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Dinamica dei Gruppi Sociali: Status, Ruoli e Conflitto, Sintesi del corso di Psicologia Sociale

Sociologiapsicologia socialeAntropologia socialeComunicazione Interpersonale

La dinamica dei gruppi sociali attraverso il concetto di status, ruoli e conflitto. il concetto di status e la gerarchia che esiste all'interno dei gruppi, il ruolo e le differenze di ruolo nei piccoli gruppi, e i tipi di conflitto connessi alle differenze di ruolo. Viene anche distinta l'autorità e il potere dei leader e i loro stili di leadership.

Cosa imparerai

  • Come si misura lo status all'interno di un gruppo?
  • Quali tipi di ruoli esistono in un gruppo?
  • Come possono emergere conflitti di ruolo in un gruppo?
  • Come influiscono i leader sul comportamento e la produttività di un gruppo?
  • Che cos'è il concetto di status in un gruppo sociale?

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 14/01/2020

nicol9
nicol9 🇮🇹

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Scarica Dinamica dei Gruppi Sociali: Status, Ruoli e Conflitto e più Sintesi del corso in PDF di Psicologia Sociale solo su Docsity! PSICOLOGIA SOCIALE CAP. 3 LE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI Al di là dell’oceano nasceva e si imponeva la corrente della SOCIAL COGNITION in Europa si tentò di rivitalizzare la disciplina seguendo una strada diversa. Le tesi sostenute in quella sede si riallacciavano ai contributi culturali di LEWIN, ASCH e SHERIF per sostenere che la psicologia sociale non poteva essere considerata riduttivamente una branca della psicologia ma piuttosto una disciplina autonoma, ponte fra la psicologia e altre scienze sociali. La psicologia sociale dovrebbe occuparsi maggiormente di studiare la produzione dei legami sociali. Lewin scriveva che ciò che definisce un gruppo è l’INTERDIPENDENZA FRA I MEMBRI intesa in termini sia mentali sia ideali sia materiali. È in questo senso che la psicologia sociale può essere considerata una scienza sociale, il cui compito è quello di occuparsi dei fenomeni della comunicazione e dell’ideologia. 2. DA DURKHEIM A MOSCOVICI La nozione di rappresentazione è stata mutuata da DURKHEIM il quale sosteneva che i fatti sociali non possono essere spiegati in termini psicologici. Erano gli psicologi a doversi occupare delle RAPPRESENTAZIONI INDIVIDUALI mentre la sociologia era in grado di occuparsi delle RAPPRESENTAZIONI COLLETTIVE. Durkheim non fa che riecheggiare e amplificare l’insistenza con cui Wund aveva sostenuto che la psicologia dei popoli doveva essere considerata separata dalla scienza individuale e sperimentale. MOSCOVICI utilizza la nozione di RAPPRESENTAZIONI SOCIALI differenziandosi da Durkheim su 2 punti: 1. SPECIFICITA’ DELLA NOZIONE DI RAPPRESENTAZIONE SOCIALE – Moscovici propone di considerare le rappresentazioni sociali come un modo specifico di esprimente la conoscenza in una società e nei gruppi che la compongono  le rappresentazioni possono essere condivise da tutti i membri di un gruppo ampio e fortemente strutturato anche se non sono state elaborate dal gruppo stesso Il PROPRIUM di ogni rappresentazione sociale consiste nel fatto che è comunque elaborata da un gruppo per il quale l’oggetto di rappresentazione è socialmente rilevante. Il prodotto di tale elaborazione assume le caratteristiche di una conoscenza condivisa da tutti i membri del gruppo sotto forma di una TEORIA DI SENSO COMUNE. 2. STABILITA’ E FLESSIBILITA’ DELLE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI – Durkheim considera le rappresentazioni collettive come forze stabilizzatrici della realtà sociale esistente. Ma fa notare Moscovici, in una società aperta, pluralista gli universi simbolici sono molteplici e spesso tra loro contraddittori. Le teorie e le credenze non hanno vita sufficiente per sedimentarsi nella coscienza collettiva come tradizioni perché sono oscurate dall’imporsi di altri modelli che talvolta riprendono i precedenti ma pretendono di superarli. Le RAPPRESENTAZIONI SOCIALI SONO TEORIE. Moscovici preferisce parlare di RICOSTRUZIONE DELLA REALTA’ SOCIALE per 2 motivi: 1) perché per elaborare una rappresentazione sociale si parte sempre dal fenomeno percepito come rilevante o da una struttura materiale o intellettuale e non da un dato bruto, 2) perché questo rappresentare consiste nel ripetere o nel riordinare ciò che è già stato ordinato in un certo modo in altra sede o da qualcun altro. 1 3. PROCESSI GENERATORI DELLE RAPPRESENTAZIONI SOCIALI Sono 2 i processi da cui prendono origine le rappresentazioni sociali: l’oggettivazione e l’ancoraggio. - OGGETTIVAZIONE fa entrare la realtà percepibile, concreta, figurata, nei concetti e nei fenomeni che non sono familiari, ed è strettamente connessa con il processo di ancoraggio.  viene tratto dal concetto “strano” un nucleo figurativo che riproduce la struttura concettuale in modo visibile Es. il modello che nella rappresentazione sociale della psicoanalisi raffigura l’apparato psichico è diviso in due parti, il conscio (sta sopra) e l’inconscio (sta sotto), tra di esse si colloca una tensione che produce i complessi: conscio rimozione complessi inconscio l’oggettivazione della psicoanalisi è caratterizzata dalla ritenzione selettiva di alcune tra le informazioni sulla psicoanalisi e dalla decontestualizzazione di queste info che estrapolate dal discorso teorico iniziale possono essere riorganizzate liberamente in un’elaborazione specifica. Lo schema figurativo si concentra su alcune nozioni semplici e concrete una visione dello psichismo centrata sull’opposizione tra interno ed esterno, ciò che appare e ciò che è nascosto (conscio e inconscio), e sull’esistenza di un meccanismo nocivo (la rimozione) che è l’origine di tutti i mali (i complessi). Moscovici definisce naturalizzazione il processo attraverso cui i concetti diventano “categorie sociali sicure, idonee a ordinare gli avvenimenti concreti”, ciò che era concetto astratto diventa “entità” obiettiva: inconscio, complesso, rimozione acquisiscono una materialità quasi tangibile. La personificazione si riferisce all’associazione di teorie scientifiche, di idee, di avvenimenti legati ad un periodo storico con una personalità di spicco, designata per nome, che diventa simbolo di quell’oggetto sociale  es. Freud e la psicoanalisi La figurazione della conoscenza si riferisce al processo attraversi cui il senso comune sostituisce metafore e immagini a nozioni complesse. Queste “figure” mentali hanno la prevalenza sull’astrazione e sulla distanza psicologica di molte idee. - ANCORAGGIO permette di incorporare nel nostro mondo rappresentazionale un fatto, un evento, o un processo che non ci sono familiari e ci creano ansia e incertezza, se non paura. Il processo avviene mettendo a confronto il nuovo che ci inquieta con la rete di categorie che sono a noi proprie e in particolare con quanto consideriamo una componente, essenziale e tipica della categoria. Moscovici delinea con chiarezza i momenti essenziali di tale processo a proposito della teoria psicoanalitica:  L’inserimento della teoria in una gerarchia di valori di riferimento  Lo spostamento di caratteristiche salienti della stessa teoria in modo da trasformarla in uno strumento conoscitivo socialmente riconosciuto  Le pratiche attraverso cui la rappresentazione orienta e costruisce rapporti sociali L’ancoraggio è dunque finalizzato a ridurre la paura, lo stupire che un oggetto o un fenomeno rilevanti per l’attore sociale, ma a lui non familiari, producono facendoli entrare in una categoria 2 motivazionali non devono mai essere considerati isolati gli uni rispetto agli altri. Lo stato di superamento della tensione corrisponde ad una condizione in cui altre motivazioni possono attivarsi creando a loro volta ulteriori stati di tensione. LEWIN ha chiarito che lo stato di tensione connesso ad un’intenzione specifica non riguarda l’Io nella sua totalità ma solo una parte di esso. L’Io può infatti essere considerato un sistema costituito da una molteplicità di sottosistemi che si sono differenziati nel corso dello sviluppo e sono fra loro organizzati pur mantenendo una relativa indipendenza. 2. FORME MOLTEPLICI DI CONOSCENZA DEL SÉ  SÉ ECOLOGICO – riguarda come il sé è percepito in rapporto all’ambiente fisico: percezione che ogni individuo ha delle parti che può vedere del proprio organismo posto fra gli altri oggetti dello spazio percettivo  SÉ INTERPERSONALE – il sé coinvolto in un’interazione immediata e non riflessa con un’altra persona.  se la natura, il ritmo, la direzione e l’intensità delle azioni della madre si incontrano con qualità appropriate dell’azione del piccolo, si crea un caso di intersoggettività  SÉ ESTESO – è il sé come era nel passato e come ci aspettiamo sia in futuro. Basato principalmente su quanto ricordiamo e quanto anticipiamo  SÉ PRIVATO – si manifesta quando il bambino si accorge, per la prima volta, che alcune delle sue esperienze non sono condivise con gli altri  SÉ CONCETTUALE – o concetto di sé, trae il suo significato, come tutti i concetti, dalla rete di assunzioni e teorie in cui è inserito 3. LA PROSPETTIVA DELLA “SOCIAL COGNITION” L’affermarsi della Social Cognition dà il via ad una serie di studi sul Sé concepito come struttura cognitive che organizza in memoria tutte le informazioni che compongono la rappresentazione mentale della persona circa i propri attributi, i propri ruoli, l’esperienza passata e le prospettive future – FISKE e TAYLOR Riferendosi al concetto di Sé dunque si evoca un insieme di conoscenze interconnesse che vengono attivate in maniera differenziata in riferimento al contesto specifico. L’aspetto del concetto di Sé a cui si ha accesso in una situazione particolare è denominato concetto di Sé operante. Secondo MARKUS il concetto di Sé e costituito da un insieme di schemi di sé corrispondenti alle dimensioni su cui un soggetto si descrive. Uno schema di Sé si costruisce nel momento in cui l’individuo utilizza in modo prevalente una dimensione specifica per caratterizzare se stesso. Gli schemi di sé inoltre guidano il processo inferenziale. A partire dalle informazioni contenute in uno schema di sé, l’individuo trae conclusioni su se stesso anche relativamente ad aspetti a questo associati. Si può dire che gli schemi di sé sono caratterizzati da disponibilità e da accessibilità.  ALTRI ELEMENTI DELLA FUZIONE REGOLATRICE DEL Sé Accanto al concetto di sé operante altre componenti assumono una funzione regolatrice. Una di queste è il sentimento di efficacia del Sé cioè l’aspettativa che ciascuno ha di essere in grado di affrontare e superare certi compiti. Vi è anche la riflessione sul proprio valore che pone in modo esplicito il problema della stima di Sé. La stima di Sé rappresenta la componente affettivo-valutativa del Sé, definita come la risultante di un processo in cui i contenuti del concetto di Sé vengono valutati e giudicati rispetto a valori e standard personali. 5  STIMA DI Sé GLOBALE – fa riferimento a una valutazione generale del proprio valore che gli individui strutturano nel tempo  STIMA DI Sé AMBITO-SPECIFICA – riguarda il modo in cui gli individui si valutano in determinati aspetti dell’esperienza personale Gli studi di HIGGINS offrono un’altra prospettiva sul modo in cui le persone pensato di essere o di poter essere. Secondo l’autore l’individuo ha una rappresentazione di com’è (Sé reale), di come gli piacerebbe essere (Sé ideale) e di come dovrebbe essere (Sé normativo). Nell’esperienza di tutti sono avvenute delle discrepanze tra questi diversi stati del Sé: ogni discrepanza provoca un coinvolgimento emotivo più o meno rilevante nel soggetto. 4. LE CULTURE E I DIVERDI MODI DI INTENDERE IL Sé: I PROCESSI DI INFLUENZA RECIPROCA OYSERMAN e MARKUS in un loro lavoro operavano un confronto sul modo in cui le persone costruiscono e organizzano la conoscenza di sé in base alla propria appartenenza ad una cultura individualista o ad una cultura collettivista. Nelle CULTURE INDIVIDUALISTE il Sé è l’unità di base: la società è vista come un insieme di individui autonomi e indipendenti. Al contrario le CULTURE COLLETTIVISTICHE pongono il gruppo come unità di base: la società è vista come un insieme di gruppi sociali. In relazione a queste differenze i giudizi su di sé e sugli altri sono formulati in riferimento a diversi standard: nel primo caso lo standard è costituito dalla realizzazione del successo personale raggiunto, nel secondo lo standard è l’appartenenza a determinati gruppi, nonché la posizione che il gruppo occupa nel tessuto sociale. Nelle società individualiste la distinzione più saliente è quella fra Sé e non-Sé, nelle società collettiviste invece la distinzione più saliente è fra ingroup e outgroup. 7. SENTIMENTO DI IDENTITA’ E IDENTITA’ TIPIZZATE IDENTITA’ PERSONALE e IDENTITA’ SOCIALE  appare troppo riduttivo considerare l’identità personale come prodotto dell’influenza di un gruppo che valorizza la differenza tra persone e l’identità sociale come prodotto di un gruppo che spinge i suoi membri a mettere in risalto soprattutto le caratteristiche di omogeneità esistenti fra loro. Si possono immaginare allora 2 punti estremi di un continuum lungo il quale l’individuo, con il suo patrimonio evolutivo, nel suo ambiente sociale e nella sua storia, “sente” la propria identità. Ad un estremo, quello SOCIALE, l’individuo si sente necessitato a vivere un rapporto molto stretto con gli altri membri del proprio gruppo. Si sente interdipendente con tale gruppo e il suo impegno nell’azione sarà in rapporto con tale sentimento, il che influenza gli obiettivi che si pone, le strategie che sceglie, i simboli che utilizza, la lotta che sostiene in quanto identificato con il gruppo. Questo è il prototipo di IDENTITA’ SOCIALE. All’altro estremo, quello PERSONALE, l’individuo che pure è parte di una cultura e di una società, riflette sulla propria storia, sulla propria prospettiva temporale in cui situa ricordi di varie connotazioni affettive, attese, speranze, elabora i propri progetti, “come se” fosse isolato, per propria scelta, dagli altri, “come se” fosse al riparo dalle lusinghe o dalle minacce del mondo. Il suo impegno nell’azione che progetta sarà del tutto riempito dall’esigenza di autonomia, di fedeltà a se stesso, di indipendenza dal contesto, in cui sente di ricapitolare tutta la propria esperienza. 6 CAP. 5 LE RELAZIONI SOCIALI Questo ambito di studi ha origine nell’eredità di KURT LEWIN con l’idea che le relazioni non possono essere studiate a partire dagli individui che le intrattengono, ma dall’interazione fra le proprietà dei partner e quelle della situazione (ambiente sia fisico sia sociale). KELLEY e colleghi ribadiscono a varie riprese che il dato qualificante di una relazione sta nell’influenza che ciascun partner esercita sull’altro, ovvero nell’interdipendenza.  la ricerca deve porsi l’obiettivo di individuare i fattori causali e i processi che spiegano le regolarità dell’interazione, quest’ultima diventa l’unità di analisi in relazione al contesto entro il quale l’interazione ha luogo. Considerare in un’ottica lewiniana, le caratteristiche peculiari di ciascun partner, quelle comuni, l’ambiente sociale e l’ambiente fisico che con le sue caratteristiche può rendere più o meno probabile lo sviluppo di una relazione. Nella prospettiva cognitiva uno schema di relazione composto da 3 componenti: 1. Rappresentazione del Sé in relazione 2. Credenze che riguardano il partner 3. Script interpersonale, cioè dalla sequenza attesa delle interazioni Le 3 componenti formano una struttura cognitiva – schema delle relazioni Per quanto riguarda lo script della relazione è considerato per lo più una componente ad attivazione automatica: i comportamenti nelle relazioni spesso sono il frutto di sequenze routinizzate. Nella prospettiva di KELLEY una relazione è significativa quando si basa su una forte interdipendenza fra i partner, gli indicatori di interdipendenza consistono nel fatto che i partner influenzano i comportamenti reciproci, che tale influenza non è limitata a qualche ambito ma estesa a molti contesti e infine che tale influenza ha caratterizzato l’interazione da tempo. Il contributo principale di questi approcci è stato quello di mettere a punto scale con l’obiettivo di quantificare i diversi tipi di sentimenti. Uno dei primi tentativi è stato quello di RUBIN che ha messo a punto 2 scale: 1. LIKING SCALE – si propone di cogliere il grado di piacevolezza attribuito al partner, in termini di affetto e rispetto 2. LOVE SCALE – intende operazionalizzare 3 comportamenti: l’attaccamento (bisogno della presenza fisica e del sostegno dell’essere amato), il prendersi cura (coinvolgimento rispetto all’essere amato che si manifesta con l’interesse e il desiderio di aiutare e sostenere), l’intimità (il desiderio di contatto stretto e confidenziale con l’essere amato) Una classificazione che ha conosciuto maggiore considerazione è quella di STERNBERG e BARNES che hanno messo a punto il TRIANGLE OF LOVE. Secondo la loro concezione l’amore ha 3 componenti che entrano in diversa misura nei vari tipi di relazione: 1. COMPONENTE DI NATURA EMOTIVA – riguarda l’intimità 2. COMPONENTE DI NATURA MOTIVAZIONALE – la passione 3. COMPONENTE DI NATURA COGNITIVA – riguarda il livello di impegno/decisione nei riguardi del partner Le 3 componenti si combinano fra loro in diversa misura in una tipologia che comprende 7 classi di sentimenti. Le tre componenti individuate assumono un ruolo differenziato anche in relazione allo stadio di sviluppo della relazione. 7 L’idea che l’espressione dell’aggressività prenda il via dall’imitazione può essere fatta risalire alla PSICOLOGIA DELLE FOLLE. TARDE parlò proprio dell’imitazione come principio che governa il comportamento sociale in gruppi di vaste dimensioni e LE BON chiamò in causa la suggestione, ovvero una sorta di ipnosi collettiva.  L’individuo di per sé capace di razionalità e di censura delle proprie pulsioni negative, nella folla perde tale potere di controllo e attraverso l’imitazione e la suggestione adotta comportamenti immediati in risposta a stimoli sociali.  la situazione collettiva inibisce le capacità critiche individuali, aprendo la via a reazioni socialmente incompatibili. Secondo la TEORIA DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE l’aggressività non può essere compresa se non si concepisce come un comportamento sociale che, al pari degli altri comportamenti sociali, viene acquisito e mantenuto a determinate condizioni. La prima di queste condizioni consiste nell’associare il comportamento ai suoi esiti in termini di conseguenze negative o positive – associazione appresa tramite l’esperienza diretta ma anche attraverso l’osservazione di qualcuno che attua un comportamento in una data situazione e delle conseguenze che ne ricava. BANDURA compie una serie di esperimenti in cui un adulto maltrattava un pupazzo davanti ad un gruppo di bambini – condizione sperimentale (persone sono facilmente manipolabili da un individuo con doti carismatiche e di prestigio), oppure giocava normalmente con lo stesso pupazzo – condizione di controllo. Successivamente usciva dal laboratorio e lasciava i bambini liberi di giocare. Dalle osservazioni fatte i bambini che avevano assistito al maltrattamento del giocattolo tendevano a riprodurre tale comportamento, mentre gli altri bambini giocavano normalmente.  NORME SOCIALI MILGRAM si propone di dimostrare che “gente normale, che si occupa soltanto del suo lavoro e che non è motivata da nessuna particolare aggressività può, da un momento all’altro, rendersi complice di un processo di distruzione” Esperimenti sulla norma di obbedienza all’autorità  ESPERIMENTO MAESTRO-ALIEVO MEMORIZZAZIONE SCOSSA: il maestro aveva 30 leve con il livello della scossa (da 15 volt a 450 volt), l’allievo aveva un elettrodo al polso. Il maestro doveva leggere coppie di parole che l’allievo doveva memorizzare. Ad ogni ricordo errato da parte dell’allievo, il maestro doveva infliggere una scossa elettrica sempre più forte. L’allievo-complice che ovviamente non riceveva davvero le scosse era stato istruito a simulare lamenti e grida e se il maestro esitava lo sperimentatore lo esortava in modo sempre più pressante a proseguire.  21 repliche. I partecipanti che arrivarono ad azionare l’ultimo interruttore furono intorno al 65%. Tale adesione alla richiesta dell’autorità variava però notevolmente in relazione soprattutto a due fattori: la distanza fra il partecipante e la sua vittima e quella fra il partecipante e lo sperimentatore che impartiva gli ordini. 3. LA DINAMICA DEL COMPORTAMENTO AGGRESSIVO Come avviene il processo che porta l’individuo alla concreta manifestazione di comportamenti violenti? Tale processo non può che cominciare dall’interpretazione che l’attore dà della situazione in cui si trova e dell’evento. Ogni situazione che sperimentiamo infatti include un margine più o meno ampio di ambiguità. La focalizzazione dell’attenzione dei protagonisti su alcune di queste informazioni e non su altre porta ad interpretazioni differenziate e a volte proprio contrapposte. Nella fase della definizione dell’evento un ruolo cruciale è giocato dall’attribuzione di intenzionalità di ciò che sta avvenendo. La scelta della risposta che viene attuata è influenzata dalla percezione delle conseguenze, dal livello di attivazione emotiva negativa che il colpo ha provocato e dalle norme che sembrano pertinenti al contesto. 10 4. LIVELLI DI SPIEGAZIONE DEI COMPORTAMENTI PROSOCIALI MOSCOVICI dice che è evidente che l’altruismo diventa un problema riguardante anche le scienze sociali in cui l’egoismo è la norma. In un quadro culturale centrato sulla valorizzazione delle norme individualistiche, si pone il problema dell’altruismo in quanto fenomeno altamente costoso e dunque improbabile.  studio di questo fenomeno attribuito ad un evento specifico: 1964 New York, quella notte una ragazza di nome Kitty Genovese venne aggredita in strada da uno sconosciuto che finì per accoltellarla. Le indagini portarono a chiarire che l’episodio aveva avuto una durata di circa mezz’ora e che, dagli edifici circostanti, molte persone ne erano state testimoni, ma nessuno aveva preso iniziativa per soccorrere la ragazza. LATANE e DARLEY si proposero di condurre delle ricerche a partire dall’ipotesi che la probabilità di attuazione di comportamenti altruistici sia governata anche da fattori relativi alla situazione e non soltanto da quelli socialmente patologici, come la mancanza di valori, o da fattori individuali, come la tendenza personale all’aiuto o alla violenza. Dopo vari esperimenti scoprono ad esempio che l’intervento da parte dell’individuo ignaro in soccorso alla presunta vittima avveniva nell’85% dei casi quando questo pensava di essere l’unica persona presente nella situazione, mentre la percentuale scendeva al 62% quando c’era anche un altro per arrivare al 31% quando il partecipante pensava che altre quattro persone stessero assistendo alla stessa scena. Gli autori interpretano i risultati facendo appello alla DIFFUSIONE DI RESPONSABILITA’. Le persone nel cubicolo, come nel caso dei testimoni dell’aggressione di Kitty, non potevano osservare i comportamenti reciproci e finivano per pensare che qualcun altro avesse già provveduto al soccorso. Quando invece l’individuo sapeva di essere l’unica persona in grado di aiutare la vittima, nella grande maggioranza dei casi interveniva.  così come alcuni etologi hanno sostenuto la funzionalità dei comportamenti aggressivi per la conservazione delle specie, altri hanno messo in evidenza che i comportamenti prosociali servono lo stesso scopo  questi comportamenti non sono finalizzati tanto alla sopravvivenza individuale, quanto al potenziamento della trasmissione dei geni: sono infatti sempre attuati a favore di individui della stessa famiglia. Le ricerche condotte in quest’ottica hanno mostrato che la personalità altruista sarebbe associata ad una costellazione di altri tratti di personalità quali elevata stima di sé, elevata competenza morale, tendenza ad attribuire le case degli eventi di cui l’individuo è protagonista a fattori interni, scarso bisogno di approvazione esterna e forte senso di responsabilità sociale.  RUOLO DELL’EMPATIA HOFFMAN considera l’empatia come un elemento che precede l’attuazione di una risposta di aiuto. L’empatia fa riferimento ad un’attivazione emotiva fatta di compassione, tenerezza, simpatia da parte di una persona che osservi un’altra in difficoltà  processo cognitivo: l’osservatore assume la prospettiva della persona in difficoltà e in questo modo riesce a cogliere i connotati della sua situazione. CIALDINI, DARBY e VINCENT sostengono l’ipotesi del sollievo dallo stato negativo: le persone che si trovano in uno stato d’animo negativo mettono in atto risposte altruistiche non tanto per reale interesse verso la persona in stato di bisogno, ma allo scopo di migliorare il proprio umore.  i comportamenti prosociali derivano da una motivazione fondamentalmente egoistica: il desiderio di rimuovere l’angoscia che provoca la vista dell’altrui sofferenza. Se gli osservatori sono numerosi, la percezione di diffusa responsabilità rende la fuga una risposta funzionale alla riduzione del disagio personale. 11 BATSON – modello dell’empatia-altruismo: la preoccupazione per le sofferenze altrui è una motivazione sufficiente per spiegare comportamenti prosociali che non rispondono a ferree regole di bilancio costi- benefici su base individuale CIALDINI cerca di dimostrare che il fattore motivante è il senso di unità interpersonale che l’osservatore esperisce nei confronti della vittima.  NORME SOCIALI Uno dei principi più importanti è quello della reciprocità: le persone devono restituire l’aiuto a chi lo ha offerto loro o potrà farlo in futuro.  abbiamo visto che la reciprocità è un principio esplicatore nella teoria della equità: in una relazione di coppia, se un membro sente di ricevere più benefici di quanti ne dispensi, sperimenta uno stato di disagio, mentre la situazione contraria porta ad un’esperienza di rabbia e frustrazione Teoria dell’altruismo reciproco (lettura evoluzionista dell’efficacia sociale del principio sopra)  attraverso il metodo della simulazione al computer DAWKINS ha dimostrato che individui incondizionatamente altruisti sono destinati a soccombere ben presto a favore di individui incondizionatamente egoisti, tuttavia anche questi ultimi non possono sopravvivere una volta rimasti senza i primi. Un’altra norma sociale che definisce l’aiuto come un comportamento appropriato è quella della responsabilità sociale. Norma grazie alla quale ci sentiamo in obbligo di agire in favore di chi dipende da noi. I fattori causali illustrati assumo un’importanza differenziata, secondo MOSCOVICI, nelle 3 forme in cui può essere declinato l’altruismo: 1. ALTRUISMO PARTECIPATIVO – comportamenti che favoriscono la vita collettiva dei membri della stessa comunità 2. ALTRUISMO FIDUCIARIO – consiste nel sacrificio finalizzato a stabilire un legame di fiducia e confidenza con l’altro, il quale dovrà legittimare tale legame con la riconoscenza 3. ALTRUISMO NORMATIVO – aiuto alle persone in difficoltà garantito dalle istituzioni sociali 5. LA DINAMICA DEL COMPORTAMENTO ALTRUISTICO Cerchiamo di ricomporre i fattori causali sopra citati in una sequenza di fasi che compongono il processo che ha come esito l’offerta di aiuto o soccorso. DEFINIZIONE DELL’EVENTO – ogni evento presenta un margine più o meno ampio di ambiguità che ciascuno di noi risolve elaborando alcune informazioni che ha a disposizione  ruolo molto impo è il modo in cui l’osservatore di rappresenta una persona come bisognosa di aiuto. In particolare, la probabilità di aiutare qualcuno è strettamente connessa con le attribuzioni di causa che l’osservatore fa circa la situazione di bisogno. ROSS definisce l’errore fondamentale di attribuzione, cioè una tendenza diffusa a sopravvalutare le cause interne nella spiegazione dei comportamenti altrui.  a questa distorsione si aggiunge la credenza in un mondo giusto, così denominata da LERNER: le persone tendono a rappresentarsi l’ambiente in un modo ordinato e razionale in cui la casualità pura ha un ruolo limitato  complementare a questo processo di attribuzione causale da parte dell’osservatore, si svolge l’attribuzione causale della persona che riceve aiuto. Ricevere aiuto evoca l’idea di uno scarso controllo della situazione, di personale debolezza e inferiorità. Per questa ragione colui che riceve aiuto può tendere a sottostimare l’intervento altrui come causa risolutiva del proprio stato di bisogno. 12  LA LEADERSHIP Hollander ritiene che l’aspetto più consistente nella pluralità delle definizioni del concetto di leadership sia l’avere rilevato che la leadership implica un processo di influenza fra un leader e i seguaci in ordine al raggiungimento degli obiettivi di un gruppo, di un’organizzazione o di una società.  Turner precisa che leader è colui che nel gruppo gioca il ruolo più importante nel dirigere le attività dei vari membri etc Si deve a Moscovici la distinzione fra influenza e potere. Anche il potere è una fonte di influenza che però viene esercitata non tramite la persuasione ma tramite la coercizione generando stati di condiscendenza generalmente esteriore  prima era normale considerare il potere come base dell’influenza e l’influenza come esercizio del potere, mentre nelle più recenti concettualizzazioni l’influenza sociale e il potere sono considerati come processi alternativi di modificazione dei comportamenti altrui Secondo Hollander il bisogno di trovare delle alternative alla teoria del grande uomo porta a 2 sviluppi teorici interrelati tra loro: lo studio sul comportamento di leader e l’emergere dell’approccio situazionista.  COMPORTAMENTO DEL LEADER – Bales e Slater, secondo questi autori i leader servono essenzialmente a due tipi di funzioni: ad assicurare che il clima di gruppo sia armonioso mostrando considerazione nei confronti dei membri (leader socioemozionale) e a realizzare il compito che il gruppo persegue mostrando le migliori idee e organizzando il lavoro di gruppo (leader centrato sul compito) Uno studio basato sul comportamento del leader è il lavoro di LEWIN, LIPPIT e WHITE sullo stile della leadership distinta per 3 categorie: autoritaria, democratica e laissez faire, e le sue conseguenze sulla produttività e il morale di gruppo. Secondo Turner lo stile democratico e quello autoritario rappresentano il leader socioemozionale e quello centrato sul compito  L’APPROCCIO SITUAZIONISTA – si fonda sull’idea che il leader deve assolvere diverse funzioni in situazioni che comportano compiti diversi. Secondo Hollander l’approccio situazionista trascura in modo troppo marcato le caratteristiche delle persone che occupano ruoli di leadership, in tal senso l’approccio situazionista non spiega per esempio perché in certe situazioni emerga come leader una persona piuttosto che un’altra a parità di competenze relative al compito. Il modello della contingenza proposto sta FIEDLER cerca di introdurre un’idea interazionista della leadership, la cui efficienza dipende dalla corrispondenza fra lo stile adottato dal leader e il controllo che quest’ultimo possiede della situazione. Questi orientamenti dei leader possono essere più o meno efficaci a seconda di tre principali fattori: la qualità dei legami leader-membri, il livello della struttura del compito e il livello di potere del leader. Modelli transazionali  insistono sulla relazione bidirezionale fra leader e membri del gruppo. Si presuppone che se è vero che il leader può influenzare i membri del gruppo è altrettanto vero che questi ultimi influenzano con le loro aspettative Teoria trasformazionale che si ispira a quella sopra e mette l’accento sullo scambio continuo fra leader e membri del gruppo, enfatizzando l’interesse dei leader per motivazioni (i bisogni) dei membri del gruppo 4. PROCESSI DI PRESA DI DECISIONE NEI GRUPPI: DALL’ASSUNZIONE DI RISCHIO ALLA POLARIZZAZIONE WALLACH, KOGAN e BEM parlano della diffusione delle responsabilità: se un individuo deve decidere circa il rischio che può assumere, si sente responsabile di quanto farà sia di fronte a se stesso, sia di fronte ad amici, colleghi ecc… Quando discute con altri su come procedere si sente meno direttamente responsabile della scelta cui si giunge 15 Secondo un’altra spiegazione la discussione di gruppo incrementa la familiarità dei singoli rispetto a problemi particolarmente delicati, tale familiarità porta ad un incremento dell’assunzione di rischio.  PROCESSI DI POLARIZZAZIONE MOSCOVICI e ZAVALLONI denominano polarizzazione un tale effetto della dinamicità di gruppo per sottolinearne la specificità (incremento dato del gruppo ad un orientamento già presente nei singoli componenti) e per distinguerlo da generici fenomeni di estremizzazione non rivolti verso un polo specifico. JANIS denomina pensiero gruppale tale processo collusivo in cui la discussione e il confronto tra i diversi attori sono di fatto ostacolati e ridotti al minimo  soltanto affrontando con risolutezza il conflitto tra i diversi punti di vista nel gruppo è possibile evitare silenzi e complicità che, se nella maggior parte dei casi semplificano la vita quotidiana permettendo partecipazioni di routine a molti eventi, possono talvolta rendere l’attore responsabile di decisioni radicalmente in contrasto con le sue idee o aspettative. CAP. 8 LE RELAZIONI FRA I GRUPPI SOCIALI HENRY TAJFEL ha contribuito alla conoscenza teorica e operativa delle relazioni fra gruppi e fra categorie sociali, riconoscendoli come fenomeno centrale di indagine per la psicologia sociale. Il suo contributo riguardò i limiti delle impostazioni teoriche che avevano tentato di dar conto delle dinamiche intergruppi in termini individualistici mettendo in luce le dinamiche sociali che sono in grado di far comprendere il significato di tali rapporti. 1. PROSPETTIVE INDIVIDUALISTICHE FREUD per l’interesse suscitato in lui dall’opera di Le Bon sulla psicologia delle folle, utilizza molto spesso la nozione di “psicologia collettiva” avanzando l’ipotesi che esiste un’omologia strutturale e dinamica tra conflitti interni alla persona (intrapsichici) e conflitti interpersonali. Bla bla in una folla ogni razionalità scompare (vedi pag. 10)  la folla è tenuta insieme da una sorta di “contagio” mentale che la fa funzionare in uno stato di suggestione comparabile a quello in cui opera l’individuo in stato d’ipnosi.  ciò che sostiene questo contagio sono i legami libidinali che uniscono ogni individuo al capo che conduce la massa. Questi legami si traducono in un’identificazione con il capo e con altri membri della folla, identificazione che consiste nell’assunzione da parte del soggetto delle qualità dell’altro e gli dà una sensazione inebriante di arricchimento dell’Io. 2. UN APPROCCIO SOCIOPSICOLOGICO ALLE RELAZIONI FRA GRUPPI Quali sono le caratteristiche del comportamento intergruppi di un attore sociale? Si può distinguere un comportamento che un individuo assume in quanto entità unica e originale operante in un contesto di relazioni interpersonali e sociali più ampie da un comportamento assunto dallo stesso individuo in quanto membri di un gruppo? TAJFEL: i 2 tipi di comportamento possono essere immaginati come posti su un continuum teorico, ad un estremo è posto il comportamento genuinamente interpersonale – situazioni sociali tra due o più persone in cui ogni interazione viene determinata dall’incontro diretto fra le persone stesse e dalle loro rispettive caratteristiche individuali. E dall’altro estremo il comportamento genuinamente intergruppi – situazioni sociali tra due o più persone in cui ogni interazione reciproca è determinata dalla loro appartenenza a diversi gruppi o categorie sociali.  le situazioni ai due estremi sono soltanto teoriche. 16 Tutte le situazioni sociali si pongono ad un qualche punto tra i due estremi del continuum. Quanto più il comportamento sarà prossimo all’estremo intergruppi, tanto più tenderà ad essere indipendente dalle differenze individuali – ogni attore coinvolto si sente “necessitato” ad agire come agisce, sa che gli altri membri del suo gruppo agirebbero come lui e non distingue in alcun modo gli interlocutori che compongono l’outgroup, esso sarà inoltre indipendente dalle relazioni personali tra i singoli membri. Si tratta quindi di chiarire quali siano le condizioni sociali che fanno sì che un individuo (o un gruppo) interpreti l’incontro con un “altro” in termini interpersonali o intergruppi.  La condizione essenziale per la comparsa di un comportamento interpersonale tra individui che si considerano membri di gruppi diversi è la credenza che i confini fra i gruppi, pur socialmente rilevanti, siano comunque permeabili e non vi siano ostacoli tanto grandi da impedire l’eventuale passaggio di un individuo da un gruppo all’altro quando egli voglia modificare la propria condizione. ESPERIMENTO DI SHERIF SUI RAPPORTI INTERGRUPPI – CAMPI ESTIVI  Nella prima fase i partecipanti arrivano al campo ed entrano in contatto tra loro e con le diverse strutture logistico-organizzative  Dopo circa una settimana i ragazzi vengono divisi in due gruppi distinti, i rossi e i blu: attenzione a separare gli amici più stretti. Da quel momento la vita quotidiana viene impostata sulla base dei due gruppi che svolgevano tutte le attività separatamente. In questa fase dice Sherif ci fu un’evoluzione delle abitudini e delle gerarchie intergruppo, le caratteristiche dei due gruppi si definirono e consolidarono  Nella fase tre i due gruppi furono messi in competizione l’uno con l’altro. Furono organizzate attività sportive competitive, le attività di mantenimento del campo furono anch’esse impostate su base competitiva, in questo modo il gruppo migliore veniva premiato per aver prevalso sull’altro. Per ogni prova erano assegnati dei punti che entravano in una classifica: alla fine i membri del gruppo vincitore venivano premiati. In questa fase i ricercatori rilevano un rapido e grave deterioramento delle relazioni intergruppi. Apparvero stereotipi negati dell’”altro” gruppo e non furono rari atti aperti di ostilità: i due gruppi erano solidi e coesi al loro interno, ma la distanza tra di essi era molto grande. Nell’ultimo dei suoi esperimenti introduce una quarta fase. Si sentiva molto a disagio per la qualità dei risultati e gli dispiaceva mandare a casa i ragazzi con dei sentimenti competitivi così accesi. Tentò quindi di creare una situazione idonea a diminuire l’ostilità intergruppi.  Nella fase quattro i due gruppi furono posti in situazioni tali per cui dovevano combinare i loro sforzi per ottenere dei risultati desiderati da entrambi. In tali situazioni i membri dei due gruppi erano forzati dalla situazione a condividere uno SCOPO SOVRAORDINATO. La nozione di scopo sovraordinato è definita operativamente nel modo seguente: si tratta di uno scopo che ha un forte potere di richiamo per i membri di ognuno dei gruppi ma che nessuno dei gruppi può raggiungere senza la partecipazione dell’altro. Durante la quarta fase ci fu una diminuzione nella tensione e nell’ostilità intergruppi: fu notato anche che i “vecchi” amici, membri di gruppi diversi, riallacciavano i loro rapporti, interrotti alla fine della fase uno. L’elaborazione teorica che tra dai dati è la seguente: se due gruppi che sono in rapporto tra loro si pongono degli scopi competitivi giungeranno rapidamente ad un conflitto intergruppi; se due gruppi in rapporto fra loro si pongono scopo sovraordinati giungeranno ad una cooperazione reciproca. In altri termini: un conflitto di interessi è la causa dei conflitti fra gruppi. RABBIE esplora l’effetto del destino comune facendo un esperimento tra gli adolescenti. Vengono convocati 8 alla volta e sono tra loro estranei, viene comunicato che non dovranno interagire tra loro ma 17 a concettualizzare se stesse come appartenenti a determinate categorie sociali.  quando le persone categorizzano sé e gli altri, possono usare diversi livelli di astrazione organizzati tra loro in termini gerarchici: - il più inclusivo è il livello sovraordinato del sé come essere umano (HUMAN IDENTITY) - il livello intermedio del sé come membro di un gruppo in confronto ai membri dell’altro gruppo (SOCIAL IDENTITY) - il livello subordinato del sé personale come individuo unico rispetto agli altri membri dell’ingroup (PERSONAL IDENTITY)  livello che usiamo nelle relazioni interpersonali La categorizzazione di sé e degli altri a livello intermedio accentua il carattere prototipico e stereotipico del gruppo.  per la SCT la depersonalizzazione della percezione di sé è il processo basilare sottostante a fenomeni di gruppo, quali la stereotipizzazione sociale, la coesione di gruppo, l’etnocentrismo, il comportamento collettivo Il concetto sociale di sé dipende dal contesto, nel senso che è l’ambiente sociale, più precisamente le categorie sociali più salienti in una certa situazione ad attirare le diverse categorizzazioni sociali del sé.  INTERAZIONE SOCIALE E RELAZIONE INTERGRUPPI Il concetto fondante di tale prospettiva è quello della covariazione  le dinamiche sociali a livello interindividuale e intergruppi sono, in circostanze particolati, simili e interdipendenti. Le tensioni fra cooperazione e competizione intergruppi possono così essere omologhi alle tensioni fra fusione e individuazione a livello interpersonale. In certe relazioni fra i gruppi, a un’omogeneità intragruppo corrisponde un’omogeneità fra gruppi diversi 4. GLI EFFETTI DELLA DISCRIMINAZIONE INTERGRUPPI. STEREOTIPI SOCIALI E PREGIUDIZI I processi intergruppi che abbiamo studiato portano, come conseguenza della discriminazione, a costruire uno o più stereotipi nei confronti dell’outgroup, è opportuno mantenere chiara la differenza tra stereotipi cognitivi e stereotipi sociali. Gli stereotipi cognitivi possono diventare sociali quando vengono “condivisi” da grandi masse di persone all’interno dei gruppi e istituzioni sociali.  stereotipo sociale= immagine mentale semplificata al massimo riguardate una categoria di persone, un’istituzione o un evento, che viene condivisa nei suoi tratti essenziali da grandi masse di persone. Tutti i processi intergruppi possono dare luogo a stereotipi sociali  IL PREGIUDIZIO È concettualmente diverso dallo stereotipo sociale. La nozione di pregiudizio ha una connotazione negativa: giudizio dato prima di conoscere a fondo l’oggetto su cui questo viene espresso.  opinione preconcetta capace di far assumere atteggiamenti ingiusti, specialmente nell’ambito del giudizio e dei rapporti sociali Pregiudizi non sono altro che atteggiamenti negativi verso persone, gruppi o altri oggetti sociali salienti, assunti a priori e mantenuti anche se riscontri empirici ne dimostrano l’infondatezza. Pregiudizi comprendono:  Una dimensione cognitiva – si basano sul riconoscimento ad esempio delle diverse categorie sociali o etniche che costituiscono una società  Una dimensione valutativa – attribuiscono un valore diverso a tali categorie, costruendo una sorta di gerarchia in cui certi gruppi sono definiti in termini positivi e altri in termini del tutto negativi 20  Una categoria che ispira criteri di azione differenziati verso i gruppi (e gli individui) a seconda del valore ad essi attribuito I pregiudizi possono essere considerati atteggiamenti ancorati ad un sistema di valori espresso attraverso certi stereotipi sociali in relazione a pratiche messe in atto nei confronti dei gruppi in questione. - RAZZISMO PRIMARIO: reazione naturale alla presenza di un estraneo. La prima risposta all’estraneità è l’antipatia che il più delle volte conduce all’aggressività - RAZZISMO SECONDARIO: si può giungere quando sia disponibile una teoria che fornisca basi logico- razionali alla discriminazione. L’”altro” viene rappresentato come animato da intenzioni malvagie e come “oggettivamente” pericoloso, minaccia per l’interesse del gruppo che prova l’avversione - RAZZISMO TERZIARIO: presuppone i due livelli inferiori, sarebbe caratterizzato dall’uso di argomentazioni che si richiamano alla biologia - INIMICIZIA COMPETITIVA: generata dall’esigenza personale di costruire una propria identità, che distingue ogni persona e ogni gruppo da altre persone e gruppi. - ETEROFOBIA: generata dalla reazione emozionale provocata dalla presenza di “altri” che mettono in discussione la differenza tra il modo di vita familiare (giusto) e quello estraneo (sbagliato) - PREGIUDIZIO EMOZIONALE: le emozioni esperite nei confronti dei gruppi sociali hanno un valore predittivo di carattere comportamentale. Se verso un gruppo sociale proviamo disgusto tenderemo ad evitare il contatto con i suoi membri  FISKE dice che gli stereotipi verso i gruppi sociali variano secondo competenza e calorosità - SESSISMO - DEUMANIZZAZIONE: considerazione degli altri come meno umani di se stessi o dei membri dei propri gruppi di appartenenza. CAP. 9 L’INFLUENZA SOCIALE ALLPORT definisce la psicologia sociale come “l’indagine di come i pensieri, i sentimenti e i comportamenti degli individui sono influenzati dalla presenza effettiva, immaginata o implicita degli altri”. La presenza degli altri, sia essa effettiva o soltanto evocata, agisce sui processi cognitivi e sulle risposte comportamentali.  un processo di influenza sociale implica che il destinatario compia un riaggiustamento del proprio comportamento, delle proprie idee o dei propri sentimenti in conseguenza del comportamento, delle idee o dei sentimenti espressi da altri. 1. LA PRESENZA DI ALTRI: EFFETTI DI FACILITAZIONE E DI INERZIA SOCIALE TRIPLETT fa un esperimento in cui alcuni ragazzi dovevano far girare un mulinello da pesca da soli oppure con altri ragazzi che compivano la stessa azione. Lo studioso osservò che la maggior parte dei ragazzi lo facevano più rapidamente quando erano in compagnia rispetto a quando erano soli. Questo effetto prese il nome di facilitazione sociale: la presenza di altre persone, sia nel ruolo di co-attori sia in quello di osservatori, migliora la prestazione individuale. Gli esperimenti condotti successivamente hanno distinto gli effetti della presenza di altri che semplicemente osservano un individuo agire oppure di altri che compiono la stessa azione. ZAJONC cercò di spiegare questo effetto sostenendo che in entrambi i casi l’emissione di una risposta già appresa e ben nota viene facilitata dalla presenza di osservatori, mentre l’acquisizione di una nuova risposta viene ostacolata dalla stessa presenza. 21 In caso di compiti complessi l’essere esposto alla valutazione degli altri genera ansia che interferisce con l’attenzione necessaria allo svolgimento del compito (Carver e Scheler) Occorre poi considerare che nelle situazioni di lavoro alle persone capita di dover contribuire con altre all’elaborazione di un prodotto o di un esito nel quale i singoli contributi non sono distinguibili. In queste situazioni si osserva la tendenza delle persone a profondere meno sforzo in un lavoro collettivo rispetto ad uno individuale  LATANE’, WILLIAMS e HARKINS fanno uno studio in cui i partecipanti dovevano gridare il più forte possibile da soli, in 2 oppure in gruppi da 3 a 6 persone. Oltre ai partecipanti da soli o in gruppo c’era anche un terzo aspetto in cui i partecipanti erano soli ma credevano di essere in gruppo. I risultati mostrano che il rumore in gruppo è superiore a quello dei singoli ma inferiore alla somma degli individui che lo compongono. La tendenza all’attenuazione dello sforzo si osserva anche negli pseudo-gruppi, sebbene l’effetto di riduzione fosse circa della metà rispetto alla condizione di gruppo reale. Per esempio, una persona convinta di essere in coppia urlava con uno sforzo dell’82% rispetto a quando era da sola e lo sforzo si riduceva ancora quando pensava di essere con altri due partecipanti. Più ampio era il gruppo (o pseudo-gruppo) minore era lo sforzo che ciascun membro era portato a profondere per portarlo a termine. Si propone di chiamare questo effetto inerzia sociale  quando l’individuo sa che il risultato del proprio contributo non è identificabile e valutabile tende ad agire da free rider, ossia a minimizzare lo sforzo personale per beneficiare di quello collettivo, limitandosi all’impegno necessario ad evitare di essere colpevolizzato e sufficiente perché il gruppo raggiunga un risultato decoroso. L’effetto inerzia sociale è stato osservato in molte ricerche condotte utilizzando compiti di natura molto diversa fra loro es. il tiro alla corda (vedi quaderno) L’inerzia sociale appare particolarmente forte quando il gruppo è impegnato ad affrontare compiti che sono percepiti dai suoi membri come poco rilevanti, quando non è disponibile uno standard di confronto a livello di performance del gruppo, quando il gruppo è costituito da persone che non si conoscono e quando gli individui pensano di avere competenze che hanno anche gli altri membri dello stesso gruppo o addirittura che quelle degli altri siano migliori delle proprie. Vi è anche la facilitazione sociale che emerge quando individui compiono nello stesso momento semplici e ben apprese procedure il cui esito è indubbiamente riconducibile all’individuo.  LATANE’ infatti formula la teoria dell’impatto sociale per cui ogni individuo può essere fonte o target di impatto sociale. La pressione sociale esperita è una funzione moltiplicativa del numero delle persone che la esercitano, della sua intensità e della distanza tra le fonti e il target di tale pressione 2. CONFORMISMO E FORZA DELLA MAGGIORANZA SHERIF e ASCH hanno portato dei contributi riguardanti la genesi delle norme in situazioni di gruppo. L’interrogativo cui Sherif tenta di rispondere è: nei momenti di transizione sociale, in cui i valori già condivisi sono messi radicalmente in discussione e sembra mancare ogni punto di riferimento stabile, come si formano nuove norme per orientare il comportamento di tutti?  Sherif vede un’analogia tra una tale situazione sociale e la situazione, molto più elementare, in cui l’individuo è posto in una condizione percettiva ambigua, in cui manca ogni struttura di riferimento esterna rispetto allo stesso campo percettivo. La situazione adatta a produrre effetti autocinetici (punto luminoso) è stata considerata idonea per studiare il comportamento dell’individuo (in un primo momento isolato, poi in gruppo). L’individuo è posto in una sala completamente buia e deve, senza disporre di alcun punto di riferimento, giudicare l’ampiezza del movimento apparente di un minuscolo punto luminoso, oggettivamente fisso, proiettato su uno schermo bianco. La persona che guarda la luce sa che essa non si muove. Eppure, la luce appare errante e irregolare tanto da sembrare, nelle successive presentazioni, contemporaneamente presente in diversi punti. L’effetto è incoercibile, tanto che il soggetto non si sentirà più sicuro del proprio 22
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