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Riassunto libro Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento, Sintesi del corso di Storia dell'Arte Moderna

Riassunto libro Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento al pc

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

In vendita dal 05/02/2023

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Scarica Riassunto libro Pittura ed esperienze sociali nell'Italia del Quattrocento e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Arte Moderna solo su Docsity! Pittura ed esperienze sociali nell’Italia del Quattrocento – Michael Baxandall 1. Le condizioni del mercato 1. Un dipinto del XV secolo è la testimonianza di un rapporto sociale. Da un lato c’era il pittore che eseguiva o sovrintendeva l’esecuzione e dall’altro qualcuno che lo commissionava fornendo denaro e dopo decideva che uso farne. Chi ordinava, pagava e stabiliva l’uso era il “mecenate”, o per meglio dire il “cliente”. Nel XV secolo la pittura di migliore qualità era fatta su commissione – per le pale d’altare e gli affreschi veniva stipulato un contratto legale. Il rapporto alla base del dipinto era un rapporto commerciale. Il denaro influiva sui criteri di spesa: i criteri per stabilire i prezzi e le diverse forme di pagamento hanno un’incidenza sullo stile dei dipinti per come li vediamo noi oggi. Inoltre, i dipinti erano progettati a uso del cliente. Rucellai suggerisce 4 motivazioni ed esigenze principali per cui si commissionavano certe opere → “m’anno dato un grandissimo chontentamento e grandissuma dolcezza, raghuardano in parte all’onore di Dio, all’onore della città e a memoria di me”. Un quinto motivo è che l’acquisto di oggetti di questo genere procura il piacere e il merito di spendere bene → spendere per abbellire il patrimonio monumentale pubblico era un giusto risarcimento alla società. Un sesto elemento che Rucellai non cita direttamente ma che deduciamo è un elemento di piacere nel guardare i bei dipinti. Comunque, l’uso primario del dipinto era quello di essere osservato, di fornire quindi stimoli piacevoli, indimenticabili e proficui. L’elemento importante è che nel XV secolo la pittura era ancora troppo importante per essere lasciata ai pittori. Il Quattrocento fu un periodo di pittura su commissione e per questo il libro tratta del particolare ruolo svolto dal cliente. 2. Filippo Lippi ci parla in delle lettere con Giovanni di Cosimo de Medici di un trittico destinato a re Alfonso V di Napoli, dicendo “io feci quanto m’imponesti della tavola” e a fine lettera fornisce uno schizzo del trittico secondo il progetto, per cui chiede in particolare l’approvazione. Non esisteva all’epoca differenze tra opere ad uso pubblico e ad uso privato, in quanto anche le commesse di privati erano destinate a luoghi pubblici. Il pittore, di solito, veniva assunto e controllato da una persona o da un piccolo gruppo; lavorava quindi per qualcuno di chiaramente identificabile, che aveva promosso il lavoro, scelto l’artista, aveva uno scopo ben preciso e seguiva l’esecuzione del dipinto dall’inizio alla fine. Lo scultore invece lavorava per lo più per grandi imprese comunali, quindi era meno esposto del pittore. La lettera di Filippo Lippi è un caso utile per comprendere il peso dell’intervento del cliente. Ci sono una serie di documenti legali che riportano gli elementi essenziali relativi al rapporto alla base di ogni dipinto. Non c’era tutta via una forma fissa nemmeno all’interno di una stessa città. Un accordo meno atipico fu quello stipulato tra Domenico Ghirlandaio e il proprie dello Spedale degli Innocenti a Firenze, si riferisce all’Adorazione dei Magi. Contiene i 3 temi principali di questi tipi di accordo: 1. Specifica ciò che il pittore deve dipingere, con l’impegno a eseguire il lavoro sulla base di un disegno concordato 2. È esplicito per modi e tempi di pagamento da parte del cliente e i termini di consegna 3. Insiste sul fatto che il pittore debba usare colori di buona qualità, specialmente l’oro e l’azzurro ultramarino. Le istruzioni circa il soggetto non entrano in genere nei particolari. Contratto di Pietro Calzetta che dipinse gli affreschi nella Cappella Gattamelata in Sant’Antonio a Padova: si stabiliscono gli stadi del dipinto. Il donatore stabiliva i soggetti, poi il pittore eseguiva un disegno e sulla base di quello si sarebbero date ulteriori istituzioni e una volta finito, stabilito se fosse accettabile. Il pagamento di solito veniva effettuato attraverso una somma forfettaria versata a rate, ma talvolta le spese del pittore erano distinte dal suo lavoro. In ogni caso le due voci di spesa e l’opera del pittore erano la base per calcolare il pagamento. Se un pittore si fosse trovato in perdita si sarebbe potuto rinegoziarlo. Il contratto del Ghirlandaio insiste sui colori di buona qualità e in particolare sull’azzurro ultramarino: dopo l’oro e l’argento, l’azzurro ultramarino era il colore più costoso e difficile impiegato usato dal pittore. Il pubblico era molto attento a tutto questo e la connotazione di esotismo il pericolo dell’ultramarino era un modo per evidenziare qualcosa nei dipinti, cosa che noi oggi non notiamo. Anche nei contratti si insiste particolarmente sulla differenza degli azzurri. L’importanza viene espressa attraverso una sfumatura viola più o meno intensa. Ciò che regolava il carattere del mecenatismo nel Quattrocento era la pratica commerciale documentata a contratti e nel corso del secolo si verificano graduali cambiamenti nel porre l’accento su un particolare piuttosto che su un altro. Ciò che era importante nel 1410 poteva esserlo meno nel 1400 o viceversa. Mentre i colori preziosi perdono il loro ruolo di primo piano, la richiesta di abilità pittorica assume maggior rilievo. 3. Nel corso del secolo si parla sempre meno nei contratti dell’oro e dell’azzurro ultramarino, sono posti meno al centro dell’attenzione e l’oro viene sempre più riservato alla cornice. I clienti iniziano a badare meno all’esigenza di fare sfoggio di fronte al pubblico. Il ruolo meno rilevante dell’oro nei dipinti fa parte di una tendenza generale in tutta l’Europa occidentale dell’epoca verso una sorta di limitazione selettiva dell’ostentazione che si manifesta anche in altri comportamenti. Anche negli abiti, ad esempio, si stava abbandonando l’oro a favore del nero di Borgogna. L’abbandono dell’oro fu causato da varie ragioni: la mobilità sociale che aveva il problema di doversi distinguere dal vistoso nuovo ricco, la netta diminuzione di disponibilità d’oro nel XV secolo e un disgusto classico per le licenze sensuali. Questa limitazione rimaneva legata all’oro e non fa parte di un abbandono complessivo dell’ostentazione, si spostava di orientamento ma continuava. Nei contratti l’importanza del colore fu sostituita dall’importanza dell’abilità tecnica del pittore. Il punto nodale nel primo Rinascimento era la distinzione tra il valore del materiale prezioso e il valore attribuito all’abile uso dei materiali. La dicotomia tra qualità del materiale e qualità dell’abilità tecnica dell’artista era la discussione che ricorreva più frequentemente. Ci si basava su tale distinzione per determinare il prezzo di un dipinto come di un qualsiasi altro manufatto. Un dipinto veniva basato in base a questi due elementi: materiali e manodopera, materia e abilità. C’era una netta e insolita corrispondenza tra il valore attribuito all’elemento teorico e quello pratico. 4. Il cliente accorto aveva degli strumenti per trasferire il suo denaro dal materiale all’abilità tecnica, richiedendo ad esempio dei paesaggi invece che la doratura. Un contratto poteva persino specificare ciò che il cliente aveva in mente per i suoi paesaggi. Un altro modo era attribuire un valore diverso al tempo del maestro rispetto a quello degli assistenti, si pagava il tempo e a parte i materiali. Si poteva spendere molto di più se una parte spropositata del dipinto veniva eseguita direttamente dal maestro di bottega. In alcune clausole si fa riferimento al fatto che nell’esecuzione delle figure, generalmente più importanti e difficili degli sfondi, l’apporto personale del Filippino doveva tradursi in un più ampio e diretto intervento della mano del pittore. Questo era un modo di concepire l’ampiezza che l’intervento personale del maestro doveva avere nella realizzazione di progetti di dimensioni molto grandi. Il cliente conferisce lustro al suo dipinto non con l’oro ma con la maestria, con la mano del maestro in persona. Verso la metà del secolo il fatto che l’abilità pittorica veniva pagata a caro prezzo era cosa ormai nota. Il cliente del XV secolo faceva coincidere sempre di più le sue manifestazioni di ricchezza con l’acquisto di abilità. Le persone illuminate che acquistavano l’abilità, spinte dalla consapevolezza che l’individualità dell’artista diventava sempre più significativa, erano abbastanza numerose da far sì che nel 1940 l’atteggiamento del pubblico verso i pittori fosse diverso da quello di inizio secolo. 5. Esaminando vari documenti possiamo osservare che vi erano diversi modi per impiegare il denaro nell’abilità anziché nei materiali: chi pagava più delle raffigurazioni, chi l’intervento diretto del maestro. Quando il dipinto era destinato a fare una certa impressione, l’abilità doveva essere ben chiara e riconoscibile. I contratti non ci dicono con quali caratteristiche specifiche dovesse manifestarsi l’abilità e non abbiamo nemmeno testimonianze relative alla reazione del pubblico. dolore e nella coppia di figure si combinano due aspetti della reazione emotiva. Una fonte più utile e autorevole ci viene dai predicatori, attori dotati di notevoli capacità mimiche con una gamma di gesti codificati, non specifici per l’Italia. Trattando lo stesso argomento dei predicatori, nello stesso luogo dei predicatori, i pittori inserivano nel dipinto le espressioni fisiche del sentimento secondo lo stile usato dai predicatori. I gesti erano utili per diversificare una serie di santi, spesso servivano a introdurre nella raffigurazione di un gruppo un ulteriore elemento che ne arricchisse il significato narrativo. Un altro caso raffinato e importante è la Primavera di Botticelli: Venere qui non sta battendo il tempo per la danza delle Grazie, ma ci invita con la mano e con lo sguardo nel suo regno. Rischiamo di non cogliere il gesto del dipinto se non interpretiamo nel modo corretto il gesto. Bisogna saper percepire anche una certa differenza tra gesto religioso e gesto profano. 7. Nelle storie una figura interpretava la sua parte ponendosi in relazione con le altre e nella composizione dei gruppi e negli atteggiamenti il pittore era solito suggerire rapporti e azioni. Gli stessi soggetti erano spesso rappresentati anche in drammi sacri di vario genere, tranne che nelle città. Le descrizioni che noi abbiamo delle sacre rappresentazioni spesso sottolineano la loro dipendenza da effetti spettacolari che hanno poco a che fare con la raffinata suggestione narrativa del pittore. Le rappresentazioni delle storie nelle strade sembrano più vicine alla pittura perché l’elemento verbale vi aveva scarso rilievo. Il pittore lavorava per sfumature: sapeva che il pubblico aveva elementi per riconoscere, con dei piccoli suggerimenti da parte sua. La sua opera era di solito una variante sul tema noto al fruitore sia attraverso altri dipinti che grazie alla meditazione privata e alla pubblica esposizione da parte dei predicatori. Le figure dei pittori rappresentavano la loro parte con ritegno e questo modo attenuato di rappresentare i rapporti fisici fece crescere una più rozza tradizione popolare di immagini di gruppi e di gesti. Altra attività del XV secolo abbastanza simile alla composizione dei gruppi in pittura da permetterci di comprenderli un po’ più a fondo è la danza, in particolare la bassa danza. Si trattava di un’arte a sé e i danzatori erano concepiti e classificati in gruppi di figure. Inoltre, il parallelo tra danza e pittura sembra sia esso stesso imposto alla gente del Quattrocento. La forma della danza è sempre quella delle due figure laterali che dipendono da quella centrale. La sensibilità rappresentata dalla danza richiedeva al pubblico una capacità di interpretare schemi di figure. 8. I personaggi rappresentati non venivano stabiliti in base a modelli relativi a gente reale, ma in base a modelli desunti dall’esperienza di gente reale. Le figure dei pittori e il loro ambiente erano anche dei colori e delle forme molto complesse e il bagaglio culturale del XV secolo non era in tutto e per tutto uguale al nostro. Riunire i colori in serie simboliche era un gioco tardo medievale ancora in uso nel Rinascimento. Sant’Antonio e altri elaborarono un codice teologico: bianco – purezza, rosso – carità, giallo/oro – dignità e nero – umiltà. Alberti e altri riguardo agli elementi: rosso – fuoco, blu – aria, verde – acqua, grigio – terra. I simbolismi legati ai codici non sono importati in pittura, anche se ci sono a volte elementi che vi corrispondono. C’era però una sensibilità alle tinte che permetteva al pittore di usarle per porre qualcosa in evidenza. Considerazioni di Alberti sulla combinazione dei colori: capiamo che le parole non erano il mezzo con cui gli uomini del XV secolo esprimevano il loro senso del colore. 9. L’istruzione a Firenze all’epoca si studiava una matematica di natura commerciale strutturata sulle esigenze del mercante ed entrambe le nozioni sono profondamente insite nella pittura del Quattrocento. Una di queste è la misurazione: le merci sono arrivate regolarmente in contenitori di misura standard solo a partire dal XIX secolo, prima ogni contenitore era unico e calcolare il suo volume in modo rapido e preciso era essenziale negli affari. Il legame tra pittura e misurazione, come ci dice Piero della Francesca, era estremamente concreto. Il pubblico colto inoltre aveva queste stesse nozioni geometriche per guardare i dipinti. Un modo, infatti, di soddisfare la terza richiesta della Chiesa al pittore è stimolare l’uso della vista nella sua speciale qualità di immediatezza e forza. Nelle sue manifestazioni pubbliche il pittore dipendeva di solito dalla generale attitudine del suo pubblico a misurare. È una consapevole tendenza a ridurre delle masse e dei vuoti irregolari a combinazioni di corpi geometrici calcolabili. 10. Matteo Palmieri, nel suo trattato ‘Sulla vita civile’ raccomandava lo studio della geometria per rendere più acute le menti dei bambini. Lo strumento aritmetico universale usato dai mercanti italiani colti nel Rinascimento era la Regola del Tre, anche nota come Regola Aurea o Chiave del Mercante e rappresentava il modo in cui il Rinascimento trattava i problemi della proporzione. Riguardava calcoli come l’allevamento, la mediazione, lo sconto… calcoli che all’epoca erano essenziali. La difficoltà non era nella formula in sé ma nel ridurre un problema complesso in formula. Lo studio delle proporzioni del corpo umano era qualcosa di sommario in termini matematici rispetto a ciò a cui erano abituati i mercanti. Siccome le persone dell’epoca avevano una certa pratica nell’avere a che fare con le proporzioni e nell’analizzare il volume o la superficie di corpi composti, erano sensibili ai dipinti che portavano i segni di tali processi. Il ruolo attribuito a queste capacità nella società era un incoraggiamento per il pittore a divertirsi a inserirle nei suoi dipinti e, come possiamo constatare, egli non esitava a farlo. Era proprio per questa ‘profusione’ di abilità che il mecenate lo pagava. 11. Ci sono due generi di letteratura devota nel Quattrocento che forniscono degli accenni su come si possa arricchire la percezione dei dipinti: secondo il primo la vista è il più importante dei sensi e le delizie che l’attendono in cielo sono grandi. Il De deliciis sensibilibus paradisi di Bartolomeo Rimbertino, stampato a Venezia nel 1498, è un resoconto completo su questi argomenti che distingue tre tipi di progressi rispetto alla nostra esperienza visiva di esseri umani: una maggior bellezza delle cose viste, una maggior acutezza del senso della vista e un’infinita varietà di oggetti da osservare. La maggior bellezza sta in tre particolari: luce più intensa, colore più chiaro e miglior proporzione; la maggior acutezza della visione comprende una maggior capacità di fare distinzioni tra una forma o un colore e un altro e la capacità di vedere sia a grandissima distanza che attraverso i corpi. Molta gente del Quattrocento inoltre era piuttosto abituata all’idea di applicare la geometria piana al più ampio mondo delle apparenze perché gli veniva insegnato per misurare gli edifici e gli appezzamenti di terreno. Rimane una nota di incertezza sullo stile conoscitivo del Quattrocento, ma sicuramente molti dipinti del XV secolo lasciavano spazio a un certo tipo di esercizi per persone che guardavano le opere con un occhio morale e spirituale. 3. Dipinti e categorie 1.Nel Quattrocento esisteva la tipica figura dell’uomo d’affari che andava in Chiesa e danzava, come era del resto Lorenzo de Medici, che corrisponde alla figura dell’umanista civile. In sostanza nel Quattrocento tra coloro che pagavano i dipinti nessuno era del tutto privo di religione, educazione e affari. Entriamo nel problema dello stile conoscitivo del Quattrocento e troviamo un poema pubblicato da Francesco Lancillotti nel 1508 in cui il pittore viene esortato; i termini ‘virile’, ‘proportione’ e ‘angelica’ riferiscono i dipinti a sistemi di analisi tipici della persona ben educata, del mercante e del credente a cui egli attingeva. È molto utile leggere un breve testo di Cristoforo Landino, il miglior critico d’arte del Quattrocento prendendo in esame i sedici termini impiegati da Landino per descrivere quattro pittori fiorentini, alcuni specificatamente pittorici che ci diranno cose che probabilmente anche i non pittori sapevano sull’arte e altri tratti da un discorso più ampio che ci diranno qualcosa circa le più generali origini degli schemi del giudizio del Quattrocento. Questi termini ci consentiranno di avere un solido bagaglio culturale quattrocentesco per guardare i dipinti di quel secolo. 2. Quali erano i pittori che spiccavano sulla massa? La pittura del Trecento è stata riassunta in modo chiaro da Cimabue, Giotto e gli allievi di Giotto, rispettivamente il profeta, il salvatore e gli apostoli della pittura – il Quattrocento non produsse mai uno schema altrettanto netto. Giovanni Santi, padre di Raffaello Sanzio produsse un componimento poetico nel quale si trova l’elenco più distaccato e ricco di informazioni generali in forma di cronaca rimata, che narra vita e gesta del suo datore di lavoro Federigo da Montefeltro, duca di Urbino. Qui viene dato in elenco in rima di altri grandi maestri di pittura, che ridotti a uno schema sono: Firenze: Beato Angelico, Paolo Uccello, Masaccio, Pesellino, Filippo Lippi, Domenico Veneziano, Andrea del Castagno, Ghirlandaio, Antonio e Piero Pollaiuolo, Botticelli, Leonardo da Vinci, Filippino Lippi. Olanda: Rogier van der Weyden, Jan van Eyck Marche: Piero della Francesca, Melozzo da Forlì, Cosimo Tura, Ercole de’ Roberti Venezia-Roma: Gentile da Fabriano, Pisanello Padova-Mantova: Mantegna Umbria: Perugino, Luca Signorelli Venezia: Antonello da Messina, Gentile Bellini, Giovanni Bellini Il maggior peso viene attribuito, come era logico, a Firenze – 13 dei 25 artisti italiani – ed è a Firenze che bisogna far capo per trovare la miglior critica. Abbiamo già incontrati quattro pittori dell’elenco di Santi (Botticelli, Filippino Lippi, Ghirlandaio, Perugino) nel rapporto dell’agente Milanese, vediamo ora le definizioni che Cristoforo Landino dà delle caratteristiche di altri quattro: Masaccio, Filippo Lippi, Andrea del Castagno e Beato Angelico. 3. Cristoforo Landino era uno studioso di latino e un filosofo platonico, esponente della lingua volgare e docente di poesia e retorica all’università di Firenze. era amico di Leon Battista Alberti, che aveva scritto il trattato De Pittura, di cui Landino fu chiaramente colpito e contribuì a rendere noti a un pubblico più vasto alcuni dei principali concetti del libro di Alberti. 4. Masaccio Masaccio nacque a San Giovanni Val d’Arno nel 1401 e fu ammesso all’Arte dei Pittori di Firenze nel 1422. Dipinse tra il 1423 e il 1428 due dei suoi capolavori: un affresco della Trinità in Santa Maria Novella e diversi affreschi nella cappella Brancacci in Santa Maria del Carmine. Nel 1426 dipinse anche un polittico per una cappella in Santa Maria del Carmine a Pisa. Verso la fine del 1428 andò a Roma dove morì poco dopo. a) Imitatore della natura: questa ‘imitazione del vero’ è nel Rinascimento di una portata unica. La natura e la realtà sono due cose diverse a meno che non se ne sia una precisa definizione – quale natura e quale realtà? si diceva che un pittore ‘rivaleggiava o superava la natura o la realtà stessa’ ed indica uno dei principali valori dell’arte del Rinascimento e il fatto che Masaccio sia l’unico dei pittori del Quattrocento a cui Landino attribuisce questa qualità fa pensare che avesse un significato. Anche Leonardo da Vinci parlò poco dopo di Masaccio come di un pittore autonomo verso libri che presentavano modelli e formule, in termini negativi. L’imitatore della natura è il pittore che si distacca dai libri che presentavano dei modelli con le loro formule e soluzioni precostituite per cogliere gli oggetti reali così come si presentano. Egli si basa sullo studio e sulla rappresentazione del loro aspetto reso proprio attraverso la loro prospettiva e il loro rilievo, una realtà riveduta e corretta e una natura selettiva. b) Rilievo: Masaccio è il principale esponente del rilievo. Alberti, che usa il termine per tradurre la parola latina ‘prominentia’ spiegava che questo è l’apparire di una forma modellata a tutto tondo, ottenuta trattando abilmente e discretamente i toni sulla superficie. Il termine era tecnico e proprio del linguaggio di bottega e Cennino Cennini lo usava nel suo trattato della pittura all’inizio del Quattrocento. Negli affreschi di Masaccio la luce piena e le ombre vengono percepite come forma solo quando si abbia un’idea chiara di dove venga la luce. Se non abbiamo questa idea perfino corpi complessi vengono visti come superfici piatte.
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