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Riassunto libro “Storia della Moda, XVIII -XXI secolo” di Enrica Morini, Appunti di Storia Del Costume

Riassunto dei capitoli che compongono il libro di Morini. Libro obbligatorio da studiare per l'esame di "Storia della moda e del costume" UNI-ECAMPUS

Tipologia: Appunti

2022/2023

In vendita dal 26/07/2023

alessia_ecampus
alessia_ecampus 🇮🇹

4.7

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35 documenti

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Scarica Riassunto libro “Storia della Moda, XVIII -XXI secolo” di Enrica Morini e più Appunti in PDF di Storia Del Costume solo su Docsity! Riassunto libro “Storia della Moda, XVIII -XXI secolo” di Enrica Morini CAPITOLO 1: IL LUSSO, LA MODA, LA BORGHESIA Il lusso è una delle chiavi interpretative più rilevanti per comprendere la moda occidentale. A partire dal Medioevo la moda è stata prerogativa di un piccolo gruppo che ha usato l’abbigliamento per manifestare la preminenza del proprio ruolo all’interno di una determinata comunità; in Europa Occidentale, tra XIII e XIV secolo, l’abito inizia a rappresentare una posizione ovvero un ruolo sociale della persona che lo indossa secondo regole non rigide ma soggette al gusto personale degli individui a cui è stata riconosciuta una preminenza estetico-culturale. “Far vedere ed essere visti” era la regola dell’Ancient Regime: il potere di natura aristocratica e divina, si organizzò per difendere la propria preminenza istituzionale dal meccanismo di ascesa sociale della borghesia e cercò di reprimere, sia con la persuasione moralistica che con l’introduzione delle leggi suntuarie, qualsiasi confusione delle rispettive posizioni. Con l’epoca della Riforma Protestante, modestia e moderazione diventano le veri doti da comunicare attraverso l’abito: il lusso in senso borghese era un modello di consumo per far girare le merci e produrre ricchezza: su questo si era fondato “The fable of the bees” di Mandeville che dette inizio ad un dibattito sui concetti di: lusso (effetto della pulsione alla legittimazione economica) e fasto (principio economico dello spreco). Nel corso del ‘700 si assiste alla crescita di un modello di consumo borghese, caratterizzato dalla distinzione dallo sperpero degli aristocratici, con un impegno produttivo e culturale di valori come il benessere, la salute e la comodità. La donna doveva sposarsi e avere figli, una funzione che la eliminava da qualsiasi ruolo pubblico: indossava colori chiari, passamanerie e merletti. Indumenti leggeri e comodi che assunsero la foggia dell’abito inglese che liberava il corpo femminile dalle costrizioni. L’abito maschile non poteva cambiare, in quanto riconosciuto come una sorta di divisa, mentre quello femminile ebbe una storia diversa: nel mondo borghese esse si qualificavano per il loro stato che dipendeva dal marito o dal padre, e quindi rendevano testimonianza del successo maschile attraverso i loro abiti. A fine ‘700 la moda si occupò sempre di più del costume femminile e sempre meno di quello maschile. La centralità della borghesia rendeva inattuale la possibilità di lasciare alla sapienza aristocratica il compito di continuare a proporre una moda cortigiana separata da quella borghese, per questo motivo nel corso del XVIII secolo le corporazioni della moda allentarono le loro restrizioni sulla suddivisione tra chi vendeva, commerciava, tagliava e cuciva i tessuti con la conseguenza di offrire al compratore la possibilità di non essere l’unico responsabile dell’assemblaggio di un idea di moda, ma essere aiutato da un professionista che gli metteva a disposizione dei servizi. Nascono i “merchandes des modes” che divenne una vera e propria corporazione dal 1776, Rose Bertin ne fu il primo sindaco. Abbigliamento e moda assunsero un valore emblematico: la necessità di apparire non era stata cancellata ma doveva assumere nuove forme. A metà ‘700 il modello più diffuso in Francia era la “robe à la française” che prevedeva una gonna con panier aperta sul davanti a mostrare la sottana e una pettorina triangolare che copriva il busto. La moda inglese prevedeva invece, un corpino attillato e una gonna montata a piccole pieghe in modo da essere più abbondante sui fianchi e sul dietro, il cui scopo era dare ampiezza all’indumento senza ricorrere al panier, che fu sostituito da imbottiture e rigonfiamenti a tornure. L’ultima esclusiva dell’Ancient Regime fu l’abito di corte con lo strascico, irrigidito da corsetti e panier monumentali. Se il lavoro della sarta avesse riguardato la costituzione degli elementi base del vestito quello della modista sarebbe stato finalizzato ad ottenere un’infinita quantità di variazioni. Alla logica della decorazione sfrenata si sostituì quella della semplificazione che prese il sopravvento con il vestito all’inglese e l’elaborazione della redingote (derivante dal costume per l’equitazione) che introduceva nell’abbigliamento femminile un capo maschile. La vera rottura con il passato vestimentario avvenne quando venne esposto al Salon un “Ritratto di Maria Antonietta” realizzato da Lebrun in cui la regina indossava un abito bianco di mussolina dalla foggia molto semplice: una camicia dritta con le maniche lunghe con sbuffi di tessuto e una fascia in vita, l’ampiezza era trattenuta alla scollatura con una coulisse. Gran parte delle novità che fecero moda in questo periodo furono di Rose Bertin che creava abiti alla corte per Maria Antonietta. Le creazioni per cui Bertin rimase famosa sono i monumenti da testa dalle denominazioni allusive, ispirate ai fatti di corte. L’eleganza stava subentrando alla magnificenza e il lusso al fasto. Le nobildonne di corte facevano a gare per seguire le mode lanciate dalla sovrana e il resto del mondo copiava Versailles. Anche la diffusione delle nuove mode stava avvenendo in modo diverso: dalla bambole di moda alle incisioni, fino alle gazzette e al mercato di figurini e infine la stampa femminile “Cabinet des modes” che avrebbe trasformato la comunicazione di moda in strumento pubblicitario. CAPITOLO 2: L’APPARIRE RIVOLUZIONARIO L’affermazione del significato politico dell’abito, contro la tradizione del suo codice gerarchico, diede il via alla trasformazione e all’invenzione di una serie di segni rivoluzionari o controrivoluzionari. L’uguaglianza fu contrapposta al lusso: dalle acconciature scomparve la cipria e comparve la moda del taglio corto. L’abito borghese era il nuovo punto di riferimento. In questo periodo prese forma la divisa del sanculotto, ideologica e legata alla politica giacobina. Nella moda femminile il concetto base è la semplicità: serviva un vestito da città fatto per camminare in mezzo alla folla. Il 29 ottobre 1793 viene sancita la libertà totale di abbigliamento e vengono introdotti alcuni elementi che raffigurano la libertà nell’abbigliamento: il berretto grigio di panno rosso (libertà dalla tirannia), la “femme patriot” un redingote blu bordato di rosso e una gonna di lino bianco, la coccarda tricolore resa obbligatoria. Tutta questa libertà contribuiva a caratterizzare i personaggi che si succedevano nella vita politica francese come Marat e Robespierre. Tuttavia, la società si era presto suddivisa e la varietà delle offerte pubblicate sulle riviste e la qualità degli oggetti, testimoniano l’esistenza di un ceto alto che richiedeva una moda d’élite, che si rinnovava rapidamente e non rifuggiva le forme del lusso. CAPITOLO 3: LA MODA NEOCLASSICA Con la caduta di Robespierre finì la fase eroica e ideologica della Rivoluzione. Il Direttorio cominciò con feste e balli chiamati “bals des victimes” a cui partecipava solo chi aveva avuto un congiunto ghigliottinato durante il Terrore. Di gran moda furono i capelli tagliati à la victime, scialli rossi, nastri rossi al collo e un nastro rosso incrociato dietro al busto., detto croisures à la victime. La jeunesse doréé, composta da giovani borghesi, cominciò ad indossare indumenti ispirati alla moda inglese esagerandone forme ed effetti sartoriali. La divisa era costruita in modo da contravvenire alle regole dell’abbigliamento sanculotto, per dichiarare l’assoluta differenze di idee; avviene la rinuncia alla moda maschile. Dopo la caduta di Robespierre le donne cominciarono ad indossare abiti dritti di mussolina bianca, ispirati al neoclassicismo, cioè una riscoperta dell’antico avvenuta dopo la scoperta di Ercolano e Pompei. L’abito femminile eliminò le sovrastrutture e si ridusse ad una camicia di cotone leggero con vita alta segnata prima da una cintura e poi da un taglio sartoriale. Ai piedi di calzavano sandali che in seguito saranno sostituiti da scarpine con lacci alle caviglie, chiamate conturni. Per portare con sé le cose venne adottata una tasca, chiamata ridicule. L’abito era accompagnato dalla stola, un accessorio che rientrava nella logica del lusso e che era realizzato con tessuti preziosi o ricamato. Ricordiamo anche lo scialle in cachemire, prodotto in India e importato in patria dai soldati di Napoleone dopo la Campagna d’Egitto. Il lusso resuscitato ritrovava il suo meccanismo: si cancellò il principio dell’uguaglianza portato dalla Rivoluzione e nel 1975 veniva introdotta una nuova costituzione che prevedeva una repubblica basata sul censo e sulla proprietà. Nel ’97 tornarono anche le riviste di moda con “Journal des Dames” e alla fine del secolo Parigi era tornata ad essere il fulcro della moda. CAPITOLO 4: LA MODA IMPERIALE Il Direttorio terminò il 9 novembre 1799 quando Napoleone prese il potere con un colpo di stato. Se la società dei ricchi avesse voluto spendere per mostrare le proprie ricchezze, la società dei nobili avrebbe guardato con disdegno il cattivo gusto di questa ostentazione. Il modello a vita alta rimase, ma si cominciò a guardare con sufficienza le trasparenze più audaci, le nudità e gli eccessi. La veste lunga si cominciò a portare semicoperta da una tunica più corta, completata dallo spencer (una giacca corta con le maniche lunghe) e dall’intramontabile scialle cachemire. Dopo la Pace di Amiens l’abito da cerimonia divenne obbligatorio e gli uomini iniziarono a indossare nuovamente l’habit à la français con le culotte corte. La proposta di Worth divenne vincente negli anni ’70 quando Parigi fu sottoposta a un duro assedio che sfociò con l’esperienza della Comune. Il saccheggio del passato era la chiave estetica che guidava l’abbigliamento e l’arredamento: con la caduta della corte, il couturièr assunse il compito di arbitro unico del gusto e della moda. La riduzione del diametro delle gonne in favore dei drappeggi e delle decorazioni e l’introduzione del modello “Josephine” con un effetto di vita alta a favore della gonna segna il passaggio tra secondo impero e terza repubblica. In questo periodo Worth propose l’abito “princess” realizzato in un solo pezzo, dalla struttura di questo abito derivò una nuova moda: quella della corazza con un busto o corpetto steccato e modellato e la sopra gonna completamente aperta al centro in modo che i due lembi potessero essere ripresi sul dietro per formare uno strascico à mascolinizzazione della silhouette femminile. I modelli di Worth erano realizzati in stoffe lussuose e decorati sfarzosamente; erano oggetti di distinzione, legati a un concetto di unicità che si legava ad una logica artigianale-artistica. I suoi abiti erano artificiali e davano una forma illusoria del corpo femminile. Negli anni ’90 un ruolo da protagonista lo ricopre il figlio di Worth, Jean-Philippe con le prime concessioni al giapponesismo. La gonna fu alleggerita da tutti gli elementi decorativi e presentata con una forma a campana, accompagnata da corpetti aderenti e abiti “princess” che mettevano in risalto la semplicità della linea che veniva controbilanciata dalle “maniche a gigot”. Con l’affermarsi di una figura professionale incaricata di produrre creazioni esclusive: autentico diventava l’abito cucito all’interno della maison e corredato dall’etichetta. Il couturièr diventava un’artista. Il sistema commerciale che gli riuscì a costruire era composto da una rete di clienti appartenenti a diversi ceti sociali: aristocrazia e alta borghesia costituivano i modelli di riferimento dell’intera società mentre il demi-monde si incaricava di lanciare le ultime novità e le proposte più eccentriche. Worth riuscì a destreggiarsi con abilità fra le diverse necessità sociali: da un lato la vendita in esclusiva di modelli da realizzare all’estero e dall’altra la comunicazione sulle riviste di moda. La moda di Worth arrivò ad un pubblico vastissimo anche grazie all’acquisto da parte di magazzini americani e inglesi di abiti parigini destinati ad essere copiati. CAPITOLO 7: ANTIMODE E ABITI D’ARTISTA L’opulento stile di vita della borghesia ottocentesca trovò al proprio interno delle voci critiche e i primi oppositori: artisti e intellettuali che decisero di porre fine all’estetica dell’effimero e della vanitas proponendo modelli culturali alternativi. Anche la moda veniva considerata troppo artificiale e artefatta, scomoda ed eccessivamente decorata. • Alla fine degli anni ’40, Amelia Bloomer decise di adottare un abbigliamento più pratico delle gonne con crinolina e iniziò ad indossare dei pantaloni alla turca; ciò suscito uno scandalo, poiché le donne in pantaloni sfidavano la supremazia maschile e l’Occidente non poteva accettare che una donna indossasse l’indumento simbolo della mascolinità e Amelia dovette tornare all’abito tradizionale. • Un’altra lotta fu quella al busto, per il timore che la sua azione pregiudicasse la gravidanza. Questo timore poteva essere condiviso nella società borghese che vedeva nella maternità il solo status possibile per una donna, tuttavia, vi era il timore che l’abbandono del busto potesse spezzare il legame tra donna e famiglia. Il risultato fu un accordo tra i medici con i primi movimenti di emancipazione femminile. • Il movimento Art ad Crafts aveva lo scopo di ridiscutere il gusto nelle arti decorative e il modello di produzione capitalistica e industriale degli oggetti, contrapponendo la raffinatezza del lavoro artigianale. • Negli anni la ricerca di un nuovo canone a cui ispirare l’abbigliamento femminile s’intrecciò alla scoperta della cultura giapponese: l’abito estetico divenne un segno di riconoscimento delle signore della società intellettuale. Il progetto di una bellezza che rivoluzionasse lo spazio della vita quotidiana, era finalizzato a una sorta di missione educativa di cui gli artisti s’incaricarono inducendo un gusto più colto e raffinato nella società e costringendola ad una salto culturale. • Nel 1900 Deneken organizzò la prima mostra dedicata all’abbigliamento d’artista; i risultati più rivoluzionari furono presentati da Klimt che disegnò dei modelli ispirati alle tradizioni orientali che ispireranno le creazioni di Paul Poiret. • Nel 1890 si formò “The Healthy and Artistic Dress Union” che intendeva promuovere un modo di vestire che non fosse contrario alla salute ma che allo stesso tempo proponesse un alto valore estetico. Un esempio è Mariano Fortuny reinventò il modello del chitone e lo tradusse in una tunica il “delphos”. • All’inizio del ‘900 nasce il Futurismo che comunicò la propria idea di modernità attraverso i miti della metropoli, della macchina, della tecnologia che significavano una rottura totale con le estetiche del revival. Viene messo in discussione il modo di vestire degli uomini, proponendo l’uso del colore e dell’asimmetria. Nel 1914 Balla pubblica il “Manifesto futurista dell’abbigliamento maschile” in cui prende le distanze dall’aspetto desolante del costume del momento e detta i nuovi precetti dell’abito futurista: l’abbigliamento doveva modificarsi attraverso regole generali ma ciascuno, poi, era libero di cambiare l’aspetto esteriore degli indumenti attraverso elementi geometrici e colori diversi. Le realizzazione più interessanti furono i gilet assemblage progettati da Balla e Depero, che tuttavia non ebbero una grande diffusione. • La Russia voleva costruire un mondo e una società completamente diversa e nuova. I vestiti vennero presi in esame come componente simbolica e produttiva del nuovo progetto, il cui scopo era creare un abbigliamento per tutti che non comunicasse più i segni distintivi delle classi sociali di appartenenza. La ricerca di una nuova bellezza in ambito vestimentario tenne conto di due elementi: possibilità di una produzione industriale e legame con la tradizione popolare russa. Sul tessuto si concentrò il gruppo costruttivista che modificò il disegno tessile secondo principi geometrici, elevando tale ricerca ad arte, si concentrarono sull’abito da lavoro che si differenziava in base alle diverse mansioni, tuttavia, l’arretratezza del sistema produttivo russo non consentivano una produzione di massa. La Prima Guerra Mondiale portò ad una rivoluzione nell’abito femminile: le gonne si accorciarono, la linea si fece più dritta, il taglio si semplificò. L’invenzione di un nuovo modo di vestire coinvolse le nuove forme d’arte e il gusto déco. Thayht nel 1920 propose la tuta per gli uomini ovvero un indumento intero composto da camicia e pantaloni, abbottonato sul davanti e trattenuto da una cintura, progettato secondo uno schema geometrico che prediligeva la bidimensionalità del tessuto. Se la versione maschile fu presto dimenticata quella femminile ottenne un grande successo anche grazie alla collaborazione con Madame Vionnet. Sonia Delanay è un’artista russa trasferitasi a Parigi. Il suo incontro con il mondo dei tessuti e della moda ebbe un carattere privato e un contenuto provocatorio ed eccentrico. Durante un soggiorno in Spagna il rapporto divenne più professionale e decise si aprire a Madrid “Casa Sonia”; tornata a Parigi cominciò a realizzare abiti simultanei e robes-poemes (decorazioni con testi e poesie) per un ristretto gruppo di intellettuali e collezionisti: non tagliava i disegni e ciò consentiva ai colori di creare nuovi effetti dinamici sul corpo in movimento. CAPITOLO 8: PAUL POIRET Paul Poiret era figlio di un commerciante di tessuti. Da Doucet imparò l’arte del dettaglio e della realizzazione del taglio finale di un abito. Nel 1900 Poiret partì per il servizio militare e al suo ritorno trovò lavoro da Worth dove gli venne affidato il compito di rinnovare l’immagine della maison, egli propose un mantello a kimono e un tailleur ma la clientela di Worth era troppo affezionata al gusto vistoso e ai grandi ricami per accettare queste novità. Così Poiret decise di aprire la sua prima maison e per farsi conoscere decise di utilizzare la vetrina dell’atelier creando esposizioni spettacolari. Nel 1905 realizzò il mantello-kimono che sarebbe diventato il prototipo per una serie di creazioni successive e lo chiamò “confucius” nome che indicava l’influenza orientale sullo stilista. Poiret decise nelle sue creazioni di eliminare il busto per sostituirlo con una cintura rigida e steccata alla quale era cucita una gonna: il risultato iniziale fu un modello dritto a vita alta realizzato con materiali innovativi e con stoffe e colori provenienti dalle culture vestimentarie extra-europee. Il modello chiave della collezione prese il nome di “Josephine” ed era quello che più dichiarava l’ispirazione Impero. Poiret propose anche degli abiti di ispirazione esotica come la tunica “cairo”. Per comunicare tutte queste rivoluzioni fece uscire “Les robes de Paul Poiret racontes par Paul Iribe” un album composto da dieci tavole a colori dei suoi abiti (egli commissionò ad Iribe anche il logo a forma di rosa e la comunicazione coordinata aziendale). Fra il 1909 e il 1910 iniziò a Parigi la stagione dei Balletti Russi, che portò una rivoluzione nei costumi usati nel ballo con le creazioni di Bakst. Poiret cambia stile e si fa sempre più forte il richiamo alle culture antiche, orientali e arabe, il punto di svolta fu rappresentato dalla “jupe entravee” una gonna lunga e dritta che veniva serrata con una cintura sotto le ginocchia. La donna di Poiret era la femme fatale, oggetto di desiderio; ciò venne esplicitato con la “jumpe-culotte” un paio di pantaloni harem da portare come abito da casa sotto la tunica. L’impressione venne confermata con il secondo album pubblicitario, affidato a Le Pape, che rappresentava figure femminili acconciate con turbante che comunicavano le immagini di una vita pigra e lussuosa. Poiret era solito organizzare serate mondane nel giardino della sua maison, mettendo in scena tutta la sua immaginazione e la tendenza alla teatralità che si trasformava in una scena pubblicitaria straordinaria. L’incontro che lo segnò particolarmente fu quello con Klimt che lo fece affasciare al progetto estetico viennese. Così decise di aprire uno spazio nel quale un gruppo di ragazze poteva lasciare libero sfogo alla propria immaginazione in tutti i campi dell’arte applicata, era un tentativo di innovazione del gusto e un intuizione che la griffe di moda poteva veicolare anche prodotti non di abbigliamento. Nel 1914 scoppiò la guerra: Poiret fu inizialmente posto in un reggimento di fanteria e poi spostato negli archivi del Ministero della Guerra. A fine guerra collaborò all’organizzazione della “Fete Parisienne”, promossa da “Vogue”, dove sfilò con gonne accorciate e ampie sostenute dalla crinolina e con elementi di gusto maschile, tuttavia, Poiret uscì dalla guerra economicamente devastato e decise così di partire per il Marocco per ricercare un nuova ispirazione artistica. Nel 1922 fece un nuovo viaggio negli USA dove pensava che ci fosse spazio per i suoi modelli, ma qui si stava imponendo la moda “a la garçonne” che sanciva il successo di Chanel. Nel 1924 affidò la sua maison a una società di banchieri, vendette le sue proprietà e la sede dell’atelier. Pensò di rilanciarsi con l’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative e dell’Industria ma il consiglio d’amministrazione della società creata a suo nome si rifiutò di pagare le spese per l’adesione. I modelli di Poiret erano divenuti troppo complicati, decorati e lussuosi, egli lo comprendeva ma decise di restare fedele a sé stesso. Non accettava che l’America, con il suo funzionalismo e la sua cultura moderna aveva invaso l’Europa spazzando via la Belle Époque che veniva sostituita da un modello culturale interclassista. La donna voleva essere giovane, libera e indipendente e ciò si rispecchiava in una moda facile, semplice e comoda che poteva essere riprodotta senza ricorrere alle conoscenze di un sarto. CAPITOLO 9: COCO CHANEL Coco Chanel ha avuto una vita privata che risultò fondamentale per la sua carriera creativa. Ha dovuto adattarsi a diversi ambienti e creare un’identità che si adattasse ai mondi con cui si trovava ad avere dei rapporti. Ha creato la sua moda come un modo per comunicare la sua identità e impersonare l’ideale di una donna emancipata e libera. Il padre era un venditore ambulante occasionale, bevitore e donnaiolo che trascinò la sua famiglia in una vita miserabile, la madre era una donna fragile e morì molto giovane. Alla sua morte il padre sparì e Gabrielle e i suoi fratelli vennero affidati ai nonni che, tuttavia, non potevano prendersi cura di tutti i nipoti, così Gabrielle finì in orfanatrofi, dove restò fino al compimento dei 18 anni quando ricevette un’educazione in arti domestiche. Qualche anno dopo Gabrielle e sua zia Andrienne decisero di aprire una piccola attività in proprio: la conquistata autonomia consente loro di iniziare a frequentare la vita sociale e i giovani ufficiali che la popolano. Gabrielle tentò una carriera di cantante, di questo tentativo le rimase solo il soprannome: Coco, dal ritornello di una sua canzone. Etienne Balsan aveva acquistato Royallieu un monastero in cui voleva realizzare un allevamento di cavalli da corsa e chiese a Coco di andare con lui: qui ella scoprì un nuovo mondo costituito da scuderie e cavalli. In questi anni concepisce il suo modo di vestire, sui cui le uniformi e il loro ruolo ovvero quello di identità sociale e di riconoscimento, ebbero un importanza fondamentale: ciò che non le piaceva era il ruolo femminile che la moda incarnava ovvero l’odalisca di Poiret o la donna fastosa di Worth. Le sue abilità incuriosirono le donne di Royallieu tanto che chiese a Balsan di aprirle una modisteria a Parigi. L’attività ebbe molto successo e suo sostenitore divenne anche Arthur Capel, un uomo d’affari inglese che affittò la sede di Rue Cambon dove tutt’oggi ha sede la maison. Tra il 1910 e il 1911 le riviste iniziarono a pubblicare i suoi cappelli e nello stesso periodo Chanel restò affascinata dalla produzione artistica d’avanguardia: in particolar modo restò colpita da una prima di un balletto che suscitò grande scandalo ovvero “La sagra della Primavera”. Nell’estete del 1913 si recò con Boy Capel a Deauville in Normandia e qui capirono che era un luogo ideale per aprire una boutique di moda: la clientela era la stessa di Parigi ma con esigenze diverse, volte allo sport e all’aria aperta e quindi allo stile di vita vacanziero. Iniziò così a realizzare pullover e blazer in flanella che ottennero un grande successo. Il 28 giugno del 1914 scoppia la guerra e dopo la presa di Parigi, Deauville diventa la meta di chi fuggiva dalla capitale. Qui le signore si rifacevano il guardaroba con gli abiti di Chanel, l’unica che aveva scelto di restare aperta: gonne dritte, giacche alla marinara, scarpe con tacco basso, cappelli in paglia… Chanel tornò a Parigi e trovò una città in condizioni pietose e disfunzionale: la vita si era riorganizzata intorno alle donne e il Ritz era il luogo di ritrovo preferito dall’alta società parigina. Un altro luogo importante era Biarritz, cittadina basca, che contava un gran numero di imboscati o di quelli che, approfittando della guerra, volevano arricchirsi. Chanel decise di cogliere l’opportunità e aprire una maison proprio qui affidandola alla sorella Antoinette. Il governo francese comprese che la moda era una delle poche attività che potevano sostenere il bilancio del paese con l’esportazione e il consumo diretto; per supplire alla mancanza di materiali Chanel propose modelli in jersey. Dopo la guerra Chanel conobbe il Granduca Dimitri, nipote dello zar ucciso, e visse con lui per un anno nel quale Chanel entrò in un ambiente con regole e modelli culturali affascinanti da cui trasse grande ispirazione. Qui scoprì il profumo e fu il granduca ad indicarle il nome di Ernest Beaux, un chimico di San Pietroburgo: dalla loro collaborazione nacque Chanel N°5 che fu la prima realizzazione ad imboccare la strada dell’industria grazie, anche al contratto che Chanel stipulò con i Wertheimer per creare “Les Parfums Chanel”. Chanel aveva inventato “la povertà di lusso”, riusciva a tradurre elementi vestimentari maschili in segni di libertà e di distinzione femminile. Il 1926 è l’anno del tubino nero, che poteva essere indossato in ogni occasione: Vogue colse il significato di questo a Parigi: qui ha origine la sua passione. Dopo aver fatto una visita alla Maison Poiret resta affascinata da questo mondo e decide di iniziare a creare abiti. Il colore e il ricamo saranno i segni distintivi delle sue creazioni. La prima collezione è del 1927 ed è composta da maglieria dai colori accesi realizzata con materiali nuovi come il kasha (un cachemire morbido ed elastico). Il modello che la lanciò fu il golf armeno, un particolare punto a maglia ottenuto con due fili di lana che permetteva di realizzare un capo più consistente di quelli tradizionali europei e permetteva di inventare dei disegni utilizzando due fili di colore diverso, creando un effetto di trompe-l’oeil. La sua fantasia si scatenò con il golf dove comparvero cravatte, nodi, fazzoletti annodati, scialli, schemi per cruciverba ed effetti misti come foulard stilizzati che terminavano con pezzi di tessuto reale o cinture disegnate con vere fibbie di metallo. Successivamente le maglie vennero riempite di tatuaggi con cuori trafitti e scritte allusive. Nonostante l’alta richiesta di questi indumenti, Elsa ne limitò sempre la produzione per conservare un valore elitario e di alta moda. Il 1° gennaio 1928 aprì “Schiapparelli pour le sport” e cominciò a presentare abiti sportivi, colorati e decorati con immagini e scritte. La diffusione del nuoto e delle vacanze aveva portato a una trasformazione nel costume da bagno che veniva realizzato con lavorazioni a maglia più elastiche e aderenti; Elsa la fece diventare una delle sue caratteristiche insieme a quella del pigiama da spiaggia e dei completi in spugna. Anche per lo sci ricercò soluzioni più eleganti proponendo completi colorati e introducendo l’uso dei pantaloni jodhpur. Nei primi anni ’30 la collezione si allargò alle toilette da città e per la sera. I tailleur di tweed e le gonne-pantalone diventarono la specialità della casa insieme agli abiti da sera con la giacca. Era necessario che la sua proposta di moda venisse notata nei luoghi dell’alta società e per questo Elsa decise di indossare le sue creazioni nei party e nelle occasioni mondane. Nella battaglia dei sessi svoltasi negli anni ’30, i suoi abiti riflettevano la rivoluzione sociale in atto: la donna era difensiva di giorno e aggressivamente seducente la sera. Nacque così la silhouette a grattacielo: linee dritte verticali, spalle larghe e squadrate con il seno protetto da revers puntuti in colori contrastanti. Sulle spalle si concentrava il gioco delle decorazioni che aveva un significato ambiguo: se da un lato la loro collocazione enfatizzava l’effetto di armatura dall’altro sembravano sottolineare la femminilità. Nel 1933 propose la linea a scatola con cappe che scendevano dritte fino alle spalle formando angoli retti; l’anno dopo comparve la linea a cono ispirata a Poiret con suntuosi pijama da sera e poi la linea ad uccello con berretti alati, ali in spalla e cappe alate su giacche con colorazioni esotiche come piume di fenicottero e pappagalli verdi. Nelle sue mani le stoffe sintetiche diventarono chic, fu la prima ad utilizzare il latex, i velluti spessi e trasparenti e le lamine di cellophane. Nel 1935 la maison venne trasferita a Place Vendome e la boutique “Schiap” divenne l’ingresso attraverso cui passava la clientela dell’atelier. La formula del prêt-à-porter le procurò una fama immediata che le fece espandere la sua creatività anche nei profumi e nei bijoux. La vera novità riguardò le collezioni che dal ’35 ebbero una cadenza stagionale e cominciarono ad essere concepite intorno ad un tema d’ispirazione: la collezione estiva propose abiti da sera ispirati all’Oriente in mezzo ai quali vi era un oggetto d’avanguardia una “cappe de verre” ovvero un mantello corto da sera realizzato in un materiale trasparente simile al vetro; la collezione autunnale affrontò invece l’attualità con il giubileo di Giorgio V, la sinistra francese, il conflitto italo-etiopico, con l’introduzione delle cerniere. Nello stesso anno andò anche in Russia per presentare la couture francese alla Prima Fiera Internazionale Sovietica che Stalin aveva organizzato. La collezione del 1936-37 si adeguò invece alla moda neoclassica con abiti bianchi in sbieco scivolati sul corpo, ispirati all’abbigliamento delle statue greche. A partire dal 1936 le collezioni si articolarono su doppi filoni: da un lato si concentrò sull’elaborazione di contenuti e temi decorativi e dall’altra si affidò alla collaborazione con Cocteau e Dalì che dovevano creare singoli capi attraverso i quali doveva emergere il nuovo rapporto tra abito, corpo e pulsioni inconsce. Cocteau lavorò sul tema del doppio e sull’ambiguità creando una giacca di lino grigio che fu ricamata con la silhouette di una donna virtuale a grandezza naturale che si appoggia al petto di quella reale; Dalì, invece, rielaborò il tema del richiamo sessuale andando a riprendere una sua opera ovvero “Venere di Milo con cassetti”, proponendo dei cassetti che diventavano delle tasche con pomello su giacca e cappotto. Nel 1937 la ricerca si fissò sul feticcio sessuale e ne derivò un tailleur nero con delle bocche femminili rosse, completato da un cappello a forma di scarpa con tacco rosso, che nella rielaborazione di Schiapparelli divenne colorato di rosa shocking. La donna era per Elsa un insieme complesso composto da una forma anatomica, uno stato sociale e un mondo interiore. Il nuovo ruolo che le donne avevano assunto doveva essere rappresentato da una divisa, mentre il mondo interiore attraverso il pensiero surrealista. La prima collezione che seguì questo principio fu quella del 1938 dedicata al circo, dove anche Dalì disegnò due modelli da sera: uno bianco con il velo e dei vistosi strappi da cui traspariva un fondo rosso e il secondo nero con il disegno di uno scheletro umano in rilievo. Nella collezione del ’39 affrontò invece il tema della maschera, un modo per dare libero sfogo alla propria immaginazione, anche se con contorni pessimistici dovuti al fallimento del fronte popolare e all’avvento di Hitler sulla scena politica. La collezione dedicata alla Commedia d’arte fu l’ultima in cui si espresse il desiderio di Elsa di studiare il profondo significato dell’abito femminile. La prima sfilata dopo l’inizio della guerra propose solo 30 abiti che si adattavano alle nuove condizioni ovvero quelle di un quotidiano sempre più povero e alla carenza di materiali ma anche all’avvento dei nuovi ricchi ovvero quelli degli eserciti invasori che volevano ostentare il proprio lusso. Schiapparelli decise di partire per gli USA e poté tornare in Francia solo nel 1944 dove partecipò a tutte le iniziative per far rinascere l’haute couture parigina. Si pose poi il problema di inventare una moda che eliminasse tutte le brutture della guerra, provando dapprima con lo stile direttorio degli incroyables e poi con abiti semplici e facili da piegare e trasportare ma non ebbe successo con le vendite. La risposta all’emergere della borghesia internazionale la darà Dior nel 1947. Nel 1946 affidò a Dalì la confezione di un nuovo profumo “Le roy soleil” nacque un lussuoso flacone a forma di sole dorato, circondato da un volo di rondini che si ergeva sopra un mare oro e blu, il tutto dentro ad una conchiglia dorata. Negli anni successivi il suo interesse per la moda diminuì sempre più fino a dedicarsi solo alla produzione di accessori. Nel 1954 l’atelier venne chiuso per deficit finanziario. CAPITOLO 12: CHRISTIAN DIOR Christian Dior nasce nel 1905 in una solida famiglia borghese. All’inizio degli anni ’20 era un buon studente che frequentava le gallerie d’arte, il teatro e il cinema con un desiderio: frequentare l’accademia delle belle arti, tuttavia, la famiglia glielo impedì e fu costretto ad iscriversi a scienze politiche; in cambio poté approfondire gli studi sulla musica e la composizione che gli permisero di conoscere quelli che saranno gli amici di una vita. Gli anni ’30 furono un duro colpo per Christian Dior: suo fratello venne internato in un ospedale psichiatrico, la madre morì e il padre venne travolto dagli effetti della crisi del ’29. Dopo il 1934 fu necessario per lui trovare un lavoro per aiutare la famiglia: l’unico settore che ancora resisteva era quello della moda e fu li che Dior si indirizzò. Il suo maestro fu Jean Ozenne che gli faceva copiare immagini di moda per studiare le proporzioni e interpretare i modelli. Nel 1938 Dior trovò lavoro presso Piguet che decise di mettere in collezione “Cafè Anglais” un abito pied-de-poule realizzato da Dior. Tuttavia, l’anno successivo scoppiò la guerra e Dior fu occupato a sostituire gli agricoltori al fronte, in ogni caso la moda si riorganizzò presto e Christian Dior venne interpellato da Alice Chevane che curava le “pages femines” su “Le Figaro”, con la proposta di illustrare i suoi articoli. Le sfilate del 1940 furono le ultime a vedere i buyer americani: era la fine di uno dei canali commerciali più importanti per l’haute couture parigina con la conseguenza di un drastico ridimensionamento del suo giro d’affari; la clientela delle case di moda americana venne sostituita solo in parte da quella tedesca e dalle mogli, figlie e amanti dei collaborazionisti. La capacità inventiva dei creatori di moda risentì delle difficoltà del periodo e della povertà di materiali con il risultato che le linee proposte dagli atelier non si differenziavano da quelle della moda di strada con gonne corte e spalle larghe, unico spazio di sperimentazione era il cinema dove Dior si specializzò nei modelli romantici e belle époque. L’occasione per Dior arrivò con Boussac, il più importante industriale cotoniero di Francia, che espose il proprio progetto: creare una maison innovativa capace di produrre uno stile diverso ma in cui lavorare secondo le tradizioni dell’artigianato di qualità. Boussac investì 6 milioni di franchi e un credito illimitato: Dior scelse la sua squadra di lavoro e la sede adatta alla maison ovvero il numero 30 di Avenue Montaigne che verrà progettata in uno stile Luigi XVI - 1900. Tutta Parigi parlava dell’incredibile investimento e del nuovo astro nascente della moda parigina; anche le giornaliste delle grandi testate contribuirono al clamore tra cui Carmel Snow, caporedattrice di “Harper’s Bazaar” il cui obiettivo era quello di formare le proprie lettrici in donne eleganti dotate di buon gusto. Il 12 febbraio 1947 ci fu una sfilata che cambiò la moda femminile dell’Occidente: da questo momento nessuna donna osava opporsi alla moda parigina, che giocava con orli e ampiezze delle gonne così da fa passare come obsoleto quello che solo pochi mesi prima era stato osannato come miracolo di bellezza. Dior iniziò a progettare le sue collezioni con la famosa linea “a corallo” con busto modellato e gonne ampie. La proposta era un revival e s’ispirava a un modello vestimentario del secondo ‘800: voleva dare una nuova immagine della femminilità, un’immagine di lusso, di un abito fatto per apparire più che per agire. Il suo intento era cancellare le brutture della guerra, proponendo l’esatto opposto di quello che si era dovuto indossare per necessità. Fu Carmel Snow a identificare questo gusto con il nome di “New Look”. La sua espressione più spinta è l’abito diorama: il corpino aderente al seno esplode in plissé che amplificano il petto e la gonna ampia presenta una circonferenza all’orlo di 40 metri. Un lusso scandaloso, in un momento in cui l’industria non aveva ancora ripreso a pieno regime la produzione. L’obiettivo era la clientela americana: Dior intuì che per l’immaginario collettivo, la moda era francese e che solo puntando sulla francesità la couture poteva ritrovare l’antico primato. Dior offrì l’immagine di una donna-fiore, fragile, raffinata e prova di ironia e di fremiti femministi, una donna irreale. Le linee delle collezioni tra ’47 e ’48 erano definite con termini grafico-dinamici come “zig-zag” o “trompe l’oeil” gli abiti avevano strutture asimmetriche o effetti di sovrapposizione geometrica. La collezione “Milieu de Siecle” presentava la gonna o lo strascico a balze con pailettes, piume o strass. Gli abiti di Dior potevano servire solo ad un certo tipo di vita, quella del bel mondo, della “Cafè Society” à interprete del rito dell’eleganza. Con l’arrivo in America di Dior si era formato un gruppo di donne contrario al New Look, poiché secondo loro era come annullare un mezzo secolo di moda. Chi aveva organizzato il viaggio di Dior perseguiva un obiettivo specifico che nasceva dall’abolizione di una legge che aveva regolamentato la produzione di abbigliamento durante la guerra sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo: alla fine del ’47 tale legge scadeva e si tornava alla liberalizzazione del mercato, era quindi il momento giusto per lanciare una nuova moda e Dior era l’elemento di novità. Il boom economico di cui godette l’America alla fine degli anni ’40 avvicinò all’acquisto di moda fasce di pubblico sempre maggiori. Dopo il ’48 Dior intraprese anche un sistema di licenze sulle calze e sulle cravatte andando a moltiplicare i mercati raggiunti. Per arginare il mercato delle copie e favorire i venditori accreditati si decise di intervenire vendendo i modelli degli abiti in due tipi: uno in tela a cui era applicata la doppia etichetta con la griffe e uno in carta. Il mito del couturier-creatore trovò in lui un perfetto rappresentante: la riuscita delle sfilate era fondamentale poiché su questo spettacolo si giocava il nome della griffe che costituiva un affare di dimensioni colossali. Il “New Look” durò sette anni e venne cancellato dalla linea ad H della stagione successiva che prevedeva un modello “dritto” riproposto poi in variazioni che continuarono le lettere dell’alfabeto “A”, “Y”…. Nel 1957 la fama di Dior era giunta al culmine e la sua azienda era un impero da sette miliardi di franchi. Tuttavia, il 27 ottobre Dior morì e iniziò, così, una gestione collegiale della maison, tra cui bisogna menzionare un giovane Yves Saint Laurent che si occupò delle collezioni della maison fino al 1960. CAPITOLO 13: LA MODA ITALIANA La moda italiana nasce nel secondo dopoguerra come conseguenza ad un processo di rinnovamento che il settore tessile e della moda affrontò nel periodo della ricostruzione favorito dal Piano Marshall. Durante la guerra, l’industria della moda americana si era affiancata a quella francese proponendo capi di sportswear di alta qualità, tuttavia, tale mercato era tanto vasto da poter accogliere anche altri prodotti. L’interesse per la moda italiana iniziò nel ‘59 quando gli incaricati di alcuni magazzini erano giunti in Italia per vedere le produzioni delle sartorie italiane che avevano ripreso a confezionare vestiti dopo gli anni duri della guerra (le sorelle Fontana, Simonetta, Gattinoni, Cappucci…). L’invenzione del nuovo necessitava di nuovi punti di riferimento: si riprese ad andare a Parigi per comprare modelli e contemporaneamente si diede spazio all’invenzione e alla creazione di nuove collezioni. Tuttavia, il ricorrere a fonti creative eterogenee rendeva queste collezioni scarsamente caratterizzate. Nel corso del decennio il problema venne superato attraverso contratti di esclusiva che legarono alcuni designer a una singola casa di moda, così da favorire la definizione di un’identità di stile precisa. Il compito che il mercato americano aveva assegnato a quello italiano era fornire alta moda a prezzo ridotto e sportswear di gusto europeo; se c’erano alcune azienda, come Ferragamo e Gucci, abituate ad esportare ce ne erano molte altre che fondavano il loro successo su una collaborazione tra antica nobiltà e alta borghesia: il caso più noto è quello di Pucci che, ritrovandosi pieno di debiti, aveva iniziato a disegnare uno stile sportswear. La nascita della moda italiana fu un operazione di carattere culturale che consistette nella commistione tra competenze artigianali e popolari. L’insistenza di Pucci su colori di Capri o sui disegni delle contrade di Siena o i marmi di Monreale e l’uso di materiali poveri come la paglia facevano parte di un progetto di gusto che assecondava l’immagine di un paese di mare e arte; tuttavia, vi era un rischio ovvero quello di venire fagocitati dai luoghi comuni. La strada da seguire era l’elaborazione di un abbigliamento formale e funzionale che si unisse alla tradizione di un paese antico. Un altro fattore importante erano i tessuti: il comparto delle fibre chimiche, in Italia, presentava caratteristiche da grande industria moderna. Nel 1953 fu concluso un accordo che prevedeva la creazione di un rapporto privilegiato fra ogni casa di moda e un’industria tessile: i sarti potevano lavorare con materiali esclusivi di prima qualità avendo un sostegno finanziario per l’ingente investimento rappresentato dalla realizzazione di una collezione al contrario i tessutai e gli stampatori potevano partecipare direttamente all’invenzione della moda cogliendone stimoli e sperimentando novità senza il timore dei costi. Yamamoto. Dai primi anni ’90 la proposta giapponese delineò un’avanguardia caratterizzata dalla decostruzione dei capi, dalla sperimentazione radicale fino ad arrivare al tentativo di sottrarsi alla logica della griffe utilizzando le etichette bianche. La moda italiana scelse uno stile massimalista, tuttavia, le vendite iniziarono a registrare una flessione, gli stilisti avevano sfiorato un’altra volta l’ambito dell’haute couture. Alcuni eventi come la morte di Moschino e Versace e il declino di Krizia accelerarono la flessione della moda italiana. Fra i grandi degli anni ’80 solo Armani e D&G riuscirono a mantenere la propria posizione internazionale adeguando con estremo acume le scelte ai cambiamenti culturali e di mercato. Armani iniziò a sfilare a Parigi con una collezione di haute couture “Armani Privè” per collocarsi definitivamente nell’industria del lusso che sembrava l’unica in grado di mantenere la differenza tra moda di alta qualità e produzione di massa. Un capitolo a parte è il caso di Gucci affidata a Mello con l’obiettivo di riqualificare l’immagine: Tom Ford assunse il ruolo di responsabile delle collezioni. La storia e una proposta di moda peculiare furono i fili conduttori dell’identità che il marchio assunse per diventare un’icona della moda e del lusso. Tom Ford propose una rivisitazione degli anni ’70: completi aderenti, pantaloni a vita bassa in velluto, look trasgressivi e sexy, scarpe di vernice colorata, borse iridescenti contrassegnate dal caratteristico manico in bambù con la stampa grafica del marchio. Dal punto di vista creativo, la fine del secolo fu rappresentata dal prêt-à-porter soprattutto dalla moda più di avanguardia. Tuttavia, il sistema abbigliamento stava mutando nuovamente in maniera radicale con una produzione decentrata a basso costo e l’emergere di marchi di fast fashion come Zara, HM, Gap… difatti, i consumatori erano sempre meno attratti dall’abito come status symbol orientandosi invece al piacere di modificare il proprio aspetto con nuove proposte sempre più frequentemente. CAPITOLO 15: HAUTE COUTURE E INDUSTRIA DEL LUSSO: CHANEL L’industria della confezione aveva i propri stilisti e non aveva bisogno di andare a Parigi ad acquistare i modelli da copiare o trasformare, le sartorie erano scomparse sostituite dal prêt-à-porter. Rimaneva una clientela ridotta all’osso che frequentava gli atelier di Parigi; tuttavia, il vero volume d’affari proveniva dalla profumeria e dalla vendita degli accessori. Nonostante tutto, due volte all’anno a Parigi si tenevano le sfilate con veri e propri capolavori di esecuzione. Il potenziale dell’haute couture non si era completamente esaurito, se ne resero conto i proprietari di alcune delle più famose maison parigine, che iniziarono a considerare il tema del lusso come status symbol. Il 15 settembre 1982 la Maison Chanel venne affidata a Karl Lagerfeld. Al suo insediamento ci furono diverse obiezioni: molti non vedevano di buon occhio che una tra le maison più antiche di Parigi finisse in mano a uno straniero mentre altri contestavano la carriera di Lagerfeld che aveva lavorato a lungo anche per il prêt-à-porter. Dopo la morte di Coco Chanel la maison aveva continuato a riproporre quei modelli a cui Coco aveva lavorato durante tutta la sua carriera, tuttavia, mancava lo slancio creativo soprattutto in un momento in cui Parigi viene affiancata da altri centri di moda come NY, Milano e Londra. La clientela andava diminuendo e invecchiando, il problema era molto complesso e si decise di affrontarlo utilizzando i mezzi messi a disposizione dai media: nel 1978 Ridley Scott fu incaricato di girare due spot pubblicitari per la maison, inoltre venne deciso di creare una linea di cosmetici detta “Beauté”. La prima collezione curata da Lagerfeld non fu niente di nuovo tranne per due modelli che lasciavano presagire un nuovo corso: • un tailleur nero con la giacca lunga e dritta portata su un paio di pantaloni con una vistosa abbottonatura alla marinara con una camicia bianca maschile e un papillon nero • un fourreau di crepe di seta nero con scollatura sulla schiena e maniche lunghe. Il collo, il polso e la vita erano decorati con l’applicazione a ricamo di catene, pietre, perle, coralli, nappe per simulare una cascata di collane e cinture. Il procedimento di KL risultò chiaro alla fine degli anni ’80: ripercorse la storia di Coco scoprendo che il suo lavoro negli anni ’20 e ’30 non era stato così unico: il ritorno alle fonti metteva in evidenza che le innovazioni più determinanti di quei decenni erano state opera di altre donne come Vionnet; Lagerfeld chiariva anche che una serie di innovazioni di avanguardie, ritenute di Coco, non lo erano affatto. Infine, sollevava il problema più grave: il rifiuto dell’evoluzione. Tutto questo metteva in discussione il peso che Chanel ebbe sulla moda. Lagerfeld aveva fatto uno studio approfondito della storia della maison per cui lavorava alla scoperta del “patrimonio spirituale” che avrebbe trasformato in un codice simbolico: analizzando delle tavole del ’91 si possono seguire le scoperte di KL e ciò che, secondo lui, aveva rappresentato al meglio lo spirito di Chanel. La rivoluzione di KL iniziò dal prêt-à-porter. Introdusse il denim con cui confezionò tailleur e chemisier senza maniche allacciati con i bottoni riportanti il monogramma della doppia “C”, le gonne sopra al ginocchio e le giacche dalle spalle allargate. Esemplare fu il lavoro fatto con la borsetta 2.55 che divenne anche una decorazione sugli abiti. Nel 1986 uno dei capi di punta della collezione era un tailleur classico ricamato da losanghe di pailettes nere disposte in modo da formare il disegno a rombi del matelassé. Il tailleur negli anni ’90 venne proposto in tinte fluo, cambiando la giacca, allungandola e abbinandola a gonne di jeans. Nel ’90-’91 comparvero i primi piumini, poi i costumi da bagno e infine l’abbigliamento tecnico per lo sport. Questa scelta teneva conto di un cambiamento nei costumi che stava avvenendo in quel periodo ovvero la comparsa della t-shirt abbinata a jeans e scarpe Nike che stava spopolando in USA. Tutto questo poteva funzionare solo grazie alla sopravvivenza del mito di Coco Chanel che doveva essere rispolverato periodicamente, come in occasione del 25° anniversario della morte con la sfilata al Ritz Hotel e l’introduzione di una tuta nera di lycra chiamata “body beautiful”. La sua era una sfida a distanza che si proponeva di far rinascere la fenice facendo in modo che fosse la stessa ma allo stesso tempo una completamente nuova. A sostegno del suo lavoro partecipò tutta la dirigenza di Chanel, conducendo una strategia aziendale che vedeva nella moda il sistema più sicuro per far crescere le vendite dell’intero universo di prodotti che la maison poteva mettere sul mercato. Utilizzando in modo sapiente il fascino esercitato dall’alta moda, facendo leva sul profumo e sui cosmetici pubblicizzati in modo innovativo, sul prêt-à-porter e sugli accessori essi crearono una moda che seppe fronteggiare la concorrenza degli stilisti italiani, l’avanguardia giapponese e l’austero minimalismo degli anni ’90. Il sistema Lagerfeld iniziò ad essere considerato paradigma da prendere a modello ogni volta che ci si trovava a rinnovare una griffe storica. CAPITOLO 16: HAUTE COUTURE E INDUSTRIA DEL LUSSO: DIOR La prima fase della maison Dior finì il 30 maggio 1978 quando il gruppo venne messo in liquidazione giudiziaria, un atto che segnò in modo simbolico la fine di un modello di imprenditoria vecchio, incapace di affrontare la nuova realtà. I tre anni successivi furono segnati dai tentativi del governo Mitterand di fronteggiare l’enorme problema di un impero industriale in declino, cercando di salvarlo con sovvenzioni e prestiti. Nell’estate del 1984 venne prese la decisione di mettere l’intero gruppo in vendita giudiziaria. Venne acquistato da Arnault che decise di acquisire Céline e finanziare la maison Christian Lacroix; l’espansione non eliminava il problema più grave ovvero l’impossibilità di vendere profumi e cosmetici a causa della vendita della società “Parfums Dior” a Moet Hennessy. L’occasione per riunificare quello che era stato diviso si presentò nel 1987 con la fusione tra Moet e Louis Vuitton che diede vita alla società LVMH. L’haute couture era diventata più un costo che un ricavo e per Dior si aggiungeva anche un altro problema: nel 1960 YSL era stato sostituito da Boussac, egli era un bravo professionista ma incapace di sviluppare una linea di prêt-à-porter di successo. Inoltre, il marchio era gravato da un numero eccessivo di licenze. Il nuovo corso della maison fu segnato da due iniziative: una mostra dedicata al fondatore della maison e la ristrutturazione della sede storica. Nel 1989 venne introdotto Gianfranco Ferrè come nuovo direttore creativo di Dior che aveva il compito di restituire il valore di status symbol alla moda. Ebbe un grande successo e arrivarono anche i compratori americani: era un ritorno alle origini con un lavoro di archivi da cui proveniva l’ispirazione per i modelli, decori e soluzioni sartoriali. Propose però anche un suo stile e un ideale femminile che egli stesso identificò con le cliente di Dior, delle lady raffinatissime per le quali inventò un abbigliamento da giorno moderno ed elegante e un lusso vistoso, barocco e dispendioso per gli abiti da sera. Tuttavia, Ferrè e la maison Dior restavano legati al passato, condizionati dal timore di perdere la clientela più fedele. Stava per aprirsi una nuova era segnata dal nome di John Galliano che portava l’idea che l’abito fosse una forma di travestimento e un forte senso della comunicazione e dello spettacolo. La prima sfilata fu nel 1997, il patrimonio culturale della maison era riproposto in tante soluzioni diverse: c’erano i tailleur “bar” e alcuni abiti da ballo con bustino e gonna ampia. Predominante era un riferimento diretto all’Africa colorata e altera dei guerrieri masai. La stampa ne rimase colpita. Nella collezione successiva, dedicata a Mata-Hari, all’art nouveau e alle donne simbolo del ‘900 erano presenti bijoux ad anelli dorati e paralleli ispirati alle donne ndebele dell’Africa dell’Est, le cosiddette “donne giraffa”, a questo mondo si ispirava il cappello con intagli tribali di figure umane e il flacone di profumo “J’Adore”. Dior era stato al suo tempo un grande rinnovatore che aveva osato cambiare il modello culturale cui la moda faceva riferimento; la maison Dior, 50 anni dopo si ricollocava su questa strada. La nuova identità doveva essere quella di una marca che vendeva lusso tanto moderno da essere anche un po’ trasgressivo, pensato per le donne che volevano lo status symbol della griffe ma anche la sensazione di osare novità un po’eccentriche. Il centro della comunicazione era la sfilata, un grande spettacolo suggellato dall’uscita finale di Galliano che si presentava sempre con strani travestimenti che accrescevano il clima di attesa. La nuova generazione Dior entrerà in scena sul palco della Reggia di Versailles, dove si susseguirono futuristiche guerriere ispirate al film “Matrix” vestite di cuoio, tessuti plastificati e mussoline, nobildonne inglesi in partenza per la caccia alla volpe con costumi irriconoscibili completati da vistosi cappelli. Fu però la collezione successiva a portare questo metodo di costruzione alla sua massima espressione: i modelli sembravano fatti di stracci, un inno all’arte del riciclo (anche se i tessuti con cui erano realizzati erano preziosi). Fu un vero e proprio scandalo che inorridì la stampa che interpretò la collezione come irrispettosa nei confronti dei clochard, il tutto veniva sentito irrispettoso nei confronti del ricordo di Christian Dior e un oltraggio alla tradizione dell’haute couture. Tuttavia, questo scandalo non fece altro che aumentare ulteriormente la pubblicità del marchio. All’inizio del nuovo millennio la clientela della marca parigina era cambiata: aveva circa 25 anni ed era una generazione contraddistinta dall’arroganza e dalla sfrontatezza, affascinata dai segni esteriori del lusso e del successo, sessualmente libera e ostentatrice della propria corporeità. L’immagine di una nuova Rivoluzione francese, dovuta agli incidenti nelle banlieu, suggerirono una collezione con riferimento all’avanguardista inglese Hirst, alla ghigliottina, tatuaggi da lager, scheletri e pezzi di corpi disegnati a ricamo, sangue che tingeva di rosso la passerella e si incrostava sugli stivali candidi. A questo punto Galliano si concentrò su due filoni di ricerca: mondi lontani nel tempo e nello spazio e un ritorno alle origini e al fascino anni ’50. Nel 2004 una lunga permanenza in Egitto aveva prodotto una collezione di sfarzo estremo ma l’attentato alle Torri Gemelle poteva non far apprezzare sul mercato americano una collezione ispirata all’Oriente, per questo motivo la collezione successiva era ispirata alle regine, imperatrici e principesse delle famiglie che nel tempo avevano regnato nel Vecchio Continente; il tutto era reso da tacchi vertiginosi e vestiti dalla silhouette a sirena con proporzioni esagerate e inusuali. Tra il 2006 e il 2008 arriva la crisi economica e la dirigenza Dior colse il mutamento prima che scoppiasse la crisi rendendosi conto che era necessario inventare nuove strategie d’impresa e rivedere l’aspetto creativo del marchio. Era finito il tempo dell’eccentricità, dell’arroganza porno-chic, delle più audaci destrutturazioni. La clientela divenne composta dalle donne cinesi, ci si concentrò, sulla grande tradizione Dior proponendo raffinate creazioni che rinnovavano l’antico chic parigino à “New New Look”. Galliano aveva proposta una rivisitazione che nessuno aveva osato fino a quel momento, egli aveva portato in scena non solo un omaggio storico ma un vero e proprio revival. Per i 60 anni dalla nascita della Maison propose una collezione incentrata sugli artisti preferiti di Dior, un immaginario museo in cui passeggiavano figure uscite come per magio dai dipinti di Tiziano, Caravaggio, Degas, Picasso… qualcosa che amalgamava l’haute couture offrendo un immagine assoluta del gusti per il teatro e i costumi che aveva sempre caratterizzato Galliano. La collezione si chiamava “Bal des artistes” ed era dedicata a Steve Robinson, collaboratore di Galliano morto precocemente.
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