta un continuum situazionale che indica la variabilità adattiva del sistema familiare nell’affrontare i propri compiti. Passando da un approccio interpretativo ad uno che differenzia è necessario relativizzare il concetto di rischio, dove indica la capacità delle famiglie di affrontare situazioni difficili attivando competenze e potenzialità. Di conseguenza, la prospettiva della resilienza permette di mettere a confronto le famiglie a rischio e le famiglie competenti così da portarne alla luce le potenzialità e le risorse ma anche i punti di vulnerabilità. Il concetto di famiglia resiliente viene spesso associato all’identificazione di quei fattori protettivi che sembrano moderare la relazione tra l’esposizione di una famiglia ad un rischio e la capacità dei suoi membri di essere competenti nel realizzare le funzioni tipiche di tale sistema. Ruolo fondamentale è poi affidato alla capacità di bilanciare la continuità e il cambiamento, di mantenere un legame tra passato, presente e futuro, andando a ricercare nell’ambito della propria storia familiare i modelli relazionali e di funzionamento trasmessi attraverso le generazioni. Nella costruzione dell’identità familiare la condivisione di un modello educativo passa anche attraverso un sistema comune di significati da attribuire alle esperienze personali. L’importanza che si attribuisce al modello familiare vissuto rispetto a quello sviluppato nella contemporaneità dipende dal posizionamento del nucleo familiare rispetto alla variabile del tempo, in relazione alla capacità di separarsi dalla famiglia d’origine, alla potenzialità l’accettazione e il rifiuto di una realtà soggettiva differente da quella comune. La sfrenata ricerca di cure, l’accanimento scientifico rimanda ad un’illusione del successo che non fa altro che peggiorare i vissuti di coloro che vivono la disabilità e quindi, l’equilibrio psichico dei familiari si nutre di rabbia, che se non contenuta potrà rivelarsi un vero e proprio ostacolo al processo di accettazione del deficit del paziente, che a sua volta porterà al fallimento che, a sua volta, determinerà la chiusura e la conclusione delle occasioni di socializzazione. Seguendo queste dinamiche in modo implicito, la famiglia del disabile diventa essa stessa disabile. L’individuo disabile è un soggetto di diritti ma, il permettergli di conseguirli è così difficile da voler essere dimenticato. Il vissuto dominante che contraddistingue queste famiglie è quindi l’ambivalenza, che si cerca di superare attraverso diverse strategie, tra le più comuni ci sono l’evitamento, la compassione e la banalizzazione del problema. Per la famiglia diventa quindi più facile farsi carico da sola delle necessità del piccolo e evitare che il peso della disabilità gravi sulla società. Evitare vuol dire rendere però la famiglia unica responsabile del processo di vita del disabile in termini di decisioni, provvedimenti, riconoscimento di diritti. 2. I vissuti, tra normalità e disabilità La nascita di un figlio imperfetto determina una serie di mutamenti ed un’evoluzione dei dinamismi psichici e familiari. Molti studiosi distinguono 3 fasi tipiche di questi cambiamenti: • Durante la prima fase la famiglia viene sconvolta = l’oscillazione tra negazione e dolore sfocia gradualmente nella depressione acuta • Nella seconda fase emergono in maniera più evidente i sentimenti di ambivalenze = il rifiuto si mescola a sensi di colpa violenti e a forme di rabbia reattiva • Durante la terza fase nella famiglia si manifestano dimensioni più costruttive e flessibili (purché essa non sia patologicamente fissata alle fasi precedenti) I vissuti psicologici che accompagnano le famiglie di persone disabili presentano spesso caratteristiche di negatività in quanto il termine di paragone utilizzato per il confronto è quello della normalità. Si tratta di un concetto che denota la positività e, di conseguenza la disabilità come elemento non può ritenersi normale e quindi assume un’accezione negativa. Lisa Bichi, sintetizzando il pensiero di diversi autori che si sono occupati di disabilità, afferma che le key words che accompagnano la pedagogia dei minori e ella disabilità sono tre: • Concetto di incontro = azione che scopre piuttosto che coprire il bambino disabile, favorendo la possibilità di concedergli il raggiungimento dell’autonomia • Concetto di accompagnamento = rimarca l’impegno della famiglia nel percorrere una strada fatta di difficoltà, di incontri inattesi • Concetto di responsabilizzazione = ovvero riuscire a pensare al disabile come ad una persona adulta che abbandona lo stereotipo del bambino da accudire e da tutelare in ogni occasione La frustrazione derivante dalla condizione di disabilità si radica nel sistema di valori che vengono scambiati tra gli individui all’interno delle relazioni. La persona disabile scatena negli altri reazioni e modalità comportamentali, da una parte interconnesse al soggetto ma allo stesso tempo anche a un sistema più ampio che non è solo quello dei famigliari ma quello della comunità. Importante quindi il ruolo della società rispetto alle conquiste quotidiane di queste famiglie. 3. Pedagogia e ciclo di vita Il deterioramento familiare tuttavia è successivo ad una serie di dinamiche che poco hanno a che fare con la disabilità in quanto tale. Spesso infatti, la famiglia che muore è il risultato di un fallimento che annida le sue origini e che si manifesta attraverso un mancato funzionamento coniugale che, infine è la conseguenza di inadeguate modalità comunicative. Coniugalità e genitorialità rappresentano due facce della stessa medaglia che insieme quindi intervengono nella costruzione delle complessità della struttura familiare. La famiglia è una struttura complessa che ha dei compiti da svolgere che viaggiano in parallelo con le fasi di vita dei suoi membri e con il ciclo di vita che li caratterizza. Haley afferma che qualunque sia lo stadio del ciclo di vita, il punto più importante per la maturazione dell’individuo e della sua famiglia è quello del passaggio allo stadio successivo. Nel caso della famiglia disabile, è la disabilità stessa, che diventa minaccia il normale funzionamento familiare. Ogni famiglia che si costituisce infatti nutre determinate aspettative su come il suo ciclo vitale dovrà compiersi. Per questa ragione, la presenza di una disabilità, sicuramente inattesa, si costituisce come evento stressante che non sempre rende fluido il processo da uno stadio all’altro del ciclo della vita della famiglia. L’arrivo di un bambino disabile compromette seriamente l’instaurarsi di un legame di attaccamento funzionale tra il neonato e la figura primaria poiché subentrano una serie di interferenze che alterano le risposte naturali del legame di attaccamento ai quali madre e figlio sono programmati. La madre non riprodurrà facilmente le modalità istintive di cui è stata dotata insieme al bambino, deficitario nelle sue dotazioni, e questo costituirà una coppia che renderà difficile la prevedibilità delle risposte relazionali generando così un senso di incompetenza e insufficienza. Di conseguenza, nell’ottica di un care system teso a favorire il benessere o il massimo sviluppo del bambino all’interno del suo nucleo familiare, l’idea di una pedagogia che presti attenzione a tutto il ciclo di vita della famiglia, può rivelarsi determinante per l’intero sistema in quanto, permette l’incremento di quelle potenzialità dei caregiver impegnati nella cura dei loro piccoli. Questi interventi sono utili soprattutto per sopperire all’impreparazione che le fasi della vita di queste famiglie possono riservare loro e che generano dinamiche psichiche confuse e difficilmente definibili. 4. La voce nuova delle disabilità: racconti di vita di padri coraggiosi La disabilità è un banco di prova severo che può mettere in crisi la tenuta della famiglia poiché mette in discussione il processo identitario dei genitori. Il segnale di bisogno che il ragazzo disabile emette, per evidenziare le proprie necessità, assume un’importanza di estrema rilevanza per i genitori. Esso diventa l’unica priorità alla quale far fronte, dimenticando o lasciando in secondo piano ogni possibilità di pensare alle alternative progettuali che possono favorire l’emancipazione del disabile stesso. La famiglia si rivela il luogo in cui per primo il disabile trova motivazioni e sperimenta stimoli necessari alla costruzione del suo progetto di vita. Il nucleo quindi cambia pian piano e questo cambiamento, si può evidenziare anche attraverso la rivalutazione delle figure genitoriali, in particolare di quella paterna. La voce dei padri infatti si fa sempre più presente nel raccontare le storie di vita dei propri figli. Si tratta di padri che fanno delle pagine dei loro volumi il grido di disperazione delle condizioni della loro famiglia e, proprio in questo modo la famiglia cambia, si apre a sé stessa con la sofferenza che l’accompagna per cercare la forza di reagire e per diventare contesto di cura per sé stessa, riuscendo così ad allontanare l’impatto negativo che la disabilità può esercitare su di essa. La cura del disabile allora deve entrare a far parte degli interessi della pedagogia, al fine di andare incontro all’insieme degli impellenti bisogni sanitari, riabilitativi, sociali di cui il disabile necessiterà. Importante allora secondo Binswanger che il contesto di cura si focalizzi non sulla patologia ma sull’uomo nella patologia e quindi, sul modo di esse del bambino con disabilità nel mondo così da affiancare gli approcci clinici e terapeutici una visione più umanizzante e da consentire ai genitori di rimodulare e ridisegnare la propria storia familiare, riadattandola alle necessità in continua evoluzione del piccolo. Solo così la famiglia e la società potranno davvero riscoprirsi autentici luoghi di cura e di potenziamento delle capacità di empowement del disabile. 5. La famiglia del disabile nella società per favorire la socialità concentrazione, nella memoria a breve termine. Compaiono disturbi del linguaggio e della coordinazione motoria. La persona inoltre in questa fase richiede cura e assistenza da parte dei familiari. Il terzo stadio ha inizio quando la perdita della memoria è grave e impedisce alle persone di occuparsi dei loro bisogni fondamentali. Disorientamento, comportamenti stereotipati e perdita dell’autonomia personale aumentano il bisogno di assistenza. Nelle fasi finali della malattia le persone dementi hanno bisogno di assistenza a tempo pieno, non sono in grado di prendersi cura di sé, non riconoscono volti e luoghi familiari, perdono il linguaggio, diventano paranoici e irascibili. L’esordio della malattia è generalmente insidioso e difficilmente riconoscibile così come il suo decorso progressivo. I sintomi iniziali infatti sono spesso attribuiti all’invecchiamento, allo stress o alla depressione. Solo a distanza di 1 / 2 anni i disturbi di memoria diventano tali da indurre i familiari a chiedere aiuto ad uno specialista. Questo perché il disturbo della memoria costituisce l’aspetto principale della malattia ed è il primo a manifestarsi, a cui fanno seguito altre difficoltà che coinvolgono il linguaggio e la capacità di ragionamento. Tra le modificazioni che lasciano più sconcertati i familiari si segnalano i cambiamenti di alcuni aspetti della personalità. Tra le persone anziane compare invece apatia, perdita d’interesse per l’ambiente e per le relazioni con gli altri, con conseguente chiusura sociale. In altri casi il mutamento della personalità si traduce in scatti di violenza e di impulsività. 3. La famiglia di fronte alla malattia d’Alzheimer Molti studiosi hanno messo in luce la dimensione familiare delle demenze, ovvero l’insieme di patologie degenerative diffuse nella popolazione anziana. Possiamo allora considerare il carattere familiare delle demenze in età senile in un duplice senso: da un alto per l’incidenza che la malattia ha sull’intero nucleo familiare e dall’altro, per il diretto coinvolgimento della famiglia nei compiti di cura e di assistenza nei confronti del proprio congiunto. Tali malattie hanno una risonanza rilevante sul nucleo familiare sia per il coinvolgimento sia per gli interrogativi esistenziali che si pongono i membri della famiglia. Per questo motivo le demenze sono state definite malattie familiari. La comparsa di una grave malattia irreversibile provoca nei familiari la consapevolezza del progressivo deterioramento e prefigura l’esito definitivo, ovvero la morte. Con l’insorgere della malattia la famiglia quindi affronta un periodo di crisi, una transizione spesso graduale e progressiva che la conduce verso la radicale modificazione delle relazioni al proprio interno ma anche all ’esterno. Ad esempio, nel caso di un rapporto di coppia si modifica la relazione coniugale nel momento in cui uno dei due coniugi non è più in grado di svolgere e assumere la funzione di marito / moglie che aveva esercitato fino a quel momento, nel caso invece dei rapporti tra genitori e figli, i primi devono accettare l’idea di dipendere dai secondi i quali hanno il dovere di prendersi cura dei genitori sempre meno autonomi e sempre più bisognosi di assistenza. Ogni componente del nucleo domestico ed ogni famiglia che si ritrova di fronte alla necessità di prendersi cura di una persona malata di demenza, deve quindi rielaborare gli eventi, affronta il dolore, deve costruire schemi interpretativi attingendo alle proprie capacità di adattamento, alle proprie risorse, ai propri riferimenti valoriali. I familiari che si trovano di fronte alla sofferenza devono accettare la perdita, legata alla malattia che progredisce inesorabilmente. Pati afferma infatti che il lutto dovuto alla malattia è ancora più grave rispetto a quello derivante dalla perdita reale di un familiare in quanto, la malattia obbliga tutti i componenti del nucleo a confrontarsi con l’inevitabilità dell’esperienza umana. Da queste affermazioni si capisce perché nei familiari intervengano ben presto sentimenti contrastanti che vanno dalla speranza che il congiunto possa migliorare alla rabbia per i limiti da lui posti, l’angoscia per una condizione giudicata irreversibile e l’attesa che la morte ponga fine allo stato di disagio esistenziale. La famiglia e i singoli membri allora reagiscono in modi diversi: in alcuni casi rispondono in modo adeguato, in altri l’evento critico porta alla luce nodi problematici fino ad allora latenti e diviene quindi l’occasione per la riproposizione di antichi conflitti mai risorti. Gli elementi di vulnerabilità rischiano di diventare vere e proprie fratture, lacerando il tessuto delle relazioni domestiche. In altri casi invece le difficoltà che nascono possono trasformarsi in stimoli di crescita o di coesione familiare. La capacità di vivere la malattia dell’anziano come occasione di crescita e di evoluzione dipende dalle risorse che la famiglia può mettere in campo, il sostegno che può ottenere e il significato che l’evento della malattia assume nella storia familiare. 4. Compiti di cura e relazioni familiari I familiari, nei compiti di cura, incontrano difficoltà e manifestano bisogni fondamentali come il riconoscimento della loro funzione da parte del personale sanitario con cui sono in contatto, l’informazione e la conoscenza sulle attività da svolgere, sulla malattia e sui servizi, la formazione necessaria per far fronte ai problemi posti dalla malattia e il sostegno assistenziale, educativo e psicologico. Molto spesso le famiglie si assumono la responsabilità dell’assistenza con scarso aiuto e poca preparazione. Il rischio è che se la famiglia è abbandonata a sé stessa e isolata, vada incontro ad un processo di impoverimento e di emarginazione che si ripercuotono sull’anziano che rischia di diventare ancora più indifeso. La riflessione pedagogica può offrire il suo contributo nell’avvalorare le risorse relazionali interne ai singoli sistemi domestici, può promuovere una riflessione sull’età anziana e sulla malattia e sulla funzione educativa che entrambe possono avere per l’intero nucleo familiare. Inoltre, gli interventi educativi sono fondamentali per ridurre il livello di sofferenza familiare, ad avvalorare, potenziare le risorse e a prevenire eventuali fratture nel sistema relazionale. La presenza e la cura di un familiare affetto da demenza incidono profondamente sull’equilibrio dei singoli e sulle relazioni nel gruppo. I bisogni espressi dalla famiglia sono direttamente proporzionali alla percezione dei bisogni dell’anziano e alla gravità e alla tipologia dei sintomi espressi del malato. La famiglia, nei primi stadi della malattia, esprime la necessità di avere informazioni sugli aspetti medici e psicologici della malattia, sulle modalità di gestione del paziente e sulle ripercussioni che l’evoluzione dei sintomi potrà avere sul malato e sulla famiglia (la famiglia esprime la necessità di ottenere informazioni sugli aspetti medici e psicologici della malattia). Segue poi il bisogno psicologico in riferimento ai vissuti emotivi e ai bisogni affettivi e d’intervento sulle relazioni familiari. Infine, si manifesta il bisogno di condividere con altri i propri vissuti legati all’evoluzione della malattia, ai cambiamenti delle relazioni familiari e alla difficoltà quotidiane concrete legate all’assistenza. Sono le donne in particolare a manifestare il bisogno di avere informazioni. È necessario poi attuare percorsi educativi di aiuto alla famiglia, tali da potere fornire le informazioni necessarie per affrontare la malattia e offrire sostegno a chi è impegnato nella cura e nell’assistenza. La malattia infatti è un evento che si ripercuote sul singolo e sul sistema familiare nella sua complessità, a livello cognitivo, emozionale e relazionale. Le indagini sui bisogni dei familiari inoltre, mettono in luce la necessità di identificare nuovi modelli d’intervento e nuovi servizi di consulenza e di formazione per la famiglia dell’anziano demente. 5. Il sostegno educativo alla famiglia del malato d’Alzheimer Un utile sostegno educativo alla famiglia può essere dato dalle iniziative di formazione rivolte ai familiari per incrementare le conoscenza relative alla malattia e al suo trattamento, per favorire la conoscenza delle possibilità d’intervento e della rete dei servizi a cui la famiglia può rivolgersi, per aumentare la capacità di gestire le difficoltà e i problemi che si presentano, attivando le risorse necessarie, per ampliare la consapevolezza delle potenzialità, per favorire la discussione e il confronto sulle questioni legate al carico di assistenza e alle sue ripercussioni sulla vita familiare. Le ricerche dimostrano infatti come un adeguato programma di formazione sulla gestione dei disturbi di comportamento del paziente sia in grado di ridurre in modo significativo lo stress dei caregiver. • All’inizio, quando il dolore irrompe nella vita dell’uomo, si tende a negarlo, si fa di tutto per aggirarlo (sbagliato perché bisogna abbandonarsi al dolore ed imparare ad accettare la propria debolezza) • I primi tempi successivi alla morte sono contrassegnati dal senso di solitudine. Il suo insorgere è suscitato e alimentato dalla mancanza di ciò che il partner ha rappresentato sotto l’aspetto relazionale e affettivo. Il coniuge di scopre emotivamente fragile, tende a idealizzare il defunto ecc. • Con il trascorrere del tempo, alla solitudine subentra la malinconia mista a struggente nostalgia per quanto si è vissuto e per quanto si sarebbe potuto vivere insieme. • Dopo i primi mesi che seguono la morte del coniuge, il partner superstite è chiamato ad un vero e proprio lavoro di ricostruzione esistenziale. Deve essere quindi presente la capacità soggettiva di fare leva sulle risorse personali. Queste capacità possono essere classificate nel seguente modo: fiducia in sé stessi che presiede la nascita di nuovi interessi, motiva l’interrogazione del fatto luttuoso e dei segni ad esso collegati sia in riferimento a sé stessi che all’ambiente. Per quanto riguarda invece l’interpretazione dell’esistenza ne consegue che avviene una ricostruzione personale il cui impegno affonda le radici nella grammatica del vivere della persona. Il sistema axiologico di riferimento si delinea allora come vera e propria chiave di volta del complessivo cammino di ricostruzione dell’identità personale. Esso permette di dare senso alle circostanze della vita aiutando la persona ad accettarle anche nella loro drammaticità. 3. Riformulazione dell’azione educativa Al necessario processo di cambiamento personale si collega anche l’impegno a modificare la propria posizione come genitore. L’iniziale situazione di smarrimento esistenziale provocata dalla morte del coniuge motiva l’insorgere di una forma d’inadeguatezza educativa nella conduzione delle relazioni con i figli. Guidarli, orientarli e aiutarli nelle scelte diventa fonte di preoccupazione profonda, aggravata dal fatto di dover imparare a gestire da soli i rapporti con i medesimi nel quotidiano. Le difficoltà quindi sono molteplici e presentano diverse sfaccettature. Nei primi tempi i figli sono percepiti come un dovere e di conseguenza, è necessario provvedere verso una propria ridefinizione della funzione educativa e anche alla rielaborazione del progetto familiare. • Riformulazione della funzione educativa di genitore = passo che ci compie prima di riorganizzare il progetto riguardante tutta la famiglia. La morte del coniuge si mostra come elemento idoneo a spronare il vedovo a riconsiderare il proprio ruolo genitoriale all’insegna della precarietà. Proprio per questo il genitore è indotto a impegnarsi maggiormente per sostenere i figli nel processo di crescita di maturazione, deve cioè intraprendere un vero e proprio cammino di ridefinizione della funzione educativa che svolgeva. Inoltre, deve rimodulare i propri interventi specifici alla luce del contributo che avrebbe potuto dare il coniuge deceduto. • Rielaborazione del progetto familiare = passo successivo alla riformulazione della funzione educativa di genitore. La revisione del progetto familiare avviene anche con l’aiuto dei figli, soprattutto se questi sono in età avanzata. 4. Il lento superamento del dolore: necessità di sostegno e cura educativi Oltre alla componente valoriale il superamento del dolore esige processi di sostegno e di cura. Galli a questo proposito affermava che il coniuge ha bisogno di avere vicino persone atte a lenire la sua sofferenza con l’ascolto, la partecipazione e il conforto. Quando sarà riuscito a vincere la costernazione potrà stimolare i figli a dissipare la comune tristezza, a non perdere la stima di sé, degli altri e della vita. Il sostegno offerto può essere affettivo o spirituale, di natura materiale e chiama in causa specifiche componenti relazionali: • Relazioni familiari profonde con eventuali figli = la presenza della prole costituisce un fattore non trascurabile di accettazione e di comprensione della morte del coniuge. Nelle persone vedove c’è la tendenza a rinforzare i legami parentali, anche per farsi strada in un maggiore senso di responsabilità verso i figli che a loro volta, attivano atteggiamenti di protezione verso il genitore presente. L’esistenza di un profondo legame parentale favorisce il superamento del dramma familiare e nel genitore il reperimento dei modi migliori attraverso i quali spiegare ai figli il mistero del coniuge. • Rapporti intensi con i parenti prossimi = l’evento drammatico della morte del coniuge è superato meglio se si ha la possibilità di fare riferimento alla rete estesa dei parenti. A questi viene infatti chiesto sostegno specialmente in caso di vedovanza precoce. Da parenti prossimi e amici è importante ricevere solidarietà materiale (es. disbrigo delle pratiche e dei doveri burocratici amministrativi) ma anche spirituale (capacità di comprensione del proprio dolore e della propria situazione di solitudine. Può essere espresso sia con il silenzio che con l’ascolto. Si richiede poi la capacità di comunicare in maniera empatica). • La solidarietà spirituale aiuta a introdurre il tema della cura = forma di sostegno emotivo e affettivo – spirituale intenzionalmente orientato all’latro, con lo scopo di suscitare nel soggetto un movimento di auto recupero esistenziale (capacità soggettiva di riprendere ad aver cura di sé). Ci deve quindi essere l’ascolto empatico dell’altro, l’agire come se si fosse l’altro per aiutarlo meglio a identificare vie risolutive del problema personale. L’ascolto è infatti una delle carezze positive che più sono apprezzate in quanto essere ascoltati lascia la calda percezione d’essere preso in considerazione. Il prendersi cura e la capacità di intervenire con umanità a favore dell’altro non è un dato spontaneo ma, qualcosa che poggia su un processo di educazione nel quale, la proposta e l’assunzione di valori e di regole morali diventa fondamentale (Bauman credeva nello stretto rapporto tra la capacità di una società di prendersi cura di chi si trova in una condizione di bisogno e inabilità e il livello di umanizzazione della società medesima). La cura dilata il proprio raggio d’azione per assumere in sé, ed agire su di esse, le tre dimensioni temporali di passato – presente e futuro. Il passato rappresenta la radice dell’essere individuale, la memoria del suo vivere quindi educare la persona è aiutarla a fare tesoro delle sue esperienze e delle sue radici. Il presente esprime la consapevolezza soggettiva di esistere ora, qui, adesso e quindi il percepirsi come facente parte di un tempo dato. Infine, il futuro costituisce il non ancora, il non dato, l’incognita esistenziale. Di conseguenza, educare l’uomo significa aver cura, spronarlo ad aprirsi con fiducia al futuro, ad avvertire la propria vita come compito a cui attendere con responsabilità, a sperare in un domani migliore. Nell lavoro di cura può essere intravista una sequenza di azioni: • L’avere cura si manifesta come intervento teso a liberare la persona da eventuali sensi di colpa per essere rimasti in vita • La cura donata deve aiutare il sofferente a urlare il proprio dolore, a protestare contro il destino avverso • La relazione di cura deve sollecitare a credere ancora nella vita, in Dio, nel bene indipendentemente dalla sofferenza avvertita nel tempo presente, poiché credere e sperare ancora nella vita significa accettare il cambiamento verificatosi con la perdita della persona cara. Solitamente, la relazione di cura è attivata da persone con le quali il vedovo ha intrecciato da tempo un rapporto di profonda amicizia. 5. Coltivare la speranza favorire il learned hopefulnes, ovvero la fiducia nelle proprie possibilità così da permettere alla famiglia di trovare in sé stessa la strada per modificare la propria esistenza. 4. Sviluppare le competenze della famiglia Uno dei compiti specifici dell’educatore è incrementare e sostenere il cambiamento del sistema delle relazioni domestiche affinché la famiglia ricostruisca un nuovo equilibrio relazionale al proprio interno e nel rapporto con il contesto sociale, muovendo dalle proprie risorse. Il sostegno educativo è un processo di aiuto che sollecita le potenzialità educative presenti nel gruppo familiare. L’operatore entra in rapporto con la famiglia per rilevare le difficoltà che incontra e le potenzialità esistenti, non offre le sue parole o le sue idee per dare soluzione ai problemi del nucleo familiare anzi, coglie nella ricerca e nel linguaggio di quest’ultimo elementi significativi da avvalorare. Mentre aiuta la famiglia in difficoltà a comprendere e superare i problemi che la allontanano dal raggiungimento delle mete prefissate, la incoraggia a intraprendere un cammino in cui mettere in gioco le proprie risorse e compiere scelte consapevoli. Attuare una pedagogia dell’empowerment significa coltivare nella famiglia bisognosa il senso di autoefficacia nella sua possibilità di contrattazione nelle situazioni di difficoltà. Acquisendo potere e consapevolezza, porta la famiglia a sviluppare maggiore responsabilità, così da raggiungere un adeguato livello di autostima e da riuscire a superare il vissuto d’impotenza. PARTE QUARTA: LA FAMIGLIA NELLA RETE SOCIALE CAP. 1 – Famiglia e altre istituzioni educative: quali possibilità d’incontro? A causa della dimensione relazionale che la contraddistingue, la famiglia, per poter vivere all’insegna del benessere personale e comunitario, ha bisogno di avviare e coltivare continui scambi con il contesto ambiente. La famiglia si delinea infatti come un sistema aperto, nel quale l’equilibrio relazionale conseguito è sempre dinamico. Si ha quindi a che fare con una concezione della famiglia come realtà complessa, permanentemente votata alla conquista di un equilibrio interno ed esterno, capace di ricercare possibilità di mediazione tra gli ideali educativi a cui si ispira e i condizionamenti provenienti dallo spazio socio – politico – economico – culturale nel quale è situata. 1. La famiglia come elemento di filtro, mediazione, proposta educativa La famiglia è produttrice di cultura educativa infatti, non solo si alimenta di contributi proveniente dall’esterno ma, incrementa lo spessore ambientale del territorio circostante. Il suo funzionamento poggia sul bagaglio conoscitivo di cui sono portatori i coniugi, i quali rinnovano e rimodulano principi, regole, norme ecc. Essi sono poi influenzati dalla comunità circostante soprattutto nei loro modi di organizzare e di gestire le funzioni. L’educazione domestica in questo senso deve cercare un giusto equilibrio tra l’adesione a queste influenze e mantenere la propria cultura. Anche gli stessi figli, intrecciando legami all’interno e all’esterno della famiglia, diventano co – costruttori della cultura educativa, la quale viene definita cultura situata in quanto è qualificata da un certo luogo e da specifici soggetti interagenti che tra di loro costruiscono criteri interpretativi della realtà circostante, definendo nel tempo la propria soggettività operativa. Si tratta quindi di una cultura educativa originale. La realtà familiare, sotto l’aspetto pedagogico – educativo, è chiamata ad interagire con tutti quegli ambiti di esperienza che nel nostro tempo assumono precise caratteristiche o preoccupazioni di natura formativa. Si osserva come il rapporto tra famiglia ed altri ambienti educativi chiama direttamente in causa l’istituzione scolastica, la quale detiene un indiscusso primato d’intervento, giustificato dalla trasmissione del sapere codificato e dal riconoscimento socio – politico – economico – culturale della sua azione. Scurati affermava infatti che era necessario un ripensamento del ruolo della famiglia e dei suoi rapporti con le altre istituzioni, in primo luogo la scuola, così da armonizzare il principio della centralità della responsabilità educativa dei genitori. Tutti gli incontri e gli scontri in questo senso derivano quindi dal desiderio della famiglia di accostare il proprio figlio ad un ambiente esperienziale che concorra al miglioramento del processo di arricchimento personale del figlio. L’attenzione dei genitori verso la scuola e le varie istituzioni extrascolastiche infine, deve essere letta anche come risultato dell’investimento educativo verso il figlio, diventato sempre più prezioso. 2. Presupposti pedagogici Il primo presupposto è evidenziabile nell’esigenza di tornare a riflettere su chi detiene il diritto / dovere all’educazione dei minori. La carta costituzionale è chiara al riguardo infatti, l’art. 30 asserisce che esso appartiene alla famiglia. Il secondo presupposto è identificabile nell’esigenza della progettualità educativa, che sta a significare il coinvolgimento della famiglia nell’elaborazione di progetti da parte delle varie realtà scolastiche ed extrascolastiche e il confronto tra i progetti elaborati lungo la linea del perseguimento della coerenza educativa tra le istituzioni del territorio. È indispensabile allora dare sviluppo alla corresponsabilità progettuale degli enti educativi, in modo da esaltare la specificità dei singoli interventi nella complessiva strategia di rete predisposta. Il terzo presupposto invece è dato dalla necessaria tutela della specificità istituzionale in riferimento agli obiettivi educativi perseguiti. Occorre quindi uno sforzo per mettere in luce il contributo educativo che le singole istituzioni territoriali possono offrire al divenire personale e comunitario. I servizi devono allora essere predisposti e attivati seguendo il principio di adeguarsi nel modo migliore ai reali bisogni della fascia di popolazione presa in considerazione. Infine, il quarto presupposto scaturisce dall’urgenza di definire modalità comunicative, che si costituiscano come armonizzazione didattico – metodologica delle varie realtà educative e dei saperi di cui esse sono portatrici. I presupposti pedagogici descritti sono gli elementi di base in virtù dei quali mirare al concretamento nella comunità locale di un efficace sistema formativo integrato o di una proficua rete educativa. 3. La famiglia snodo vitale della rete educativa La rete si qualifica come strumento metodologico idoneo a mettere in luce precise peculiarità, conformemente agli elementi presi in esame. Proprio per questo può esser esaminata da diversi angoli di visuale come per esempio le istituzioni che la costituiscono, gli attori che in essa agiscono, le modalità di funzionamento dei legami intrecciati ecc. Questo avviene soprattutto quando parliamo di rete educativa, la quale indica quel tessuto interistituzionale e interumano contraddistinto da evidenti, formali e intenzionali preoccupazioni di cura, sostegno e orientamento dei soggetti a cui si rivolge o di cui si fa carico. Occorre allora esaminarla alla luce di due elementi: • Il primo è costituito dall’antropologia di riferimento = lo sfondo concettuale dove colloco le mie riflessioni è quello di stampo personalista, che giova ad esaltare il valore della persona e il valore della comunità. In quest’ottica il bene personale e il bene comune procedono di pari passo. • Il secondo elemento consiste nella convinzione che la rete educativa vada sempre concepita in riferimento all’ampio mondo socio – culturale in cui essa si struttura. Parlare di famiglia come snodo vitale della reta educativa significa allora interrogarsi circa la possibilità che essa si delinei come luogo idoneo a permettere alle varie istituzioni territoriali di operare in modo autonomo e originale, mentre mantengono stretti collegamenti tra loro proprio in virtù del rapporto intrecciato con la famiglia. La prospettiva del personalismo pedagogico permette di stimare la famiglia come sistema di legami dinamici, vitali, contraddistinta dalla peculiarità dei suoi rapporti interni ed esterni. La famiglia deve quindi essere esaltata per la forza educativa delle relazioni che è capace d’intrecciare con i propri membri e con l’ambiente circostante. Le relazioni che intercorrono nella famiglia infatti la rendono un luogo esclusivo per la crescita della persona. La caratteristica fondamentale della famiglia è quella di essere luogo animato da valori e uno spazio privilegiato per la piena umanizzazione dei soggetti. esposto al flusso dinamico delle interazioni e alle mutazioni che tali interazioni producono. Questo significa che, affinché il sistema comunità educante possa evolversi in modo armonioso è necessario che concorrano attivamente tutte le sue parti per eliminare il rischio di derive che indeboliscano il valore formativo e trasformativo della comunità stessa. Per garantire le condizioni di sussistenza ed evoluzione della comunità, le relazioni devono quindi essere considerate come l’elemento costituente e propulsore: bisogna avere cioè particolare cura di questo ingrediente, coltivandolo in modo strutturale ed intenzionale, ma anche vivendone fino in fondo tutta la ricchezza di sfumature passando anche attraverso la gestione del conflitto. Insieme alla capacità dialogica, l’educatore deve allora coltivare una disposizione riflessiva, atta a rendere l’incontro non solo uno scambio di informazioni e di significati che permettano di conoscere l’altro, ma anche un’occasione per interrogare i propri impliciti pedagogici, assumere consapevolezza della missione del servizio e della cultura educativa che lo caratterizza. 4. Costruire l’alleanza educativa tra nido e famiglia: pratiche di dialogo tra culture educative Nell’integrazione delle specificità relazionali, la comunità educante non costituisce tanto il dato di partenza del servizio quanto piuttosto l’orizzonte progettuale in cui si compongono la complessità e la pluralità degli stili educativi. Coltivare la relazione con padri e madri in modo personalizzato e continuativo pone le premesse per la costruzione di un rapporto di fiducia tra gli adulti. La riflessione pedagogica ha conferito una rilevante importanza all’alleanza tra educatrici e genitori, relazione che rappresenta il punto di partenza del percorso di esplicitazione e messa in comune delle rispettive culture educative. La spontaneità e l’immediatezza di momenti quotidiani designano quella continuità che rende l’incontro tra genitori ed educatori un evento costante nella giornata di ciascuno. Inoltre, il valore educativo e relazionale insito nei momenti informati si sostanzia anche di incontri più intenzionali in cui si mettono a confronto le storie e le rappresentazioni, i saperi e le pratiche di cura che ne derivano, con l’obiettivo di far convergere questo patrimonio pedagogico in una progettualità educativa in cui educatrici e genitori si fanno co produttori. Le educatrici sono quindi chiamate a coltivare una cultura del dialogo e della partecipazione delle famiglie, come linfa vitale per far maturare il servizio, inteso come sistema in relazione con altri sistemi. La partecipazione può infatti dare vita ad aiuti concreti da parte dei genitori ad iniziative formali di riflessione educativa da parte del servizio, ad incontri di informazione sulla vita del nido. 5. E il bambino? Intendere il nido come contesto educativo d’incontro tra le culture educative degli adulti non significa spostare l’attenzione pedagogica dalla centralità del bambino. Educatrici e genitori compiono questa avventura relazionale in virtù della presenza dei bambini e la fiducia reciproca tra adulti funge da sostegno alla crescita armonica dei piccoli. L’impegno è volto cioè a creare occasioni di confronto e dialogo riflessivo per dar forma ad una cultura dell’infanzia più complessa e consapevole. Quando l’universo simbolico familiare e quello del nido si pongono in dialogo, il bambino stesso riceve uno sguardo più complesso ed articolato in cui trovano voce le molteplici potenzialità evolutive. Attraverso l’osservazione e la documentazione effettuate dalle educatrici, i genitori possono prendere atto delle competenze inaspettate dei propri figli, della loro capacità di adattamento ad un contesto extra familiare, della sensibilità o determinazione che manifestano nel rapporto con i coetanei, delle conquiste verso l’autonomia che hanno saputo realizzare. Mettendo in parola e confrontano i pensieri e le azioni di cura attuate dai genitori e che ruotano intorno ai bambini si dà vita ad uno sforzo ermeneutico di accostamento al percorso di crescita del bambino che può essere così sostenuto non solo dal singolo ma da una comunità. Fattore sostanziale che rende possibile la costruzione e lo sviluppo di questa prospettiva comunitaria è allora la dimensione partecipativa infatti, un bambino che percepisce questo senso di appartenenza nelle esperienze che vive al nido, attraverso l’azione educativa delle educatrici e la partecipazione attiva dei genitori, sperimenta quei vissuti emotivo – affettivi di cui ha profondamente bisogno per coltivare quella disposizione alla ricerca del bene comune che solo l’implicazione in una storia e in un progetto condiviso può generare. CAP. 3 – La formazione docente per la co – costruzione di nuove reti con la famiglia Tema nuovo in quanto, la formazione del docente solo negli ultimi anni è stata investiga sul piano della professionalità docente e delle competenze principali da possedere per individuare i bisogni educativi e formativi, le lacune, i talenti e le potenzialità degli studenti e, nella scuola dell’autonomia anche i traguardi di competenze. In particolare la formazione docente ha riguardato l’analisi dell’intreccio tra modello pedagogici e cambiamenti dei sistemi scolastici in virtù dei dispositivi legislativi. Questo perché la partecipazione della scuola alla vita non passa solo attraverso la famiglia ma anche attraverso i docenti che per questo motivo devono essere sempre preparati e competenti. 1. La dimensione storico – teoretica La figura del docente è stata condizionata fortemente dalla dimensione storica e politica nel ventennio fascista, configurandosi principalmente come trasmissione dell’ideologia dominante al popolo che, doveva essere indottrinato alle tre parole ideologiche del regime ovvero credere, obbedire e combattere per la nazione, per la patria attraverso l’educazione, intesa come strumento di propaganda e controllo. Nel 1954 si attua però una svolta con l’esempio della scuola militante e grazie a figure significative come Washburne il quale si fece promotore di un rinnovamento della scuola nei suoi programmi della scuola italiana che doveva defascistizzarsi, introducendo nei suoi programmi della scuola elementare, il rappresentante dei genitori ritenuto figura centrale per la co – educazione degli studenti. Tali programmi introdussero poi anche il consiglio degli insegnanti – genitori, il consiglio di direzione e altre indicazioni per promuovere la scuola laboratorio di democrazia, dato che l’uomo aveva un’idea di scuola come comunità sociale i cui membri cooperavano responsabilmente tra loro per raggiungere il benessere degli alunni / studenti. Per 40 anni tuttavia la scuola fu organizzata secondo il modello gentiliano, di stampo burocratico e centralista in cui alla famiglia era affidato un compito subalterno e di rappresentanza non partecipata. Altro punto critico è che non fu facile implementare un nuovo modello questo perché l’idea di fondo era che, anche se la famiglia in astratto possedeva la capacità potenziale di educare, questo non significava che la famiglia in concreto sia educativa. Non è detto quindi che ogni famiglia in quanto tale abbia la piena irreversibile capacità di educare. La scuola solo con il tempo riuscì ad assumere funzioni e compiti nuovi sia a livello didattico – curricolare – organizzativo sia per quanto riguarda la gestione delle relazioni con i genitori o con le altre agenzie educative non formali. A distanza di anni, precisamente nel 1975 Santoni Rugiu avanza l’idea di una formazione sociale della scuola e dell’università dove insegnanti devono autogestirsi una formazione, un aggiornamento, mentre i genitori potranno partecipare a livello di distretto partecipando a questa opera. Si tratta della prospettiva dei decreti delegati. Nonostante ciò, ancora oggi notiamo nella scuola italiana un’autentica partecipazione attiva e deliberativa dei genitori. 2. I modelli di riferimento Negli anni ’70 la scuola viene concepita come comunità educativa ed educante, mentre solo negli anni ’90 si profila l’idea di scuola come sistema formativo integrato. Di conseguenza la scuola, dal 1923 ad oggi, subisce notevoli cambiamenti sul piano legislativo, organizzativo, didattico e curricolare che hanno condizionato il rapporto docenti e genitori. Con l’emancipazione dei decreti delegati del 1974 la scuola si trasforma, profilando un modello organizzativo che fa capo al sistema naturale. In base a questo modello la struttura assembleare degli organi collegiali sorge in funzione di una società che si interfaccia con la scuola, dando così luogo al superamento del sistema naturale per dare spazio a modelli di scuola Il rapporto tra scuola e famiglia è oggetto di riflessione e ricerca a livello internazionale. Lo studio del rapporto tra le due istituzioni ha prodotto teorizzazioni anche molto distanti tra loro: ricercatori, associazioni, genitori, docenti ecc. mostrano concezioni diverse circa il ruolo, le funzioni, i diritti e le responsabilità da attribuire ai soggetti coinvolti nei processi educativi delle nuove generazioni. 1. Il sistema scolastico pensato secondo l’ideologia di mercato: il neoliberismo Il rapporto scuola – famiglia sembra essersi radicalmente trasformato nel tempo, sulla scia dei mutamenti socio – culturali ed economici che hanno attraversato in nostro paese e l’Europa. Ieri, i docenti incontravano i genitori che possedevano un livello di istruzione e professionale inferiore al loro, genitori che riconoscevano l’autorevolezza dell’insegnante come qualcosa di legittimo e indiscutibile. Oggi, le famiglie costituiscono una realtà eterogenea, in quanto molti genitori possiedono livelli di istruzione pari a quelli dei docenti. Agli inizi del processo di scolarizzazione di massa, lo Stato per mezzo della scuola, si assume la responsabilità dell’educazione delle nuove generazioni. i genitori non sono quindi considerati all’altezza del compito educativo. Le famiglie riconoscono alla scuola e ai suoi docenti una competenza che non osano discutere. Negli anni ’60 gli ideali di un’uguaglianza, partecipazione e democrazia interessano anche il rapporto famiglie – istituzione scolastica e si traducono in norme che sanciscono la presenza dei genitori all’interno del sistema educativo. Negli anni ’80 – ’90 il formalismo partecipativo si fa strada tra le famiglie. Nel corso della fine del ventesimo secolo invece, nella scuola dell’autonomia si affermano i principi di cooperazione e di corresponsabilità, anche se è l’ideologia neoliberista ad avere la meglio. Quest’ultima introduce i criteri propri del mercato in tutti i settori della società, anche in quello educativo – formativo inoltre, individua nella soddisfazione del cliente l’obiettivo di ogni buon servizio. Tuttavia, l’estensione del pensiero neoliberista al sistema scolastico non ha fatto altro che aggravare le diseguaglianze di status e i fenomeni di segregazione sociale già esistenti. Si accentua la frattura tra genitori che appartengono alla classe medio – alta e coloro che abitano altro mondi per i quali l’istruzione rimane una realtà inaccessibile e incomprensibile. Assoggettamento (genitore passivo), partenariato e soddisfacimento sembrano essere le tre principali forme adottate oggi dai genitori nel rapporto con l’istituzione scolastica. Questo evidenzia come siano sempre meno i genitori disposti a partecipare alla vita della scuola come cittadini. 2. L’educare: un territorio dai confini labili e un processo dagli esiti incerti Secondo Bakhtin non è l’oggetto di una relazione ciò che stabilisce la forma e la struttura della stessa, bensì al contrario è quest’ultima a definire l’oggetto della relazione. Leggere il rapporto scuola – famiglia da questa prospettiva significa interrogarsi su quale sia la natura della relazione che si stabilisce tra le due istituzioni. L’oggetto che convoca la scuola e le famiglie alla relazione è il processo educativo – formativo delle nuove generazioni. Tale processo è estremamente delicato e coinvolge innumerevoli elementi. L’oggetto / soggetto dell’incontro tra genitori e scuola è il figlio / studente, la sua formazione, educazione e istruzione. Si tratta di un processo di natura sistemica in cui sono coinvolti innumerevoli fattori che danno vita ad un gioco di reciproci influssi, i cui esiti non possono essere previsti con certezza. La prospettiva da cui la scuola guarda all’educazione / istruzione delle nuove generazioni è di tipo socio – politico mentre, la famiglia ha uno sguardo più personale – affettivo. Il coinvolgimento parentale nella vita della scuola porta con sé benefici sia per lo studente e per i genitori sia per la scuola e per l’intera comunità. La relazione tra le due agenzie educative costituisce un nodo critico in qualche modo irrisolto. 3. Quale corresponsabilità tra famiglia e scuola? La famiglia assicura la trasmissione della cultura, delle tradizioni e dei valori, di un sistema di norme coerenti che garantiscano lo sviluppo dell’identità e l’autonomia del nuovo nato in forme congruenti con quelle riconosciute dal sistema sociale più ampio. La scuola rappresenta la prima istituzione pubblica che i nuovi nati incontrano e con la quale sono chiamati a confrontarsi in modo sistematico e prolungato. Essa costituisce anche lo spazio pubblico in cui i bambini sperimentano la differenza che connota la società multiculturale. La famiglia incarna la dimensione dell’intimità, dell’affettività. La scuola incarna l’autorità paterna, la norma impersonale. Le due istituzioni sono strutturalmente diverse, tuttavia entrambe le istituzioni condividono i compiti connessi con i processi di socializzazione del nuovo nato, primario e secondario. Co responsabilità educativa – famiglie e scuola sono chiamate a rispondere insieme ai bisogni di crescita e formazione delle nuove generazioni. l’esercizio della responsabilità richiede la capacità di osservare, di progettare e di reperire i mezzi per l’attuazione del progetto elaborato. Si tratta di saper osservare l’educando per coglierne i bisogni, le attitudini e le potenzialità, e di saper gettare lo sguardo in avanti per progettare percorsi educativi atti a promuovere la miglior forma di vita. La progettualità educativa deve quindi essere coerente. Data la complessità del compito educativo e la molteplicità dei fattori coinvolti, è essenziale che vengano definiti alcuni aspetti cruciali: • Un quadro formativo chiaro che indichi tempi, modi, strumenti e risorse a cui attingere per l’attuazione pratica • Percorsi formativi per docenti e genitori per promuovere le competenze necessarie alla pratica della co responsabilità • Percorsi multipli di partenariato offerti alle famiglie per favorirne il coinvolgimento nel rispetto dell’unicità di ciascuna di esse Affinché la co responsabilità diventi lo sfondo del rapporto scuola – famiglie, è necessario che le persone chiamate a collaborare possiedano una forte motivazione alla partecipazione e all’esercizio condiviso della responsabilità educativa, una buona conoscenza di sé, competenze comunicativo – relazionali, capacità di mediazione e gestione dei conflitti, competenze cooperative e conoscenza del linguaggio e della cultura dell’istituzione nella quale si è chiamati ad agire. Perseguire e praticare la co responsabilità educativa nel contesto di un rapporto basto sulla reciprocità richiede una grande maturità personale e una forte competenza professionale. 4. Per non concludere Il rapporto tra scuola e famiglia è esposto all’evoluzione socio – economica e culturale della società. Questo significa che se la scuola è refrattaria al cambiamento, la fenomenologia familiare parla di realtà che anticipano i cambiamenti legislativi. La scuola sembra ancora vivere nel passato mentre, le famiglie abitano il presente. CAP. 5 – La famiglia affidataria come risorsa della comunità locale Per cambiare il corso degli eventi e noi stessi, è necessario coltivare valori comunitari quali la fiducia, la responsabilità e la solidarietà. 1. Il benessere solidale L’accogliere nella propria famiglia un minore in affidamento si configura come evento di solidarietà fra le persone e le famiglie, nell’ottica del bene che le generazioni si interscambiano. La famiglia è il luogo dell’apprendimento ad essere, lungo un percorso esteso che attraversa tutta la vita. Insieme alle famiglie, naturale ed affidataria, insieme al minore, le persone che rappresentano competenze sociali, professionali e personali andranno a costruire un tessuto vitale in cui ogni bambino possa incontrare spazi, tempi e relazioni per raggiungere l’integrità del suo essere persona (i servizi sociali diventano quindi una struttura supportiva non solo normativa e regolativa). 2. La cura del minore risorse umane, sociali e materiali oppure la convinzione di etica sociale o ispirazioni di natura valoriale o religiosa. La coppia e la famiglia affidataria hanno bisogno di supporti psico – sociali ed associativi per una elaborazione consapevole dei propri bisogni impliciti e della loro esplicazione, al fine sia di rendere stabile e valido il rapporto con il bambino affidato sia di migliorare sé stessi, la propria percezione ed autorappresentazione. Ci domanda poi quale possa essere la connotazione sociale dei genitori affidatari, cioè se esprimono una declinazione del volontariato solidale o del volontariato professionale (legge 266 del 1991 che definisce l’attività di volontariato come quella prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà). Le famiglie affidatarie rappresentano una risorsa conoscitiva a valenza sociale. La loro esperienza, il confronto, le relazioni con istituzioni o figure professionali si esprimono come un capitale che completa ed arricchisce il capitale sociale, in un circolo vitale del donare. CAP. 6 – Neogenitori nelle reti virtuali: tra isolamento e modelli culturali La famiglia come spazio di relazioni sociali è un ambito ampliamente esplorato. Le relazioni familiari, di amicizia o di vicinato possono infatti dar forma ad intrecci significativi per il contesto sociale. Con un senso di appartenenza dell’ambiente di vita e con la progressiva consapevolezza del proprio ruolo attivo, le famiglie sono in grado di promuovere benessere familiare e in forma indiretta, coesione e capitale sociale. Nelle famiglie, le transizioni indicano periodi di cambiamento che si succedono nel tempo e che tra una fase e l’altra sollecitano a riformulare i ruoli e le funzioni dei suoi membri. La ricerca segnala e dimostra come la gravidanza e l’accesso alla genitorialità vengono considerati eventi stressanti che comportano modifiche più profonde per i membri, rispetto a qualsiasi altro stadio della vita familiare. La transizione alla genitorialità rappresenta una fase della vita particolarmente delicata per l’uomo e la donna, carica di cambiamenti e alla ricerca di nuovi equilibri da rintracciare tra le aspettative l’assunzione di nuovi compiti. L’accesso alla genitorialità implica un adattamento dinamico e suppone una co creatività che deriva dalla coesione di tre dimensioni a loro volta inserite in un determinato contesto culturale, infatti avere un bambino comporta per la coppia molte trasformazioni nelle ruotines e nelle relazioni. 1. Accesso alla genitorialità, isolamento e reti sociali Uno degli aspetti determinanti per la genitorialità è quello di supporto. Influenza positivamente il processo di aggiustamento nell’acquisizione dei ruoli genitoriali la predisposizione di risorse da parte del capitale sociale identificato nella rete sociale di amici, genitori, vicinato ecc. Il sostegno sociale precipito un ruolo di protezione a livello psicologico e diverse forme di tale sostegno, esercitate dal partner, dalla famiglia d’origine, da amici o da operatori, si sono rivelate pertinenti proprio durante il periodo perinatale. Molte donne, a seguito della nascita del loro bambino, riferiscono enormi cambiamenti circa gli stili di vita, le abitudini e il riscontro è un adattamento non immediato, riconducibile a difficoltà e problemi. Sebbene l’antropologia richiami la dimensione sociale della prima nascita in qualità di evento che coinvolge l’intera comunità, ai giorni nostri i genitori sembrano trovarsi in una condizione di isolamento più profondo e appaiono disarmati di fronte al loro bambino. Le cause di questa tendenza possono essere ricondotte alle mutevoli circostanze che interessano l’esperienza della genitorialità dell’epoca post moderna. L’isolamento familiare dei genitori si configura allora attraverso due forme: • Isolamento geografico = può ridurre la possibilità di ricevere sostegno concreto e aiuto materiale • Isolamento relazionale = esito di un’assenza di prossimità e di contatti, in particolare di tipo intergenerazionale Se lo stile di vita contemporaneo rende più difficile la possibilità di un sostegno quotidiano e ravvicinato nelle forme e nelle modalità attraverso cui era stato offerto alle generazioni precedenti dalle loro famiglie, tra i neogenitori non sembra venire meno il bisogno di ricevere informazioni e condividere esperienze. È vero infatti che per molte donne e uomini, l’accesso alla genitorialità si verifica oggi in condizioni totalmente diverse rispetto alle generazioni che le hanno precedute: i genitori si affacciano allora all’esperienza della nascita con un certo disorientamento e qualche timore. Accanto alle modalità tradizionali di relazione un’attenzione specifica sta emergendo nei confronti di altre forme di contatto tra le persone che, sebbene non sostituiscano la comunicazione face to face o i meccanismi di sostegno più tradizionali (famiglia, amici ecc.), sono utili per integrarli fornendo una risorse aggiuntiva. Le recenti ricerche sull’impiego di internet da parte dei genitori nella fase di attesa, riferiscono una frequentazione sempre più massiccia delle reti virtuali. La letteratura scientifica inizia allora a considerare l’importanza e l’impatto esercitato dai social network nel processo di transizione alla genitorialità. Attraverso questi strumenti, i neogenitori possono stabilire contatti con facilità, per ricevere una qualche forma di sostegno senza essere legati in relazioni impegnative. Internet offre una tipologia di rapporto non certo intimo, ma di ampia portata e per lo più sotto forma della disponibilità di informazioni. 2. Neogenitori nella rete? Sebbene i nuovi genitori non dispongano di molto tempo e siano sopraffatti dalle nuove responsabilità, non sembrano rinunciare all’impiego degli strumenti on line che vengono impiegati per una grande varietà di scopi, ad esempio la comunicazione, la ricerca di informazioni, il commercio e lo svago. La rete si configura sempre di più come spazio sociale che, permette di frequentare luoghi praticati e potenzialmente interconnessi tra loro. Nella rete la dimensione relazionale è rilevante poiché, le informazioni non sono solamente trasmesse, ma condivise e messe a disposizione in contesti di relazioni. Alcune motivazioni alla base della frequentazione da parte dei genitori dei luoghi della rete sono: • Costruire, comunicare e rinforzare l’identità genitoriale = la rete offre spazi di presentazione dell’identità personale • Essere in relazione = la rete può diventare anche il mezzo per testimoniare la propria vita, raccontare esperienze di tutti i giorni, i cambiamenti e le difficoltà • Informazione, opinion making, impegno civile = nella rete il soggetto è impegnato a giustificarsi, ad assumere i suoi propositi e a costruire un’immagine coerente di sé stesso, delle sue testimonianze e delle sue idee • Pratica di scrittura = la scrittura nella rete è fondamentale perché facilita una presentazione controllata e coerente di sé da parte del soggetto e gli attribuisce una nuova posizione, ovvero quella di autore 3. La rete: tra rappresentazioni dominanti e nuovi stereotipi La mancanza di una rete informale costruita dalla famiglia o del vicinato per la custodia dei bambini, il venir meno di un supporto emotivo e di aiuto nei momenti successivi al parto e del rientro a casa sono tutte condizioni che possono suscitare in alcune neo mamme un vissuto di isolamento. In assenza di un sostegno familiare immediato, i genitori cercano di trovare supporto alternativo da altre persone, non strettamente appartenenti alla cerchia familiare. Emerge inoltre, la difficoltà di molte madri a sviluppare un solido senso di sé nel nuovo ruolo genitoriale a cui si aggiunge un diffuso senso di perdita nei confronti di quella acquisita prima della nascita del proprio figlio. Le esigenze di confronto e di condivisione sociale espresse dalle neomamme trovano risposta nell’esperienza del mommyblogging. Si delinea così un bisogno di individuare uno spazio di accolgienza della loro voce in qualche forma di legittimazione della loro esperienza. La scrittura del mommyblogging esercita una funzione politica, dal momento che essa contrasta la pressione esercitata sulle madri dal fenomeno denominato new momis, espressione che indica un movimento contemporaneo che si esprime Si lavora in sostanza nell’ottica di un sistema formativo integrato adottando uno sguardo progettuale in grado di promuovere il benessere familiare nel quadro più generale del benessere comunitario. Il terreno da cui ripartire per un esercizio difficile ma concreto di responsabilità educative può quindi essere quello di una riflessione teorica che non cancelli il problema dell’adattamento ma che lo consideri come una delle polarità del condizionamento. 2. Il progetto educativo familiare nella società complessa Le scelte educative che i membri di una famiglia intraprendono possono ripercuotersi anche sui significati di educazione e famiglia che i membri condividono. Queste scelte avvengono all’interno di un panorama sociale e politico per cui su di esse, incidono diverse variabili come l’estensione della rete di cui la famiglia fa parte e le politiche previste in ambito educativo, assistenziale, lavorativo ecc. A queste variabili si aggiungono fenomeni come le strategie di marketing e l’utilizzo diffuso dei media. Nel senso comune questi aspetti vengono rilevati come poco incidenti sulle scelte familiari, in ambito sociologico e psicologico, invece, se ne evidenziano le correlazioni con gli stili educativi della famiglia. Tuttavia, la preoccupazione che la pervasività dei media possa alterare i margini della libertà dei bambini non può ritrovare una possibile difesa nell’immagine di una famiglia che vede gli adulti in grado di controllare tutte le esperienze dei bambini. Ma che tipo di famiglia si può immaginare per riconoscere un margine di libertà ai suoi membri? Ve ne sono più di un tipo, anche se presupposto condiviso da queste possibili famiglie è la capacità di aver percezione degli eventi e di giudicarlo criticamente. Prima degli interventi pedagogici, si doveva informare la famiglia sugli eventi che la coinvolgevano. Affinché tra famiglia e società vi sia sussidiarietà, questo necessita di una cultura educativa nelle e per le famiglie, in grado di orientare l’intervento educativo sia di genitori sia di educatori. Oggi la persona è sollecitata molto dalla macchina del marketing che sospinge a credere che si è felici quanto più si consuma. Gli adulti potrebbero insegnare a comprendere l’economia globale ma potrebbero anche fare educazione, pensare insieme ai bambini, vivere le contraddizioni e le difficoltà di attuare una scelta libera in una società che tenta di minare le autonomie, sia degli adulti che dei bambini. Nussbaum riconosce in una crescita positiva e in una buona istruzione la possibilità per i bambini di trovare contatto empatico con gli altri, in grado di combattere stereotipi e deformazioni di pensiero a cui spingono alcune immagini sociali. Il modello formativo ipotizzato amplia la proposta di vivere relazioni empatiche anche con gli adulti, per coinvolgere la famiglia nel suo insieme. La responsabilità educativa delle famiglie si esplica quindi quando le scelte condotte all’interno del gruppo familiare riescono ad inserirsi nel più vasto panorama politico – sociale ed in qualche modo puntano a combatterne le deformazioni. 3. Cultura e marketing dei servizi educativi per la prima infanzia Tra le diverse scelte educative che una famiglia può intraprendere vi è la possibilità di accedere ad uno dei servizi per la prima infanzia. Mancando di un’idea precisa del tipo di educazione intrapresa, per servizio si intenderebbe quindi chi meglio può avere in custodia il bambino quanto i genitori non possono farlo. Secondo queste logiche, molti reputano più efficienti i nonni che, gratuitamente, per l’affetto che nutrono per i nipoti, con molta probabilità ne avranno cura almeno nella stessa misura per i loro genitori. Nel caso in cui i nonni non fossero disponibili si valuta la possibilità di accedere ad uno dei servizi presenti sul territorio. Le prime questioni che gli adulti affrontano nell’approccio ad un servizio rivolto alla prima infanzia non riguardano le scelte educative ma, piuttosto l’attenzione è rivolta al tipo di servizi presenti sul territorio, alle alternative possibili ed alle esigenze lavorative da conciliare. Anche le condizioni economiche incidono molto sulla scelta del servizio e possono condurre a logiche di valutazione basate sul metodo del miglior servizio al minor prezzo. Avventura del nido I pargoli di Ravenna, conosciuto per essere stato il primo nido che offriva un servizio innovativo ai genitori ovvero l’osservazione diretta delle attività attraverso telecamere connesse in rete. Lo scopo delle telecamere era offrire sicurezza e trasparenza nei confronti delle istituzioni e delle stesse famiglie. Tuttavia, l’istallazione di telecamere nella struttura venne dichiarato illecito dall’autorità garante della privacy in quanto non era possibile trattare le immagini dei minori iscritti al nido perché si violavano i principi di necessità e proporzionalità. Nonostante ciò molti genitori proposero una petizione nella quale facevano appello alla necessità di sorvegliare le attività degli educatori perché solo così si sarebbe potuta garantire l’incolumità fisica dei bambini. Le telecamere diventano allora lo strumento che determina l’alleanza educativa e che quindi rende lecita ogni invadenza perché fa sentire i genitori sicuri di aver fatto la scelta giusta. Nell’attuale realtà multiproblematica e complessa, solo un progetto pedagogico di ampio respiro può essere in grado di favorire la crescita globale del soggetto – persona e di contrastare le paure e le incertezze di una società che sembra aver smarrito il suo orizzonte di senso. CAP. 8 – L’esigenza di una politica educativa con e per la famiglia Gran parte della pubblica unione, partiti politici e molteplici settori scientifico – culturali manifestano un certo interesse per la famiglia, a prescindere dal tipo di legame su cui essa poggia. Sotto l’aspetto pedagogico va ribadito che la politica familiare, per poter risultare valida, non può prescindere da una sua qualificazione pedagogico – educativa. Gli elementi necessari per l’elaborazione di una politica familiare possono essere compendiati nei seguenti tre: avvaloramento della famiglia come luogo educativo primario, coinvolgimento delle famiglie nel processo di elaborazione culturale e di attuazione della politica familiare e correlazione della politica familiare con la comunità locale. 1. Avvaloramento della famiglia come luogo educativo primario Oggigiorno da più parti è reclamata l’ideazione di piani e programmi politici, che aiutino la famiglia a riprendere consapevolezza di tutte le proprie funzioni, quindi dei propri diritti ma anche dei propri doveri, da assolvere nei molteplici settori di vita, lungo la via del benessere personale e comunitario. Una politica educativa a favore della famiglia è nell’interesse di tutti coloro i quali hanno a cuore l’andamento democratico della società. È opportuno sottolineare che una politica familiare è da fondare sulla ferma attenzione al valore della persona, di là dalle differenze ideologiche qualificanti le diverse forze politiche. La tutela della famiglia come spazio di vita primario stabile e operativo non esige semplicemente un rafforzamento di tipo economico. Postula infatti il ripristino di particolari valori morali. La pedagogia può dare suggerimenti al riguardo, ad esempio preoccupandosi di mettere in risalto che la stessa erogazione di aiuti economici alla famiglia è da intraprendere in conformità a una precisa concezione dell’uomo, del mondo e della vita. essa può anche sollecitare coloro che hanno compiti di gestione del potere in modo da mettere l’accento di temi precisi: • Preparazione delle varie generazioni alla famiglia • Responsabilità e capacità propositiva della famiglia circa le iniziative socio – politiche da avviare • Sostegno all’impegno della famiglia per l’educazione dei soggetti in essa agenti • Diretto coinvolgimento della famiglia nel processo di gestione / sviluppo del contesto sociale in cui è situata Anche la costituzione con l’art. 29, 30 e 31 riconosce l’intangibilità del bene – famiglia e il diritto / dovere dei genitori di mantenere, istruire ed educare i figli, assegnando allo stato l’obbligo di offrire provvidenze adeguate. Sotto l’aspetto pedagogico – educativo è da auspicare che le varie forze pratiche procedano all’elaborazione di una politica educativa della e per la famiglia. • Auspicare una politica educativa della famiglia significa schierarsi per la pianificazione / programmazione di un definito piano di interventi, che sostenga il compito educativo familiare. Questa prospettiva impone di possibilità di associazione, di socializzazione, di collaborazione, di solidarietà, di vicendevole promozione e di aiuto reciproco. • Terza riflessione = le strutture socio – educativo – assistenziali oggigiorno, risultano fortemente autocentrate, non idonee a stabilire rapporti di collaborazione tra loro e la comunità civile. Sorge allora la richiesta di strutturare i servizi socio – educativi – assistenziali secondo una logica di tipo integrativo. Un tale modo di intendere la questione induce a sviluppare una duplice inversione di tendenza: • Modificazione dei metodi d’intervento pubblico in campo socio – educativo – assistenziale. Si rende necessario non solo prestare attenzione a gruppi familiari particolari ma, anche e soprattutto ai bisogni di tutta la comunità locale, concepita come sistema integrato di famiglie. Si invoca la costante attenzione dei responsabili politici, amministrativi e degli operatori per le conseguenze derivanti dalle iniziative intraprese in un certo settore operativo. • Collegamento dei servizi pubblici con gli interventi non istituzionalizzati a cui danno origine gruppi di famiglie o di persone animate dal valore della solidarietà sociale. L’ente pubblico non può e non deve fare tutto quindi, ha bisogno di assecondare l’iniziativa del privato sociale, garantendo al medesimo gli strumenti e i mezzi per partecipare alla gestione di problemi comuni. Occorre adattare strategie d’intervento che promuovano forme di decentramento molto più spinte di quelle fin qui in voga e che prevedano modelli flessibili nella distribuzione dei fondi al posto delle politiche fin qui dominanti, contraddistinte dall’impostazione di programmi rigidi e uniformi. 4. L’educazione al matrimonio e alla famiglia Il tema della preparazione al matrimonio e alla vita familiare non può essere più ignorato da parte dello stato e degli enti locali. Sino ad ora esso è stato prerogativa della Chiesa, ma è giunto il tempo di affrontarlo con grande serietà e impegno anche in ambito laico, mettendone in risalto la dimensione pedagogica – educativa. Motivi di questo progetto sono: Il primo motivo concerne la piena attuazione della Carta fondamentale della Repubblica, la quale riconosce in maniera esplicita la validità in sé del matrimonio e della famiglia. I pubblici poteri hanno il diritto/dovere di coltivare e difendere tali istituti, specialmente presso le nuove generazioni. Il secondo motivo riguarda il fatto che il matrimonio e la famiglia sono anche realtà sociali. La loro riuscita o il loro fallimento hanno dirette ripercussioni nel campo della civile convivenza. Il terzo motivo si collega alle aspettative di soggetti di differente età, sesso, classe sociale. • Educazione dei giovani al matrimonio e alla famiglia = nel nostro paese non esiste alcuna iniziativa pubblica di avviamento al matrimonio e al mestiere di genitore. Di conseguenza è necessario un coinvolgimento dei pubblici poteri nel processo di educazione delle nuove generazioni al matrimonio e alla famiglia. Finalità dei corsi per fidanzati = essi non sono affatto vissuti come risorsa o come occasione di cui la coppia può giovarsi per mettere a fuoco i propri progetti e le proprie scelte ma, spesso sono percepiti come obbligo, a cui bisogna sottostare nel tempo in cui si decide di effettuare il grande passo dell’unione matrimoniale. Un cammino educativo ben impostato può aiutare invece i giovani a capire il livello di sviluppo e come si sta evolvendo la relazione intrecciata. L’organizzazione dei corsi = i corsi sono degli incontri con la singola coppia, gestiti da persone sensibili e attente alla dimensione comunicativa. Con tali incontri individuali è opportuno mirare a coltivare nei giovani il significato del vincolo matrimoniale, sia civile che religioso. L’importante è che i corsi facciano progredire la coppia. I contenuti del corso = i contenuti devono subire le necessarie variazioni a seconda dei livelli della coppia. Si possono progettare corsi di primo e secondo livello. Con i partecipanti a corsi di primo livello si privilegiano i momenti di riflessione sui problemi legati alle motivazioni per crescere come persona e come coppia. Con i partecipanti a corsi di secondo livello invece, il discorso acquista caratteristiche più precise. I fidanzati si aspettano risposte chiare dal corso frequentato. È importante allora che tutti i contenuti del corso siano ispirati dalla preoccupazione di mettere in luce valori di umanità, indispensabili per tutti i tipi di unione. La figura dell’adulto ha un ruolo fondamentale da svolgere: non deve imporre le proprie idee ed opinioni, ma interrogare i futuri sposi nel profondo, suscitando nei medesimi l’attenzione verso la vita e verso ciò che dà senso alla vita. Il giovane va posto davanti a suoi diritti ma anche ai suoi doveri, mettendo fine a quella sorta di zona franca, quasi sempre da identificare con la casa paterna. Da parte della comunità locale si esigono precise iniziative lungo la via della diffusione di una vera e propria cultura della vita matrimoniale e familiare. Spetta ai pubblici poteri programmare adeguate linee di politica economica, che facilitano l’ingresso dei giovani nel mondo del lavoro. • Educazione degli adulti al matrimonio e alla famiglia = l’idoneità al ruolo di coniuge non è prerogativa esclusiva di nessun ceto sociale né si correla in modo lineare al livello culturale dei soggetti interessati. Affinché l’educazione al matrimonio e alla famiglia si svolga nella prospettiva dell’educazione permanente dei genitori, occorre che i gestori del potere pubblico esaltino la famiglia come luogo primario di vita e di educazione, la cui azione formativa non è surrogabile da altri enti e istituzioni. I corsi di formazione per genitori si mostrano come una delle poche forme di aiuto, se non l’unica, alla famiglia. L’educazione dei genitori va così sempre acquistando la caratteristica di un intervento intenzionalmente strutturato attraverso il quale si vuole aiutare i coniugi ad assumere maggiore consapevolezza delle loro responsabilità educative, a fare leva sulle loro potenzialità e attitudini educative. Occorre predisporre delle vere e proprie scuole per i genitori organizzate secondo ferme direttive pedagogiche per mirare al perseguimento di diversi obiettivi: diffondere presso i genitori una cultura pedagogica per mezzo della quale aiutare i medesimi all’assunzione di consapevolezza del fascino e della responsabilità dell’educare, far comprendere che la formazione dei figli è compito primario dei genitori e favorire la messa in comune di problemi concernenti la vita familiare.
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