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RIASSUNTO "Sociologia delle migrazioni" Ambrosini SOCIOLOGIA FENOMENI POLITICHE MIGRATORIE, Sintesi del corso di Sociologia delle Migrazioni

Riassunto dettagliato e completo del libro di Ambrosini, "Sociologia delle migrazioni", capitoli 2, 3, 4, 6, 10, 11, 12, per il corso di sociologia dei fenomeni e delle politiche migratorie. PROF. ZANIER

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 30/03/2023

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Scarica RIASSUNTO "Sociologia delle migrazioni" Ambrosini SOCIOLOGIA FENOMENI POLITICHE MIGRATORIE e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia delle Migrazioni solo su Docsity! Sociologia dei fenomeni e delle politiche migratorie Capitolo 2 La visione dei fenomeni migratori più diffusa nel senso comune è quella che li connette con grandi cause strutturali operanti a livello mondiale e in modo particolare nei paesi di provenienza: la povertà, la mancanza di lavoro, la sovrappopolazione crescente nel terzo mondo, guerre, regimi oppressivi. A questa visione soprattutto i demografi hanno dato una forma teorica attraverso la distinzione tra fattori di spinta e fattori di attrazione. Queste analisi distinguono due fasi storiche contrapposte: mentre nelle migrazioni della fase dello sviluppo industriale a cavallo tra 800 e 900 prevalevano i fattori di attrazione da parte dei sistemi economici più sviluppati, nella fase attuale prevarrebbero i fattori di spinta. Gli studi demografici ragionano in modo particolare sui tassi di incremento di popolazione sulle due sponde del mediterraneo, sulla contrapposta distribuzione per età (invecchiamento della popolazione europea, eccedenza di popolazione in età giovanile nel terzo mondo) e sull’aumento dell’offerta di lavoro che non trova sbocchi occupazionali. Mediante concetti come quello di Pressione Migratoria, arrivano alla conclusione che un travaso di popolazione dalla sponda sud verso la sponda nord del mediterraneo è la conseguenza logica di questi squilibri, che inducono le c.d. Migrazioni Forzate. Vi sono altre spiegazioni macrosociologiche che hanno ascendenza teoriche diverse. Una di queste è la Teoria Neo-Marxista della Dipendenza, secondo cui le migrazioni per lavoro discendono dalle disuguaglianze indotte dalle relazioni coloniali e neocoloniali: le migrazioni sarebbero una conseguenza dell’impoverimento delle regioni del mondo sottoposte al dominio dell’Occidente e legate ad esso da rapporti di dipendenza. Un’altra versione dell’approccio strutturalista è rappresentata dalle più complesse teorie del Sistema Mondo, secondo cui la crescente globalizzazione delle comunicazioni e degli scambi incrementa i legami tra le diverse aree del pianeta. Le migrazioni sono quindi viste anche in questo caso come un effetto della dominazione esercitata dai paesi del centro su quelli della periferia dello sviluppo capitalistico. Giacché il modello capitalistico si espande attraverso il mondo, gli insediamenti di attività produttive in paesi in via di sviluppo generano uno sconvolgimento delle società tradizionali: le culture diverse da quelle occidentali vengono colonizzate ed emarginate e si creano così le condizioni culturali e materiali che favoriscono le migrazioni per lavoro. Alla prospettiva del sistema-mondo si collega anche l’idea secondo cui le migrazioni si caratterizzano come processi di costruzione e incessante rielaborazione di relazioni tra aree di origine e aree di destinazione di flussi. In questo senso muove la Teoria Sistemica delle Migrazioni: le migrazioni sono soltanto una delle componenti dei sistemi di legami che pongono in relazione paesi diversi e andrebbero analizzate nel contesto complessivo in cui si collocano. In altri termini: le persone emigrano da un certo paese verso un altro, perché tra i due stati già esiste una serie di legami che favoriscono e incanalano le migrazioni in quella direzione. A queste letture del fenomeno si può obiettare che le differenze economiche profonde e le disuguaglianze tra aree di partenza e di destinazione non sono sufficienti a produrre movimenti di popolazione da un paese ad un altro. Al di sotto di un certo reddito le persone difficilmente riescono a muoversi verso altri paesi, tanto più se lontani, perché non hanno le risorse per viaggiare; al di sopra di un’altra soglia, l’emigrazione si riduce notevolmente, perché le persone avvertono meno il bisogno di emigrare. I paesi più interessati dall’emigrazione sono quelli intermedi, quali India, Messico, Cina, mentre l’Africa ha meno migranti internazionali nel mondo. Inoltre, la migrazione da paesi più poveri è di corto raggio, si dirige quasi sempre verso i paesi vicini. Gli immigrati non provengono generalmente dagli stati più poveri del paese d’origine, ma semmai prevalentemente dalle classi medie. Una visione che muove dal versante opposto nella lettura del fenomeno, ossia dai fabbisogni delle società riceventi, ma che risulta affine a quella appena analizzata nel considerare le migrazioni come un processo strutturale, è stata proposta dalle teorie che pongono al centro della spiegazione delle migrazioni la domanda di lavoro povero da parte dei sistemi economici dei paesi sviluppati. L’archetipo di queste interpretazioni è la nota teoria marxista dell’esercito industriale di riserva: l’ingresso nel mercato del lavoro di manodopera immigrata sarebbe voluto dal sistema capitalistico, nel momento in cui i lavoratori cominciano a organizzarsi e ad avanzare rivendicazioni. In periodi di 1 sviluppo, in cui aumenta la domanda di lavoro, se il numero dei lavoratori che si propone sul mercato del lavoro resta costante, il loro potere contrattuale si innalza, e possono chiedere salari più alti, orari ridotti. Per contrastare questo rischio, i datori di lavoro hanno a disposizione un’arma: favorire l’ingresso nel mercato di nuovi lavoratori, meno organizzati, più bisognosi di lavorare e disposti ad accettare le condizioni imposte dai datori di lavoro. Una versione più sofisticata del rapporto tra domanda di lavoro e immigrazione è stata proposta da Piore con la sua Teoria Dualistica del Mercato del Lavoro, che ha collegato il bisogno di manodopera immigrata con il funzionamento dei sistemi economici occidentali: si produce così una suddivisione del mercato del lavoro in due segmenti: il primo (mercato del lavoro primario), composto di posti di lavoro sicuri, tutelati sindacalmente, dignitosamente retribuiti, è appannaggio dei lavoratori dotati di maggiore forza contrattuale, ossia i maschi adulti nativi; il secondo (mercato del lavoro secondario) offre invece posti di lavoro precari, poco tutelati e mal retribuiti. In quest’ultimo vi confluiscono i lavoratori più deboli e quanti non hanno come interesse principale un posto di lavoro fisso e a tempo pieno: le donne con impegni familiari, i giovani ancora impegnati negli studi. A questi si aggiungono e si sostituiscono gradualmente gli immigrati stranieri. Gli immigrati si dedicano al lavoro senza troppo badare né alla qualità né alla stabilità, perché le loro aspirazioni sono orientate all’accumulazione di risparmi, al ritorno e ad investimenti nei luoghi d’origine. Un’altra versione dell’approccio domandista è rintracciabile nella Teoria delle Città Globali di Sassen, in cui l’accento è posto sulla ripresa delle metropoli come nodi strategici dell’economia internazionale: dopo il declino dell’industria manifatturiera, i grandi poli urbani si sono trasformati in sedi dei centri direzionali delle imprese che operano ormai su scala mondiale. Attorno alle direzioni strategiche tende a concentrarsi l’apparato dei servizi ad alta qualificazione, ossia finanza, pubblicità, marketing. Si determina così una polarizzazione della popolazione urbana. Crescono le componenti privilegiate, formate da dirigenti e professionisti ad alto reddito, mentre declina la classe media, con le sue occupazioni stabili a reddito dignitoso. All’altro estremo della scala sociale si allargano le fasce di lavoratori manuali che servono ad assicurare attività necessarie al funzionamento delle città globali, come la manutenzione delle strutture direzionali o le attività richieste dai lavoratori ad alto reddito per sostenere uno stile di vita agiato, ossia babysitter, ristoranti. Queste figure, dall’occupazione precaria e dai redditi più bassi della classe operaia di cui prendono il posto, sono fornite in gran parte dalla nuova immigrazione. Il problema di questi approcci è nuovamente quello di trattare gli individui come soggetti passivi, strappati alla loro terra e ricollocati in un contesto alieno. Alle spiegazioni macro, o di tipo strutturale, si oppongono le visioni che spiegano i fenomeni migratori a partire dal livello micro, quello delle decisioni individuali. I comportamenti migratori possono essere considerati come scelte individuali, spontanee e volontarie, basate su calcoli razionali di massimizzazione dell’utilità, ossia sul confronto tra la situazione in cui il potenziale migrante si trova e il guadagno atteso dal trasferimento. È questo l’approccio dell’economia neoclassica, secondo cui i salari differenti e diverse opportunità tra i territori sono la cornice strutturale che fa da sfondo alle scelte dei singoli. Si assume, come dato di partenza, che, una persona sia propensa a scegliere quello in cui il valore del risultato atteso sia maggiore. Il confronto tra il guadagno che il proprio lavoro può offrire nel paese d’origine e quello conseguibile trasferendosi in un altro paese fornisce la chiave per passare dal piano macro (i dislivelli di sviluppo economico tra aree diverse del mondo) e il piano micro (la decisione individuale di partire). La possibilità che il trasferimento all’estero aumenti la redditività del capitale umano posseduto, inteso come capacità di lavoro derivante dall’età, dalla salute, dall’istruzione, è infatti il fattore fondamentale che produce i processi migratori. Ma la scelta di partire comporta anche costi, tangibili, e intangibili, che vanno confrontati con i vantaggi ottenibili. Questo spiega perché alcuni partano e altri preferiscano rimanere nel paese d’origine. Quanto agli effetti, le migrazioni innalzerebbero i salari nei paesi di origine e li deprimerebbero in quelli di destinazione. Quando le due situazioni raggiungono un punto di equilibrio, le migrazioni cessano. La teoria economica neoclassica viene criticata poiché tende a ridurre le motivazioni umane alla sola dimensione economica, e ad analizzare i migranti solo in quanto lavoratori. Questo approccio condivide un punto debole con le teorie strutturali, in quanto non è in grado di spiegare 2 infrastrutture urbane, sia per il mantenimento dell’alto tenore di vita delle fasce privilegiate. Alcuni fenomeni degli ultimi decenni hanno però messo in questione entrambe le prospettive. Uno di essi è rappresentato dall’esplicita richiesta di immigrati istruiti e professionalmente qualificati. In generale, l’immigrazione si è diversificata e non coincide più soltanto con la domanda di lavoro a bassa qualificazione. Sul piano teorico, gli avanzamenti più interessanti sono rappresentati dall’applicazione ai fenomeni migratori di concetti e approcci interpretativi derivanti dalla c.d. nuova sociologia economica, una prospettiva che ha proposto l’idea di una Costruzione sociale dei processi economici. Aspetti come i legami sociali, le appartenenze culturali o l’inserimento in contesti di relazioni interpersonali vengono studiati come fattori influenti per comprendere comportamenti e rapporti squisitamente economici. Ad esempio: in un luogo di lavoro entra dapprima una persona di una determinata nazionalità; poi, se questo primo inserimento ha successo, ne vengono assunte altre, legate alla prima da vincoli di parentela, amicizia o anche comune nazionalità. Il datore di lavoro, in assenza di altri criteri affidabili di selezione, tende a fare affidamento sulle reti di relazioni fra i lavoratori immigrati per approvvigionarsi della manodopera di cui necessita, avendo constatato che queste gli procurano lavoratori affidabili e volenterosi. Quindi le relazioni sociali influenzalo le decisioni economiche. Nei termini del dibattito sociologico degli ultimi anni, un altro concetto è quello di Capitale Sociale, che genera accreditamento e fiducia: chi è conosciuto e gode di una buona reputazione avrà più probabilità di essere assunto, se cerca lavoro, o di ottenere credito, se desidera avviare un’attività. Il fatto più rilevante nella mappa migratoria europea degli ultimi decenni è stato il cambiamento di status dei paesi affacciati sul Mediterraneo, da aree di partenza ad aree di destinazione. Oggi l’Italia è in ampia misura esportatore di cervelli e importatore di braccia. L’invecchiamento della popolazione comporta infine un aumento della domanda di lavoro di cura, che grava tradizionalmente sulle donne nell’ambito familiare (nei paesi scandinavi questa domanda è assorbita in buona parte dal settore pubblico, mentre nei sistemi di welfare dell’Europa meridionale vi è ampio uso di manodopera immigrata). I fattori che hanno determinato questa domanda di lavoratori immigrati sono diversi: una struttura industriale ancora consistente, ma basata su piccole e medie imprese operanti spesso nell’industria leggera (abbigliamento, tessile) hanno richiesto lavoro operaio con condizioni insalubri o gravose; l’edilizia, i settori turistici e alberghieri, la raccolta di prodotti agricoli, sono ambiti che richiedono quantità consistenti di lavoro immigrato, ma presentano caratteristiche di stagionalità e discontinuità dell’occupazione, con punte elevate di lavoro sommerso; nel terziario urbano gli immigrati lavorano specialmente nelle pulizie e disinfestazioni, nei ristoranti, nella manutenzione del verde, tutte attività modeste ma importanti per il funzionamento quotidiano della vita urbana; infine le donne immigrate sono assunte dalle famiglie per svolgere compiti domestici e di assistenza agli anziani. Completano il quadro i profondi Squilibri Territoriali, che affiancano nello stesso paese regioni con tassi di disoccupazione tra i più alti dell’UE, e regioni e aree locali con situazioni di quasi piena occupazione e problemi opposti, di carenza di manodopera. Mentre in passato i deficit di forza lavoro registrati nelle regioni sviluppate dell’Italia settentrionale venivano compensati dalle migrazioni interne, provenienti dalle regioni del Mezzogiorno, oggi vari fattori, come l’aumento dei livelli di istruzione dei giovani o la protezione familiare per diversi anni hanno rarefatto gli spostamenti interni di manodopera, specialmente quando si trattava di occupare posti di lavoro operaio: i livelli salariali raffrontati ai costi della vita, la scarsità di prospettive di carriera, le perdite in termini di relazioni sociali rendono poco attraente una scelta del genere. In Italia gli immigrati hanno tassi di occupazione più alti che nell’Europa centrosettentrionale, ma sono schiacciati verso il basso nelle gerarchie occupazionali. Nel nord Europa al contrario una minore occupazione va di pari passo con condizioni occupazionali più variegate e relativamente più favorevoli. Si può parlare per il nostro paese di diversi Modelli territoriali di impiego del lavoro immigrato. Il primo modello è basato sull’Industria diffusa, tipico delle aree di piccola impresa e dei distretti industriali, concentrato nelle aree territoriali maggiormente cresciute negli ultimi trent’anni, dalla Lombardia Orientale al Friuli, fino a raggiungere la Toscana e le Marche. Qui si assumono immigrati soprattutto in relazione alle esigenze dei cicli produttivi. Il secondo modello è quello Metropolitano, che ha in Milano e Roma i suoi epicentri. Qui il lavoro immigrato è fin dagli 5 inizi in larga prevalenza terziario e edile, inserito nei circuiti delle attività meno qualificate e più instabili delle complesse economie urbane. Collaboratrici familiari e addette all’assistenza domiciliare ne sono le figure più note. Un terzo modello è quello delle Attività instabili, precarie e in larga parte irregolari dei contesti economici meridionali, fra cui le più note sono quelle legate all’agricoltura, ma riguardano anche l’industria turistico-alberghiera, la ristorazione, l’edilizia. Un modello intermedio tra industria diffusa e impieghi instabili è rintracciabile in alcune realtà centrosettentrionali in cui l’occupazione degli immigrati segue andamenti stagionali abbastanza prevedibili: un caso noto è quello del Trentino-Alto Adige che assorbe ogni anno molti ingressi per lavoro stagionale agricolo o all’industria alberghiera. In molti punti della complessa geografia delle economie contemporanee è tornato alla ribalta il lavoro nero, privo di coperture previdenziali e assicurative, non tutelato dai contratti di lavoro, caratterizzato dall’evasione di tasse e contributi. È vero però che l’arrivo di una forza lavoro che si viene a trovare nella necessità di reperire al più presto possibile un lavoro, spesso qualunque lavoro, rappresenta un bacino di reclutamento favorevole ai datori di lavoro interessati al risparmio sul costo del lavoro e alla flessibilità pressoché assoluta derivanti da rapporti di impiego non codificati formalmente. Non si deve però credere che l’economia sommersa rappresenti un ambito separato e contrapposto all’economia ufficiale. In realtà vari intrecci di convenienze e complicità collegano i due settori: la concorrenzialità delle imprese operanti a pieno titolo nell’economia ufficiale si nutre della combinazione di fattori produttivi diversi, una parte dei quali rimanda al ricorso a varie forme di lavoro irregolare (es: un’impresa in regola può appaltare le pulizie ad un’impresa del settore che, per contenere i costi, impiega anche lavoratori in nero). Si distinguono 3 grandi ambiti di lavoro irregolare contraddistinte da diversi gradi di continuità e volontarietà: lavoro irregolare dipendente, lavoro irregolare indipendente, lavoro coatto. 1) Il lavoro irregolare dipendente può essere: - Lavoro occasionale e stagionale: che comporta un’elevata mobilità e transitorietà dell’inserimento cioè il lavoro bracciantile non regolarizzato soprattutto nelle campagne di raccolta che richiedono un utilizzo intensivo di manodopera per periodi di tempo ridotti. - Lavoro semicontinuativo: che comporta una certa continuità di rapporto con il medesimo datore di lavoro, ma viene utilizzato per coprire picchi di domanda, cioè l’inserimento in attività edilizie o nel settore turistico-alberghiero, in relazione agli andamenti ciclici dell’attività. - Lavoro stabile e continuativo: che pur non essendo formalizzato, presenta caratteristiche di continuità che lo fanno assomigliare a un normale rapporto di lavoro a tempo indeterminato, come l’occupazione aziendale nel basso terziario, nell’artigianato, nell’edilizia o l’occupazione domestica che pur non essendo formalizzato presenta caratteristiche di continuità nel tempo e stabilità. 2) Il Lavoro Irregolare Indipendente si distingue in: - autoimpiego di rifugio, lavoro svolto senza regolari licenze da immigrati che non hanno altre opportunità di lavoro o evadendo gli obblighi amministrativi e fiscali (commercio ambulante abusivo); - inserimento promozionale, finalizzato a un progetto di attività autonoma, in cui la situazione irregolare è concepita come una fase provvisoria (imprese etniche gestite da familiari). 3) Il Lavoro Coatto si distingue in: - lavoro coatto in azienda, ossia le prestazioni di lavoro dipendente a cui gli immigrati sono costretti, in genere da loro connazionali, e garantite da forme di pressione e di ricatto, in cui si configura un rapporto più di schiavitù che di lavoro dipendente; - lavoro coatto nella prostituzione, solo apparentemente esercitata liberamente, in quando di solito dietro alla donna che si prostituisce c’è una rete di sfruttamento e di costrizione. 6 La domanda di lavoro incontra l’offerta immigrata attraverso due canali, spesso intrecciati: le reti informali create dagli stessi immigrati, e l’azione di istituzioni solidaristiche e servizi specializzati che favoriscono l’incontro tra domanda e offerta. Inoltre, un mercato del lavoro in cui la domanda è rappresentata in prevalenza da piccole e medie imprese, in cui il ruolo delle istituzioni pubbliche nel favorire l’incontro tra domanda e offerta risulta assai debole, tende a privilegiare forme di regolazione definite Microsociale, in cui il capitale sociale degli individui, sotto forma di appartenenze e legami interpersonali, ha un peso assai cospicuo nella ricerca di un’occupazione. Ne consegue che il reclutamento avviene soprattutto attraverso conoscenze personali, a cui l’imprenditore si affida nella ricerca dei requisiti che gli interessano. Capitolo 4 Capita spesso di osservare che gli immigrati di una certa nazionalità si concentrino in un determinato settore o svolgano la medesima occupazione, ma la ricerca sul campo dimostra che un immigrato non svolgeva la medesima attività nel paese di origine. Gli studi dimostrano l’incidenza dei legami sociali che producono l’incontro tra domanda e offerta di lavoro. Ciò vale anche per i lavoratori nazionali, ma per gli immigrati i fattori relazionali sono ancora più decisivi, giacché essi non sempre dispongono di un’adeguata conoscenza della lingua italiana, non hanno studiato nel paese ricevente e solo in alcuni contesti (non in Italia) riescono a far valere senza troppi ostacoli i titoli di studio conseguiti in patria. Ritroviamo quindi il concetto di network o di Rete Sociale: le reti migratorie sono complessi di legami interpersonali che collegano migranti, migranti precedenti e non migranti nelle aree di origine e destinazione, tramite vincoli di parentela, amicizia e comunanza di origine. Nella letteratura internazionale si parla di Reti Etniche, come sinonimo di reti migratorie, per intendere le reti di persone che condividono una comune origine nazionale; si parla poi di Specializzazioni Etniche quando le reti di connazionali si insediano in maniera significativa in una determinata nicchia del mercato del lavoro. Nell’ambito americano ha avuto una certa diffusione il concetto di Enclave Etnica che indica una peculiare concentrazione residenziale di una popolazione immigrata, capace di dar vita a imprese e istituzioni proprie, che spaziano dalle scuole alle chiese. Tale fenomeno è tipico soprattutto nei paesi con storie di immigrazione più antiche. Quei particolari gruppi di immigrati definiti Diaspore, forti di solito di una lunga storia di intraprendenza all’estero, danno spesso luogo anche a quartieri d’insediamento con una peculiare connotazione culturale. Teoricamente le assunzioni operate tramite le reti di contatti sociali riducono l’efficienza del mercato nel realizzare l’incontro tra domanda e offerta di lavoro, in quando si abbassa la probabilità che le imprese trovino i lavoratori più adatti e che i lavoratori trovino l’occupazione che meglio corrisponde alle loro capacità e aspirazioni. Ma, al contempo, le reti riducono i costi della raccolta di informazioni da ambo i lati, accelerano la circolazione di notizie riguardo le nuove opportunità. L’azione delle reti sociali costruite dai migranti è stata studiata come una delle più notevoli forme di Costruzione Sociale di Processi Economici. Porre in rilievo il ruolo delle reti e quindi dell’iniziativa dei migranti non è soltanto una connotazione descrittiva, ma significa uscire da una visione economicista in cui la variabile determinante è la domanda dei datori di lavoro, rispetto alla quale l’offerta non farebbe altro che adeguarsi, per assumere invece un approccio Interattivo e dinamico, sensibile nei confronti dell’autonomia degli attori sociali e dell’incidenza delle istituzioni. Per gli immigrati stranieri in Italia, le reti di relazione tra persone che condividono la medesima origine nazionale rappresentano la principale agenzia di supporto nei percorsi di inserimento e il punto di riferimento prossimo nei mille problemi della vita quotidiana. I tratti specifici delle reti migratorie, rispetto ad altre reti sociali, possono essere ricondotti a due aspetti: anzitutto si tratta normalmente di reti più concentrate ed esclusive di quelle della popolazione autoctona. Di solito ciascuno di noi partecipa a diverse cerchie sociali, quali lavorative, familiari, comunitarie. Per gli immigrati queste cerchie si sovrappongono e tendono a coincidere. In secondo luogo, non accade ancora diffusamente in Italia, ma si sono formate aggregazioni occupazionali a base etnica in cui la provenienza e l’occupazione tendono a legarsi strettamente. Questo avviene perché per gli immigrati sono preponderanti i legami forti, basati su vincoli familiari o di stretta amicizia, mentre sono assai più tenui i legami deboli, basati sulla semplice conoscenza 7 nel settore delle tecnologie e dei servizi per la tutela dell’ambiente. Pressoché insostituibile è poi il contributo delle reti migratorie nel mantenimento di riferimenti identitari, nell’organizzazione collettiva e nell’eventuale azione politica, rivolta alla lotta contro la discriminazione e alla tutela dei diritti degli immigrati. Diversi effetti negativi della solidarietà etnica vanno attribuiti anche alla carenza di interventi istituzionali compensativi dei limiti delle reti di mutuo sostegno di parenti e connazionali. Capitolo 6 Negli ultimi decenni l’attenzione verso le Migrazioni Femminili è molto cresciuta. Il cambiamento è avvenuto nei fatti, giacché è aumentato il numero di donne che emigrano, e che emigrano da sole per cercare lavoro, al pari degli uomini. Già in epoche precedenti le donne emigravano per svolgere occupazioni come quella di balia, cameriera, prostituzione. L’aspetto che ha maggiormente catalizzato l’attenzione degli studiosi è stato quello dei processi discriminatori di cui le donne sono vittime. Si parla al riguardo di una doppia, o tripla, discriminazione: le donne migranti sono discriminate in quanto donne e in quanto immigrate. A queste due forme se ne aggiunge una terza, la discriminazione di classe, intesa come classe operaia, vengono viste come adatte a svolgere determinate occupazioni e non altre. Alle donne immigrate si applicano con grande frequenza stereotipi che ne restringono le possibilità di impiego ed espressione di sé: gli ambiti occupazionali di fatto accessibili faticano a fuoriuscire dal lavoro domestico-assistenziale, con qualche estensione verso imprese di pulizie, settore alberghiero e simili. Le analisi centrate sui processi di discriminazione si collocano, sotto il profilo teorico, nella prospettiva Strutturalista, in quanto condividono l’orientamento a far discendere i comportamenti individuali da cause macro-sociali e a vedere le persone come soggette a pressioni che le sovrastano e determinano il loro destino. L’impiego di donne immigrate in attività domestiche è sempre più comune nel mondo sviluppato, e in Europa questo settore rappresenta il più importante serbatoio di opportunità occupazionali per le nuove arrivate. Con un gioco di parole si definiscono le attività domestiche con la formula delle 3 C: cooking, cleaning, caring. Si distinguono 3 profili professionali del lavoro domestico-assistenziale: 1. il primo, generalmente il più faticoso ed esigente, anche in termini psicologici, e’ quello di assistente a domicilio di anziani con problemi di autosufficienza. Oltre ai normali compiti di cura della casa, vengono qui richieste prestazioni di tipo assistenziale e parasanitario, come quelle di lavare, tenere in ordine, mettere a letto e alzare le persone assistite, tenere sotto controllo il loro stato di salute, a volte medicare, somministrare farmaci. In questo segmento di mercato è ampio l’impiego di donne immigrate in condizioni irregolare, a causa della pesantezza delle condizioni occupazionali, perché la domanda interessa anziani e famiglie con redditi modesti che non potrebbero permettersi personale contrattualmente in regola, e infine perché questa occupazione permette alle persone appena arrivate di rendersi invisibili ad eventuali controlli. 2. Il secondo profilo è quello della collaborazione familiare fissa, coresidente, un’occupazione che sembrava destinata a un declino irreversibile per carenza di candidati disponibili. Il lavoro in questo secondo ambito e’ solitamente meno pesante, ma non meno costrittivo per l’autonomia personale e la vita privata. Se i giorni di riposo e gli orari sono generalmente più rispettati, la qualità del rapporto di lavoro dipende molto dall’atteggiamento della padrona di casa e dei suoi familiari. Anche qui trovano lavoro parecchie donne prive di permesso di soggiorno, retribuite al di sotto di livelli contrattuali, ma anche persone regolarmente assunte. 3. il terzo profilo è quello della colf a ore. Rappresenta spesso un’evoluzione dei primi due, per quanto riguarda le donne straniere, ma può anche trattarsi del primo sbocco occupazionale per le donne giunte insieme ai familiari o al seguito del marito. Il vantaggio di questa occupazione è infatti quello di svincolarsi dalla convivenza con i datori di lavoro, di acquisire autonomia personale, di poter organizzare una propria abitazione (per le donne sole, di solito insieme ad altre donne connazionali), oppure di poter ricongiungersi con la propria famiglia. La relativa facilità nel trovare occupazioni nel settore domestico-assistenziale ha come contrappunto una drammatica e perdurante difficoltà a uscirne per inserirsi in attività più qualificate. Ne derivano alcune conseguenze. La prima è la saldatura tra uno stereotipo etnico e uno stereotipo di genere (una volta si diceva la donna per indicare la collaboratrice familiare, oggi si dice la filippina). La seconda conseguenza investe le scelte e le prospettive delle donne immigrate, in quanto molte donne si 10 adattano alla situazione rinunciando a perseguire ambizioni di miglioramento sociale. In terzo luogo, non mancano i riscontri non solo di un’estesa violazione degli obblighi contrattuali ma anche di abusi e prepotenze, si dà per scontato che a esse si possano richiedere prestazioni e imporre condizioni di lavoro che non si oserebbe più pretendere da lavoratrici italiane. Si verificano anche processi definibili in termini di familiarizzazione, in quanto soprattutto gli anziani tendono a sviluppare attaccamenti affettivi: assistiamo a una riedizione di forme di patronage, in cui i datori di lavoro assumono una sorta di protettorato nei confronti della lavoratrice, trattandola umanamente e aiutandola in vario modo, ma sempre in forme volontaristiche e revocabili, prive delle certezze dei contratti e dei diritti moderni. In molti casi poi si tratta di madri che lasciano i figli piccoli in patria, affidati alle nonne, alle zie o ad altri parenti, per venire ad occuparsi di bambini e anziani delle società affluenti: si formano così delle famiglie transnazionali, in cui madri e figli vivono in paesi diversi. Va tuttavia considerato che, nonostante ragioni di sofferenza, la percezione soggettiva della situazione da parte delle donne coinvolte può differire dalla loro collocazione strutturale: per molte donne dell’est o del sud del mondo, occupazioni che a noi appaiono dequalificate, perché connotate da uno stigma di subordinazione sociale, possono essere vista come un veicolo di emancipazione. Nei percorsi delle donne primo-migranti che partono in cerca di lavoro, sono rintracciabili anche aspirazioni a una vita più libera e dignitosa, svincolata dal controllo di strutture familiari intrise di maschilismo e di condizionamenti sociali di vario genere. L’indipendenza economica derivante dai salari che guadagnano diventa così una forma primordiale ma essenziale di promozione sociale. Le visioni macro- strutturaliste sono state criticate in quanto tendono a trascurare le persone, a perdere di vista gli individui migranti che manifestano capacità di scelta e autonomia decisionale. Si sono affermati approcci che valorizzano il protagonismo, lo spirito di iniziativa, la capacità strategica e progettuale delle donne che partecipano ai processi migratori. Il protagonismo femminile si esplica a diversi livelli. È stato notato che le stesse migrazioni temporanee maschili comportavano già in passato un aumento di autonomia delle componenti femminili, che assumevano la guida della famiglia, sostituivano i mariti in attività come quelle agricole e se ne assumevano la responsabilità anche nei rapporti economici. Le donne più degli uomini tradizionalmente si sentono legate alla famiglia e sono educate ad esserlo, e anche la decisione di partire esprime legami affettivi e obblighi morali persistenti: le migrazioni femminili sono più dipendenti da ragioni familiari di quelle maschili. Le rimesse rimandate in patria ne mostrano tangibilmente l’attaccamento verso i familiari. Proprio il fatto di procurare risorse che giovano al gruppo familiare nel suo insieme innalza lo status delle donne migranti e ne aumenta il potere decisionale in seno alle famiglie: le donne migranti diventano il perno delle strategie di mobilità sociale. In altri casi l’emigrazione può essere invece la conseguenza della rottura di un matrimonio, o anche un modo per sottrarsi a un’unione infelice. Nel mercato del lavoro non sempre le donne sono penalizzate rispetto ai loro partner. La dedizione alla sfera domestica e familiare è stata riletta come luogo di protagonismo e iniziativa, tanto nei contesti delle società tradizionali quando nei contesti di immigrazione. Sono proprio le donne, quando hanno sufficiente libertà di movimento e possibilità di costruire reti sociali, a gestire importanti funzioni di mediazione culturale: sono esse, tramite la gestione dei legami sociali, a tener viva la cultura del gruppo etnico di appartenenza, grazie soprattutto agli scambi di doni e servizi. Anche nei rapporti con la società ospitante, le donne migranti sono state viste come tessitrici di rapporti e promotrici di processi di integrazione. Un tema ricorrente riguarda il ruolo delle famiglie come protagoniste delle strategie di sopravvivenza e di accompagnamento nel processo di inserimento, fornitura di risorse per l’avanzamento sociale, luogo di protezione. La famiglia rappresenta un fattore di normalizzazione delle condizioni di vita dei migranti, che attraverso la formazione o la ricostruzione di una compagine familiare accrescono i rapporti con le istituzioni e con la società locale e assumono pratiche sociali e stili di vita più simili a quelli della popolazione autoctona. Alcune analisi hanno cercato di approfondire le dinamiche dell’incontro tra pratiche tradizionali importate dai luoghi di origine e stili di vita appresi nel nuovo contesto, che proprio nella famiglia danno vita a una molteplicità di espressioni e di tensioni, producendo nuove forme di vita familiare. Sul piano culturale le famiglie immigrate incontrano nuove norme e valori. Di contro, codici culturali e simbolici che gli immigrati portano con sé dalla madrepatria continuano a influenzare valori familiari, norme e comportamenti (ad es. i tassi di matrimoni endogamici, contratti all’interno dello stesso gruppo etnico o nazionale, restano elevati, e tramite essi le famiglie immigrate tendono a preservare identità religiose e culturali distinte). Un aspetto emergente delle dinamiche familiari è quello delle c.d. 11 Famiglie transnazionali, in cui i membri dell’unità familiare, in particolare gli adulti, vivono in paesi diversi rispetto ai figli. L’attenzione va in modo particolare alle madri migranti, che segnano una discontinuità nei confronti del passato, quando a emigrare da soli erano eventualmente i padri. Le madri emigranti delle famiglie transnazionali, anche a distanza, continuano a prendersi cura dei figli, sforzandosi di rendersi presenti, di mantenere una comunicazione frequente, di assicurare supporto e guida emotiva. A queste pratiche di cura familiare a distanza si aggiunge il flusso di risorse economiche garantito dalle rimesse, che assicurano la sopravvivenza e gli studi o le possibilità di iniziativa economica dei congiunti rimasti in patria (c.d. transnazionalismo dal basso come tratto saliente delle migrazioni contemporanee). Vi sono due strategie attraverso le quali le famiglie transnazionali si sforzano di rispondere alla separazione fisica. La prima è denominata Frontiering (gestione delle frontiere), e denota mezzi usati dai membri delle famiglie transnazionali per creare spazi familiari e legami relazionali in situazioni in cui i rapporti di parentela sono dispersi dall’emigrazione all’estero. La seconda strategia è definita Relativising (gestione delle parentele), e si riferisce ai vari modi in cui gli individui stabiliscono, mantengono o troncano i rapporti con altri membri della famiglia. Nelle famiglie transnazionali si riduce la convivenza fisica mentre si espandono le relazioni a distanza. Però al centro dei legami familiari, specialmente per le madri, si attesta un nucleo duro, quello del rapporto con i figli e della volontà di prendersene cura, anche se a distanza, definibile come Caring. Attorno a questo nucleo si articolano strategie e investimenti delle famiglie migranti. Il caring va quindi premesso al frontiering e al relativising come elemento che struttura la vita delle famiglie transnazionali. Studi più recenti hanno inoltre posto in rilievo che l’attività di cura nei confronti dei familiari circola in diverse direzioni, e non soltanto dalle madri lontane verso i figli in patria (ad es fratelli e sorelle rimasti in patria assumono l’incarico di accudire gli anziani genitori, aiutati dalle rimesse dei congiunti emigrati). Da questa osservazione scaturisce il concetto di Circolazione delle cure, che pone in risalto le varie pratiche di accudimento che legano i diversi membri delle famiglie separate dai confini in reti di reciprocità e obblighi morali, affetto e fiducia; mentre il concetto di Catene globali della cura si concentra sul ruolo delle madri. Le donne adulte tipicamente sopportano un carico molto maggiore di responsabilità di cura, sono grandi fornitrici e modeste percettrici di pratiche di cura. Tuttavia, le famiglie transnazionali non formano un blocco omogeneo, ma si hanno differenze e specificità. Si possono distinguere: - famiglie transnazionali circolanti, caratterizzate da mobilità geografica in entrambe le direzioni, con rientri abbastanza frequenti da parte delle madri, visite e vacanze dei figli in Italia e scarsa propensione al ricongiungimento; - famiglie transnazionali intergenerazionali, in cui le lavoratrici-madri hanno un’età più matura e figli grandi, cercano di massimizzare i benefici economici del loro lavoro, ma acquistano anche una libertà di movimento impensabile in patria; - famiglie transnazionali puerocentriche, madri con figli anche giovani, divise da loro da grandi distanze, impegnate nell’accudimento a distanza. Molta letteratura sulle famiglie transnazionali adotta una visione statica, come se queste fossero destinate a restare per sempre separate dai confini. In realtà per molte di queste famiglie quella transnazionale è una fase del ciclo di vita familiare, seguita da processi di ricongiungimento. La concezione delle migrazioni come semplice dislocazione a tempo definito di manodopera e l’irrigidimento normativo sul fronte degli ingressi hanno complicato la condizione delle famiglie separate dall’emigrazione. Nello stesso tempo i sistemi normativi degli stati occidentali, pressati dai progressi dei diritti umani e dalle convenzioni internazionali che li hanno codificati, hanno dovuto riconoscere le aspirazioni degli immigrati a riunificare la propria famiglia nei paesi in cui si erano ormai stabilmente insediati. I governi hanno però cercato di limitare di fatto il diritto al ricongiungimento, prevedendo ad esempio per potervi accedere il raggiungimento di determinati standard economici e abitativi. La motivazione addotta è soprattutto quella dell’aggravamento dei carichi assistenziali a seguito dell’arrivo di famiglie indigenti, pronte a ricorrere all’assistenza pubblica. Se si pensa tuttavia alla crescita della sensibilità culturale e politica per i diritti dei bambini, all’importanza attribuita alla presenza dei genitori accanto a loro, è legittimo domandarsi se il diritto all’integrità familiare sia sottoponibile a criteri di censo, se dunque sia possibile escludere le famiglie straniere povere. La cittadinanza genitoriale rimane disuguale e discriminante. Inoltre, l’immigrazione familiare appare il luogo di comunità impermeabili al contatto con la 12 grado di accessibilità delle istituzioni formali del welfare state (medicina, alloggio, educazione); grado di accessibilità delle istituzioni informali (familiari, amici e conoscenti); grado di accessibilità dei circuiti criminali. Tali istituzioni svolgono un ruolo nell’integrazione degli immigrati irregolari. Laddove l’appoggio delle reti etniche e di altri attori è efficace e orientato alla legalità, è più probabile che gli immigrati, benché irregolari, riescano a sottrarsi ai circuiti devianti. Laddove l’appoggio non funziona o è inquinato da componenti malavitose, è più probabile che i nuovi arrivati vi vengano coinvolti. Un aspetto rilevante della devianza degli immigrati consiste nella violazione delle norme che i paesi riceventi fissano rispetto alla possibilità di soggiornare legalmente ed eventualmente di lavorare sul proprio territorio. Con il termine immigrati irregolari si indicano coloro che, entrati legalmente, hanno visto scadere l’autorizzazione a soggiornare. Vengono sovente distinti dagli immigrati illegali, ossia quanti hanno compiuto qualche azione dolosa per riuscire ad entrare nel paese ricevente. Si distingue una terza categoria, quella dei Migranti Trafficati, ossia persone che vengono persuase o costrette a emigrare da altri, interessati a trarne profitto o a sfruttarle una volta giunte a destinazione. La frontiera per alcuni è diventata una risorsa, non più per il vecchio contrabbando di merci ma per il più moderno transito di esseri umani. Il viaggio, a sua volta, sta ridiventando per un numero crescente di migranti un’esperienza rischiosa, travagliata. Questa particolare industria dell’attraversamento dei confini sarebbe più strutturata e presidiata da organizzazioni criminali, per le quali il trasporto di candidati all’immigrazione rappresenta un business in rigoglioso sviluppo. Si distinguono in proposito, a livello di istituzioni internazionali, Smuggling e Traffcking: il primo termine si riferisce al semplice aggiramento dei vincoli d’ingresso, al favoreggiamento dell’ingresso irregolare, e lo smuggler è colui che dietro compenso aiuta dei clienti consenzienti a varcare illegalmente una frontiera. Il secondo termine identifica il più grave fenomeno della tratta di esseri umani, e il trafficante è colui che fa entrare delle persone in un altro paese con l’inganno o con la violenza, per tenerle sotto il suo potere e sfruttarle in diversi modi, oppure per rivenderle ad altri trafficanti. Il punto decisivo consiste nel consenso e nella collaborazione attiva delle persone fatte passare attraverso le frontiere: nel caso del traffcking questi elementi mancano, oppure sono estorti, mentre sono una componente imprescindibile dello smuggling. Tra i candidati all’immigrazione, non solo le scarsissime possibilità di ingresso legale spingono alla ricerca di canali alternativi per riuscire a entrare nel sospirato occidente, ma determinano conseguenze nelle selezioni dei partenti. Se di solito sono stati storicamente gli individui più capaci e volitivi a decidere di emigrare, allorquando si tratta di attraversare illegalmente le frontiere e di correre seri rischi per la propria incolumità, cresce la probabilità che a partire siano soggetti che non hanno niente da perdere, senza grandi remore nei confronti della violazione della legge. Una nota analisi dell’industria del passaggio delle frontiere come business globale, composta da componenti legali e illegali, è stata proposta da Salt e Stein. Il traffcking in questa visione ingloba lo smuggling, ed è inserito come elemento fondamentale nel migration business, definito come un sistema di reti che comprende un insieme di istituzioni, agenti specializzati e individui, che partecipano all’attività per ricavarne profitti economici. Salt e Stein distinguono 3 stadi del traffcking: la mobilitazione, ossia l’incitamento a partire e il reclutamento dei migranti nei paesi di origine; il loro viaggio attraverso i confini degli stati; l’inserimento nel mercato del lavoro e nelle società di destinazione. Si è mantenuta l’idea di una struttura organizzativa del traffico gerarchica e articolata, impegnata a sviluppare un business multi-criminale. Van Liempt propone una classificazione distinguendo 3 tipi di passatori: trafficanti occasionali, non professionali che operano in specifici contesti regionali; reti su piccola scala, gruppi ben organizzati che si focalizzano su due o più paesi; reti su larga scala, organizzate a livello internazionale, con molte persone coinvolte, in grado di offrire svariati servizi lungo tutta la rotta. Ricerche condotte in Africa o seguendo le tracce dei migranti hanno poi arricchito la conoscenza della figura dei passatori. Il ruolo del trafficante si articola in diverse figure: comprende le guide che accompagnano i migranti a piedi attraverso le frontiere; gli autisti che li trasportano in auto; gli intermediari che mettono in collegamento guide e autisti. Alpes ha invece analizzato la figura dei migration brokes, ossia gli intermediari che nei paesi di origine (nel suo caso il Camerun) reclutano i candidati all’emigrazione. Questi venditori di speranze, benché biasimati come criminali dalle ambasciate dei paesi di destinazione e dagli organismi 15 internazionali, sono grandemente ammirati dalla gente comune e riescono a raccogliere cospicue somme di denaro promettendo aiuto per partire. Per contro, la criminalizzazione dei passatori da parte delle politiche securitarie ha innalzato i rischi per le persone trasportate, poiché i passatori ricorrono a barche sempre più fragili, guidate da personale non preparato, gestite da reti predatorie. L’importanza politica attribuita alla vigilanza dei confini ha altresì alimentato una massiccia crescita degli investimenti nel settore, favorendo una lobby di produttori di tecnologie di sorveglianza e di identificazione, un ridispiegamento di apparati e mezzi militari in nuovi compiti di vigilanza, un aumento dei corpi armati delle frontiere. Il migration business è sorto in risposta alla chiusura dei confini e genera a sua volta una ricca e potente industria del controllo dei confini stessi. Vale la pena approfondire l’ingresso di giovani donne straniere da immettere nel mercato della prostituzione. La questione rileva alcune analogie con aspetti dei fenomeni migratori già analizzati: l’ingresso e la rapida espansione di un’offerta straniera in questo ambito trovano un riscontro in una domanda interna molto ampia e insoddisfatta; altra analogia è il rapporto tra l’emancipazione delle donna italiane e la loro sostituzione con donne straniere; un terzo collegamento riguarda l’incidenza di forme di specializzazione etnica (sono alcune componenti nazionali ad alimentare l’offerta di prostituzione). I due gruppi più attivi sono stati per diversi anni quello nigeriano e quello albanese. In quello nigeriano, centrali appaiono le figure delle maman, sia nella fase di reclutamento delle ragazze nei luoghi di origine, facendo balenare opportunità di lavoro e di guadagno, sia nella gestione dell’attività in Italia. Queste acquistano le ragazze facendole venire in Italia e vantano poi il diritto di rivalersi dei costi sostenuti vincolando la libertà delle ragazze al pagamento di un debito. Questa modalità di gestione del traffico comporta anche una capacità di manipolare bisogni affettivi e relazionali, accrescendo il consenso e facendo della maman un modello da imitare. Inoltre, è una figura considerata degna di stima, in quanto, grazie ai suoi guadagni, ha sottratto la propria famiglia a un destino di povertà e di stenti. Una volta pagato il loro debito, le ragazze nigeriane sono formalmente libere, e molte decidono di mettersi in proprio per poi acquistare altre ragazze che lavorino per loro. Il caso albanese appare più complesso e stratificato. Nei primi anni ’90 le ragazze venivano attirate da “fidanzati” che le andavano a cercare nei villaggi di origine, convinte e partire per l’Italia, poi obbligate a prostituirsi con minacce e sevizie. Dalla seconda metà degli anni ’90 in poi sono intervenute però diverse innovazioni organizzative, che hanno trasformato sempre più questo sistema criminale in senso imprenditoriale. Dal 2007 in poi il racket albanese ha lasciato il business della prostituzione ad altri gruppi dell’est europeo, in particolare i rumeni. Un punto assai discusso della questione concerne le sfaccettature del rapporto tra costrizione e consenso. Se è vero che non tutte le donne migranti che lavorano nei mercati del sesso occidentali sono vittime di tratta, va però riconosciuto che molte delle migranti gravemente sfruttate hanno scelto (in condizioni di gravi vincoli) di prostituirsi e di affidarsi a reti potenzialmente rischiose in funzione della realizzazione di un progetto migratorio. Molto spesso la prostituzione appare infatti come l’unica soluzione per poter emigrare. Occorre, in una prospettiva sociologica, porre in luce i processi che concorrono alla costruzione dell’offerta di prostituzione straniera. È sempre necessario domandarsi come sia stato costruito il consenso e quali vincoli lo sostengano. In primo luogo, il drammatico scompenso tra domanda e offerta di migrazione genera il primo anello del traffico di essere umani, rappresentato dal debito contratto, che comporta soggezione ai creditori, i fattori di debolezza derivanti dalla frequente condizione di immigrata irregolare, l’età molto giovane e la conoscenza scarsa o nulla della lingua e delle istituzioni del paese ospitante e pressione psicologica che spaziano dalle minacce alle promesse e servono a piegare la capacità di autodeterminazione delle donne immesse nel mercato del sesso. Ma vi sono anche forme più sottili e ambigue di condizionamento della libertà personale: è capitato, in lavori di ricerca che hanno compreso interviste a donne ormai uscite dalla tratta, di cogliere forme di rammarico o di ambivalenza nei confronti dello sfruttatore, poiché avevano in lui l’unico punto di riferimento e a volte aspiravano al suo affetto. Nel processo di costruzione della cooperazione delle vittime del traffico, va richiamato infine il problema dell’asimmetria informativa, in quanto le uniche informazioni che arrivano alle donne vengono fornite loro dagli sfruttatori. 16 Capitolo 11 La discriminazione razziale risulta essere una pratica diffusa. Le analisi dell’argomento muovono dal fenomeno del pregiudizio, alla base del quale stanno meccanismi operativi tipici dei processi cognitivi della mente umana: la conoscenza richiede classificazione, ossia distinzione e ordinamento degli oggetti in categorie in una certa misura precostituite. Si tende quindi a conoscere generalizzando, ossia costruendo categorie collettive e riconducendo a esse i casi individuali che ci sembrano classificabili nell’ambito delle categorie con cui abbiamo già familiarità. Il problema nasce quando i processi di Categorizzazione danno luogo a forme di generalizzazione indebita, che consistono nell’attribuire a tutti i membri di un determinato gruppo sociale (etnico) alcuni comportamenti o caratteristiche rilevati o sperimentati, o anche solo attribuiti, a uno o ad alcuni individui del gruppo. Dai pregiudizi nascono gli stereotipi, ossia rappresentazioni rigide, standardizzate, per lo più intrise di valutazioni stigmatizzanti, che si applicano a gruppi sociali considerati collettivamente, appiattendo le differenze tra i casi individuali e semplificando la realtà. Questi processi di categorizzazione si incontrano con un’altra dinamica psicosociale, l’Etnocentrismo, ossia la tendenza a distinguere il proprio gruppo (in-group) dagli altri gruppi (out-group), e a conferire una preferenza sistematica agli interni nei confronti degli esterni. Un derivato del pregiudizio etnico e dell’etnocentrismo è la Xenofobia, ossia l’atteggiamento di rifiuto o di paura nei confronti degli stranieri. La prima reazione di fronte allo straniero è la diffidenza, l’ostilità; ma vi può essere anche curiosità e attrazione. Si parla persino di Xenofilia, ossia di simpatia aprioristica verso gli stranieri. Resta però assodato che nelle società contemporanee le reazioni difensive verso quella particolare categoria di stranieri, ossia gli immigrati, tendono a prevalere nettamente sulla propensione all’apertura e all’accoglienza. Questo complesso di atteggiamenti si traduce nel pensiero razzista ordinario. L’ostilità razziale tende ad acutizzarsi in determinati frangenti e in certi gruppi sociali: si collega a processi di mutamento sociale che innescano in alcune componenti della società la paura di un declassamento e si manifesta in forme più acute in quelle che si sentono più minacciate dai nuovi arrivati. Il desiderio di marcare le distanze sociali, ribadendo una superiorità giustificata solo in base all’appartenenza etnica (senza comprendere ricchezza, istruzione), fonda le forme popolari di razzismo. Si comprende perché manifestazioni più dirette e marcate di pregiudizio razziale siano usualmente più diffuse nelle classi inferiori delle società riceventi, ossia nelle componenti della società che sotto il profilo abitativo od occupazionale sono più a contatto con i nuovi arrivati e desiderano distinguersi da loro. Prevale un sentimento di invasione, degli spazi pubblici e commerciali, da cui discende la percezione di un abuso e una crescente insofferenza verso l’utilizzo ritenuto improprio degli spazi: strade, parchi. Compare poi il riferimento a una versione naturalizzata della cultura degli immigrati, come spiegazione dei comportamenti inappropriati, insieme all’idea di una non volontà di adeguarsi alle regole della società ricevente. Infine, trapela un certo vittimismo (“siamo noi che dobbiamo adeguarci”). Se in questo si tratta delle reazioni di residenti in un quartiere popolare, non va dimenticato che altre forme di pregiudizio etnico sono invece più diffuse o anche tipiche delle classi superiori: la percezione degli immigrati come minaccia per la sicurezza, per l’identità culturale o per l’ordine sociale. la complessità del fenomeno ha dato luogo a diversi tentativi di spiegare le ragioni per cui si sviluppano le diverse manifestazioni di xenofobia e razzismo. Si distinguono 4 approcci. 1. Teorie della scelta razionale: xenofobia e razzismo deriverebbero dalla rivalità competitiva tra immigrati e popolazione autoctona per l’accesso a risorse scarse, come i posti di lavoro. 2. Teorie funzionaliste: riconducono la xenofobia alla differenza culturale e alla presunta incapacità di integrarsi degli immigrati, in quanto provenienti da società arretrate. 3. Teorie della comunicazione discorsiva, secondo cui la distanza culturale o l’incapacità di assimilarsi sono elementi di una costruzione sociale dell’alterità degli immigrati, basata su pratiche comunicative categorizzanti e stigmatizzanti, a cui concorrono vari attori, dai mass media alle élite politiche, che ne favoriscono l’esclusione dal corpo della società e consentono di dominarli. 17 per effetto della frequenza dell’inserimento in occupazioni usuranti o pericolose; nella possibilità di accedere al lavoro autonomo a causa delle limitazioni previste da normative. In questo orizzonte si possono distinguere due aspetti della questione: il primo riguarda il ruolo delle istituzioni politiche, e si riferisce al superamento delle forme ingiustificate di discriminazione istituzionale e di esclusione degli immigrati stranieri da opportunità e benefici; il secondo si riferisce invece ai processi di inclusione/esclusione che si producono nelle interazioni sociali quotidiane. Qui le azioni antidiscriminatorie possono erigere barriere contro forme più esplicite di discriminazione, ma non possono certo obbligare cittadini nazionali a sviluppare relazioni di buon vicinato o di amicizia con i residenti stranieri. Le azioni possibili di spostano quindi sulla promozione culturale ed educativa. Capitolo 12 I rifugiati rappresentano oggi il capitolo più ingombrante e scomodo della questione planetaria delle migrazioni internazionali. La base di partenza è la Convenzione di Ginevra, che definisce il rifugiato in senso stretto come una persona che risiede al di fuori del suo paese di origine, e che non può o non vuole ritornare a causa di un ben fondato timore di persecuzione per motivi di razza, religione, nazionalità, opinione politica. Negli anni ’90, in seguito soprattutto alle guerre balcaniche, è stata introdotta la figura della protezione sussidiaria per i profughi di guerre e violenze etniche. Chi ne è titolare viene protetto in quanto, se ritornasse nel paese di origine, andrebbe incontro al rischio di subire un danno grave. Oltre alla categoria dei rifugiati è stata introdotta in Italia e in altri paesi la figura della protezione umanitaria, riferita agli sfollati e ad altre persone in condizione di pericolo simile a quella dei rifugiati, ma che dà accesso a una tutela di grado inferiore e di durata incerta, in quanto provvisoria e reversibile. A differenza della protezione sussidiaria, che viene accordata a chi appartiene a gruppi vulnerabili, indotti a fuggire dal loro paese, la protezione umanitaria veniva concessa su basi individuali, caso per caso, tenendo in considerazione l’eventuale rimpatrio. La maggior parte dei rifugiati nel mondo sono tuttavia Sfollati interni, persone fuggite a causa di conflitti e persecuzioni, ma hanno trovato riparo in altre regioni del proprio paese. Non avendo varcato confini non possono invocare la tutela dell’ONU e rimangono in balia del proprio governo. Più controversa è un’altra categoria, quella dei rifugiati per cause ambientali. A differenza delle precedenti, questa categoria non ha ancora trovato un riconoscimento giuridico, ma incontra una crescente popolarità nel dibattito pubblico. Si usa distinguere a riguardo due componenti: una è quella delle persone costrette a lasciare le loro case a causa di progetti di sviluppo su larga scala (costruzioni di dighe o estrazione di idrocarburi); la seconda riguarda invece gli sfollati provocati dai cambiamenti climatici e disastri naturali o direttamente dall’uomo. Le migrazioni collegabili a cause ambientali sono comunque principalmente migrazioni interne, concentrati prevalentemente nell’Asia sud-orientale. Un’altra questione spinosa riguarda le situazioni di rifugio protratte. Parecchi rifugiati sperimentano molti anni di esilio, spesso confinati in campi, senza speranza di ritorno o integrazione nel paese ospitante, protette ma poste in una condizione che impedisce loro di soddisfare una serie di diritti fondamentali e di bisogni economici e sociali. Il Terzo Mondo è da anni l’area di origine della maggior parte dei migranti forzati. Due su tre vengono da 5 paesi soltanto (Siria, Afghanistan, Sud Sudan, Myanmar, Somalia). Un dato particolare riguarda i luoghi di accoglienza. I paesi più impiegati nell’accoglienza sono quelli più prossimi ai paesi sconvolti da guerre, persecuzioni, governi oppressivi (la Turchia ospita siriani, il Pakistan gli afghani, l’Uganda i congolesi). I PVS sono dunque in primo piano come luoghi di origine, ma sono anche in prima fila nell’accoglienza. Molto consistente si rivela l’impatto delle migrazioni forzate sui paesi più deboli. È vero che ricevono aiuti internazionali, ma i rifugiati in ogni caso pesano sui sistemi sanitari, educativi e soprattutto sul mercato del lavoro, oltre a modificare equilibri etnici e culturali. Molti rifugiati rimangono per anni nei campi o in altre situazioni precarie. Vi sono due possibili vie d’uscita: il ritorno e il reinserimento in altri paesi. I ritorni continuano a riguardare soltanto una modesta proporzione di rifugiati, mentre i reinsediamenti, ossia il trasferimento in un paese terzo più sicuro dopo quelli di primo asilo, sono molto più sviluppati: prima della presidenza Trump gli USA erano il primo paese nell’accoglienza dei rifugiati reinsediati, con Canada, 20 Australia, GB ed FR. In questa cornice si inserisce l’iniziativa italiana dei corridoi umanitari, varati da alcune organizzazioni religiose in accordo con le autorità governative. Nell’ambito dell’UE, con la Convenzione di Dublino è stato introdotto l’obbligo di presentare domanda di asino nel primo paese sicuro, con l’impossibilità di reiterarla altrove. Il varo del sistema Frontex e i successivi sviluppi, all’insegna della missione ufficiale di contrastare l’immigrazione illegale, hanno di fatto contribuito a limitari anche gli arrivi dei rifugiati. Queste misure di contenimento discendono da un cambiamento dell’immagine dei rifugiati, sul piano culturale e politico: da soggetti meritevoli di protezione, com’era alla fine della 2GM, a migranti internazionali non autorizzati. Costruiti come immigrati illegali e etichettati come clandestini, i richiedenti asilo oscillano tra l’essere oggetto di repressione e compassione. Per contro però, di fronte a tragedie umanitarie portate nelle case dai media, alle reazioni dell’opinione pubblica e alle pressioni delle OI, i governi hanno dovuto introdurre nuove categorie, come la protezione sussidiaria o forme di protezione umanitaria. Il nostro paese ha strutturato un sistema di accoglienza farraginoso e dominato da una logica emergenziale. Si possono distinguere: 1) strutture di prima accoglienza e smistamento, suddivise tra centri di primo soccorso e accoglienza (CPSA), centri di accoglienza (CDA), centri di accoglienza per richiedenti asilo (CARA), situati soprattutto nelle regioni meridionali, con compiti di primo soccorso, identificazione, raccolta di domande di asilo. Le persone dovrebbero rimanervi per pochi giorni, ma molte vi sono rimaste per mesi. 2) centri del sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (SPRAR-SIPROIMI), che prevede un’accoglienza integrata per gruppi limitati di persone, in collaborazione con i comuni che si candidano presentando gli appositi progetti, promuovono reti locali e assicurano alle persone accolte il pieno accesso ai servizi del territorio, offrendo sostegno psicologico e morale. Il sistema ha però due punti deboli: una dotazione insufficiente di posti a causa delle resistenze dei comuni a aderirvi; una concentrazione nelle regioni del mezzogiorno in cui trovare sbocchi lavorativi è più difficile che al centro-nord. 3) centri di accoglienza straordinaria (CAS), istituiti come soluzioni di emergenza per tamponare la mancanza di posti nel sistema SPRAR a seguito dell’aumento delle domande di asilo. In questo caso sono i prefetti a individuare le strutture e i soggetti privati da ingaggiare nell’accoglienza: cooperative sociali, albergatori, e altri operatori economici. In conclusione, vi è l’esigenza di operare una saldatura tra accoglienza umanitaria e percorsi di integrazione nella società ricevente: tra una protezione passivizzante e una bassa tolleranza si inserisce la proposta di percorsi di presa in carico e accompagnamento verso l’autonomia; tale contesto può essere superato con opportuni investimenti in percorsi personalizzati di integrazione, cosicché immigrati e rifugiati possano diventare una risorsa. Il caso estremo di estranei rifiutati, posti ai margini della società è quello delle popolazioni rom o sinti (nel caso siano storicamente insediati nelle regioni dell’Italia settentrionale). Sono membri di una minoranza etnica priva di territorio che ha mantenuto nei secoli alcune peculiarità distintive, rappresentate in modo particolare dalla lingua, il romanés. Tuttavia, ci troviamo di fronte ad un mosaico di gruppi sociali, tra loro diversi per nazionalità, religione, data di arrivo. Essere definiti rom o sinti comporta una stigmatizzazione gravida di conseguenze, che molti cercano di evitare. Essi restano al di fuori del perimetro della pur precaria accettazione economica dell’immigrato. Entrano in azione nei loro confronti i meccanismi del pregiudizio: definizione in forma collettiva di minoranza etichettata senza riguardo per le articolazioni interne e differenze individuali; applicazione di denominazioni dispregiative; confinamento ai margini della società; che siano così per natura o come si dice oggi per cultura. Anche politiche inizialmente animate da buone intenzioni, come quelle dei campi nomadi hanno generato effetti perversi: tali misure, all’insegna della precarietà e insieme della rigida regolamentazione delle pratiche abitative, hanno contribuito in maniera decisiva ad aggravare il problema dei c.d. nomadi. Proprio l’organizzazione degli insediamenti temporanei, con la difficoltà a trovare altre aree di sosta, tende a far diventare permanenti soluzioni che dovrebbero essere provvisorie, istituisce sovente grandi contenitori difficili da controllare e gestire, obbliga alla convivenza forzata famiglie e gruppi tra loro ostili. Accanto ai campi-sosta autorizzati si sono sviluppate, spesso spontaneamente, altre soluzioni abitative: parcheggio di roulotte abusive in terreni di proprietà o insediamenti non autorizzati in aree pubbliche. Le condizioni insediative precarie determinano in modo decisivo le opportunità di vita in generale e la 21 possibilità di percorsi lavorativi, tutela alla salute, inserimento scolastico e accesso ai servizi. La polemica che si concentra intorno alla realizzazione di nuovi insediamenti autorizzati appare in larga misura fuorviante. Di solito si mette in scena un conflitto tra popolazione maggioritaria e installazione di gruppi rom e sinti in appositi campi. Istituzioni internazionali e vari esperti tendono invece a spostare la discussione su un altro piano, ponendo a tema il superamento della forma-campo, inteso come insediamento numeroso, controllato, permanente, collocato ai margini dei contesti urbani e scollegato da interventi adeguati di integrazione e promozione sociale. In altri termini, la maggior parte dei rom preferirebbero abitare in alloggi normali, non sono affatto desiderosi di vivere in campi ai margini della città, affollati e sprovvisti di servizi. Sotto il profilo economico, rom e sinti sono in un certo senso dei sopravvissuti: alle guerre balcaniche, alle pulizie etniche, agli sconvolgimenti politici e sociali dell’Europa orientale. Il lavoro è un mezzo per procurarsi quanto è necessario per vivere, ma la lotta per la sopravvivenza comporta uno sfruttamento oculato e a suo modo razionale delle risorse che l’ambiente offre. Si possono distinguere varie fonti di reddito: attività svolte al servizio della vita collettiva dell’insediamento; ricerca dell’elemosina; ricorso a magre assistenze che gli enti pubblici devono in alcuni frangenti assicurare; richiesta di aiuti alle organizzazioni caritative; attività illegali. La presunta omogeneità delle nazioni, politicamente costruita più che prodotta spontaneamente, è oggi complicata dalla crescente eterogeneità della popolazione residente: bisognerebbe passare da una solidarietà meccanica, basata sulla somiglianza vera o dichiarata, ad una solidarietà organica, in grado di tenere insieme le diversità. È una solidarietà ancora inedita, che va scelta, progettata, costruita per prevenire la formazione di una società segmentata e conflittuale. Non è vero che il mondo di oggi è senza confini: per molti aspetti i confini sono permeabili, ma più per le merci che per le persone, più per i benestanti che per i bisognosi; ciò determina conseguenze per il rimescolamento delle popolazioni, appartenenze, identificazioni culturali. Forme di integrazione sono nate, ma hanno un carattere precario. Manca ancora un salto di qualità, una capacità di fluidificare i confini dell’accettazione culturale e politica, che negli ultimi anni sembra conoscere irrigidimenti e chiusure, più che forme di mescolanza. 22
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