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Riassunto Libro ''Storia Medievale'' - L. Provero, M.Vallerani, Appunti di Storia Medievale

Riassunto integrale del libro di Provero e Vallerani, Storia Medievale.

Tipologia: Appunti

2020/2021

Caricato il 22/03/2022

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Scarica Riassunto Libro ''Storia Medievale'' - L. Provero, M.Vallerani e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Storia Medievale INTRODUZIONE AL VOLUME • Le Forme Del Dominio Il Medioevo è una convenzione storiografica creata artificialmente, un contenitore di processi politici, sociali e religiosi estremamente diversificati. La via più efficace per delineare il periodo medievale è individuare quella che due importanti storici francesi hanno definito una struttura globalizzante, ovvero un elemento fondamentale attorno al quale si collegano i diversi sviluppi della vita associata. La chiave per spiegare il Medioevo è il rapporto tra le forme di dominazione e i gruppi sociali che elaborarono o subirono le spinte verso la costruzione di un ordine politico valido per tutti. Il concetto che sta alla base del libro è il dominio: non si deve intendere solo i modi della sottomissione politica (necessari per definire le gerarchie sociali), ma anche i meccanismi che potevano assicurare un controllo ampio della vita associata:  controllo sulle risorse attraverso la politica fiscale;  sulle anime, le fedi religiose e le strutture organizzative del culto attraverso l’istituzione di una Chiesa ufficiale;  sulla produzione di immagini riflesse della società tramite la cultura dotta;  sulle forme dei rapporti di potere e tramite il diritto. Lo spazio che nel libro viene dedicato alla storia religiosa, economica e dei saperi giuridici ha come obiettivo quello di mostrare come questi elementi siano articolazioni di sistemi di dominazione coesistenti e collegati. Più che sulle strutture stabili degli stati, abbiamo concentrato la nostra attenzione sui percorsi che portarono alla creazione, e alla continua trasformazione delle forme di dominio, ovvero sui tentativi di inquadrare le persone, di tracciare un perimetro intorno ai gruppi sociali soggetti e di dare una forma visibile alle egemonie politiche nate all’interno delle regioni europee. Gli attori sociali avevano un progetto: l’azione politica si definiva attraverso una serie di relazioni violente e spesso contraddittorie che modificavano continuamente il quadro generale degli assetti sociali. Questa attenzione alle trasformazioni dei quadri sociopolitici del Medioevo ha messo in luce alcune relazioni dinamiche che ricorrono con maggiore frequenza: 1) I rapporti tra re e aristocrazie: Molte strutture politiche medievali esprimono una fondamentale tensione tra le istituzioni regie e le loro forze aristocratiche intorno alla natura del potere centralizzato e alle sue articolazioni locali. 2) I rapporti tra aristocrazia e chiese , o meglio tra aristocrazia militare e aristocrazia della preghiera, i due volti dei gruppi sociali dominanti. 3) I rapporti tra intellettuali e potere, tra il pensiero giuridico-politico e le pratiche del potere: un tema che si connette direttamente al precedente, dato che per larga parte del Medioevo la lettura, la scrittura e le forme culturali più raffinate furono monopolio dei religiosi. 4) Il rapporto tra contadini e signori, o più in generale tra chi coltiva e chi controlla la terra: un tema che acquista una drammatica evidenza nelle campagne dei secoli XI-XII quando si affermano nuove strutture di potere locale, ma anche una relazione che fonda tutti i processi economici di accumulo, redistribuzione, consumo, in un’epoca in cui ricchezza è sinonimo di terra. • Limiti cronologici La trattazione ha inizio nel IV secolo, quando si avviano alcuni importanti mutamenti nel mondo romano, con l’affermarsi del Cristianesimo ai vertici imperiali e una connotazione sempre più barbarica dell’esercito; per terminare al XV secolo, al momento della formazione degli Stati nazionali e regionali che pur nella loro instabilità, divennero gli elementi di base della dinamica politica europea nell’età moderna. • Struttura del libro 1) La prima parte è dedicata alla trasformazione del mondo romano, un processo che si attua tra il IV e il VI secolo. In questo arco temporale ci sono state diverse trasformazioni: le strutture politiche, la distribuzione dei popoli, le fedi religiose, i sistemi di produzione e di scambio. Non si tratta solo del crollo dell’Impero Romano e dell’affermarsi di nuovi popoli dominanti: il principale processo in atto è la rielaborazione dell’eredità di Roma e la costituzione di forme nuove di organizzazione della società sul piano economico e sociale. 2) La seconda parte è rappresentata dal sistema di dominazione altomedievale relativa ai secoli VII-X. Si vedono due mutamenti rivoluzionari: l’affermazione dell’Islam dalle regioni dell’Oriente fino alla Spagna; la costituzione dell’Impero carolingio nell’Europa Occidentale. Il continente europeo, in questo periodo, è dominato da un equilibrio mutevole tra poteri regi, aristocrazia militare e chiese. Una molteplicità che emerge in tutta la sua violenza una volta venuto meno il tratto unificante dell’Impero, che nel X secolo lascia spazio a una pluralità di poteri attivi su livelli diversi. Questo processo di dispersione dei poteri pubblici favorisce la nascita di un numero altissimo di signorie locali, castelli, comunità di villaggio e centri urbani, difficilmente inquadrabili sotto una dominazione unitaria. 3) La terza parte è dedicata ai poteri regi e poteri locali tra l’XI e il XIII secolo. Dall’XI secolo infatti si avverte la messa in atto di diversi tentativi di imporre un controllo egemonico nei territori dei regni. Si tratta ancora di progetti non coordinati, portati avanti da forze politiche in competizione una con l’altra. Ma è la Chiesa dell’XI secolo ad avanzare la proposta più articolata di governo della società, prima isolando un vertice al suo interno, il papato romano, poi estendendo il suo controllo all’intera società, dal ceto armato dei cavalieri all’insieme dei sudditi-fedeli, tutti membri di una cristianità unita sotto la guida degli uomini di Chiesa. Anche i regni iniziano a configurarsi come poteri superiori in grado di guidare una gerarchia ordinata di istituzioni politiche. Queste spinte ordinatrici lasciano intravedere l’elaborazione di progetti culturali più complessi, frutto dell’ingresso dei giuristi colti nelle corti laiche ed ecclesiastiche. I re ricominciano a fare leggi, a regolare l’assetto politico delle diverse regioni del regno attraverso strumenti amministrativi validi per tutto il territorio. Processi di crescita che innescano uno sviluppo economico e sociale senza pari nel mondo medievale. 4) La quarta parte invece è la crisi e inquadramento delle società europee (metà XIII e XV secolo). La crisi è in primo luogo di natura economica e sociale, dovuta all’eccessiva espansione delle terre coltivate e dal ripetersi di una serie di epidemie e di carestie. Ma è una crisi che investe anche le istituzioni laiche ed ecclesiastiche. La Chiesa rafforza la centralità del papato romano, i re si presentano come un vertice quasi sacro dei regni nazionali, la nobiltà impone la sua superiorità sul resto della società, ma tutti si scontrano con i propri limiti e con un mondo sociale ricco di progetti culturali e religiosi alternativi. Un papato indebolito dagli scismi interni si allontana da Roma per un settantennio, regni sempre in bilico sono limitati da combattive assemblee locali, rivolte urbane e rurali si sollevano contro i signori locali e le aristocrazie cittadine. I poteri centrali devono cercare di integrare le forze sociali esterne, condividere con esse una parte delle funzioni di governo, accogliere le loro richieste trasformandole in politiche condivise. Nell’Europa del XV secolo diventa evidente come non sia possibile tenere insieme organismi territoriali complessi solo con la forza. Ecco quindi che la ricerca del consenso, la coesistenza di elementi diversi in un sistema ordinato, rientra a pieno titolo nei sistemi di dominazione del basso Medioevo. PARTE PRIMA: LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO 0.1 Introduzione L’idea di medioevo nasce quando il medioevo finisce: sono gli umanisti del XV secolo che individuano questa media aetas che si contrapponeva fra loro e l’età classica. Lo fanno per due ragioni:  Affermare la propria diretta discendenza della cultura classica  Connotare il millennio precedente come un intermezzo, caratterizzato da un declino culturale e linguistico, giudizio negativo che si estende presto alla valutazione delle forme politiche e della società̀. Il termine medioevo non descrive una civiltà omogenea e compatta, ma un insieme differenziato e indica dunque un periodo che si colloca tra due fasi di profondo mutamento di tutta la vita associata: la trasformazione del mondo romano (IV e VI secolo) e formazione dell’Europa moderna (mille anni dopo). Dunque, il medioevo inizia quando il mondo romano si sta trasformano. Tra il IV e il VI secolo mutano:  Fedi religiose  Distribuzione dei diversi popoli in Europa  Sistemi politici  Forme della circolazione economica Negli stessi decenni gruppi sempre più numerosi di persone originariamente estranee all’Impero (dette appunto barbare) si stanziarono all’interno del dominio romano, non per conquista, ma riconosciute e accolte dallo stesso impero, e ne costituirono l’esercito. Nei secoli successivi molti di questi gruppi presero il potere in diversi settori dell'Impero occidentale, formando i cosiddetti regni romano-germanici, mentre la parte orientale dell'impero, territorialmente ridotta, conservò molte forme del potere imperiale. Ciò modificò anche i meccanismi economici, come il prelievo e la redistribuzione delle tasse che avevano costituito il principale sistema economico in età Imperiale nel Mediterraneo e in tutta Europa, che viene ora interrotto. Non vengono però interrotti gli scambi commerciali tra le varie sponde del Mediterraneo, ma certo si ruppe l'interdipendenza economica tra le diverse regioni, quale si era definita nei secoli precedenti. Tutte le dinamiche di vita erano diverse rispetto a due secoli prima: si rispondeva a poteri diversi, si erano diffuse lingue nuove (ma si continuava a parlare e soprattutto a scrivere in latino), si credeva in un Dio diverso, nella vita quotidiana si usavano per lo più oggetti di produzione locale, le città (e soprattutto Roma) erano più piccole. Un mutamento così complesso ovviamente non si può ridurre a una data; on base a quali di questi cambiamenti si vuole privilegiare, sono state proposte diverse date convenzionali di inizio del Medioevo:  476, fine dell’Impero Romano d’Occidente mutamento delle istituzioni più alte  410, sacco di Roma dei Visigoti mutamento della distribuzione dei popoli in Europa  324, fondazione di Costantinopoli cambiamento dei quadri territoriale ed istituzionali  313, Editto di Milano (libertà di culto concessa di Costantino) mutamento religioso 0.2 L’impero Cristiano Con il termine tardoantico si è soliti indicare gli ultimi secoli dell’età romana , che non sono più visti come una fase di decadenza, ma con un periodo con i propri connotati, di cui è necessario evidenziare: L’inserimento nell’esercito di gruppi organizzati poteva infatti innescare i processi di consolidamento sia della solidarietà di gruppo sia della leadership del re. L’inserimento nell’esercito romano portò anche singoli capi barbari a ricoprire cariche di rilievo. Il capillare processo di penetrazione di gruppi barbarici dentro l’Impero si protrasse a lungo, durante il III e soprattutto il IV secolo, spesso senza che emergessero grandi conflitti, e soprattutto senza che questo implicasse una forma di invasione, un crollo del limes. Quest’assimilazione divenne particolarmente massiccia negli ultimi decenni del IV secolo: rilevante fu l’iniziativa militare del popolo nomade degli Unni, la cui spinta sui popoli dell’Europa Orientale provocò un effetto a catena di movimenti verso Occidente, che determinarono una forte pressione dei Visigoti sul limes danubiano, a cui l’Impero rispose concedendo loro un massiccio stanziamento all’interno dei territori romani. I Visigoti ben presto iniziarono a saccheggiare i Balcani, inducendo l’imperatore Valente ad attaccarli; la battaglia di Adrianopoli (378) si tramutò però in un disastro per i romani, con la sconfitta e la morte dell’imperatore. Questo fatto ebbe conseguenze importanti nell’Impero. Se da una parte non si poteva rinunciare alla forza armata costituita dai soldati di origine barbara, dall’altra parte cambiarono in Oriente le forme del loro inquadramento: non più corpi compatti al seguito dei propri re, ma un inserimento più diffuso e soprattutto la scelta di impedire l’ascesa di capi militari barbari ai vertici dell’esercito. Un momento di svolta per l’Occidente è situabile nel primo decennio del V secolo. Il continuo inserimento di gruppi e popoli barbari nelle file dell’esercito portò a una difficile classificazione degli eserciti tra romani e barbari. Di fatto il limes renano perse efficacia e soprattutto importanti gruppi armati poterono entrare nei territori imperiali . L’esito più appariscente fu senza dubbio il sacco di Roma (410): i Visigoti guidati dal re Alarico – comandante dell’esercito romano nei Balcani – spinto dalla pressione degli Unni, si spostò verso l’Italia fino ad arrivare a Roma. Questa fase può essere considerata l’avvio del processo che nel corso del V secolo portò in Occidente alla formazione dei regni romano germanici. 1.3 La cristianizzazione dell’Impero Per comprendere il processo di cristianizzazione dell’Impero Romano è fondamentale partire dall’idea di pluralità:  Pluralità dei paganesimi, la religione romana non si limitava solo ai culti tradizionali, ma si era arricchita di molti spunti religiosi che promettevano al fedele una forma di vita ultraterrena.  Pluralità dei culti salvifici, il Cristianesimo non fu l’unica religione a individuare una via di salvezza dopo la morte;  Pluralità dei Cristianesimi, perché le Sacre Scritture avevano lasciato il campo aperto a interpretazioni teologiche diverse;  Pluralità dell’organizzazione ecclesiastica, perché per tutto l’alto Medioevo non si può parlare di una centralità papale, ma di una superiorità del vescovo di Roma in termini di prestigio in quanto successore di Pietro; la struttura portante dell’organizzazione ecclesiastica era costituita dalle singole sedi vescovili. La cristianizzazione dell’Impero non fu semplicemente la diffusione del Cristianesimo nei territori imperiali, fu invece la trasformazione delle strutture di potere in senso cristiano, fu la sua adozione come religione ufficiale e ideologia fondante del potere imperiale. Nel corso del IV secolo il Cristianesimo passò dalla condizione di religione minoritaria a quella di religione dominante e ideologia ufficiale dell’Impero. Il punto di partenza è rappresentato dalle persecuzioni contro il Cristianesimo che si svilupparono soprattutto nella seconda metà del III secolo. Le persecuzioni avevano un chiaro fine di consolidamento della coesione ideologica dell’Impero. Tra il 311 e il 313 però si arriva alla libertà di culto per i cristiani, innescando un processo che portò nel 380 a fare del Cristianesimo la religione ufficiale dell’Impero. Tre sono le tappe che scandirono questo processo. Queste tappe non rappresentano la diffusione della religione cristiana: sono le tappe del rapporto tra il Cristianesimo e il potere imperiale. L’editto di Milano del 313 è la prima tappa, e fu voluto da Costantino. L’imperatore si limitò a confermare e ad applicare un decreto di Galerio del 311, che già aveva posto fine alle persecuzioni e sancito la libertà del culto cristiano. La figura di Costantino resta però fondamentale perché fu la sua azione a rendere operativo il nesso tra potere imperiale e Cristianesimo. A partire da questi anni gli imperatori individuarono nel Cristianesimo una possibile ideologia unificante del frammentato mondo romano. La funzione di collante ideologico dell’Impero richiedeva però un’unità teologica del Cristianesimo, e questo fu il problema posto al concilio di Nicea (Asia Minore, vicino a Costantinopoli) del 325. Qui la principale decisione dei vescovi cristiani fu la condanna dell’Arianesimo, ovvero la dottrina cristiana elaborata e diffusa dal prete Ario, giudicata eretica. Ario aveva proposto una lettura per cui il Figlio sarebbe stato creato dal Padre, e quindi a lui sottoposto e non eterno. Prevalse invece l’interpretazione per cui il Figlio era coeterno e fatto della stessa sostanza del Padre, “generato e non creato”, come recita tuttora il Credo. Il fondamento della capacità salvifica del Cristianesimo risiedeva infatti nell’incarnazione di Dio e la sua efficacia era quindi connessa alla piena natura divina del Figlio. Ario vedeva nel Figlio incarnato una figura minore e quindi non garantiva l’efficacia salvifica del Cristianesimo. Un altro aspetto fondamentale è che il concilio di Nicea fu convocato da Costantino: egli ritenne necessario per la solidità del proprio potere convocare un concilio che risolvesse una questione propriamente teologica. L’efficacia della religione come collante ideologico del mondo romano era direttamente proporzionale alla sua unitarietà e coerenza. La tesi nicena era teologicamente superiore a quella ariana. Inoltre, il concilio di Nicea affermò la centralità del concilio stesso, ovvero dell’assemblea dei vescovi, come luogo di elaborazione teologica, e mise in evidenza il ruolo dell’Impero, che assunse il ruolo di tutore della Chiesa. L’arianesimo però si diffuse nel mondo germanico, grazie alla traduzione della Bibbia in lingua gotica. L’Impero agì con determinazione a perseguitare le posizioni giudicate eretiche, ma la sua forza di coercizione si arrestava al limes, e non poteva incidere sulla diffusione dell’arianesimo in ambito germanico. Si creò quindi una fondamentale bipartizione religiosa, tra un mondo romano a prevalenza cattolico- nicena, e un mondo germanico in cui ebbe largo spazio l’Arianesimo. Questo ebbe conseguenze importanti nel secolo successivo quando l’affermarsi dei regni romano germanici nei territori dell’Impero si tradusse in diversi casi nel dominio di una minoranza germanica ariana su una maggioranza latina cattolica. La terza tappa è l’editto di Tessalonica. Il pieno consolidamento a livello imperiale del Cristianesimo nella sua versione nicena viene raggiunto nell’editto del 380, con cui l’imperatore Teodosio impose il Cristianesimo come religione ufficiale dell’Impero. Da un lato questa decisione diede il via a una più dura azione di repressione delle forme religiose giudicate eretiche; dall’altro, questi furono i decenni in cui l’affermazione del Cristianesimo compì un salto di qualità decisivo, con la massiccia conversione dei ceti più ricchi. 1.4 Vescovi e Monaci Non dobbiamo pensare alla Chiesa cristiana del IV-V secolo come un’organizzazione unitaria, a una Chiesa universale. La struttura portante era costituita dalla singola diocesi, la comunità cristiana di una città e del suo territorio, raccolta attorno al vescovo. Fu in larga misura la ripresa di un modello organizzativo dell’Impero, il cui governo passava per molti aspetti attraverso un’articolazione in distretti cittadini. Un primo mutamento si ebbe quando la grande aristocrazia senatoria ebbe un progressivo inserimento nella chiesa. Questi infatti furono i più naturali candidati a occupare i ruoli di maggiore responsabilità ecclesiastica, ovvero le sedi vescovili. A costituire il prestigio dei vescovi concorsero quindi diversi fattori, tra cui la loro identità sociale e familiare. Al di sopra dei singoli vescovi non esisteva una struttura unitaria: tra il IV e V secolo andò definendosi la superiorità di alcune città maggiori, definite come sedi patriarcali, ovvero Roma, Antiochia (in Siria), Alessandria d’Egitto e Gerusalemme, a cui si aggiunse Costantinopoli. Non si trattava di una gerarchia, non era previsto un potere di controllo sui singoli vescovi: era solamente una superiorità di prestigio. Niente di simile all’accentramento attorno a Roma che connoterà la Chiesa cattolica in età moderna e contemporanea. Roma era l’unica sede patriarcale dell’Occidente, per alcuni aspetti la più prestigiosa di tutte, per il suo richiamo alla tradizione imperiale e perché il vescovo di Roma era il successore di Pietro. Lungo l’alto Medioevo è più corretto parlare di chiese al plurale, per sottolineare non solo le differenze teologiche, ma anche soprattutto la frammentazione gerarchica. L’editto di Tessalonica certamente accelerò il processo di evangelizzazione. Inizialmente si concentrò nelle campagne, attraverso la creazione di una rete di chiese dipendenti dal vescovo. Un secondo livello di evangelizzazione fu quello che dai territori dell’Impero si spinse ai suoi margini, attorno e oltre il limes. La conversione al Cristianesimo ebbe forme e tempi diversi nelle isole britanniche. La Scozia e l’Irlanda non furono mai parte dell’Impero, mentre il dominio romano nell’Inghilterra ebbe termine già all’inizio del V secolo. Di fatto quindi l’affermazione del Cristianesimo in quest’area ebbe effetti limitati. Un caso particolare è quello dell’Irlanda: pur esterna all’Impero, si era orientata piuttosto precocemente al Cristianesimo, già nella metà del 400. La cristianizzazione di una regione come l’Irlanda assunse una fisionomia particolare, con una fortissima importanza dei centri monastici e una grande spinta missionaria. Il monachesimo è una forma di vita presente in molte religioni: è una fuga dal mondo finalizzata a seguire un metodo tendente alla purificazione e all’avvicinamento all’Essere supremo, un metodo che si costruisce prima di tutto attraverso la rinuncia. È una forma di ascesi, l’avvicinamento alla divinità, che non necessariamente si fonde con un percorso di penitenza. Il monachesimo cristiano valorizzò invece la penitenza come purificazione del peccato, da una macchia che impediva l’avvicinamento a Dio. Il monachesimo si affermò anche come una forma di tacita protesta, per riaffermare un modello di vita religiosa coerente ed estrema. Il monaco era mosso prima di tutto da una tensione verso Dio, che metteva in atto attraverso la rinuncia al mondo. Lo scopo centrale di queste scelte di vita era quindi l’ascesi personale, il perfezionamento spirituale; non troviamo alla base una volontà di assistenza ai poveri e ai malati, né la cura delle anime dei laici, né un’attenzione specifica alla cultura e allo studio. Capitolo 2 Barbari e Regni Dobbiamo relativizzare l’importanza dell’espansione militare germanica, sia perché fu tutt’altro che improvvisa (i Germani costituivano gran parte dell’esercito romano), sia perché non fu l’unico o il principale motore del mutamento. Il punto di partenza della transizione dall’antichità al Medioevo sono certamente gli avvenimenti militari del V secolo. 2.1 Mobilità degli eserciti Il momento di svolta è rappresentato dal crollo del Limes del Reno nell’inverno 406- 407, che aprì ampi territori dell’Impero a nuove forze. Non fu un casuale incidente militare, ma l’espressione di uno squilibrio strutturale legato alla difficoltà imperiale nel tenere sotto controllo gli eserciti: il sistema fiscale romano faticava a far fronte ai costi della guerra e l’Impero spesso si trovava a non avere risorse sufficienti per pagare gli eserciti, che cercavano quindi bottino con iniziative non controllate dall’Impero stesso. È da qui che ebbero inizio i più intensi spostamenti degli eserciti germanici, rappresentando una delle cause della caduta dell’Impero, già da tempo indebolito. Furono movimenti confusi, frammentati, spesso difficili da ricostruire. Tuttavia, alcuni di questi spostamenti furono l’espressione militare e politica di gruppi più definiti e coesi, popoli che costruirono e mantennero la propria identità collettiva per diverse generazioni, fino a costituire una chiara fisionomia territoriale. Il primo caso è rappresentato dai Visigoti. Guidati dal re Alarico, nel 410 saccheggiarono Roma. La morte del re pochi anni dopo non comportò la fine dell’unità politica e militare dei Visigoti, che si allontanarono dall’Italia per andare a costituire tra il 414 e il 418, un regno nel sud della Francia, formalmente come federati dell’Impero, ma di fatto con un’ampia autonomia. Questo regno mutò poi configurazione territoriale nel tempo, spostando il proprio baricentro verso la penisola iberica. Qui durò per tre secoli. Il secondo caso è quello dei Vandali, che valicarono il Limes renano, attraversarono la Gallia e andarono a insediarsi, nel 417, nella penisola iberica. Ma anche questo fu uno stanziamento temporaneo: nel 429, guidati dal re Genserico, si spostarono nella parte occidentale dell’Africa romana, per poi conquistare le attuali Tunisia e Algeria, dove costituirono un regno destinato a durare un secolo. I vandali furono il primo popolo germanico a trasformare la propria superiorità militare in un potere politico strutturato, territorialmente definito e pienamente autonomo. Il terzo caso è quello degli Unni, popolo caratterizzato da una grande solidarietà etnica e con un potentissimo esercito. Originari dell’Asia centrale, si erano stanziati ai bordi dell’Impero Romano nei primi decenni del V secolo, divenendo una costante minaccia militare per Roma. Un momento di svolta fu rappresentato dalla presa del potere da parte di Attila (445), che indirizzò la forza militare unna in una serie di campagne all’interno dei territori romani, fino alla decisiva sconfitta subìta nel 451 dal generale Ezio, di origine barbara. Più che la sconfitta del 451, fu determinante la morte di Attila due anni dopo: la rapida dissoluzione del dominio unno mostrò nel modo più evidente come la forza militare non si fosse tradotta in una struttura politica e come il potere fosse direttamente collegato alla capacità di guida militare del suo re. Ciò nonostante, lungo il V secolo l’Impero in Occidente era vivo e operativo: c’erano re germanici che scelsero di staccarsi totalmente dal dominio romano, e altri capi militari che agivano invece allo scopo di prendere il controllo dell’Impero. Il potere imperiale continuava a essere un grande obiettivo politico- militare. La capacità di azione degli imperatori però andava sempre più riducendosi soprattutto come ampiezza territoriale: in questi anni si perse il controllo della Britannia, dell’Africa, della penisola iberica e della Gallia. Nel 476 avvenne la svolta: il generale Odoacre depose l’imperatore Romolo Augustolo ma rinunciò a insediarne uno nuovo. Il momento effettivo della deposizione dell’ultimo imperatore non fu legato a nessuna invasione, a nessun rilevante movimento di popoli ed eserciti: un generale dell’esercito romano, con le sue truppe stanziate in Italia, depose un imperatore privo di potere e semplicemente prese atto che un nuovo imperatore d’Occidente sarebbe stato inutile. Nel 476 nessuno vide nella deposizione di Romolo Augustolo un avvenimento rilevante, nessuno pensò di aver assistito alla fine di un’epoca. La scelta di Odoacre di inviare le insegne imperiali a Costantinopoli fu la presa d’atto che un imperatore d’Occidente non era più necessario, e che il mondo romano si stava polarizzando attorno all’unico imperatore dotato di effettivo potere, quello d’Oriente. L’obiettivo di Odoacre probabilmente era quello di ottenere un’ampia autonomia militare sull’Italia con il riconoscimento dell’Impero. Ma l’imperatore Zenone non lo ritenne un alleato affidabile e pochi anni dopo fece in modo che l’Italia passasse nelle mani degli Ostrogoti di Teoderico. In pochi anni nell’Europa occidentale diversi popoli avevano strutturato e definito la propria presenza nei territori dell’Impero, andando a costituire regni che avevano in comune il fatto di essere dominati da una élite militare germanica che non riconosceva più la superiorità imperiale. Erano dominazioni frammentate e di dimensioni molto diverse, dall’ampio regno visigoto fino alle minuscole dominazioni anglosassoni; molti problemi erano comuni a tutte queste strutture politiche, impegnate a gestire la difficile convivenza tra la maggioranza di tradizione romana e la minoranza dominante di matrice germanica. 2.2 I Nuovi Regni In questa fase i regni appaiono come riproposizione su scala regionale di meccanismi tipici dell’età imperiale, con una società politica polarizzata attorno alla corte regia. Vediamo una forte continuità sul piano della cultura politica e dei modelli istituzionali. Furono conservate alcune forme di organizzazione sociale e istituzionale, in particolare si mantennero l’apparato amministrativo e i sistemi legislativi di tradizione romana. Questo è dovuto anche al fatto che all’interno dei regni, ad affiancare e consigliare i re, erano presenti vescovi e funzionari di origine e cultura romana. Nacque un sistema politico nuovo, che rielaborò spunti provenienti dalle tradizioni romane e germaniche, in cui i modelli amministrativi imperiali erano affiancati da una nuova centralità politica attribuita alle assemblee, le riunioni delle aristocrazie attorno ai re. Questo fu un sistema comune a tutti i regni romano- germanici, ma con forti varianti. Uno degli aspetti maggiormente rilevanti però è la fine del sistema fiscale. L’organizzazione imperiale, fondata sul prelievo fiscale e sulla sua redistribuzione sotto forma di stipendi non resse, sia per le difficoltà tecnico-amministrative che tale sistema imponeva, sia per l’eccessivo peso fiscale che aveva comportato. Ma soprattutto i regni non avevano bisogno di impegnarsi nel compito difficile e impopolare pienamente romano, con esiti importanti per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza. A differenza dell’Impero Romano per cui le tasse servivano per sostenere la burocrazia, la capitale e l’esercito, i Vandali non avevano queste ingenti spese statali da sostenere. L’esercito per esempio era compensato tramite la distribuzione di terre. Le tasse non uscivano dal regno e il risultato fu che il re vandali accumularono notevoli ricchezze nel corso del secolo del loro dominio africano. La forza fiscale ed economica del regno vandalo non implicò un’analoga solidità sul piano politico-militare, probabilmente a causa della mancata integrazione dei diversi popoli: quando l’Impero ebbe la forza per progettare un’espansione nel Mediterraneo occidentale, travolse rapidamente il regno vandalo tra il 533 e il 534. • Visigoti: Il processo di insediamento dei Visigoti può essere diviso in tre fasi: 1) lungo il V secolo si stanziarono tra il sud della Gallia e la penisola iberica; 2) nella prima metà del VI secolo videro ridursi il proprio dominio a nord dei Pirenei a favore dei Franchi; 3) nella seconda metà del secolo consolidarono la propria presenza nella penisola iberica ed elaborarono nuove forme di governo. Il primo insediamento stabile nello spazio politico romano risale al 418, quando i Visigoti si stanziarono come federati nella regione attorno a Tolosa, nella Gallia meridionale, e qui si posero al servizio degli eserciti romani. La conquista della penisola iberica venne avviata nel 456 e completata nel 480: non fu però un dominio totale sull’intera penisola, perché restarono in mano imperiale alcune aree sulla costa mediterranea, mentre nella parte nord-occidentale della penisola si affermò il regno degli Svevi. I re visigoti seppero acquisire e rielaborare modelli politici di tradizione romana, in un processo reso evidente prima di tutto dalla precoce redazione di leggi scritte: erano delle norme territoriali, destinate a tutti sudditi del regno visigoto, a prescindere dalla loro etnia. Un passaggio chiave dal punto di vista degli equilibri territoriali fu la battaglia del 507 quando il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il visigoto Alarico II: da un lato questa battaglia ridusse il dominio visigoto a nord dei Pirenei, dall’altro lato la debolezza del regno lo pose sotto l’egemonia del re ostrogoto Teoderico fino alla sua morte nel 526. Una fase di trasformazione del regno è rappresentata nella seconda metà del VI secolo grazie ad un consolidamento territoriale e politico: una serie di conquiste portarono di fatto l’intera penisola iberica sotto il controllo regio. La capitale del regno venne posta nella città di Toledo. I Visigoti di religione ariana a lungo vissero in un rapporto di separazione religiosa con la maggioranza romana di religione cattolica: pur senza assumere le forme di una netta distinzione (come nel regno ostrogoto) o di una piena contrapposizione (come per i vandali), la convivenza tra i due popoli trovava nella religione un elemento di separazione. La svolta si ebbe alla fine del VI secolo quando venne promossa una conversione del popolo al cattolicesimo, con un successo relativamente rapido (all’inizio del VII secolo l’arianesimo sembrava sostanzialmente cancellato dal regno). Toledo divenne la sede di una serie di concili che assunsero funzioni sia di sedi di deliberazione per le questioni propriamente religiose ed ecclesiastiche, sia di organi di governo del regno. I concili di Toledo furono l’espressione concreta dell’accordo strutturale tra regno e vescovi, che permise uno straordinario potenziamento del re e un sicuro controllo dei sudditi, trasformando la Spagna visigota in una delle dominazioni più efficaci di Europa. Capitolo 3 La Simbiosi Franca I Franchi furono quelli che svilupparono con la massima efficacia l’incontro con le popolazioni di tradizione romana, realizzando una vera e propria simbiosi, a costituire un nuovo popolo in cui le diverse culture politiche si sono integrate e sviluppate. Come diretta conseguenza di ciò, i Franchi nel giro di due secoli riuscirono ad affermarsi come il regno più potente d’Europa, ponendo le basi per la straordinaria espansione carolingia alla fine dell’VIII secolo. 3.1 Clodoveo Il punto di partenza del regno dei Franchi è certamente Clodoveo, il re che tra il V il VI secolo affermò il proprio dominio su gran parte della Gallia. Fu una figura centrale nella memoria collettiva del regno franco e poi francese, tanto che il suo nome, Clovis, Louis, fu il nome più utilizzato dai re di Francia. Nel tardoantico i Franchi erano stanziati da tempo nella Gallia. Nel corso dei secoli in questa regione si era affermata politicamente l’aristocrazia senatoria, ottenendo una straordinaria potenza. Una caratteristica specifica di questa aristocrazia fu l’interesse da parte delle famiglie senatorie per le cariche ecclesiastiche e soprattutto per le funzioni vescovili. La convergenza di queste famiglie senatorie a ricoprire queste cariche fu causa ed effetto del potere vescovile: effetto, perché la cattedra vescovile – con le sue ricchezze, il suo prestigio e il suo potere – era un obiettivo appetibile per le famiglie che volevano conservare e aumentare la propria preminenza sociale; causa, perché la forza delle sedi vescovili fu ulteriormente accresciuta proprio dalla presenza di esponenti delle famiglie più potenti, detentori di ricchezza, potere, cultura letteraria e giuridica. Si attivò una sorta di circolo virtuoso. Su questa regione prese il potere nel corso del V secolo il popolo dei Franchi. Nel tardoantico i Franchi non erano un popolo compatto ma una confederazione di tribù. Tra il IV secolo e il V secolo questo popolo fu protagonista di un lento processo di romanizzazione, che si avviò molto prima della loro conquista del potere in Gallia; un processo che coinvolse con intensità diversa tutte le tribù che costituivano il popolo franco, sia quelle che si insediarono nei territori imperiali, sia quelle che se ne tennero al di fuori. Alcuni gruppi entrarono anche a far parte dell’esercito romano. In un contesto di progressiva marginalizzazione del potere imperiale, che nei decenni centrali del secolo perdette di fatto il controllo della Gallia settentrionale, i Franchi si affermarono non solo come una componente importante dell’esercito romano, ma come uno dei principali attori politici della regione. Questo processo può essere evidenziato considerando due figure, padre e figlio, che si succedettero come re dei Franchi e completarono sia l’unione dei Franchi in un solo regno, sia la sottomissione di gran parte della Gallia. La prima figura è quella di Childerico I, la cui vicenda ci mostra la prima transizione dei Franchi dalla condizione di soldati al servizio dell’Impero a quella di autonomi attori politici. Chi riuscì però a completare il processo di consolidamento fu il figlio, Clodoveo, vero fondatore della dinastia dei Merovingi: succeduto al padre nel 481, attuò un’efficace politica militare che gli permise di affermare il proprio controllo su gran parte della Gallia, dove il definitivo declino dell’Impero d’Occidente e la lontananza dell’imperatore d’Oriente avevano lasciato spazio a una pluralità di dominazioni. Alla presa del potere fece seguito, nel giro di pochi anni, la conversione di Clodoveo e del suo popolo al cristianesimo cattolico per opera dei vescovi (496): fu un fatto religioso, ma con importanti implicazioni politiche, prima di tutto perché proprio la rapidità della conversione fece sì che non si innescarono in questo regno quei meccanismi di contrapposizione identitaria a base religiosa. Dall’altra parte perché rafforzò il rapporto tra il potere regio e i vescovi. Questo fece sì che i vescovi assimilarono Clodoveo a Costantino, il primo Imperatore cristiano, che lungo l’alto Medioevo ritornò costantemente come modello per tutti i sovrani. Questo tipo di ideologia diede al re franco una fortissima legittimazione. L’integrazione tra Franchi e Gallo-romani si sviluppò però anche a livelli più profondi del solo incontro tra regno e vescovi: fu l’unione delle due aristocrazie, la creazione di un gruppo sociale dominante e unitario. La grande forza del popolo franco nell’alto Medioevo nacque proprio dalla costruzione di un’aristocrazia mista, che seppe sfruttare efficacemente modelli politici diversi e su questa base diede vita a una società e istituzioni ibride e perciò del tutto innovative. 3.2 Le chiese franche e la diffusione del monachesimo in Occidente Il vescovo era prima di tutto il vertice della diocesi, il centro della vita religiosa regionale: la città e il territorio circostante dovevano far riferimento al vescovo per tutto ciò che riguardava la cura delle anime, ovvero l’insieme di azioni pastorali e sacramentali tese a garantire la salvezza dopo la morte. Al contempo i vescovi erano portatori di cultura, da intendere in senso molto ampio: cultura letteraria, cultura politica, conoscenza diretta dei funzionamenti istituzionali romani. Nella loro azione locale e nel loro affiancare il re a corte, i vescovi orientarono il sistema politico franco verso funzionamenti che ripresero modelli di tradizione romana. I vescovi inoltre erano ricchi: ricchi personalmente; ma erano straordinariamente ricche le sedi vescovili, nel cui patrimonio andavano accumulandosi i beni donati da chi cercava benevolenza, protezione e preghiere per la propria anima. La ricchezza dei vescovi ne faceva vertici di ampie clientele, capaci di coordinare e orientare le azioni di settori importanti della società cittadina. Questo perché da una parte i re si appoggiarono politicamente alle capacità vescovili più di quanto facesse il potere imperiale, e dall’altra perché ad occupare le cattedre vescovili nel VI secolo fu un’aristocrazia che stava elaborando una straordinaria forza politica e patrimoniale, valorizzando sia la tradizione senatoria romana sia quella militare franca. È bene ricordare però che la principale fonte che ci permette di conoscere la vita politica franca del VI secolo è rappresentata dalle Storie di Gregorio di Tours, opera di uno dei più importanti vescovi del suo tempo. Le sedi vescovili non furono però i soli enti religiosi importanti nella società franca del VI secolo, perché un peso di rilievo deve essere attribuito anche ai monasteri. Il processo di diffusione del monachesimo in Occidente si sviluppò su iniziativa di singoli e gruppi alla ricerca di un più diretto rapporto con Dio, attraverso un percorso di ascesi e perfezionamento spirituale. I grandi monasteri furono un bacino di reclutamento importante per i vescovi. Questo fu particolarmente vero per il più noto monastero della Gallia di questi secoli, Lerins. Fu centro di spiritualità, luogo di formazione culturale e destinazione prediletta per gli aristocratici che sceglievano la vita religiosa; per tutti questi motivi fu visto come sede privilegiata di formazione dei futuri vescovi. In questo periodo ci fu una varietà di esperienze monastiche, sebbene nei secoli successivi prevalse in modo netto il modello benedettino. Dobbiamo relativizzare l’importanza di Benedetto nel suo tempo, ma è importante concentrarsi sulla sua vicenda perché la forma monastica da lui proposta, e in particolare la sua Regola, si andarono lentamente imponendo come modello dominante nell’Europa occidentale. Benedetto nacque a Norcia attorno al 480 e, dopo aver studiato a Roma, si allontanò dalla città per vivere una serie di esperienze ascetiche, come eremita, come cenobita e come abate in diverse località del Lazio. Esperienze che culminarono nel 529 con la fondazione dell’abazia di Montecassino, dove nei decenni successivi scrisse la sua Regola e dove morì nel 547. È importante collocare la redazione della Regola nella vita di Benedetto, perché questo ci mostra come il suo testo non fosse il progetto di un giovane monaco che idealizzava una possibile comunità monastica, ma l’opera di un monaco e abate esperto, che aveva vissuto forme diverse di monachesimo e si era scontrato con le difficoltà nel gestire una comunità. La Regola è fondata su alcuni semplici principi e sulla conoscenza della natura umana e dei suoi limiti, che indusse Benedetto a proporre una forma di ascesi moderata, senza gli estremismi che avevano connotato alcune esperienze eremitiche. Di base, era un modello di vita ascetica in cui la principale attività dei monaci era la preghiera, mentre il lavoro, in qualunque forma, trovava un posto del tutto marginale. Il testo non contiene peraltro la formula per cui è spesso ricordato, “ora et labora”, “prega e lavora”: se vogliamo riassumere la regola in una formula, sarebbe piuttosto “prega e obbedisci all’abate”. Infatti, dal punto di vista organizzativo, Benedetto propose una comunità semplice, in cui la solidarietà orizzontale tra i monaci si integrava con l’obbedienza all’abate, che doveva controllare i suoi sottoposti e interpretare la Regola: il testo non contiene molte norme dettagliate sugli aspetti pratici della vita monastica, ma piuttosto alcuni principi ispiratori (l’isolamento del mondo, la centralità della preghiera, la moderazione nel cibo), che l’abate doveva adattare alle specifiche condizioni ed esigenze locali. Un dato di rilievo è poi il collegamento che Benedetto creò tra comunità ed eremiti: se infatti questi due modelli di monachesimo erano stati fin dalle origini concepiti in contrapposizione, la Regola vede invece nel cenobitismo la via di ascesi proposta a tutti e nell’eremitismo una forma superiore di perfezione, a cui potevano accedere solo i monaci spiritualmente più forti, con l’autorizzazione dell’abate. Attorno alle abbazie benedettine si creò quindi una specie di nebulosa di eremiti, che conducevano una vita ascetica individuale, ma riconoscevano l’autorità dell’abate. Tutti questi caratteri resero la Regola di Benedetto un testo di successo e indussero molti monasteri ad adottarla fino a che, all’inizio del IX secolo, quasi tre secoli dopo la sua redazione, divenne il testo normativo di riferimento per tutti i monasteri dell’Europa occidentale. Questo però non diede vita a un ordine benedettino, non esisteva un’istituzione superiore che coordinasse tutte le abbazie: il vertice della comunità era l’abate, che veniva consacrato da un vescovo, ma che non aveva alcun superiore gerarchico. Se quindi dall’Italia arrivò il testo destinato a divenire punto di riferimento per il monachesimo europeo, un’altra importante influenza fu quella irlandese. In Irlanda l’assenza di una significativa rete di città si era tradotta in una forte centralità istituzionale dei monasteri, che avevano assunto alcuni compiti che nel continente erano proprio dei vescovi. Non fu questa l’unica peculiarità del monachesimo irlandese, segnato anche da un’accentuata attenzione per la dimensione penitenziale e da una forte spinta missionaria. Da questi caratteri nacque un movimento di monaci irlandesi verso il continente. Il movimento missionario di monaci irlandesi rinnovò il monachesimo nell’Europa continentale, stimolò nuove fondazioni e importò un monachesimo attento sia alla dimensione penitenziale, sia alla tutela della piena autonomia dei monasteri ad ogni controllo vescovile. Si creò già in questi primi secoli un intenso rapporto tra aristocrazia e monaci, o meglio, tra l’aristocrazia delle armi e quella della preghiera, rapporto che segnò la storia politica religiosa d’Europa. 3.3 I regni e l’aristocrazia L’aristocrazia – militarmente forte, ricca di terre, attenta a occupare le cariche ecclesiastiche – fu la base fondamentale della forza egemonica che il popolo franco seppe esercitare su larghi settori dell’Europa altomedievale. L’efficacia politico- militare dei franchi derivò soprattutto dal coordinamento dell’aristocrazia attorno ai re. La ripresa di forme e strumenti di governo di tradizione romana fu espressa con la massima evidenza nella scelta compiuta da Clodoveo di promuovere una redazione scritta delle leggi franche, la cosiddetta Lex Salica (o più esattamente il Pactus legis Salicae), la cui stesura risale al 510. Il fatto stesso di procedere a una redazione scritta è di per sé una scelta tipica della cultura politica romana. L’aspetto interessante è che nel prologo della legge il re non è presentato né come autore né come promulgatore della norma. Il protagonista è il popolo con i suoi aristocratici che, per cercare la pace e la giustizia si affidano alla saggezza di quattro uomini. E al centro del sistema politico troviamo l’assemblea degli uomini liberi, luogo delle scelte politiche, dell’elaborazione legislativa e delle decisioni giudiziarie. Il potere regio non era quindi celebrato nel testo delle leggi ma era costruito grazie all’efficace coordinamento con l’aristocrazia. I re fecero ampio uso di strumenti politici di diversa tradizione. Ad esempio, i Franchi organizzarono una forma di controllo del territorio attraverso la suddivisione in distretti affidati ognuno a un conte, responsabile della giustizia, dell’esercito e del prelievo; il quadro distrettuale era discontinuo, non arrivò mai a coprire l’intero territorio franco. Questa organizzazione per distretti e funzionari fu solo una delle espressioni di un più profondo e articolato nesso tra il re e l’aristocrazia, il cui primo fondamento fu una rete di rapporti di tipo clientelare, fondata sulla capacità regia di organizzare e guidare il proprio seguito armato. Tutto ciò pone al centro dell’attenzione la ricchezza e la capacità redistributiva del re, la sua possibilità di ricompensare i fedeli. In molti regni germanici gli eserciti erano ricompensati con concessione di terra. Il regno franco seguì questo modello e perciò il prelievo delle imposte divenne un’azione amministrativa difficile e nel complesso superflua, fino a essere abbandonata tra il VI secolo e il VII secolo. Perciò i Merovingi, come gli altri re contemporanei, furono molto più poveri se paragonati agli imperatori, e nel complesso più deboli (e quindi dipendenti dall’aristocrazia). Ma confrontati con gli altri regni germanici, i re Franchi erano probabilmente più ricchi e certamente più ricchi delle altre famiglie aristocratiche franche. Di conseguenza la società politica franca, più che in altri regni, era fortemente polarizzata attorno al re. La polarizzazione dell’aristocrazia attorno ai re non implicò però una dinamica di corte, un accentramento politico nella capitale. I Franchi non avevano una capitale: i Merovingi avevano una serie di residenze privilegiate, concentrate soprattutto nel nord della Gallia; ed è in queste varie residenze che l’aristocrazia franca si riuniva periodicamente attorno ai propri re. Più difficile da cogliere è il legame che univa i Merovingi all’insieme della popolazione: la tradizione politica germanica attribuiva all’assemblea dell’esercito grandi poteri, dall’elezione del re alle decisioni legislative. Questi poteri andarono rapidamente attenuandosi con il crescere sia della forza di mediazione aristocratica sia del carattere dinastico della monarchia, riducendo l’assemblea a una funzione di ratifica, non di scelta del nuovo re. Questo non implicò la scomparsa delle assemblee ma una loro ridefinizione: la stavano sul confine, e quelli che affiancavano l’Imperatore. Il sistema burocratico fu il principale strumento per gestire il prelievo fiscale. Si prelevavano regolari tasse sulle persone e sui loro beni: la tassa fondamentale era la cosiddetta annona. In pratica il carico fiscale da imporre su un fondo era calcolato considerando sia il valore della terra sia il numero di persone che lavoravano. Questa azione fiscale richiedeva la produzione di un complesso sistema documentario e amministrativo per accertare i patrimoni e le persone presenti (catasti), per prelevare le imposte, per obbligare al pagamento chi se ne voleva sottrarre e infine per aggiornare periodicamente i catasti. Un peso burocratico considerevole, che non a caso tra il V e il VI secolo scoraggiò I diversi regni germanici dal procedere a queste operazioni. Nell’Impero, per rendere più stabili le entrate fiscali, si cercò di vincolare le persone alle terre, vietandone lo spostamento verso altri fondi, e dando vita così alla figura dei coloni, persone giuridicamente libere ma vincolate alla terra, su cui erano obbligate a risiedere e a lavorare. L’organizzazione di questo sistema burocratico e fiscale richiedeva la presenza di percorsi di formazione scolastica, in particolare in campo giuridico. Il sistema di alta formazione giuridica fu alla base della grande riforma legislativa di Giustiniano che si espresse nella redazione del Corpus iuris civilis, un insieme articolato di testi giuridici. Il primo problema affrontato fu l’affollarsi disordinato di leggi spesso contraddittorie. L’obiettivo era dare vita a un codice legislativo unitario e coerente. Ne nacquero quattro testi principali che andarono a costituire il Corpus: il Codex, una raccolta delle principali norme imperiali dal II secolo fino all’inizio del VI secolo; il Digesto, una raccolta organizzata e selettiva di scritti giuristi; le Institutiones, i testi destinati all’insegnamento universitario del diritto; le Novellae, le nuove disposizioni imperiali emanate dopo la redazione del Codex. Questa riforma era dovuta sia a un’esigenza di funzionalità, per eliminare testi ormai anacronistici, risolvere le contraddizioni e le sovrapposizioni; sia a un’esigenza pratica, ridefinendo il diritto e le sue fonti, producendo sistemi testuali destinati anche alla riflessione e all’apprendimento. Il campo giuridico fu quello in cui Giustiniano lasciò il segno più importante, ma all’epoca le sue azioni più vistose furono quelle condotte sul piano militare, nel tentativo di riconquistare l’Occidente e di riunificare l’Impero. L’ampia azione militare – che portò alla riconquista della Tunisia, dell’Italia e di gran parte delle coste mediterranee della Spagna – fu l’esito di una serie di processi profondamente diversi, che integravano aspetti militari, ideologici ed economici. Possiamo individuare tre premesse fondamentali: la relativa tranquillità del confine persiano permise all’Impero di alleggerire questo fronte e destinare truppe ad altri scopi; l’ampia riflessione giuridica e politica condusse un rafforzamento ideologico e a una riaffermazione della centralità e del ruolo universale dell’Impero; la politica fiscale e l’alleggerirsi dell’impegno bellico a est garantirono il consolidamento finanziario e una nuova prosperità. Il primo obiettivo fu il regno vandalo di Tunisia: i vandali rappresentavano la principale minaccia alla sicurezza della navigazione mediterranea, che era al centro degli interessi imperiali; al contempo il controllo imperiale sulla Tunisia avrebbe consentito di riprendere possesso delle sue grandi produzioni agrarie. Le truppe imperiali guidate dal generale Belisario conquistarono il regno vandalo con una certa facilità tra il 533 534. Ben più faticose le altre campagne imperiali: la Spagna visigota, dove la conquista non si estese mai al di là della fascia costiera mediterranea; e soprattutto l’Italia ostrogota, oggetto di una campagna militare lunghissima, che richiese quasi vent’anni (dal 535 al 553). Le armate bizantine guidate da Belisario attaccarono dal sud, conquistando la Sicilia per poi risalire la penisola: un’avanzata che fu molto efficace, fino alla conquista di Ravenna nel 540, che indusse le due parti una trattativa e una spartizione dell’Italia, riservando agli Ostrogoti le regioni a nord del Po. Questo precario equilibrio fu rotto a partire quando salì sul trono italico un nuovo re che rilanciò l’azione militare gota. La reazione di Giustiniano fu definitiva: passando dalla Dalmazia, riuscì a conquistare l’Italia nel 553. Fu una conquista lunga e difficile, in una vicenda in cui gli Ostrogoti dimostrarono capacità militari e radicamento nel territorio e nella popolazione italica, che permisero una resistenza a tratti efficace. Ma proprio questa resistenza e la durata del conflitto provocarono grandi danni materiali e umani. L’imperatore Giustiniano ricostituì un quadro di governo imperiale sull’Italia, organizzato attorno a un grande funzionario, l’esarca di Ravenna; la scelta del luogo non fu casuale: riprese infatti la funzione di residenza regia e di capitale che la città aveva avuto già nel tardo Impero d’Occidente e poi sotto Teoderico; e al contempo Giustiniano evitò di porre Roma al centro del dominio imperiale, lasciando la città nelle mani del vescovo. 4.3 Dibattiti teologici e identità locali Nel IV secolo la divisione teologica tra cattolici e ariani aveva portato a una grande frattura religiosa ed ecclesiastica, che aveva assunto connotati territoriali ed etnici, separando l’Impero Romano cattolico dalle popolazioni germaniche ariane; i riflessi di questa divisione avevano poi inciso profondamente nei processi di integrazione tra romani e germani all’interno dei diversi regni. Un altro dibattito teologico fu quello sul piano cristologico: la questione non era più il rapporto tra le diverse persone della trinità (dibattito trinitario), ma la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e una natura umana. Cristo deve essere pienamente Dio per garantire l’efficacia salvifica dell’incarnazione e della morte; ma al contempo deve essere pienamente uomo, perché solo così gli si può riconoscere una piena e reale sofferenza nella carne. Come potevano convivere due nature in una sola persona? Si elaborarono così formulazioni teologiche raffinatissime, in un dibattito che coinvolse l’insieme dei fedeli, soprattutto perché era evidente la sua incidenza immediata sull’idea stessa di redenzione. Anche il ruolo di Maria fu al centro del dibattito: Nestorio, sacerdote cresciuto e formato ad Antiochia e divenuto poi vescovo di Costantinopoli (428), sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte (umana e divina) e di conseguenza rifiutava a Maria il titolo di “madre di Dio”, sostituendolo con quello di “madre di Cristo”. Il nestorianesimo fu condannato nel 431. Il nestorianesimo aveva una debolezza intellettuale, perché fondava in modo insufficiente l’unità delle due nature di Cristo; di conseguenza non era affermato in modo solido il pieno coinvolgimento del Figlio (la natura divina) nella sofferenza e morte di Cristo: se le due persone fossero state distinte, la morte dell’uomo non avrebbe coinvolto appieno la parte divina e questo non garantiva l’efficacia salvifica dell’incarnazione e morte. La via teologica opposta fu il cosiddetto Monofisismo (una sola natura): in questa interpretazione umanità e divinità si fondono fino a dare vita a una sola natura, in grado sia di soffrire concretamente, come uomo, sia di operare la redenzione in quanto Dio. Dal punto di vista teologico, il monofisismo offuscava le due nature, ne cancellava la specificità, mentre l’efficacia salvifica dell’incarnazione derivava sì dall’unione di umanità e divinità, ma anche dalla conservazione delle due nature pienamente integre. Durante il concilio di Calcedonia venne proposta una soluzione di compromesso, il cosiddetto Diofisismo (due nature) che sostenne la presenza di due nature distinte e integre unite in modo indissolubile nella persona di Cristo, una formula che divenne dominante e che è tuttora adottata dalle chiese cattolica e ortodossa. La posizione di Diofisita fu sostenuta da Roma, Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria. L’impegno imperiale in questa fase è sempre stata tendente a tutelare l’unità della teologia cristiana. Nel 681 il Monofisismo venne condannato nel concilio di Costantinopoli del 681, rendendo il Diofisismo dominante nell’Impero e in Occidente. Con il passare degli anni la questione cristologica perse la sua importanza politica. PARTE SECONDA: IL SISTEMA DI DOMINAZIONE ALTOMEDIEVALE 0.1 Introduzione Il periodo compreso tra il VII e il X secolo è un’epoca segnata da profonde trasformazioni degli assetti di potere (come la costruzione dell’Impero carolingio e la sua divisione in nuovi regni) ed economici; ma è anche un periodo con alcuni importanti caratteri di stabilità: cessata l’intensa mobilità di popoli dei secoli V e VI e concluso il processo di rielaborazione dell’eredità romana, ci troviamo di fronte a sistemi di dominazione fondati su un delicato equilibrio tra i poteri regi e l’aristocrazia. La più grande costruzione politico-territoriale del Medioevo è l’Impero carolingio. Quando si parla di “dominazione” altomedievale non è solo questione di potere regio, ma di ricchezza, di controllo degli uomini e delle risorse, di controllo delle loro anime attraverso il sistema delle chiese. La dominazione aristocratica si esercitava assolvendo funzioni di governo e di guida militare per conto del regno, ma anche accumulando possessi fondiari, elaborando forme efficaci di sfruttamento della terra, costruendo chiese e occupando funzioni ecclesiastiche. Tra le tante diverse azioni politiche, un ruolo centrale era ricoperto dai legami personali e clientelari, vero fondamentale delle dominazioni altomedievali. Capitolo 1 Nobili, Chiese E Re: Ricchezze E Poteri Tra il VI e VIII secolo la geografia politica dell’Europa occidentale appare molto più stabile che nei due secoli precedenti; la mobilità dei popoli germanici rallenta decisamente. Constatiamo una conflittualità intensa tra le diverse dominazioni che porta a una continua mobilità dei confini, ma non ne consegue invece una ridefinizione complessiva dei quadri territoriali. Tre sono le chiavi fondamentali attraverso cui leggeremo i funzionamenti sociali di questi secoli: l’equilibrio politico tra le aristocrazie e i re; lo sfruttamento delle risorse agrarie; l’apertura di nuove reti di scambio. 1.1 Nobili e re I regni altomedievali mostrano un equilibrio tra la capacità regia di coordinamento e l’azione politica autonoma dell’aristocrazia. L’elemento comune che in questi regni connota il rapporto tra re e aristocrazia è il processo di redistribuzione clientelare e il fondamentale carattere militare del potere regio (i re erano i garanti della pace e della giustizia, la loro principale funzione restò sempre quella di capi militari). Per quanto riguarda le forme clientelari, è bene ricordare che questi re erano più poveri degli imperatori romani; eppure riuscirono a raccogliere attorno a sé l’aristocrazia del regno. All’inizio del VII secolo il regno visigoto appare in piena fase di consolidamento: dal punto di vista territoriale in questi anni si completò la conquista della penisola iberica; al contempo la conversione al Cattolicesimo, avviata alla fine del VI secolo, si era rapidamente completata con una cancellazione totale dell’Arianesimo dal regno. Il secolo fu connotato da un chiaro processo di centralizzazione del potere: la dimostrazione più evidente di questo processo è la redazione delle leggi completata a metà del VII secolo. È un testo in cui sono evidenti le influenze del diritto romano. Il modello efficace era sempre l’Impero cristiano, fondato sulla cooperazione tra il sovrano e i vescovi, che nel caso visigoto trovò un’espressione chiara e strutturata nei concili di Toledo. I concili erano sia assemblee ecclesiastiche sia organi di governo del regno: i vescovi, come nel regno franco, costruirono un rapporto di vera simbiosi con il potere regio, e il fatto di raccogliersi attorno al re e cooperare al suo potere era profondamente radicato nella natura stessa della loro funzione. Non avrebbe quindi senso in questo contesto distinguere o contrapporre Stato e Chiesa: i concili di Toledo avevano una funzione di guida del popolo visigoto, sotto il doppio aspetto di cura delle anime e di governo degli uomini. La centralizzazione del potere però non comportò un pieno controllo dell’aristocrazia: sono infatti numerosi i conflitti, i colpi di Stato, le deposizioni dei re. I tentativi di impadronirsi del regno dimostrano quanto fosse ambito il ruolo e il potere del re. Nel complesso il regno visigoto alla fine del VII secolo era probabilmente la struttura politica più forte e coesa dell’Occidente europeo. Il consolidamento del potere regio però lasciava spazio a un imperfetto controllo militare del territorio: se lungo il VII secolo i Visigoti non dovettero subire grandi minacce militari dall’esterno del regno, all’inizio dell’VIII secolo la conquista della penisola iberica da parte delle armate islamiche fu nel complesso semplice e rapida e pose bruscamente fine alla storia visigota. Le isole britanniche nel VII secolo restarono caratterizzate dall’alta frammentazione politica. In Irlanda, la conversione al cristianesimo lungo il VI secolo aveva posto al centro i monasteri. Non cambiò però la struttura politica dell’isola, divisa in una moltitudine di regni. La stessa pluralità di regni si ritrova in Britannia, ma qui si assiste a una più chiara tendenza alla gerarchizzazione. Il VI secolo è segnato dal completamento del processo di conversione al Cristianesimo e dall’apertura a influssi provenienti dalla Gallia franca (con matrimoni che unirono le diverse famiglie regie, la circolazione di monete franche in Britannia ecc.). Rimase invece debole il livello di urbanizzazione, con uno sviluppo delle città portuali che appare significativo solo a partire dalla fine del VII secolo. In Britannia si assiste ad una pluralità di regni che tra il VII secolo e l’VIII secolo si affermano in modo discontinuo. La superiorità di alcuni di questi regni si consolidò soprattutto alla fine dell’VIII secolo, ma solo nel IX secolo potremmo constatare l’esistenza di un regno inglese unitario. Tra il VII e VIII secolo si andarono costituendo le basi di potere di quella che alla fine dell’VIII secolo diventerà la dinastia più potente d’Europa, ovvero i carolingi. Per comprendere la loro affermazione è necessario partire dei funzionamenti interni al regno merovingio. In questa fase lo spazio politico franco risulta essere quello dell’attuale Francia e la parte più occidentale della Germania. I Merovingi, privi di una capitale stabile, furono sempre itineranti tra i diversi palazzi regi. Il fondamento principale del potere merovingio era il legame con l’aristocrazia: un legame solido, tale per cui l’aristocrazia franca non era disposta ad accettare un re che non fosse della dinastia merovingia; era un legame fondato sulla chiara affermazione della diversità dei Merovingi da ogni altra dinastia presente nel regno. I Merovingi erano molto più ricchi di qualunque altra famiglia e si legavano patrimonialmente con dinastie regie esterne al regno franco. Fu all’interno dell’aristocrazia franca che crebbe la famiglia dei Pipinidi-Carolingi (i nomi con cui viene identificata la dinastia sono una costruzione degli storici: usiamo il nome “Pipinidi” per la prima parte della loro storia, quando prevale il nome Pipino; da Carlo Magno in poi si usa invece il nome di “Carolingi”, perché all’interno della dinastia ricorre con frequenza il nome Carlo). Nei primi anni del VII secolo, nel contesto delle lotte per il potere interne alla stirpe merovingia, i leader dei due principali clan aristocratici dell’Austrasia (la parte nord- orientale del regno franco, tra Belgio e Germania), tra cui Pipino di Landen, si allearono per appoggiare l’ascesa al trono del re e per questo furono ricompensati: uno con la carica di vescovo, Pipino con quella di maestro di palazzo del regno di Austrasia. Dal matrimonio tra i due nacque un sistema parentale potentissimo, che si andò affermando nell’intera dominazione Franca. Il maestro di palazzo (o maiordomus), era in ogni regno franco il punto più alto di potere al di sotto del re: era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica attorno al re e metteva in atto le decisioni regie. Un ruolo di grandi potenzialità, che divenne obiettivo specifico della famiglia pipinide nei decenni successivi. La forza della dinastia si espresse con chiarezza nel momento in cui un suo esponente, Carlo Martello, riuscì a ricoprire contemporaneamente le funzioni di maestro di palazzo nei diversi regni che andavano a costituire la dominazione franca. Per comprendere la forza dei Pipinidi, non basta ragionare sulle cariche da loro occupate, ma bisogna concentrarsi sul loro rapporto con l’aristocrazia franca. I Pipinidi si mossero dall’interno dell’aristocrazia, legando a sé per via clientelare le maggiori famiglie del regno Franco. “Legami clientelari” è una definizione generica, perché è da adattare a una fase successiva, alla fine del VIII secolo, la formalizzazione dei rapporti vassallatici, (= i legami di fedeltà militare). Ma già in questa fase si tratta di solidarietà militare: la loro capacità di coordinamento dell’aristocrazia si tradusse direttamente in forza armata, in una capacità di agire militarmente in modo autonomo, non sempre al servizio dei re Merovingi. La centralità della componente militare si vede bene nella vicenda di Carlo Martello, morto nel 741. Le forme della sua azione politica e dell’ideologia pipinide emergono dalla sua impresa più celebre, la battaglia di Poitiers nel 732, quando Carlo sconfisse una spedizione proveniente dalla Spagna islamica: non fu una battaglia di grande rilievo militare, non arrestò un tentativo di invasione del regno franco, ma probabilmente mise fine a incursioni e saccheggi. Gli storici più vicini alla dinastia hanno esaltato la battaglia come un momento determinante per la salvezza del regno da una minaccia islamica. Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio, Pipino III o Pipino il Breve, a prendere la corona nel 751, deponendo l’ultimo re merovingio. Il mito dei “re fannulloni”, ovvero l’idea che gli ultimi re merovingi fossero incapaci e nullafacenti, fu un mito costruito nel IX secolo dalla corte carolingia per riaffermare la legittimità del proprio colpo di stato del 751. 1.2 Terre e uomini Le gerarchie sociali altomedievali erano costruite in larga parte sulla base della ricchezza fondiaria: essere ricco significava avere molte terre. Le campagne erano uno spazio a bassissima densità abitativa. Il territorio era dominato dai boschi, al cui interno si aprivano le radure che accoglievano i villaggi; era raro l’insediamento sparso (singole case contadine isolate). La forma più diffusa di insediamento era il villaggio, che non era costituito solo da un insieme di abitazioni, ma dall’integrazione tra case e terre. Nelle immediate vicinanze delle case c’erano gli orti e le colture specializzate; attorno al villaggio si estendevano poi i campi coltivati a cereali e i pascoli. Il modo più efficiente per concimare la terra era quello di usarla periodicamente come pascolo, per cui si adottava in genere un sistema di rotazione biennale: metà delle terre erano coltivate a cereali e metà lasciate incolte e destinate al pascolo, per poi 2.1 I Longobardi in Italia Potremmo definire la dominazione longobarda come un regno romano-germanico “di seconda generazione”. È probabile un’origine scandinava del popolo, protagonista poi di una serie di spostamenti, prima nella Germania settentrionale (dal I secolo), poi nella Pannonia (l’attuale Ungheria, tra IV e V secolo). I Longobardi quando si stanziarono qui stipularono un foedus con l’Impero, per cui combatterono occasionalmente come mercenari, senza integrarsi nei quadri imperiali. L’esercito che nel 568 si mosse alla conquista dell’Italia era quindi costituito da un popolo che conosceva la romanità ma che non si era romanizzato. La migrazione nacque probabilmente dalle evidenti possibilità di bottino offerte dall’Italia, un territorio ricco, ma debole dal punto di vista politico e militare. I Longobardi erano un popolo-esercito, ovvero un popolo la cui attività principale era combattere, e in cui l’esercito era costituito dall’insieme dei maschi adulti liberi, secondo un modello tradizionale delle popolazioni germaniche. Si trattò di una conquista, di un’azione militare violenta, ma fu anche una migrazione perché, al seguito degli armati, scese in Italia l’intero popolo longobardo, che abbandonarono le terre in Pannonia e si trasferirono in Italia. Anche per i Longobardi dobbiamo ragionare in termini di etnogenesi, ovvero di continua costruzione e trasformazione dell’identità etnica. Quando parliamo di “Longobardi”, dobbiamo intendere l’insieme delle persone che in un dato momento si riconoscevano come Longobardi, che aderivano a quel nesso politico identitario. L’iniziativa dei Longobardi e del loro re Alboino fu una grande opportunità di arricchimento; perciò, nel momento in cui si avviò la spedizione, si unirono all’esercito molti gruppi che vollero approfittare di questa occasione. Unirsi all’esercito significava però unirsi anche al popolo, riconoscere lo stesso re, in pratica divenire Longobardi. L’esercito longobardo è stato infatti definito “un magnete in movimento”. Alboino e i Longobardi valicarono le Alpi nel 568 e diedero vita a una conquista che divise l’Italia in due parti, il regno longobardo e i domini imperiali. Questa discontinuità territoriale è un dato importante che ci aiuta a comprendere le persistenti tensioni che nei due secoli successivi contrapposero i Longobardi all’Impero e al vescovo di Roma. Questa disorganicità territoriale del dominio longobardo deve essere letta alla luce della struttura di potere interna all’esercito e al popolo. Il potere del re era molto limitato e condizionato, e per comprendere questo aspetto dobbiamo definire le caratteristiche del popolo longobardo: un popolo-esercito, attraversato da reti di fedeltà e organizzato in corpi militari chiamati farae; le farae erano gruppi uniti da una solidarietà militare e attivi soprattutto quando il popolo- esercito si muoveva. A capo di queste farae troviamo dei duces (duchi): erano guide militari ma anche, data la piena coincidenza tra popolo ed esercito, coloro che guidavano e comandavano l’intero popolo longobardo. Il potere regio nasceva prima di tutto dal coordinamento delle farae e dei duchi. L’ampia autonomia dei duchi si rivela proprio nelle forme dell’espansione dei Longobardi in Italia, che ad esempio si spinsero verso sud alla conquista di Spoleto e Benevento. I duchi si stanziarono nelle diverse regioni e individuarono delle sedi fisse: non si trattava di circoscrizioni e capoluoghi definiti dal regno, ma piuttosto l’espressione diretta e autonoma dello stanziamento dei singoli duchi e del loro seguito armato. Non possiamo quindi parlare di ducati, ma di sedi ducali, città in cui i singoli duchi si insediavano. Il potere di un duca si estendeva fino a dove non andava a scontrarsi con il potere di un altro duca. Su questa struttura si innestava il potere regio. Anche il re era prima di tutto una guida militare, colui che garantiva la capacità bellica del suo popolo. Nella cultura longobarda il re doveva essere un valoroso guerriero, e questo era il primo e indispensabile requisito per individuare chi poteva essere scelto come re. Parliamo di scelta perché il re longobardo era elettivo, teoricamente scelto dall’assemblea degli uomini liberi (gli appartenenti all’esercito) ma di fatto nominato dai duchi, e questo ci aiuta a capire gli equilibri interni al mondo longobardo. Non era il re a nominare i duchi, ma erano questi ultimi a scegliere il re . Il che non impediva ricorrenti tendenze dinastiche, ma non c’era alcun automatismo, né una dinastia di lunga durata come nel caso dei Merovingi nel regno franco. Re Alboino fu ucciso nel 572 e a lui succedette Clefi, che rimase in carica solo due anni, per essere poi anch’egli ucciso. A questo punto, dal 574 al 584 i Longobardi rimasero senza un re. In quel momento i duchi ritennero che non fosse necessario avere un re. Sono le esigenze militare a spiegare il ritorno del potere regio 10 anni dopo: le pressioni dei Franchi convinsero i duchi a scegliere nel 584 un nuovo re. Il ritorno del potere regio ci dice due cose importanti: prima di tutto non ci furono in seguito altre fasi analoghe, da qui in avanti Longobardi ebbero sempre un re; inoltre la persona scelta nel 584 come re fu il figlio di Clefi (Autari). In altri termini, nel momento in cui duchi Longobardi presero atto che un re era necessario, scelsero una figura ritenuta adatta anche per la sua ascendenza derivatagli dalla figura paterna. La progressiva costruzione dell’egemonia regia è un processo ben riconoscibile nella fase matura del regno longobardo tra il VII secolo e l’VIII secolo. Un altro aspetto molto importante è l’identificazione di una capitale. Il fatto stesso di avere una capitale non era una scelta scontata. Teoderico aveva posto la propria capitale a Ravenna usando Verona e Pavia come residenze privilegiate. Delle tre capitali italiane del tardo Impero (Roma, Ravenna e Milano) le prime due erano precluse ai Longobardi, ma essi a Milano preferirono Pavia. Per i Longobardi Pavia fu una vera capitale, la sede del re e degli organismi che a lui facevano capo. Molte altre città del regno conservarono una funzione politica, come residenza dei duchi. 2.2 Longobardi e Romani L’identità longobarda non era un dato stabile ma era soggetta a un continuo processo di costruzione. I segni del continuo processo di etnogenesi si ritrovano nella redazione alla metà del VII secolo del testo “L’origine del popolo dei Longobardi” (Origo gentis Langobardorum), un racconto delle vicende del popolo longobardo dalle origini fino alla costruzione del regno d’Italia. L’Origo, il cui obiettivo era rafforzarne l’identità e la coesione, non si limita a narrare le vicende del popolo, ma si concentra sull’origine, sul momento in cui un gruppo di persone aveva assunto un nome, un’identità collettiva, si era riconosciuto come popolo. Da notare come, un secolo dopo lo stanziamento in Italia, settori importanti della corte regia erano impegnati a consolidare la coesione etnica longobarda. In altre fonti scritte vediamo semplicemente come il termine “Longobardi” sembra essere usato per indicare l’insieme delle persone sottoposte al potere del re longobardo, così come “Romani” identificava gli abitanti di quelle parti d’Italia rimaste in mano imperiale. È certamente difficile definire i processi di costituzione dell’identità longobarda. Sicuramente nei primi decenni dopo l’invasione, l’identità etnica era chiara: chi faceva parte del popolo che erano sceso in Italia al seguito di Alboino, e chi in Italia viveva da prima. Questa chiarezza andò sfumando rapidamente nel giro di poche generazioni: la convivenza negli stessi luoghi, i matrimoni misti e l’assimilazione degli stili di vita tolsero rilievo alla distinzione etnica, lasciando un peso maggiore alle differenze politiche. Esiste un aspetto importante dell’identità collettiva longobarda su cui c’è più chiarezza e riguarda la religione. La religiosità longobarda al momento della discesa in Italia comprendeva credenze pagane tradizionali e cristianesimo ariano. La loro conversione solo parziale al cristianesimo, nella versione ariana, è una manifestazione della loro romanizzazione debole. In Italia non si delineò una chiara distinzione tra Romani cattolici e Longobardi ariani, com’era avvenuto in forme diverse con gli Ostrogoti, i Vandali o nel primo periodo del regno visigoto. Ma indubbiamente la fede ariana divenne un perno attorno a cui Longobardi poterono consolidare una propria identità etnica distinta dai romani: la presenza all’interno delle città di vescovi e sacerdoti ariani, al fianco di quelli cattolici, contribuì a delineare due comunità affiancate e distinte. La fluidità di questa identità longobardo-ariana emerge con particolare chiarezza nell’età di Teodolinda, la regina che all’inizio del VII secolo concentrò nelle sue mani quote rilevanti di potere: essa era etnicamente longobarda e di religione cattolica. Al suo fianco, il re Agilulfo restò ariano, ma acconsentì al battesimo cattolico del figlio. Questo non fu l’avvio di una conversione dei re o dell’intero popolo longobardo al cattolicesimo. Vediamo invece una lunga convivenza di Cattolicesimo e Arianesimo nel popolo e nella corte, e al contempo una tendenza alla conversione dei Longobardi al cattolicesimo. La conversione fu lenta: solo nei primi decenni dell’VIII secolo quello longobardo fu regno pienamente cattolico. Questa convivenza di due fedi e questa tendenza alla conversione al cattolicesimo ridussero le potenzialità dell’Arianesimo come fattore di consolidamento dell’identità longobarda. In Italia non si realizzò quel processo di simbiosi tra il regno e i vescovi che ebbe invece grande rilievo nello stabilizzare le strutture dei regni franco e visigoto. I vescovi nel regno longobardo non avevano il potere di guidare le anime dei fedeli e di trasmettere una cultura di governo di tradizione romana, di conseguenza le cariche vescovili non divennero un obiettivo politico dell’aristocrazia del regno. L’identità ariana e la lenta conversione al cattolicesimo contribuirono anche all’ostilità che oppose il regno al vescovo di Roma. Questa ostilità ebbe indubbiamente un’origine politico-territoriali, in quella frammentazione del territorio italiano. L’opposizione era tra due ambizioni egemoniche diverse sull’intera penisola. La componente religiosa intervenne a dare forza ideologica alla tensione, quando i re Longobardi furono visti come “eretici” contro i quali dovevano coalizzarsi le forze cattoliche. Le potenzialità politico-territoriali del papato sono evidenti nell’azione di Papa Gregorio Magno. Discendente di una famiglia dell’aristocrazia senatoria, Gregorio fu pienamente espressione di questo gruppo sociale, sia per il suo altissimo livello culturale, sia per la sua capacità di muoversi sul piano politico amministrativo. Gregorio e i suoi successori si trovarono a rifondare su nuove basi il ruolo politico della città di Roma: la debolezza dell’Impero in Italia era sicuramente un problema, ma per i vescovi di Roma era anche un’opportunità interessante, un vuoto di potere che permetteva di agire su piani politici amministrativi. Gregorio usò il ricchissimo patrimonio vescovile per garantire il regolare afflusso di grano in città, agendo come tutore dell’intera comunità. Così avvenne anche a Ravenna (l’altra grande polarità ecclesiastica e politica dell’Italia imperiale) con il suo vescovo. Nel caso di Roma e di Gregorio constatiamo però un importante salto di qualità, con una prospettiva più pienamente politica, quando iniziò a contrattare con i Longobardi, nel definire le forme di equilibrio tra le due dominazioni. Gregorio Magno e i suoi successori si proposero come vertici politici dell’Italia centrale, a sostituire un potere imperiale lontano e spesso assente. 2.3 Crescita e fine del regno Una delle principali fonti scritte per lo studio di quest’età è rappresentato dalle leggi promulgate dai re Longobardi a partire dall’editto di Rotari emanato nel 643. La redazione dell’editto va posta nel contesto del regno di Rotari (636-652), che da un lato estese il dominio longobardo verso alcune aree rimaste fino ad allora in mano imperiale (la Liguria, parte del Veneto), e dall’altro avviò la trasformazione delle strutture interne al regno, con un progressivo indebolimento del potere ducale. La scrittura delle leggi fu parte di questo processo di rafforzamento regio. La scrittura (in latino) delle leggi è sempre la ripresa di un modello politico romano. L’obiettivo dichiarato di Rotari è tutelare i più deboli. Il suo scopo è integrare le norme ed eliminare quelle superflue; non si tratta in alcun modo di una passiva trascrizione delle consuetudini, ma di un’azione innovativa di cui Rotari si proclama autore. L’editto pone in piena evidenza l’inviolabilità del re e individua nella volontà regia ciò che distingue, in modo insindacabile, la violenza lecita da quella illecita. Se l’editto di Rotari deve molto alle consuetudini del passato, deve essere visto prima di tutto come un’azione nel presente, un atto di governo modulato in base alle esigenze contemporanee di un popolo da decenni radicato nel territorio italiano. Dobbiamo vedere la rivendicazione da parte di Rotari di una più forte centralità regia, di un pieno dominio sui sudditi. La “gens Langobardorum” più volte ricordata nell’editto, mostra come la connotazione etnica non sia scomparsa; ma è più importante la connotazione politica, l’identificazione del popolo come insieme delle persone sottomesse allo stesso re, e l’esigenza di fondare un ordine pubblico (ovvero di controllare tutti i sudditi). L’editto era destinato ad applicarsi a tutta la popolazione presente nel regno, sebbene a questa data la fusione tra Romani e Longobardi non era ancora compiuta. Con l’editto il potere regio rivendicava il proprio potere legislativo e affermava la propria centralità giudiziaria, la propria capacità di regolare i conflitti interni alla società in forme che andassero aldilà della tradizionale faida, sostituita da forme regolate di compensazione pecuniaria per chi subiva danni fisici. Da Rotari in poi furono promulgate nuove leggi: questi interventi produssero testi molto più ridotti dell’editto di Rotari, in cui introdussero integrazioni e correzioni. Il dato rilevante è che l’attività legislativa, durante gli ultimi decenni del VII secolo e soprattutto lungo il secolo seguente, divenne un’azione normale dei re. Ci sono due assi fondamentali dell’azione di Rotari: l’ampliamento territoriale del regno e la scrittura dell’editto. Questi fattori sanciscono l’avvio di un processo di rafforzamento del potere regio, all’interno e verso l’esterno, un processo che continuò nella seconda metà del VII secolo e lungo il secolo seguente. L’espansione territoriale ampliò il dominio longobardo sul Veneto e si spinse fino in Puglia. Di fatto la crescita militare longobarda e la declinante capacità di intervento dell’Impero crearono un quadro politico polarizzato attorno al regno longobardo e al papato. Il processo di rafforzamento regio dovette sempre convivere con l’egemonia ducale sulla società. Lungo il VII secolo, al fianco del tradizionale meccanismo di elezione regia, emerse in modo ricorrente una tendenza dinastica: non si affermarono mai veri e propri meccanismi di successione di padre in figlio, ma una tendenza a conservare la funzione regia all’interno del gruppo parentale. È un dato importante, mette in rilievo la presenza di un carisma regio che si trasmetteva attraverso il sangue; questo principio non arrivò mai a prevalere sul meccanismo elettivo, al massimo poté condizionarlo, orientando e limitando la possibilità di scelta da parte dei duchi. La tendenza al rafforzamento del potere regio si accentuò in modo significativo nel secolo seguente, in particolare sotto il regno di Liutprando (712-744). Fu prima di tutto un momento in cui si rafforzarono le tendenze dinastiche. Liutprando succedette al padre che era divenuto re pochi mesi prima della morte. E lo stesso Liutprando riuscì puoi trasmettere la corona al figlio. Quello di Liutprando fu un regno particolarmente lungo, più di trent’anni, e questo gli permise di incidere su diversi piani, sia militare sia legislativo. Militarmente Liutprando agì su un orizzonte pienamente italiano, nella prospettiva di costruire un dominio longobardo sull’intera penisola: sottomise i ducati di Spoleto e Benevento, conquistò per un breve periodo Ravenna, portò le proprie truppe di fronte alle mura di Roma. Liutprando non arrivò mai a dominare l’Italia intera, ma questa fu una possibilità reale e concreta. Egli non fu l’unico re a integrare l’editto di Rotari ma fu colui che intervenne in modo più ampio, con un centinaio di articoli di legge. Ciò che vediamo emergere dalle sue norme è una chiara ideologia cattolica del regno, impegnato a estirpare usanze di matrice pagana. Non è solo questione di conversione al Cattolicesimo, ma di trasformazione dell’ideologia del potere regio, che si presentava come protettore della fede e delle chiese. Tuttavia, questo non permise al regno longobardo di costruire un rapporto di forte e stabile collaborazione con i vescovi, per via di diversi fattori: la lunga tensione religiosa tra cattolici e ariani; la persistente conflittualità politico-territoriale tra re Longobardi e imperiali. La mancata collaborazione dei vescovi privò il regno di un sostegno materiale, politico e culturale. Un altro processo di consolidamento del potere regio fu l’istituzione dei gastaldi, funzionari incaricati di gestire il patrimonio regio ; questi andarono a costituire un concreto e capillare contrappeso al potere dei duchi sul territorio, un canale di efficace comunicazione politica tra il re e i sudditi. Un’altra importante istituzione fu quella dei gasindii regi, i fedeli armati, coloro che si erano legati alla persona del re tramite uno speciale e personale rapporto di fedeltà. Queste due figure andarono a costituire una rete di fedeltà raccolta attorno ai re, divenendo rappresentanti del re, un compito che i duchi non assunsero mai. Attorno alla metà dell’VIII secolo si era ormai completato il lungo processo di integrazione tra romani e Longobardi, a costituire un popolo al cui interno non era più possibile alcuna distinzione etnica. I Longobardi dell’VIII secolo sembrano costituire un regno militarmente forte, la cui potenza si proiettava minacciosa sulle altre parti della penisola, in particolare con la presa di Ravenna nel 751. Eppure, era la premessa della fine del regno. Negli anni centrali dell’VIII secolo l’equilibrio politico tra franchi, Longobardi e il papato si ruppe definitivamente. La tensione e la ricorrente conflittualità tra Roma e Longobardi coincise con la potenza crescente del regno franco, in particolare quando i Pipinidi-Carolingi salirono al trono nel 751. I papi videro nei re franchi dei validi protettori della Chiesa romana, a sostituire un Impero ormai incapace di intervenire efficacemente in Italia, e a contrapporsi a un regno longobardo le cui ambizioni sull’Italia centrale erano evidenti. L’alleanza tra il papato e carolingi si concretizzò con due spedizioni: nel 754 Pipino il Breve scese in Italia, sconfisse il re e tolse ai Longobardi Ravenna, ma non la tenne sotto il proprio dominio né la riconsegnò agli imperatori: la diede alla Chiesa di Roma. Vent’anni dopo Carlo Magno sconfisse di nuovo i Longobardi, questa volta in modo definitivo: venne deposto il re e si impossessò del regno annettendo l’Italia centro settentrionale al dominio franco. La conquista franca pose fine al regno, ma non alla storia longobarda: Carlo infatti si intitolò “re dei Franchi e dei Longobardi”; Pavia continuò ad essere la capitale. Capitolo 3 Impero Carolingio, Ecclesia Carolingia ambito territoriale specifico di riferimento; in alcuni casi si sovrapponevano all’ordinamento comitale, in altri sembrava fossero gli unici rappresentanti dell’imperatore. Possiamo definire i missi come gli occhi, le orecchie e la voce dell’imperatore, funzionari in grado di garantire il collegamento tra centro e periferia affiancando, controllando o sostituendo i conti. L’apparato di governo era costituito da fedeli del re, da aristocratici direttamente e strettamente a lui legati. Il potenziamento dei Pipinidi all’interno del regno franco, tra il VII e VIII secolo, si era attuato in misura rilevante grazie alla loro capacità di coordinare l’aristocrazia austrasiana in un sistema clientelare con chiare implicazioni militari; un rapporto di fedeltà personale era anche quello che, nel regno longobardo, legava i gasindii al sovrano. Queste forme di fedeltà assunsero una forma più definita sotto Pipino III e Carlo Magno, in quello che viene definito il rapporto vassallatico. Se il termine vassallo aveva in origine un’accezione che rimandava a una condizione sociale bassa e che poneva al centro l’idea di servizio, nella seconda metà dell’VIII secolo si constata la sua diffusione e una nuova accezione del termine: il vassallo era un uomo che giurava fedeltà militare a un potente, impegnandosi quindi a servirlo, nello specifico a combattere per lui, ottenendone in cambio protezione e un sostegno economico. La rete di fedeltà attraversava l’intera aristocrazia franca. La forza dei re carolingi era costituita prima di tutto dalla capacità di coordinare al proprio seguito l’aristocrazia franca e di tradurre questo coordinamento in forza militare, ponendosi al vertice di una trama di rapporti vassallatici. Il vassallaggio divenne quindi un’integrazione del sistema politico franco, consolidando la solidarietà interna all’aristocrazia e polarizzandola attorno al potere regio. I vassalli regi furono l’ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi: non tutti i vassalli diventavano conti, ma i conti erano reclutati tra quelli di cui il re poteva fidarsi, ovvero prima di tutto i suoi vassalli. Questa prassi divenne poi una norma sotto Ludovico il Pio, che stabilì che chi veniva nominato conte doveva giurare fedeltà vassallatica al re. Era chiaro a tutti che essere vassallo del re (un legame personale, con obblighi di fedeltà e impegno militare) era diverso da essere un suo funzionario (con compiti di governo, di giustizia e di coordinamento delle forze militari locali). Le funzioni comitali avevano un carattere duplice: da un lato erano un servizio che il conte svolgeva a nome del re; dall’altro lato erano un’opportunità per questi aristocratici, un’occasione per acquisire potere e guadagnarsi la benevolenza del re. Da un lato gli imperatori si mossero in una prospettiva statale, ovvero nell’ottica di costruire un apparato di governo con un sistema di deleghe e di responsabilità centrali e locali; dall’altro lato prendiamo atto che la sostanza di cui era fatto questo governo era il coordinamento della grande aristocrazia. La forza carolingia nasceva dalla capacità di coordinare l’autonoma potenza aristocratica, coinvolgendola in una rete di clientele di funzioni, limitandone quindi il potere in forme compatibili con la superiorità regia. Era evidente che questo fosse un equilibrio precario ma efficace, che si ruppe nella seconda metà del IX secolo, quando si ridusse la capacità regia di redistribuire agli aristocratici ricchezza e potere. 3.3 Le chiese carolingie Dall’800 in poi si definì un rapporto stabile di cooperazione tra papato e Impero, che di fatto entrò in crisi solo nel contesto della riforma ecclesiastica dell’XI secolo. I chierici non potevano giurare e non potevano combattere né portare armi: il legame tra il re e i vescovi del suo regno non assunse mai le forme del vassallaggio. I vescovi non divennero conti. Spesso invece vediamo vescovi in qualità di missi regi. Per comprendere il rapporto politico tra vescovi e il regno non è tanto importante seguire specifiche funzioni amministrative attribuite ai prelati: erano i vescovi in quanto tali a considerarsi e ad agire come collaboratori del re. Imperatore e vescovi convergevano infatti verso lo stesso duplice fine, ovvero la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. Perciò i vescovi consideravano connaturato alla propria funzione l’impegno di cooperare con l’imperatore per governare la società. L’imperatore quindi poteva dare ordini ai propri vassalli, ai conti e ai marchesi, ma anche ai vescovi e agli abati. I monasteri non avevano compiti pastorali, non guidavano le anime dei fedeli laici, non avevano né potevano avere quelle funzioni complessive di guida delle comunità che erano invece connaturate alla carica vescovile. I monasteri erano centri di preghiera e di ascesi. Erano luoghi fondamentali per l’elaborazione culturale; erano infine grandi punti di concentrazione di ricchezze, che potevano quindi fornire un aiuto importante al potere regio. Tutti questi aspetti (religiosi, culturali ed economici) devono essere tenuti presenti per comprendere l’impegno regio nel tutelare i centri monastici, che culminò nella riforma promossa da Ludovico il Pio che consolidò la disciplina interna dei monasteri e impose la Regola di Benedetto come unico testo normativo di riferimento. Un’attività di riforma che dal mondo monastico si allargò al clero: in una serie di concili indetti da Ludovico il Pio, i chierici di corte promossero la definizione di un testo normativo destinato a regolare le forme di vita in comune del clero. Fu una delle espressioni della volontà imperiale di intervenire direttamente all’interno delle forme di vita religiosa, ed è un ulteriore testimonianza del fatto che per questi secoli sarebbe impossibile ragionare nei termini di un rapporto tra Chiesa e Stato come due enti separati. Le chiese non erano concepite come enti estranei al potere imperiale, ma piuttosto come sue articolazioni locali, non perché vescovi e abati avessero incarichi funzionariali per conto del regno, ma perché le chiese per loro stessa natura cooperavano al controllo regio sulla società. Le ampie donazioni e concessioni regie alle chiese devono essere lette in tal senso. Un esempio sono i diplomi di immunità - concessi di norma alle chiese, più raramente ai singoli individui – che vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere tasse o per amministrare la giustizia. Non era una concessione di potere, la Chiesa non diveniva per questo titolare dei poteri già spettanti al conte; si definiva però uno spazio inviolabile, un ambito in cui il potere stesso dei funzionari regi era limitato. Per quanto riguarda la giustizia, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dovevano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava senza dubbio di un’ampia esenzione. I diplomi non possono essere letti come un diretto indebolimento del potere imperiale : erano piuttosto forme di riequilibrio tra i diversi elementi che andavano a costituire la forza degli imperatori, ed erano quindi strumenti del governo regio. La simbiosi tra chiese e Impero ebbe importantissime ripercussioni anche nel processo di costruzione della cultura. Gli intellettuali che si riunirono alla corte di Carlo Magno e di Ludovico il Pio collaborarono a costruire la memoria del popolo franco e della dinastia carolingia. Tre esempi tra tutti sono: l’esaltazione delle imprese dei maestri di palazzo pipinidi, come la battaglia di Poitiers; la leggenda dei “re fannulloni”; la legittimazione del colpo di Stato del 751. Le stesse leggi carolingie furono prodotte dai grandi ecclesiastici attivi alla corte imperiale e si sono tramandate solo grazie all’opera di conservazione, compilazione e selezione condotta dalle chiese vescovili. Quello a cui si assiste è un sistema di circolazione di uomini e idee tra la corte imperiale e le chiese interne al dominio carolingio; una circolazione fortemente polarizzata, con intellettuali che soggiornavano alla corte carolingia e di qui ripartivano portando con sé un bagaglio di idee e di memoria storica. Emblematico è il caso di Paolo Diacono, che soggiornò a lungo alla corte di Carlo per cui scrisse varie opere: quando Paolo, tornato in Italia, scrisse la Storia del popolo dei Longobardi, ormai sottomessi ai Carolingi, fece confluire nella sua opera la memoria longobarda con i quadri culturali e politici derivati dalla corte imperiale. In questa fase la lingua ufficiale era il latino. Solo nel IX secolo vediamo emergere le lingue volgari: un concilio dell’813 impose ai chierici di tradurre le proprie omelie in volgare romanzo (l’antenato del francese) o germanico, per andare incontro alle capacità linguistiche dei fedeli. La lingua del potere, della liturgia e in generale dello scritto era in latino, la cui efficacia attraversava tutti i territori dell’Impero. 3.4 Dall’Impero ai regni Gran parte del IX secolo può essere letta come una fase di sostanziale continuità nei funzionamenti politici: il potere regio fondava la propria forza sul coordinamento efficace dell’aristocrazia e delle chiese. Negli anni centrali del IX secolo si assiste a un’articolazione dell’Impero carolingio in regni distinti. Il periodo che va da Pipino III a Ludovico il Pio (dal 751 all’840) è caratterizzato dalla presenza di un solo re (e poi imperatore), ma non viene cancellata una cultura politica che vedeva nel potere un elemento del patrimonio regio, destinato quindi a trasmettersi ereditariamente a tutti i figli maschi. Durante il regno di Carlo Magno e di Ludovico il Pio, si sviluppò la tensione tra una concezione unitaria dell’Impero e le aspirazioni dei diversi membri della famiglia regia. Il problema si pose prima di tutto a Carlo Magno, che si mosse per dividere il regno tra i suoi figli: Carlo, Ludovico il Pio e Pipino (a cui assegnò l’Italia e di cui era già stato incoronato re nel 781). La prospettiva politica di Carlo non prevedeva una semplice spartizione del regno; con la Divisio regni dell’806 si individuarono diversi regni all’interno del dominio carolingio, ma preservando il totum corpus regni (l’intero corpo del regno) e un’idea di Impero come sovrastruttura istituzionale. Tuttavia, la morte precoce di due figli fece sì che alla morte di Carlo, nell’814, l’unico erede fosse Ludovico il Pio, ma questo non evitò tensioni interne al gruppo familiare. Il nuovo imperatore non dovette solo gestire le ambizioni dei propri figli, ma anche quelle di Bernardo, re d’Italia e figlio del fratello Pipino. Ludovico affrontò la questione nell’817 con la Ordinatio imperii (“l’ordinamento dell’impero”), nel quale si affermò con maggiore forza l’idea di unità dell’Impero e di fatto ruppe con la tradizione franca di spartizione: nominò quindi il primogenito Lotario co- imperatore e suo unico erede, attribuendo ai figli Pipino e Ludovico il Germanico territori minori. Fu una scelta che creò tensioni, ma soprattutto portò alla ribellione del nipote Bernardo. La ribellione non ebbe successo, e Bernardo fu imprigionato. La sua vicenda mostra come in questi decenni le clientele aristocratiche attorno ai carolingi non si traducessero solo in un sostegno politico all’imperatore, ma potessero dar vita a forme di solidarietà di respiro più regionale. Non fu un’identità nazionale o patriottica quella costituitasi attorno a Bernardo, ma certo il sistema clientelare coordinato dal re aveva una connotazione territoriale, si era sviluppato entro settori ben definiti dell’aristocrazia. Se la ribellione di Bernardo fu rapidamente sconfitta, un ulteriore motivo di squilibrio all’interno della dinastia carolingia derivò dalla nascita di Carlo il Calvo, figlio di Ludovico il Pio e della sua nuova moglie Judith, la quale cercò di riaffermare il principio tradizionale della patrimonialità del potere regio, e quindi della sua normale spartizione ereditaria tra tutti i figli del re. Judith orientò la politica di Ludovico in direzioni diverse dalla Ordinatio Imperii del 817, che aveva affermato l’idea di una superiore unità imperiale. Il regno di Ludovico fu contrassegnato da ricorrenti tensioni all’interno della famiglia carolingia, il cui punto più alto fu rappresentato dagli avvenimenti dell’833: Ludovico il Pio fu sconfitto a Colmar dai figli nati dal primo matrimonio (Lotario, Pipino e Ludovico il Germanico), che si vedevano minacciati dal ruolo crescente di Carlo e arrivarono fino a far deporre il padre in un solenne concilio in cui vescovi franchi lo dichiararono indegno del titolo imperiale, che rimase nelle mani di Lotario. Le discordie tra i figli permisero a Ludovico il Pio di tornare sul trono già l’anno successivo: fu un potere pieno, non limitato o condizionato dalle vicende dell’833; ma appare evidente come le tensioni ereditarie non fossero affatto risolte. Alla morte di Ludovico il Pio nell’840, queste tensioni sfociarono in un conflitto aperto, che oppose Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo (il fratello Pipino era morto nel 838). Sono tre i passaggi significativi: la battaglia dell’841, in cui Lotario fu sconfitto dai fratelli; i giuramenti di Strasburgo, che nell’842 sancirono l’alleanza tra Ludovico e Carlo; e la pace di Verdun dell’843, che pose fine al conflitto. La battaglia mostrò nel modo più evidente come l’unità dell’aristocrazia attorno al potere imperiale fosse finita, sostituita da reti di solidarietà clientelare che facevano capo ai diversi re. A Strasburgo il dato più significativo è rappresentato dalle forme assunte dal doppio giuramento: per farsi comprendere dai due eserciti, Carlo prestò giuramento in tedesco, Ludovico in lingua romanza. Questo giuramento esprime in modo evidente la presa d’atto dell’esistenza di spazi di civiltà diversi, riuniti nei decenni precedenti dalla grande costruzione politica di Carlo Magno e Ludovico il Pio. Questa presa d’atto si tradusse sul piano politico-territoriale l’anno dopo, a Verdun, quando i tre fratelli si spartirono l’Impero: a Carlo andò il cosiddetto regno dei Franchi occidentali (approssimativamente l’attuale Francia), a Ludovico il germanico quello dei Franchi orientali (pressappoco la Germania), mentre Lotario ottenne una fascia intermedia che andava dall’Alsazia fino all’Italia. Fu Lotario a mantenere il titolo imperiale: era il primogenito, l’erede designato da Ludovico il Pio ed era colui che controllava l’Italia e che quindi era nelle condizioni di attuare il compito di tutela della Chiesa di Roma. La novità è il concetto stesso di Impero: se infatti nell’843 si riconobbe a Lotario il titolo imperiale, questo non si tradusse in alcun modo in una forma di coordinamento unitario come previsto negli atti dell’806 e 817. Si rinunciò esplicitamente a un’idea di Impero come struttura operativa unitaria. Il potere regio non cambiò natura, perché negli anni successivi Lotario e i suoi fratelli governarono in modo non molto diverso da quanto aveva fatto il padre; ma cambiò drasticamente il quadro territoriale, l’Impero carolingio non fu mai più un quadro politico-territoriale di concreto riferimento. Si costituirono invece forme di organizzazione politica di respiro regionale. La seconda metà del secolo fu segnata dall’articolarsi della famiglia carolingia, con una progressiva centralità assunta da Carlo il Calvo, che culminò nella sua incoronazione imperiale nell’875, poco prima della morte; i figli di Lotario assunsero in vari momenti poteri regi in Italia, in Provenza e in Lorena, mentre i figli di Ludovico il Germanico si affermarono in Baviera e in generale nell’area tedesca. Nell’888 un figlio di Ludovico il Germanico, Carlo il Grosso, che aveva formalmente unito il dominio carolingio, segnò con la sua morte la fine della dinastia: non la fine biologica, ma la sua esclusione dei vertici del potere. Negli anni successivi i Carolingi tornarono a tratti sul trono di singoli regni, ma non furono più la dinastia dominante e soprattutto il loro potere non fu più un fattore unificante dei territori dell’Impero. Possiamo individuare quattro fasi della storia dei Pipinidi-Carolingi: 1) Dall’inizio del VII secolo fino al 751 furono una grande dinastia dell’aristocrazia austrasiana, che costruì il proprio potere all’interno del regno merovingio; 2)  Dall’751all’840–con Pipino III, Carlo Magno e Ludovico il Pio –un singolore carolingio controllò il popolo franco prima, e un grande Impero poi; 3) Dall’840 all’888 (la morte di Carlo il Grosso) il sistema di potere carolingio si articolò in regni distinti e separati, senza una vera unità dinastico-territoriale. 4) Dall’888 al 987 (la morte senza eredi di Ludovico V, re di Francia) i carolingi furono una delle dinastie che, nei diversi regni, si contendevano il potere, in una fase particolarmente conflittuale. Capitolo 4 Il Mediterraneo Bizantino e Islamico Nei decenni tra il VII secolo e l’VIII secolo si assistette a una profonda trasformazione del Mediterraneo meridionale e orientale: la nascita dell’Islam fu prima di tutto una trasformazione religiosa, ma immediatamente si tradusse anche in una ridefinizione dei sistemi politici di ampi territori già appartenenti all’Impero romano-bizantino e i regni Romano-Germanici. L’affermazione dell’Islam comporta un processo di ridefinizione dell’Impero bizantino: una riduzione degli orizzonti territoriali non più proiettati su ambizioni universali; una ridefinizione dei funzionamenti interni; una nuova centralità dell’esercito. 4.1 Le origini dell’Islam La penisola araba nel tardoantico era strutturata attorno alla convivenza di due grandi gruppi: da un lato le popolazioni urbane di città come La Mecca e Yathrib (la futura Medina), attive sul piano commerciale; dall’altro lato tribù nomadi di pastori, che rifiutavano sia la vita urbana, sia le forme di un più ampio coordinamento politico. In questo quadro era riconoscibile una centralità della Mecca, non solo per le sue funzioni commerciali, ma anche per il prestigio connesso al culto della Kaaba, una pietra nera di origine meteorica, meta di pellegrinaggi. Sul piano religioso, nella penisola prevalevano forme di politeismo parzialmente corrette da alcune tendenze al monoteismo, in parte derivanti da influssi ebraici e cristiani. Questo era il contesto in cui si mosse, nei primi decenni del VII secolo Muhammad (Maometto): nato a La Mecca attorno al 570, iniziò la sua opera religiosa nel 612, quando alcune visioni lo convinsero di essere un inviato di Dio, incaricato di declamare la parola divina, che invitava a una fede rigidamente monoteista, organizzata attorno ad alcuni precetti fondamentali. Proprio dall’idea di declamazione deriva il Corano, il Libro sacro dell’Islam. Il Corano, diversamente dall’Antico e dal Nuovo Testamento, non è solo parola ispirata da Dio, ma è direttamente parola di Dio, di cui Muhammad fu solo portavoce. La predicazione di Muhammad fu prima trasmessa oralmente, poi raccolta in una redazione scritta che fu completata e sistemata dopo la morte del Profeta. La predicazione di Muhammad costituiva però una minaccia per il potere dei grandi clan della Mecca, in particolar modo i Quraishiti. L’isolamento politico di Muhammad lo convinse nel 622 a fuggire a Yathrib, che assumerà il nome di Città del Profeta ovvero Medina. La fuga del Profeta (l’Egira) è considerata un momento fondativo, tanto da segnare l’inizio del calendario islamico: se infatti lo spostamento a Medina non mutò il messaggio religioso di Mohammad, ne cambiò totalmente le prospettive politiche, avviando l’organizzazione attorno al Profeta di Muhammad, che potevano quindi richiamarsi a una forma di carisma ereditario. Gli Abbasidi, che restarono al potere fino al XIII secolo, segnarono fin dai primi anni un mutamento importante rispetto agli equilibri di potere precedenti: lo spostamento della capitale nella città di Baghdad fu un chiaro segno di una trasformazione della natura del califfato, che perse le caratteristiche arabe per divenire più pienamente un dominio islamico, privo di connotazioni etniche. Nell’età abbaside, l’articolazione territoriale ed etnica del califfato si tradusse in una sua più chiara articolazione politica: in diversi contesti gli emiri (delegati del califfo a governare ampi territori) assunsero una piena autonomia di azione. Nell’800 il califfo Harun al-Rashid delegò il governo del Nord Africa all’emiro Ibrahim al-Aghlab, concedendogli di trasmettere la dinastia all’interno della propria famiglia, gli Aghlabiti, che conservarono un potere largamente autonomo per un secolo e realizzarono la conquista della Sicilia. Alla fine del X secolo fu l’Egitto a rendersi autonomo, grazie all’iniziativa della dinastia dei Fatimidi, che non solo si allontanarono dal controllo dei califfi abbasidi, ma rivendicarono per sé stessi il titolo califfale (910), con cui governarono con larga autonomia l’Egitto per più di due secoli, fino alla fine del XII secolo. Nella penisola iberica, nella metà dell’VIII secolo, prese il potere un principe omayyade sfuggito al colpo di Stato che aveva portato gli Abbasidi al potere califfale. L’emiro di al-Andalus convisse a lungo con i regni cristiani della penisola in una dinamica non sempre conflittuale; ma soprattutto seppe coordinare sotto di sé una popolazione molto varia, che comprendeva l’aristocrazia araba, le truppe berbere provenienti dal Nord Africa e stanziate qui al momento della conquista, le popolazioni locali convertite e quelle che invece avevano conservato la propria fede cristiana (o ebraica). Questa grande capacità di governo permise all’emirato di affermarsi come una delle maggiori potenze europee del X secolo, ponendosi su un piano di parità rispetto al califfato di Baghdad, tanto che gli emiri di al-Andalus assunsero il titolo califfale nel 929. Il dominio islamico – incentrato sulla città di Cordova - rimase nel complesso unito lungo tutto il X secolo, per poi articolarsi in dominazioni autonome, che a partire dalla fine dell’XI secolo subirono la pressione militare dei regni cristiani, nel cosiddetto movimento della Reconquista. Al contempo, lungo il IX secolo, si affermò un secondo importante nucleo di dominazione islamica sulle coste settentrionali del Mediterraneo, con la conquista della Sicilia. A partire dall’827, gli Aghlabiti del Nord Africa avviarono una vera e propria campagna di conquista, che tuttavia si concluse solo alla fine del secolo. La presenza stabile in Sicilia si trasformò lentamente in un dominio organizzato e unitario, e divenne anche una base per incursioni nelle aree peninsulare, fino ad affermare per alcuni decenni il controllo islamico su Bari. A partire dal 916-917 la Sicilia fu sottomessa alla potente dinastia dei Fatimidi, ma lo spostamento verso l’Egitto dei loro interessi lasciò spazio a dinastie locali, che conservarono un dominio sostanzialmente autonomo fino alla fine dell’XI secolo, quando l’isola fu conquistata dai Normanni e riunita all’Italia peninsulare meridionale. Il dominio bizantino del IX secolo e X secolo vede salire al trono Basilio I (867), i cui discendenti (i Basilidi o Macedoni) conservarono il potere fino al 1025 e segnarono una fase di rafforzamento di Bisanzio: la dinastia realizzò un ampliamento dell’Impero, con l’affermazione del diretto dominio imperiale su nuovi territori; al contempo gli imperatori Basilidi costruirono una rete di fedeltà e di legami politici e spirituali con le dominazioni confinanti, un insieme di territori formalmente autonomi ma che rientravano pienamente nell’orbita di influenza dell’Impero. Quella tra l’Impero bizantino e l’Impero carolingio fu una divisione politica ma anche una divisione tra le chiese di Roma e di Costantinopoli, contrapposte sul piano teologico e su quello dell’ordinamento ecclesiastico. Sul piano delle gerarchie ecclesiastiche si raggiunse una forma di compromesso alla fine del IX secolo, con il riconoscimento di una superiorità formale di Roma; ma sul piano teologico le divisioni non furono mai sanate. La contrapposizione tra i patriarchi di Roma e Costantinopoli fu uno degli elementi che in questi secoli articolavano una più complessa opposizione tra gli ambiti di potere che facevano capo ai due imperi . Un’opposizione che trovava espressione evidente nell’Europa orientale, area su cui entrambi gli imperi cercavano di imporre la propria egemonia. Oggetto delle pressioni concorrenti dei due imperi furono in particolare gli Slavi, un mondo variegato e frammentato, per cui la definizione unitaria di “Slavi” è senza dubbio una semplificazione. Si trattava di un insieme complesso di popoli, con alcuni caratteri culturali e linguistici comuni, che in alcune fasi trovarono forme di ampio coordinamento politico. Due sono le dominazioni da ricordare, i Bulgari e la cosiddetta Grande Moravia. I Bulgari esercitarono una pressione militare sui confini imperiali lungo l’VIII secolo per poi subire un processo di assimilazione religioso- culturale nella seconda metà del IX secolo; i decenni successivi furono segnati da una ripresa dell’azione militare contro l’Impero, che nei primi anni del X secolo culminò in una minaccia diretta alla capitale e in un trattato di pace largamente favorevole ai Bulgari. Tra il IX secolo e il X secolo andò affermandosi la Grande Moravia, un dominio esteso tra i territori delle attuali Germania, Boemia e Ungheria, che arrivò a coordinare molte popolazioni slave, per poi risolversi nel corso del X secolo. Queste diverse dominazioni slave si orientarono in questi secoli verso il cristianesimo, che offriva un riferimento religioso forte ma anche un modello di organizzazione e gerarchizzazione della società, e una nuova legittimazione del potere regio che, analogamente a quello imperiale, era visto come una derivazione divina. I principi slavi cercavano quindi la conversione, ma ne temevano alcune implicazioni politiche, ovvero la sottomissione a uno dei due grandi imperi cristiani; non è quindi casuale che oscillassero tra Roma e Costantinopoli e spesso si orientassero verso il patriarcato più lontano, cioè meno minaccioso. La chiave del successo di Bisanzio fu la lingua: due fratelli missionari esperti conoscitori della lingua slava, tradussero i principali testi sacri e liturgici e di fatto avviarono un processo di profonda assimilazione culturale delle popolazioni slave, che rientrarono nell’orbita di influenza di Bisanzio Nel momento in cui salì al potere la dinastia dei Basilidi, la presenza bizantina in Italia sembrava destinata a scomparire o a divenire del tutto marginale. Basilio I, non potendo intervenire in modo significativo nella Sicilia islamica, né nelle terre in mano carolingia; cercò invece di coordinarsi con i sovrani carolingi per cancellare le basi islamiche nelle aree peninsulari, consolidando così il proprio controllo tra Puglia e Calabria. Fu un rafforzamento militare ma anche un riordinamento amministrativo, che estese all’area italiana l’ordinamento tematico che si stava diffondendo in tutto l’Impero. Capitolo 5 Società e poteri nel X Secolo I territori compresi nell’Impero carolingio nel X secolo seguirono percorsi divergenti ma coerenti: divergenti, perché i diversi regni svilupparono proprie dinamiche politiche specifiche; coerenti, perché le principali linee di tendenza furono comuni. Il periodo di riferimento è la cosiddetta “età postcarolingia”, ma non va inteso in una connotazione negativa così come è stata letta la fine dell’Impero Romano, focalizzandosi su una dimensione di declino e decadenza. Indubbiamente nel X secolo vediamo tramontare la struttura imperiale unitaria, che aveva rappresentato una struttura politica, istituzionale e culturale più o meno solida in gran parte dell’Europa occidentale. 5.1 I mutamenti dei poteri comitali L’Impero non crollò sotto il peso di invasioni militari dall’esterno, ma mutò natura dall’interno, in conseguenza della divisione in regni distinti e soprattutto per un cambiamento capillare dei comportamenti politici dell’aristocrazia e delle chiese . Sicuramente tra la fine del IX secolo e la metà del X secolo le terre dell’Impero furono colpite da nuove minacce militari, ma questa nuova mobilità militare si può comprendere solo alla luce dell’indebolimento regio e della nuova autonomia delle forze locali: in altri termini, le incursioni non furono la causa della crisi dell’Impero, ma ne furono piuttosto la conseguenza, furono rese possibili dalla ridotta capacità militare carolingia. A partire dalla metà del IX secolo le divisioni dell’Impero tra diversi esponenti della dinastia carolingia indussero una profonda trasformazione nei rapporti tra il re e la grande aristocrazia. L’equilibrio garantito fino al IX secolo mutò perché si ridusse considerevolmente la capacità redistributiva dei re: non potendo più disporre di nuove terre, bottino, prigionieri, i re avevano meno risorse da concedere ai propri seguaci per consolidarne la fedeltà. Allo stesso tempo però le divisioni e continui conflitti tra gli eredi dei re, portavano questi ultimi a richiedere l’appoggio militare dell’aristocrazia. I re avevano un grande bisogno del loro aiuto e avevano meno risorse con cui ricompensarla, per cui furono più disposti (o costretti) a cedere alle loro richieste; e ciò che più di tutto i funzionari richiedevano era la stabilità, la possibilità di conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai propri figli. A partire dagli ultimi decenni del IX secolo i singoli funzionari restavano sempre più a lungo nella propria sede e spesso trasmettevano la propria funzione per via ereditaria. Questo processo fu accompagnato da un progressivo mutamento nella natura stessa della funzione, con una saldatura tra funzioni di governo e benefici vassallatici. La stabilità ereditaria della funzione rese possibile un secondo processo di grande rilievo, ovvero la concentrazione del patrimonio del conte all’interno delle aree da lui governate. I conti nell’età di Carlo Magno erano potenti e ricchi di terre, ma andavano a svolgere funzioni di governo in regioni lontane da quelle del proprio radicamento patrimoniale. Tra la fine del IX secolo e l’inizio del X secolo si assiste a una lunga durata delle cariche e alla loro trasmissione ereditaria; questo favorì il radicamento nelle regioni governate: nel corso degli anni e delle generazioni, la famiglia comitale acquisiva terre, fondava chiese e stringeva legami matrimoniali all’interno del distretto che governava, e così la funzione comitale e la potenza dinastica si fusero. Fu un generale processo di regionalizzazione delle aristocrazie, sia perché i quadri politici generali erano di respiro più ridotto, sia perché gli interessi di una famiglia aristocratica tendevano a concentrarsi in ben specifiche regioni. Questo comportò un ulteriore mutamento rappresentato dal fenomeno dell’astensionismo. Dato che il conte era non solo un funzionario ma anche un grande proprietario all’interno del comitato, le diverse aree del distretto non erano per lui tutte uguali: era più attento e più presente nelle aree in cui possedeva terre, chiese, castelli e vassalli, ed era assai più distaccato dalle zone in cui analoghe concentrazioni patrimoniali erano nelle mani di altre dinastie. Si assiste quindi a un astensionismo dei conti da alcuni settori del comitato di competenza. Se da un lato questo era lecito per via dei diplomi di immunità di cui godevano le chiese, dall’altro questa tendenza si riproponeva per le aree in cui si concentravano grandi possessi di altre dinastie aristocratiche, nei cui confronti il conte era solidale (perché erano suoi parenti, sui vassalli, suoi alleati) o con cui non voleva aprire conflitti. Sul lungo periodo questi comportamenti portarono alla formazione di poteri locali. Nel corso del X secolo un ulteriore elemento di diversificazione del territorio fu – soprattutto in Italia – la formazione dei poteri vescovili sulle città: la convergenza delle comunità cittadine attorno ai vescovi, le concessioni regie in loro favore, la difficoltà di controllare comunità complesse socialmente stratificate, indussero (o costrinsero) gli ufficiali regi ad allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Fu un’evoluzione fondamentale sia per la storia delle chiese, sia per l’elaborazione delle capacità politiche delle comunità cittadine italiane. L’esito generale fu quindi un cambiamento strutturale sia nel legame tra il regno e le realtà locali, sia nel rapporto tra aristocrazia e territorio, e più in specifico tra i grandi funzionari regi e distretti loro affidati . Queste evoluzioni ci mostrano un indebolimento del controllo del re sul territorio e sui propri funzionari, ma anche una discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori; dal punto di vista militare, appare tramontata la capacità di difesa relativamente omogenea da parte del re e del suo apparato. 5.2 Minacce esterne: le incursioni di Saraceni, Ungari e Normanni Il periodo compreso tra gli ultimi decenni del IX e la metà del X secolo fu segnato da un’intensa mobilità di gruppi armati che dall’esterno dell’Impero carolingio partirono per una serie di incursioni e saccheggi nelle terre dell’Italia, della Francia, della Germania e dell’Inghilterra. Queste bande possono essere ricondotte a tre identità etniche fondamentali: i Normanni, provenienti dalla Scandinavia; gli Ungari, insediati nell’attuale Ungheria; i Saraceni, bande di pirati attivi in diversi punti del Mediterraneo. I saraceni rappresentano sicuramente il gruppo dai connotati più indefiniti: se tradizionalmente erano identificati come pirati islamici provenienti dalle coste meridionali del Mediterraneo, negli ultimi decenni è stata pesantemente messa in dubbio l’identità etnica e religiosa. Ci troviamo probabilmente di fronte a gruppi etnicamente misti, impegnati in attività di saccheggio via mare. Alla fine del IX secolo i Saraceni compirono un salto di qualità importante, con la costruzione di basi permanenti sulle coste settentrionali del Mediterraneo, nella fattispecie nella baia di Saint Tropez, da cui partirono una serie di spedizioni di saccheggio nell’entroterra e sulle Alpi. Le loro operazioni non tendevano mai a una conquista durevole, ma semplicemente al saccheggio. Azioni che cessarono nel 972 quando eserciti francesi e italiani si allearono per distruggere la base saracena. Le incursioni saracene sono state ampiamente descritte dalle narrazioni raccolte nelle chiese e nei monasteri che subirono razzie: queste fonti mettono in rilievo i danni, le violenze, il terrore che esse provocavano. Nella prima metà del X secolo era diffusa la paura, e le fonti delle chiese ci mostrano in modo indiscutibile come fosse vivo un senso di insicurezza, come fosse percepita l’insufficienza della difesa militare contro bande violente in grado di muoversi in libertà nei territori dell’Impero carolingio meridionale. Gli attacchi ungari non sono molto diversi da quelli dei Saraceni: gli Ungari attraversavano le grandi pianure dell’Europa centrale e le Alpi a cavallo, e combattevano con grande efficacia, penetrando in profondità nel territorio carolingio, fino a saccheggiare importanti città. Questa efficacia militare li rese dei nemici pericolosi, ma anche dei preziosi alleati: in diversi momenti, nelle dure lotte politiche che segnarono il regno italico nella prima metà del X secolo, i diversi aspiranti al trono si allearono con contingenti di Ungari per farli combattere al proprio servizio. Nella metà del X secolo il re Ottone I di Sassonia, forte di un nuovo ed efficace controllo sul regno di Germania, guidò l’aristocrazia tedesca in battaglia contro gli Ungari (955), sagnando la loro sconfitta. Nei decenni successivi le scorrerie cessarono, si avviò la conversione degli Ungari al Cristianesimo e l’Ungheria divenne un regno stabilmente alleato della Germania. Per quanto riguarda i Normanni, è necessario partire dallo sviluppo di scambi nel Mare del Nord: questi avevano stimolato la mobilità dei popoli scandinavi, in operazioni commerciali e di pirateria, due livelli che spesso si confondevano. Tra questi c’erano i Normanni. La loro azione militare può essere scandita in tre fasi: 1) nei primi decenni del IX secolo attuarono piccole incursioni sulle coste dell’Inghilterra e del nord della Francia; 2) A partire dai decenni centrali del secolo le incursioni crebbero di scala, con flotte di navi che permettevano di risalire i fiumi e attaccare città come Londra (851) e Parigi (885); 3) Alla fine del IX secolo le incursioni si trasformarono in insediamenti stabili, all’interno dei regni inglesi e nel nord del regno franco, attorno alla foce della Senna; quest’ultimo insediamento fu riconosciuto e legittimato, dando vita al ducato di Normandia. Abbiamo visto come l’azione regia in alcuni casi consentì l’avvio di un processo di assimilazione pacifica della popolazione che aveva condotto le incursioni: nel caso degli Ungari, la sconfitta gli costrinse al di fuori dell’Impero, ma diede anche inizio a un processo di avvicinamento politico, religioso e culturale al mondo germanico; nel caso dei Normanni, il re riuscì ad ottenere una forma di pacificazione con la concessione di un settore rilevante del territorio regio, avviando un processo di assimilazione politica e culturale, che portarono i Normanni a convertirsi al Cristianesimo e il ducato divenne analogo ai grandi principati territoriali francesi. Tra queste tre minacce armate, i Normanni furono i soli a trasformare la propria azione militare in stanziamento permanente e in dominio politico; ma non per questo le incursioni di Saraceni e Ungari furono senza conseguenze di lungo periodo: i passaggi di queste bande armate lasciarono un chiaro segno sul piano culturale e nell’immaginario, e la paura delle incursioni divenne un dato dominante per molti decenni. È proprio nei decenni iniziali del X secolo che assistiamo alla prima diffusione dei castelli. È importante notare che non furono le incursioni a provocare la nascita delle signorie di castello: le incursioni stimolarono l’azione militare locale e quindi la costruzione dei primi castelli, ma questa azione e questa costruzione andarono ben al di là della necessaria risposta alla minaccia saracena o normanna. Dopo la fine delle incursioni, chiese e signori continuarono a innalzare fortificazioni, destinate a difendersi non dalle minacce esterne, ma piuttosto dall’azione militare degli altri signori. 5.3 Il potere dei re In questa fase scompare l’attività legislativa regia e nel X e XI secolo furono del tutto eccezionali provvedimenti con valore generale. I re intervenivano nella vita politica con azioni mirate, con documenti specifici (es. i diplomi). I re dovettero rinunciare a regolare complessivamente la vita politica del regno tramite nuove leggi, ma la loro capacità di azione non deve essere sottovalutata. Conservarono una relativa centralità politica grazie alla loro capacità redistributiva, soprattutto per quanto riguarda la occidentale, perché i destini di Mercia e Wessex si separarono di nuovo nei primi anni del X secolo. Per tutto questo secolo non si può parlare di un regno inglese unitario, ma ancora di una pluralità di regni. Fu solo all’inizio dell’XI secolo che si costituì un regno inglese unitario: fu il re norvegese Knut che nel 1016, partendo dai domini normanni dell’Inghilterra orientale, arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex e quindi su tutti i principali regni inglesi. Knut controllava al contempo i regni di Danimarca e Norvegia, dominando le diverse sponde del Mare del Nord. Questo immenso potere non ebbe seguito, ma due elementi della sua vicenda ebbero esiti di lungo periodo: da un lato l’unificazione dell’Inghilterra, che da questo momento possiamo considerare un regno unitario; dall’altro lato la profonda integrazione tra i regni che si affacciavano sul Mare del Nord, controllati da re diversi legati tra loro da rapporti di parentela o dalla comune origine normanna. I meccanismi di ascesa al trono di questo periodo non prevedevano una successione ereditaria; la corona poteva essere contesa tra diversi personaggi dell’aristocrazia. Per quanto riguarda la penisola iberica, la conquista araba nell’VIII secolo non aveva coinvolto l’intera area ma aveva dissolto l’unità visigota: la parte centrale e meridionale della penisola aveva costituito l’emirato di al-Andalus, mentre nel Nord si erano confermati i regni cristiani delle Asturie e di Pamplona/Navarra. La convivenza tra gli emiri e regni cristiani fu segnata da una tensione di fondo, ma in questo periodo non diede vita né a una volontà islamica di conquista sistematica dell’intera penisola, né a un’organica spinta alla conquista cristiana (la Reconquista). Assistiamo piuttosto a una continua interferenza tra le diverse dominazioni, a intrecci politici da un territorio all’altro, per cui i re cristiani cercarono di sostenere singole fazioni in lotta per il potere, approfittando delle fasi di instabilità politica. La maggior forza militare islamica permise però l’affermazione di una egemonia di fatto dell’emiro sull’intera penisola, che tuttavia non cancellò i regni cristiani. Dobbiamo notare che già alla fine del IX secolo erano presenti nella cultura politica dei regni cristiani iberici alcuni elementi che andarono poi a costituire le basi ideologiche della Reconquista (l’opposizione militare ammantata di ideali religiosi, la visione dell’azione militare contro gli emiri come guerra giusta); ma in questa fase tali elementi non andarono a comporre un sistema ideologico coerente, né supportarono una sistematica azione militare contro il dominio islamico. Nella penisola iberica del X secolo i regni cristiani e l’emirato non erano né mondi separati né dominazioni in totale contrapposizione. Fu un equilibrio dinamico e conflittuale, ma definì un quadro di sostanziale stabilità territoriale delle diverse dominazioni. Solo alla fine del dell’XI secolo, in parallelo con la formazione dell’ideale crociato, la Reconquista assunse una forma strutturata, ideologicamente organizzata e sostenuta dal papato, segnando l’avvio di un processo di espansione territoriale dei regni cristiani ai danni dell’emirato, un processo che raggiunse risultati di rilievo solo a partire dal XIII secolo. 5.4 Modelli di ordine sociale La rottura del controllo carolingio aprì una fase nuova nella lotta politica interna alla grande aristocrazia, perché ora si lottava non solo per avvicinarsi al re e trarne benefici, ma anche per impadronirsi dello stesso potere regio. Al contempo, era evidente come in tutti i regni europei il re non avesse la stessa centralità di cui ha goduto in età carolingia. I protagonisti della vita politica erano le grandi dinastie discese dagli ufficiali pubblici, le chiese vescovili e monastiche, e i nuovi nuclei signorili. Una trasformazione così profonda indusse i gruppi intellettuali (ovvero i grandi chierici, vescovi e monaci) a un ampio processo di riflessione sulle forme del potere. Il modello più noto è quello che gli storici chiamano la “tripartizione funzionale”. Nei primi anni dell’XI secolo, due vescovi del nord della Francia enunciarono una teoria che prevedeva la divisione del corpo sociale tra chi pregava (gli oratores), chi combatteva (i bellatores) e chi lavorava (i laboratores). Il dato davvero qualificante di questa teoria non era la divisione della società, ma piuttosto la necessaria reciprocità tra le diverse condizioni: chi pregava lo faceva per salvare le anime di tutti, chi combatteva garantiva la sicurezza e chi lavorava assicurava il sostentamento dell’intera società. Proprio da questa reciprocità poteva nascere equilibrio e ordine. È importante notare il contesto specifico in cui questa teoria nacque: siamo durante i primi anni del potere della dinastia capetingia, un momento in cui il potere regio era molto incerto. Se quindi il regno è l’orizzonte politico di riferimento per questi vescovi, la riflessione è indirizzata a pensare come si potesse raggiungere un equilibrio in assenza di un reale ed efficace potere regio. La tripartizione vuole essere un ideale politico. Un modello profondamente diverso fu rappresentato dalle “paci di Dio”. Alcuni vescovi del sud della Francia, a partire dagli ultimi anni del X secolo, convocarono delle grandi assemblee di chierici e laici destinate a ristabilire la pace in una regione. Erano momenti a forte impatto cerimoniale: i vescovi radunavano un gran numero di reliquie e su di esse tutti gli abitanti della regione dovevano giurare il rispetto di alcune norme fondamentali. Queste norme non erano affermate dalla volontà regia, ma dalla convergente volontà della popolazione, guidata dai vescovi in momenti e forte intensità religiose. Le paci di Dio erano la pace del re in assenza del re: più o meno le stesse norme trovavano fondamento e validità non nella capacità regia di coercizione, ma nell’iniziativa dei vescovi, nella loro capacità di assumere la guida della popolazione. La tripartizione funzionale e le paci di Dio sono modelli opposti da vari punti di vista . Da un lato abbiamo la tripartizione, un modello di ordine espresso in testi di alto livello intellettuale e probabilmente di debole circolazione; dall’altro lato le paci di Dio, che non si fondarono su una teoria altamente formalizzata, ma piuttosto su un sistema di pratiche cerimoniali che ebbero un fortissimo impatto sulla società a cui si rivolgevano. Sono in un certo senso due sistemi concorrenti: la tripartizione era fondata sulla separazione dei ruoli e delle competenze, con una chiara centralità dei vescovi, destinati a fungere sia da garanti della salvezza eterna, sia da guide intellettuali nel presente; le paci di Dio invece, seppur guidate dei vescovi, si fondavano sulla convergenza di tutti i corpi sociali nello stesso rito e nello stesso giuramento. Se il problema fondamentale era quello di contenere e regolare la violenza aristocratica, la tripartizione lo faceva delimitando i campi di azione dei diversi corpi sociali, mentre nelle paci di Dio tutti diventavano promotori di un nuovo ordine attraverso il giuramento. In comune tra i due modelli c’è una profonda trasformazione del rapporto tra i vertici delle chiese e i fedeli: sfumò ulteriormente la distinzione tra suddito e fedele, perché la fede era il connotato fondamentale dell’appartenenza all’ecclesia, ma l’ecclesia era l’intera società. 5.5 Nuove chiese, nuovi poteri La trasformazione delle chiese e del loro ruolo nella società si avviò già nel X secolo, su due piani: da un lato un profondo rinnovamento del monachesimo, prima con l’affermazione di Cluny, poi con la diffusione di nuove forme di vita religiosa, a più chiaro orientamento eremitico; dall’altro lato un nuovo e diverso coinvolgimento dei vescovi nelle strutture del potere locale. Nel 909-910 il duca Guglielmo d’Aquitania, principe che controllava i territori della Borgogna, fondò l’abazia di Cluny, non lontano da Lione, e l’affidò all’abate Bernone. La prima peculiarità di questa fondazione fu la rinuncia del duca a esercitare qualsiasi forma di controllo sulla vita di Cluny: i monaci ottennero il pieno diritto di scegliere al proprio interno i nuovi abati. Al contempo l’abazia fu svincolata anche dal controllo del vescovo: la protezione del monastero erano affidate direttamente al vescovo di Roma. I primi abati seppero dare vita a una forma di vita religiosa peculiare, che innalzò rapidamente Cluny a una grande fama a livello europeo. Pur muovendosi all’interno della Regola benedettina, i cluniacensi ne diedero un’interpretazione che pose al centro la dimensione delle liturgie e della preghiera. Il monachesimo di Cluny propose un’accentuazione coerente con la tradizionale impostazione benedettina, con un ulteriore ampliamento del tempo dedicato alla preghiera, un’accresciuta solennità dei momenti liturgici e una specifica attenzione alle preghiere per i defunti. Le preghiere furono anche l’espressione diretta dello scambio che avveniva tra monaci e società laica: i monaci cluniacensi, con le preghiere per i defunti, garantivano un prezioso beneficio spirituale a quei settori della società circostante che sostenevano il monastero sul piano materiale, con le donazioni di terre che andarono a costituire un robusto patrimonio fondiario. Cluny divenne un’abazia ricca e potente, alleata dei principi e della grande aristocrazia. Per tutti questi motivi, nel giro di pochi decenni i cluniacensi acquisirono una grande fama all’interno e all’esterno del regno di Francia, e già il secondo abate, Oddone, fu incaricato di riformare la vita monastica in abazie antiche e prestigiose, in declino dal punto di vista della spiritualità e della disciplina. Gli interventi di Oddone incontrarono delle resistenze nelle diverse comunità monastiche, attente a difendere la propria autonomia, dato che un’abazia benedettina tradizionalmente non dipendeva da nessuno. Ma questo processo di riforma delle abazie portò alla costituzione di una rete di monasteri coordinati dall’abazia borgognona: non un ordine ma una congregazione in cui tutti riconoscevano la propria guida nell’abate di Cluny. Il modello prevalente fu la costituzione di nuovi enti monastici che non era abbazie ma priorati. La differenza è importante, perché nell’ordinamento benedettino il vertice di un monastero era l’abate, assistito dal priore: in questi nuovi centri monastici l’abate non c’era, perché l’unico abate era quello di Cluny. In pratica molti aristocratici del X e soprattutto dell’XI secolo, non scelsero di creare un’abazia autonoma, ma di compiere una donazione a Cluny perché venisse creato un priorato. L’abazia seppe acquisire un grande prestigio, anche grazie al suo legame con la sede papale. Fu lungo l’XI secolo che i priorati cluniacensi si diffusero in larghi settori di Europa, dalla Spagna alla Germania, all’intera penisola italiana. Di fatto alla fine dell’XI secolo molte sedi monastiche in Europa si richiamavano direttamente a Cluny, o esprimevano una forma di vita monastica profondamente influenzata dal modello cluniacense. Nessuna congregazione raggiunse dimensioni e prestigio paragonabile a quella di Cluny. Il punto di massimo trionfo di Cluny fu raggiunto nel 1088, con l’elezione al soglio pontificio di Oddone, priore di Cluny, che assunse il nome di Urbano II. Fu un papa importante, non solo per la storia di Cluny, ma anche per le evoluzioni della spiritualità e della cultura politica europea: a lui infatti si deve la proclamazione della prima crociata, un fenomeno destinato a trasformare in modo importante i rapporti con il Mediterraneo, le strutture degli scambi commerciali e soprattutto l’identità sociale dell’aristocrazia. L’XI secolo fu segnato dall’emergere di altre spinte riformatrici del monachesimo, basate su orientamenti con una netta ispirazione eremitica. Su questa linea si pose prima di tutto Romualdo, che attorno al 1023 fondò il monastero di Camaldoli (sugli Appennini toscani), che manifestò subito una grande forza di attrazione, dando vita a un movimento che, dopo la morte di Romualdo, trovò un punto di riferimento in Pier Damiani, un grande intellettuale. L’elemento specifico di queste esperienze monastiche è che non erano forme individuali di eremitismo, ma esperienze comunitarie di gruppi che si separavano in modo netto dal mondo. Il cenobitismo tradizionale veniva percepito come troppo morbido e troppo legato al mondo, e si operavano quindi scelte radicali di isolamento, povertà e penitenza. Il grande successo di queste esperienze ci segnala l’avvio di un lento cambiamento nella coscienza religiosa, con i primi segni di una sensibilità che separava religiosità monastica e potere: se la ricchezza dei monasteri altomedievali era vista come un segno tangibile del loro successo e quindi della loro santità, i due piani lentamente divergevano, attorno un ideale di religiosità povera, priva di potere, lontana dal mondo. Parallelamente mutò profondamente il ruolo dei vescovi nei rapporti con le comunità cittadine e in generale con la società. Con la fine dell’Impero e la complessiva crisi della capacità regia di controllo, si affermò il pieno controllo politico e sociale sulle città da parte dei vescovi, fondato sui profondi legami con la società cittadina, sul progressivo allontanamento dalle città dei funzionari regi, ma anche e soprattutto su specifiche concessioni regie (i diplomi). Gli imperatori iniziarono ad assegnare ampie concessioni di poteri giurisdizionali, trasferiti dal re alla proprietà della sede vescovile. Questo non significava che il vescovo assumesse le funzioni di conte: i poteri non furono delegati, come faceva un re nei confronti dei suoi funzionari, ma furono concessi in piena e completa proprietà alla sede vescovile. Gli Ottoni non scelsero di costruire ovunque una piena giurisdizione vescovile ai danni di conti e marchesi. Fu una scelta adottata volta a sostenere il potente locale più favorevole agli interessi imperiali. I conti avevano ormai abbastanza solidamente dinastizzato la propria carica, senza che il regno fosse concretamente ed effettivamente in grado di opporsi. E questo aveva indebolito il vincolo tra i re e funzionari. Dall’altra parte, i re erano sicuramente in grado di intervenire nelle successioni vescovili, imponendo i propri candidati o almeno impedendo l’elezione di vescovi ostili. Perciò, nei casi di conflitti locali e di difficili rapporti tra il re e le dinastie comitali, un re forte come Ottone I poteva intervenire, non cacciando il conte, ma riducendo l’autorità in favore del vescovo. Il potere del vescovo non era quello di un funzionario, formalmente non doveva rispondere al re,; ma nella concreta dinamica politica affidare ampi poteri ai vescovi permetteva ai re un efficace, per quanto indiretto, controllo della società locale. Le concessioni imperiali ai vescovi italiani si concretizzarono nell’età dei re Sassoni per poi attenuarsi nei decenni centrali dell’XI secolo, quando il rapporto tra l’Impero e i vescovi fu progressivamente coinvolto nei profondi mutamenti legati alla Riforma. PARTE TERZA: POTERI LOCALI E POTERI REGI TRA L’XI E IL XIII SECOLO 0.1 Introduzione Questa terza parte tratta dei tentativi e dei progetti di riordinamento della società elaborati dalle chiese, papi, capi militari, signori di castello, città e regni. Furono i vescovi a guidare in questa fase le prime iniziative di riordino dei rapporti fra gruppi sociali e territori sotto il profilo religioso ed ecclesiastico. Recuperare i beni delle chiese, rivendicare una dimensione autonoma del messaggio religioso e predicare un ritorno alla spiritualità cristiana delle origini, furono gli obiettivi per gruppi riformatori interni alle chiese episcopali, soprattutto in Germania. Un vasto movimento di riforma della Chiesa che giunse a coinvolgere il papato, fortemente rinnovato dai pontefici di origine tedesca. I papi riformatori rivendicavano una maggiore centralità nella Chiesa e una superiorità anche sul piano politico nei confronti dei poteri laici. Il conflitto con l’imperatore Enrico IV, più volte deposto da Papa Gregorio VII, mise in luce la crisi profonda del precedente equilibrio di poteri di età carolingia: il Papa rivendicava ora un potere superiore sugli uomini, sottoponendo l’Impero al suo controllo. Il dominio sui fedeli si sovrapponeva al dominio sui sudditi e le due autorità universali inevitabilmente erano portati a scontrarsi. In questi anni la Chiesa cercò di delimitare anche i momenti e i luoghi in cui era lecito usare la violenza; conferire una natura sacra alla guerra combattuta per la Chiesa e per il papato. Le spedizioni in Terrasanta, chiamate più tardi crociate, nacquero in un contesto di promozione della guerra che diventava “santa” se condotta per difendere la fede cristiana. Al contempo l’alta aristocrazia regia sperimentò nuove forme di connessione interne al ceto militare: l’intenso ricorso al giuramento di fedeltà, rafforzato da alcune garanzie, e l’entrata dei soldati di professione in una élite superiore, definita ora cavalleria e caratterizzata dall’uso delle armi secondo un codice di autocontrollo condiviso da tutti. L’appartenenza a un certo “eletto” non cancellava però le differenze di livello sociale ed economico tra i diversi membri di questo gruppo militare. La signoria territoriale ebbe uno sviluppo poderoso nel Medioevo centrale: la costruzione dei castelli, l’affermazione sul territorio di un potere esteso a tutti i residenti e soprattutto la messa in opera di un efficace sistema di prelievo trasformarono in profondità il volto delle società rurali dell’XI e XII secolo. Dopo molti secoli di crisi e stagnazione, prese forma la prima rivoluzione agricola medievale: l’aumento della superficie coltivabile, le nuove tecniche agricole e una maggiore libertà della forza lavoro favorirono una crescita fortissima della produzione e la possibilità per i piccoli contadini di mettere sul mercato il surplus del raccolto. Questo fece sì che nel Duecento le campagne europee fossero più ricche e ben coltivate rispetto ai due secoli precedenti, e che le comunità di villaggio fossero più forti e in grado di imporre ai signori una distribuzione meno squilibrata dei carichi di lavoro. In questo contesto di crescita economica presero forma le città, che divennero centri di trasformazione e di scambio delle merci, mantenendo stretti rapporti di dipendenza con i poteri signorili, che tollerarono e in molti casi favorirono la formazione delle nuove istituzioni politiche all’interno delle mura. Le monarchie, almeno in una fase iniziale, erano istituzioni deboli, poco estese e con una scarsa capacità di coalizzare i poteri regionali in un disegno unitario condiviso. La crescita territoriale dei regni rimase fino al Duecento relativamente modesta, mentre rapporti con i principati locali furono caratterizzati da una diffidenza che spesso sfociò in aperta ostilità. I re quindi cercarono da una parte di imporre un ordine gerarchico alle fedeltà vassallatiche, dall’altro di sperimentare nuove pratiche amministrative in grado di assicurare una rudimentale struttura centrale di governo. Il caso dell’Italia centro-settentrionale è invece contrassegnato da una tipologia specifica di potere territoriale: le città comunali autonome con pretese di governo sul territorio circostante (contado). Le istituzioni urbane in Italia assunsero un ruolo politico diverso rispetto alle altre città europee, paragonabile per certi versi a quello giocato dai principati negli altri paesi europei. Furono le città a tentare un riordino giurisdizionale dei territori del regno, utilizzando le circoscrizioni di antica origine un episcopato, di un’abazia o di una chiesa dalle mani dell’imperatore. Inizialmente era un provvedimento che colpiva più i vescovi che l’imperatore, ma il divieto a tutte le autorità laiche di intromettersi nell’elezione dei vescovi finì per coinvolgere anche l’Impero. L’onnipotenza e la centralità dell’ufficio papale è evidente in un testo conosciuto come “Dictatus papae”: una lista che elencava i poteri riservati solo al Papa come guida spirituale politica della Chiesa. In base a questo testo solo il Papa poteva deporre un vescovo o riconciliarlo, emanare nuove leggi, dividere e unire episcopati, spostare i vescovi da una diocesi a un’altra; ma anche usare le insegne imperiali, essere omaggiato dai principi con il bacio del piede e scomunicare e addirittura deporre l’imperatore. A questi poteri sovrani corrispondeva un’indiscussa superiorità giurisdizionale: nessuno poteva giudicare il Papa o modificare le sue decisioni. Inoltre, le disposizioni di Gregorio prevedevano che la Chiesa di Roma comprendeva tutti i veri cattolici: chi non faceva parte della Chiesa romana non era considerato cattolico. Un’identificazione piena e assoluta della Chiesa con il Papa e dei fedeli con la Chiesa. Mai il papato di Roma aveva definito in termini così perentori la propria superiorità politica nei confronti degli altri poteri laici. Nel 1072 Enrico IV nominò il nuovo vescovo della diocesi di Milano e ciò fece scoppiare il conflitto con il Papa. In un concilio del 24 gennaio 1076, Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’Impero, in virtù della funzione regia di tutela della Chiesa. Un mese dopo fu invece Gregorio a scomunicare e deporre Enrico IV. La risposta di Enrico, che aveva non solo la forza militare ma anche il sostegno di una parte rilevante dell’episcopato, fu quella di eleggere un nuovo Papa nella figura del vescovo Guiberto, arcivescovo di Ravenna, definito l’antipapa. Dopo aver perdonato Enrico e revocato la scomunica grazie alla mediazione di Matilde di Canossa, nel 1080 Gregorio scomunicò e depose nuovamente l’imperatore, sciogliendo i sudditi dal vincolo di fedeltà al sovrano. Enrico scese a Roma insediando il nuovo Papa e facendosi incoronare imperatore. Gregorio, assediato, fu salvato dei Normanni, divenuti fedeli del Papa, ma dovette abbandonare Roma per morire in esilio a Salerno. Lo scontro violentissimo sul piano culturale e militare divise le chiese locali. Da questi scontri le due autorità universali uscirono fortemente indebolite sul piano simbolico. La sovrapposizione dei provvedimenti di scomunica incrociata causò un clima di incertezza e di sconcerto presso le masse dei fedeli-sudditi. I papi seguenti continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio, rinnovando periodicamente il divieto di ricevere investiture di chiese da parte dei laici. Solo nel 1122 con il concordato di Worms, Enrico V e il Papa Callisto II trovarono un accordo che rispettava la complessa relazione fra sacro e profano: al Papa spettava l’investitura dei vescovi con l’anello e il pastorale, simbolo del potere spirituale e del matrimonio mistico del vescovo con la sua Chiesa; al re l’investitura dei poteri temporali (il potere politico sugli uomini) con lo scettro. In Germania l’elezione dei vescovi e degli abati erano fatte alla presenza dell’imperatore, mentre nelle altre parti dell’Impero, come l’Italia, avveniva prima la consacrazione papale e poi l’investitura. 1.3 Pretese universali e definizione istituzionale della Chiesa Il papato aveva trovato una soluzione al conflitto ma ne era uscito fortemente indebolito sul piano politico. Nel corso della lotta per le investiture, erano stati più numerosi gli antipapi che i papi eletti riconosciuti dal partito riformatore. I papi ufficiali raramente risiedettero a Roma perché minacciati dai seguaci degli antipapi. Quello che emerse da queste crisi continue era un papato diverso. Il Papa di Roma si presentava alla fine dell’XI secolo come un’istituzione nuova, un centro di potere spirituale e politico in grado di condizionare non solo i contesti locali, ma la stessa politica dei regni europei. Il Papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dei confini territoriali dei regni e si sovrapponeva alle fedeltà locali. Su questa visione ideologica di una Christianitas – che coincideva di fatto con tutta la società – la Chiesa elaborò un immenso edificio istituzionale e religioso in grado di condizionare per secoli la vita religiosa, sociale e politica delle società europee. L’intensa produzione normativa della Chiesa di Roma nei decenni della Riforma si nutriva di una più ampia e capillare attività dei concili provinciali delle chiese cristiane. Per mettere ordine su questa materia complessa, un maestro di nome Graziano, attivo a Bologna intorno al 1140, mise insieme una raccolta di canoni chiamata Decreto. Si tratta di un’opera redatta almeno in due fasi, che riuniva concili, lettere papali, passi biblici intorno alle materie del diritto ecclesiastico. Il Decreto rimase per lungo tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi di Chiesa (chiamati canonisti), che presero il nome di decretisti (commentatori del decreto). Lo sviluppo di un ceto di giuristi esperti di materie ecclesiastiche fu un evento cruciale per la storia della Chiesa, perché sempre di più l’organizzazione delle istituzioni ecclesiastiche fu sottoposta a regole giuridiche: elezioni, sinodi, concili, concessioni di benefici, rapporti con le chiese locali, amministrazione dei sacramenti, liturgia, ruolo del clero parrocchiale e altro ancora. I canonisti intervenivano su tutto. In primo luogo, emerse la necessità di un rafforzamento della gerarchia interna della Chiesa. Il vescovo divenne responsabile del clero cittadino e delle parrocchie di campagna, accentrava su di sé una serie di funzioni di controllo – dalle celebrazioni religiose alla distribuzione dei benefici – e soprattutto giudicava le cause ecclesiastiche della diocesi. Dall’altro lato i papi avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali attraverso propri rappresentanti, chiamati legati apostolici, incaricati di giudicare i conflitti locali e di avocare a Roma la soluzione delle cause in corso . Il potere locale del vescovo ne usciva se non ridimensionato quantomeno sottoposto a quello del pontefice in caso di conflitto. L’attribuzione di decidere sui casi più importanti fu a lungo una prerogativa rivendicata dei papi di Roma per affermare il proprio ruolo di guida suprema della Chiesa. Negli ultimi anni del XII secolo si affermò anche una nuova procedura giudiziaria per conoscere e perseguire i reati del clero: l’inchiesta d’ufficio (chiamata “inquisitio ex ufficio”), divenne presto uno strumento utile per imporre la supremazia politica del Papa attraverso l’esercizio di un potere giurisdizionale superiore. L’inchiesta partiva dalle voci collettive su una persona o un fatto, suscitati dal comportamento riprovevole di un chierico. E per i giudici ecclesiastici, questo delitto rischiava di allontanare i fedeli dalla Chiesa: in altri termini creava uno scandalo, un impedimento alla salvezza. Quando il reato era noto e le voci non si potevano più arrestare, l’ecclesiastico doveva essere processato e punito. La novità consisteva proprio nel fare diventare la fama (che solo i delegati del papa potevano verificare) il motore dell’inchiesta, mentre la difesa della Chiesa diventava la ragione ultima del processo. Non si trattava solo di accusare o difendere una persona, ma di valutare se e quanto il comportamento di quella persona potesse danneggiare la Chiesa nel suo complesso. Con la procedura inquisitoria si potevano controllare tutti i gradi della gerarchia , anche i vescovi. In altre parole, il Papa riusciva a imporsi sui vescovi non perché comandava in base a una legge, ma perché aveva il potere di giudicare le cause che li riguardavano. Alla fine del XII secolo cambiò anche la titolatura del Papa, non più vicario di San Pietro, ma vicario di Cristo, dove la diretta rappresentanza del divino qualificava in senso sacro la figura del Papa. Inoltre, in questi anni si formò attorno al Papa un sacro collegio formato dai cardinali. Gli affari di governo venivano invece affidati alla curia, con uffici, tribunali e la camera apostolica, che gestiva le finanze della Chiesa di Roma. Parallelamente si definirono meglio sul piano giuridico e istituzionale le presenze ecclesiastiche locali. Sia il clero urbano sia le diversissime esperienze religiose monastiche andavano definite e sottoposte a una regola comune. Nelle città episcopali si cercò di ristabilire una disciplina della vita del clero. I canonici, vale a dire i chierici iscritti nel registro di ogni chiesa vescovile, furono nuovamente chiamati negli anni della riforma a condurre una vita di penitenza, di rinuncia e di castità. Nelle varie diocesi europee si iniziò la costruzione di nuovi edifici collettivi per ospitare il clero cittadino chiamate canoniche. Intorno alle cattedrali si costituirono i capitoli, formati dei canonici del vescovo (spesso provenienti dalle maggiori famiglie aristocratiche della città). I capitoli cattedrali acquisirono presto una personalità giuridica autonoma. Inoltre, costituirono un centro importante di concentrazione del potere politico: erano articolati in uffici diversi, fortemente gerarchizzati al loro interno, avevano un proprio tribunale e si ponevano a volte contro il vescovo alla guida della vita religiosa cittadina. I canonici conservarono sempre funzioni pastorali, avevano chiese dove celebrare messe, predicare e costruire reti di relazioni locali con la popolazione urbana. Il movimento di creazione istituzionale che investì la Chiesa non deve restituire l’immagine di un monolite con al vertice il Papa. L’idea di gerarchia era forte, ma la moltiplicazione delle istituzioni comportava anche la moltiplicazione di strutture organizzative con interessi religiosi, economici e culturali propri, spesso in conflitto con altre istituzioni religiose. Queste trasformazioni coinvolsero anche le istituzioni monastiche. Fra l’XI secolo il XII secolo videro la luce nuovi movimenti di ispirazione monastica come i cistercensi e i certosini. I cistercensi presero il nome del luogo della prima congregazione nata a Citeaux nella regione della Borgogna (1098). Questo monastero era stato fondato dall’abate Roberto, il quale predicava un ritorno alla “vita delle origini”, fatta di preghiere, ascesi e lavoro manuale come penitenza e disciplina. Anche i luoghi erano scelti in funzione di questa vita solitaria: si trattava in genere di posti isolati, poco raggiungibili. L’esperimento di Roberto ebbe successo e lo stesso Papa mise il monastero sotto la sua protezione. In pochi anni sorsero in Francia quattro nuove abbazie cistercensi, ma più avanti si moltiplicarono e questo portò a definire un coordinamento più preciso: tutte le sedi dovevano formalizzare l’accettazione di un comune costume di vita e al contempo riconoscere la direzione della casa centrale. Nati per abitare in luoghi deserti, lontani dagli uomini e per lavorare la terra, i cistercensi divennero in breve tempo degli esperti e grandissimi proprietari terrieri . Le aziende agrarie basate sull’uso di tecniche di coltivazione all’avanguardia, divennero ben presto dei modelli di efficienza e di produttività, ma furono anche causa di un arricchimento rapido dell’ordine. Anche sul piano politico il successo del modello cistercense provocò conseguenze inattese: alcuni abati divennero figure di riferimento per l’intera cristianità. Fu il caso di Bernardo di Chiaravalle, che fu al centro delle più intense esperienze politiche e religiose della prima metà del XII secolo: dalla polemica con Cluny e i vecchi ordini monastici, all’espansione del suo ordine, dai conflitti tra i vescovi e tra questi e il re francese, alla promozione degli ordini militari come i templari, e infine la predicazione delle crociate. Dietro questa lunga attività politica intellettuale si intravedeva una tendenza ad affermare le ragioni di una Chiesa combattente in difesa di una fede senza compromessi, senza aperture, senza incertezze. L’ordine cistercense, grazie alla sua influenza, produsse uomini di potere come vescovi e papi, promosse crociate e fu impegnato in lunghe e sanguinose campagne di repressione dell’eresia nel sud della Francia. Divenne insomma un braccio politico della Chiesa di Roma. Anche i certosini, nati nel 1084 su iniziativa di Bruno di Colonia, cercavano l’isolamento e il ritiro del mondo. Anzi, realizzarono con maggiore rigore e coerenza una comunità ascetica di preghiera, inseguendo l’ideale del “deserto”: un luogo fisico senza uomini e senza contatti, isolato ma soprattutto impervio e irraggiungibile, dove la solitudine era la vera e unica dimensione di vita del monaco. Il modello fu proprio il monastero fondato in quell’anno nella Francia del sud, sulla costa di un monte a più di 1100 m d’altezza. Diversamente dai cistercensi, che seguendo la regola benedettina avevano adottato un modello cenobitico di vita comune dei monaci, i certosini elaborarono un modello misto tra l’eremitismo e la vita in comune del modello cenobitico. Il monaco certosino non svolgeva attività manuali, non aveva contatti esterni e non erano previste attività di carità e di apostolato presso i laici: solo durante le funzioni religiose il monaco si univa agli altri per consumare i pasti in comune. Era proprio previsto un limite numerico per le cose che i monaci potevano possedere e questo limite era la garanzia per preservare la dimensione eremitica. Anche per i certosini tuttavia si pose il problema della forma di vita da regolare. Dato che Bruno di Colonia morì senza lasciare nulla di scritto, solo nel 1127 Guigo I mise insieme una raccolta di Consuetudini, riprese da regole monastiche antiche e aggiornate secondo le esigenze dell’ordine. Come i cistercensi, anche i certosini scelsero di riconoscere alla casa madre (la Certosa) il potere di decidere le forme di vita da adottare per tutti monaci, di regolare la vita interna e i conflitti tra i diversi monasteri. L’inserimento dei certosini nei contesti locali, nonostante la preferenza per luoghi remoti, fu segnato da conflitti violenti e prolungati , soprattutto per la particolare interpretazione del concetto di deserto. I monaci infatti delimitavano il loro spazio ideale con confini concreti, inglobando possessi di altri soggetti, signori o contadini. Questi conflitti spesso si risolsero grazie all’intervento e alla protezione dei vescovi. Anche i pontefici offrirono la loro protezione agli ordini che si ripromettevano di vivere secondo la regola di San Benedetto. 1.4 L’inquadramento religioso dei laici Nella costruzione dottrinale giuridica della Chiesa dell’XI e XII secolo, ai laici spettava un ruolo passivo, di fedele obbediente. La parola latina laicus nei testi cristiani rimandava all’insieme dei fedeli non insignito del sacerdozio. Nel Decreto di Graziano del XII secolo veniva ribadita la differenza fra la natura “regale” dello stato clericale, libero dei legami mondani, e quella popolare dei laici. Ai chierici spettava il diritto di essere mantenuti in virtù dell’utilità sociale della loro funzione, e quello di essere difesi dalla violenza dei laici. Veniva ribadito in più parti del Decreto che nessun laico poteva accusare un chierico o anche solo testimoniare contro di lui in un tribunale. Solo un membro del clero poteva giudicare un altro chierico. La rivalutazione della funzione del sacerdote aveva portato una rivalutazione dei sacramenti che finivano per inquadrare in una cornice sacrale l’intera esistenza del fedele. Il battesimo si affermò come necessario rito di entrata del fedele nella comunità di appartenenza, per cancellare il peccato originale che si trasmetteva al momento del concepimento. L’eucarestia acquistò una nuova centralità, divenendo il perno della liturgia della messa. La dottrina ufficiale sostenne che, attraverso il miracolo eucaristico, Dio trasformava l’ostia nel vero corpo di Cristo e il vino nel vero sangue: solo questa trasformazione miracolosa permetteva il rinnovo della grazia nel fedele, consentendogli la salvezza. Si delineò anche una dimensione più costrittiva e individuale della penitenza, il dolore interiore per un peccato commesso, che doveva essere riconosciuto come tale dal fedele e confessato al prete. Solo dopo la confessione e l’assolvimento della pena inflitta dal sacerdote, il peccatore poteva ritornare nel gregge dei fedeli. Il matrimonio, riconosciuto come sacramento proprio negli anni della Riforma, sottopose a un controllo assai stretto la vita sociale dei fedeli: non ci si poteva sposare fino a un certo grado di parentela; i rapporti sessuali furono considerati sempre peccaminosi se compiuti per non procreare; e le strategie di alleanza che non dovevano contrastare con il libero consenso degli sposi. Infine, la morte fu interpretata come una soglia di entrata in una nuova vita ultraterrena che continuava e prolungava la vita dell’anima. Proprio nel XII secolo il culto dei morti si rivelò uno strumento potentissimo di tenuta della società. Con l’invenzione del Purgatorio si aprì infatti un canale diretto di comunicazione fra i vivi e i morti: non solo le preghiere per i morti aiutavano a mantenere il ricordo delle persone scomparse, ma ora potevano anche abbreviare le pene così da permettere all’anima del defunto di raggiungere il paradiso. Il fedele si trovò ben presto inquadrato in una vita duplice e speculare, con un rimando continuo fra ciò che compiva sulla terra e ciò che si sarebbe subito nell’aldilà. Le azioni terrene potevano modificare, almeno in parte, l’entità delle pene e delle ricompense nel regno celeste, attraverso un canale di comunicazione che solo il clero aveva il potere di attivare. Queste trasformazioni portarono alla nascita di altre forme di vita religiosa, classificate come eresie nel corso dell’XI e XII secolo. La lotta alle eresie serviva a definire meglio ciò che la Chiesa doveva essere: la sua funzione storica (la guida dei fedeli verso la salvezza), la sua natura istituzionale (una chiesa apostolica centrata sul primato romano) e i suoi poteri (i sacramenti concessi da Dio). Le eresie erano le idee, le dottrine e i comportamenti che negavano le basi di questa missione divina della Chiesa. Ciò che sappiamo delle eresie proviene solo da fonti ecclesiastiche. Sappiamo che già nei decenni centrali dell’XI secolo comparvero una serie di movimenti religiosi di ispirazione pauperistica, che predicavano un ritorno allo spirito e alla lettera del Vangelo. Movimenti che vennero subito definiti eretici. Durante la riforma della Chiesa furono molteplici i fenomeni di ascetismo religioso che utilizzavano i temi monastici della povertà, del rifiuto della carne e del ritorno a un modello di vita evangelico. Fenomeni che vennero considerati eretici perché rifiutavano i sacramenti, spesso accompagnati da una resistenza accanita alle richieste economiche delle chiese. Questi movimenti sostanzialmente criticavano la Chiesa in quanto istituzione, non la dottrina cristiana in sé. Eretici divennero anche tutti quelli che rifiutavano la mediazione della Chiesa, rivendicando un rapporto diretto con Dio e con lo spirito Santo. La repressione contro gli eretici fu violenta e colpì migliaia di persone. La legislazione fu gradualmente inasprita contro gli eretici, con la messa in opera di un sistema di controllo e di punizione che coinvolse direttamente i laici. Contro gli eretici non erano necessarie prove certe, un semplice sospetto era sufficiente a portarli davanti al vescovo per discolparsi pubblicamente. La ricerca dei sospetti era affidata al vescovo che doveva indagare nelle parrocchie per scoprire i possibili eretici. Le autorità laiche erano incaricate dell’esecuzione materiale delle sentenze su convocazione dell’autorità ecclesiastica: re, conti e città dovevano punire i colpevoli, anche con la morte. La Chiesa La fedeltà militare, giurata durante l’investitura, era spesso messa in secondo piano rispetto ai disegni di affermazione personale dei cavalieri. Inoltre, specialmente in Francia, la fedeltà poteva essere concessa a più signori contemporaneamente. In questi casi, esigere l’aiuto militare era assai difficile. Inoltre, se contiamo che l’aiuto militare era “a tempo”, durava in genere 40 giorni, è chiaro che condurre una guerra e radunare i propri fedeli era molto difficile. Anche il modo di intendere il bene materiale concesso in cambio della fedeltà – il beneficio – era cambiato. Nonostante i riti di investitura si fossero arricchiti di immagini e segni della sottomissione, il beneficio era sentito dai vassalli come un bene proprio, che poteva essere trasmesso ai figli in eredità. Per contrastare la dispersione delle fedeltà e l’ereditarietà dei benefici si usarono alcuni strumenti giuridici per proteggere i diritti del signore. Uno di questi era la commise: il sequestro del feudo in caso di disobbedienza, pratica che permetteva di intervenire in maniera coercitiva contro i vassalli infedeli, ma che provocava anche numerosi conflitti armati. Ricorrere alla commise richiedeva una capacità militare in grado di piegare le resistenze del vassallo e l’appoggio degli altri vassalli che dovevano giudicare il loro compagno infedele. Più diffuso era il ricorso al feudo “ligio”, una fedeltà privilegiata che si doveva a un signore in particolare. Si trattò di un tentativo di gerarchizzare le fedeltà e in alcuni casi funzionò. Un altro strumento efficace fu la clausola di riserva “negativa”, per cui il vassallo giurava di non combattere contro il proprio signore. Clausola quasi paradossale in un atto di sottomissione, ma utile per inquadrare i vassalli entro una rete di fedeltà garantite verso il signore. Alla base dei rapporti feudali restava comunque la natura contrattuale reciproca del patto. Anche in caso di concessione di terreni, la natura del feudo era legata più al modo di intendere la relazione fra i due contraenti che al carattere giuridicamente definito del feudo: è probabile che il signore che concedeva il bene pretendesse una fedeltà militare da parte del vassallo, ma nei fatti non esistevano regole rigide per definire questa pretesa. In sintesi, i sistemi di inquadramento delle fedeltà militari rientravano nel più ampio problema di ordinare le relazioni sociali e le solidarietà di gruppo in una rete di alleanze tendenzialmente stabili. Non si arrivò mai a costruire uno schema piramidale di fedeltà che dal basso sale verso l’alto per finire con il re. Questa fu un’immagine in buona parte inventata che si diffuse nei secoli finali del Medioevo per dare spessore al tentativo dei re di imporre un ordine da sempre esistito. 2.5 L’ideale cavalleresco e la socialità di corte I romanzi cavallereschi propagandarono un’immagine idealizzata del cavaliere, che si sceglieva nemici più forti, violatori delle chiese e persecutori dei deboli. Il cavaliere li cercava e li affrontava come prove di un percorso di ricerca della propria identità. Questi racconti narrano spesso di un viaggio in terre sconosciute e pericolose che il protagonista doveva affrontare per raggiungere (o mantenere) il nuovo status di cavaliere. Era uno status che aveva riti e modelli di comportamento. In particolare, il cosiddetto “addobbamento”, il rito di entrata nella cavalleria – con la consegna delle armi da parte di un signore superiore, il giuramento, la veglia in chiesa – veniva esaltato come un momento di passaggio e di trasformazione del cadetto in cavaliere, del ragazzo in uomo, del milite errante in crociato. Nel rituale di addobbamento, prevaleva un aspetto politico molto concreto: con l’entrata nel mondo degli adulti, un giovane aveva ora la capacità di difendere e di rivendicare con le armi diritti su un possesso, su un castello, su un feudo . Si trattava quindi di un rituale giuridico e sociale, che metteva in moto una serie di meccanismi a catena: ricevere le armi segnava la sua legittimità come erede e questo nuovo status provocava spesso la reazione negativa dei parenti prossimi che potevano condividere quote di quel bene o dei signori vicini che avanzavano pretese su di esso. Le guerre di successione che si generavano localmente creavano uno stato di conflitto a livello regionale che andava tenuto sotto controllo. Per questo durante l’addobbamento, partecipavano i principi locali e la loro rete di alleati. La parata dei cavalieri serviva a indicare a tutti l’entrata del giovane cavaliere in una rete di alleati potenti che facevano capo a un principe. E serviva al principe “addobbatore” per legare a sé il giovane armato, mostrando pubblicamente da chi aveva ricevuto l’onore delle armi, o meglio la capacità di difendere con le armi il proprio onore (parola che aveva ancora un significato prettamente patrimoniale: honor è la terra, il feudo, il patrimonio, di conseguenza essere disonorato significa perdere il patrimonio). Dopo l’addobbamento, il cavaliere doveva svolgere altri riti: esaltare il valore personale e la propria forza in momenti ludici, come i tornei, e partecipare alle varie cerimonie di corte. L’invenzione di un’etica del cavaliere poteva servire a indicare un modello di comportamento, ma le guerre feudali non avevano nulla di eroico. Si basavano sull’assedio di un castello e sul saccheggio sistematico dei territori circostanti e dei contadini. Al suo interno il ceto degli uomini armati costituiva un gruppo sociale molto variegato e per questo di difficile classificazione. Ogni regione aveva parole e riti diversi per descrivere la categoria dei cavalieri. In generale, possiamo dire che lo strato superiore era composto tendenzialmente dai grandi aristocratici discendenti dell’élite carolingia che avevano fondato sul servizio armato del re la base della loro ascesa sociale e del loro prestigio politico. Se la gran parte dei nobili faceva parte della cavalleria, non tutti i cavalieri erano nobili. Lo strato inferiore era occupato invece da persone di secondo rango, vassalli minori, custodi di castello, giovani scudieri in attesa di promozione. Era un ceto multiforme, probabilmente molto numeroso e in grado di rivestire più funzioni oltre quella militare. Si trattava di un gruppo mobile e molto instabile, pronto a rivendicare i diritti sui benefici ricevuti e a ricercare una maggiore libertà d’azione. Capitolo 3 Il Dominio Signorile I secoli X e XI in tutta Europa furono teatro di un mutamento profondo delle forme di potere: si indebolì la capacità regia di controllo, si frammentarono i distretti affidati a conti e marchesi, le chiese e le dinastie aristocratiche costruirono poteri locali autonomi. Non fu in alcun modo una rinuncia volontaria da parte del regno: le signorie non erano infatti poteri concessi dal re ai suoi fedeli, ma costruzioni politiche dal basso, attuate senza alcuna delega. Se il processo fu comune a tutta l’Europa carolingia, i suoi tempi, le sue forme e i suoi esiti furono profondamente diversi da un luogo a un altro. I poteri signorili partivano dalla terra, dal grande possesso fondiario: solo chi era ricco di terra aveva le risorse per imporre il proprio dominio sui vicini più deboli. In questa fase si assiste a una vera e propria forma di potere politico, una dominazione territoriale proiettata non solo sui contadini che coltivavano la terra del signore, ma su tutti vicini. Il salto di qualità fu connesso prima di tutto alla nuova capacità di azione armata dell’aristocrazia, grazie a quei cavalieri la cui identità sociale si andava consolidando lungo l’XI secolo. 3.1 Un potere senza delega: terre, castelli, clientele I protagonisti del mutamento furono i signori: con questa parola ci riferiamo sia alle dinastie, sia alle chiese, due facce dello stesso sistema di dominio aristocratico e caratterizzate dalla piena autonomia dal potere regio. Ovviamente c’erano differenze tra chiese e dinastie, ma c’erano diversi elementi in comune: terre, castelli e clientele rappresentarono le basi fondamentali dei nuovi poteri signorili. Le terre. Fino al XII secolo, essere ricchi significava possedere tante terre: la circolazione monetaria era debole e discontinua, e le terre assunsero funzioni economiche ma anche sociali. La terra serviva per mantenere uno stile di vita aristocratico, ma anche per legare a sé una clientela di fedeli (i benefici dei vassalli erano spesso concessioni fondiarie); i proprietari delle curtes avevano usato la terra per garantirsi servizi di lavoro dei massari sul dominicum; con le donazioni di terre si esprimeva la propria devozione nei confronti delle chiese, ottenendo preghiere per la propria anima. Questo sistema è testimoniato dalle fonti che ci sono giunte: dobbiamo però ricordare che le transazioni fondiarie erano quelle che venivano registrate più frequentemente e venivano conservate per garantire la stabilità del proprio patrimonio. Per questo le transazioni di terre sono sovrarappresentate rispetto ad altre azioni economiche. La rilevanza sociale della terra era alta già in età carolingia. La terra assunse però ulteriore rilevanza sul piano sociale quando il coordinamento regio venne meno, quando chiese e dinastie poterono tradurre con grande libertà la propria superiorità economica in potere signorile. La giustizia regia era debole, il conte non interveniva più all’interno di tutti i villaggi ma solo dove deteneva il patrimonio personale: i contadini si trovarono così a raccogliersi attorno al proprietario della terra che coltivavano. Era un rapporto prettamente economico, di scambio tra terra e lavoro, ma c’erano tutte le premesse perché si evolvesse in un rapporto di completa sottomissione. Questo avvenne quando il potere si arricchì di una nuova capacità di agire sul piano militare, ovvero quando il signore costruì castelli e raccolse clientele armate: fu questa forza militare a consentire il salto di qualità, il passaggio da una dominazione del grande proprietario sui contadini che coltivavano la sua terra, e quella di un signore sui suoi vicini. Divenne una dominazione a carattere pienamente politico, che emulava le prerogative e i compiti del potere regio (giustizia, protezione, fisco). In altri termini, questa capacità di azione militare aristocratica trasformò i contadini in sudditi dei signori. I castelli sono gli edifici che il nostro immaginario associa al Medioevo e più nello specifico al potere signorile. Non è sbagliato, perché spesso il potere signorile trovò la propria base nel castello. Le origini della costruzione di un castello non vanno ricollegate alle incursioni ungare e saracene: sia perché furono meno incisive di quanto un tempo si ritenesse; sia perché si è potuto constatare come non ci sia corrispondenza geografica e cronologica tra le incursioni più minacciose e le fasi di incastellamento più intense. Occorre quindi mettersi in una prospettiva diversa, nella logica politica locale, per vedere come il castello rappresentasse un passaggio del processo che permise di trasformare la superiorità economica dell’aristocrazia in una forma di dominio sulla società circostante. Di conseguenza le incursioni saracene e ungare non furono la causa dell’incastellamento, ma la conseguenza della debolezza militare del potere regio e della sua incapacità di garantire sicurezza e pace sociale. Ecco perché nel X secolo si attestano diversi diplomi regi che autorizzano signori a costruire castelli: è la presa d’atto del potere regio della propria incapacità di proteggere tutto il territorio e il riconoscimento di una legittima iniziativa militare di altri attori politici. Se il regno non poteva proteggere i suoi sudditi, questi dovettero cercare protezione dove la potevano trovare: nelle città ci si raccolse in genere attorno ai vescovi; nelle campagne furono i grandi possessori fondiari ad avere le risorse e l’interesse a costruire un piccolo apparato militare, un sistema di fortificazioni e di uomini armati in grado di proteggere i propri vicini . Per questo furono fondamentali i castelli. Nell’XI secolo attorno ai castelli si sviluppò un processo di attrazione e sottomissione della popolazione circostante, un processo per cui la protezione garantita dal castello si poteva estendere a gruppi sempre più ampi. Chi trovava protezione nel castello aveva rapporti molto diversi con il signore, dalla piena dipendenza dei servi fino all’estraneità dei vicini. Ma il castello permise di creare e intensificare questi rapporti. La possibilità per i vicini di rifugiarsi nel castello fu la base per imporre loro alcuni servizi, a partire dai turni di guardia ai turni di corvées per la manutenzione del castello. Questo diede vita a un rapporto di scambio tra protezione e servizi ed è la dimostrazione evidente di come il potere signorile avesse sostituito il potere regio. Questo sistema era garantito dalla capacità armata dei signori, fondata in larga misura sulle bande di cavalieri al loro servizio. Parliamo di cavalieri, e non genericamente di uomini armati, perché proprio nell’XI secolo si affermò la centralità della cavalleria, prima dal punto di vista militare, poi da quello sociale. E proprio di questi corpi che il signore aveva bisogno: persone specializzate, addestrate, ben equipaggiate, in grado di combattere a cavallo e quindi di contrastare i signori avversari. Il potere del signore doveva manifestarsi in due direzioni: da un lato combattere i potenti vicini, che potevano minacciare i beni e i poteri del signore; dall’altro lato minacciare gli stessi sudditi per ottenere la loro obbedienza e il pagamento delle tasse. Protezione e minaccia convergevano quindi nelle stesse mani. Per coordinare queste bande armate il signore si serviva prima di tutto dei legami vassallatici. Il vassallaggio, formatosi alla fine dell’VIII secolo nel quadro del coordinamento dell’aristocrazia franca da parte della dinastia pipinide-carolingia, col tempo non mutò la natura del rapporto: un giuramento di fedeltà a forte connotato militare, ricompensato con un beneficio di natura economica. Certamente era un rapporto che si era arricchito di funzioni sociali e politiche. Tra il X secolo e l’XI secolo possiamo vedere nei rapporti vassallatici la principale forma di “coesione gerarchizzata” all’interno dell’aristocrazia militare. Coesione, perché il legame vassallatico andava aldilà della pura funzionalità militare, creava un sistema di solidarietà personale che vincolava sia il vassallo nei confronti del signore, sia il signore nei confronti del vassallo, sia i vassalli di uno stesso signore tra di loro . Gerarchizzata, perché tutte le trasformazioni del vassallaggio non arrivarono mai a cancellare l’idea della superiorità del signore. In questi secoli non assistiamo alla “piramide feudale”, un sistema ordinato di dipendenze vassallatiche che dal re discende fino agli strati più bassi dell’aristocrazia. Non c’era nessun ordine precostituito. L’idea di piramide ci porterebbe a pensare all’esistenza di ordinati strati sociali, ma non si era vassalli in assoluto, si era sempre vassalli di qualcuno, era una relazione (tra un superiore e uno inferiore), non una condizione sociale. Forse l’immagine più rappresentativa di questo tipo di rapporti è quello della rete, perché mette in rilievo sia la marginalità del re, sia la fondamentale funzione del vassallaggio come struttura di coesione sociale, sia verticale sia orizzontale, e non crea un rigido apparato politico-militare. 3.2 La formazione dei poteri signorili In età carolingia la struttura del potere era fondata sul controllo delegato dal re ai suoi ufficiali (conti e marchesi), a cui spettava la giurisdizione sul territorio; rispetto a questi funzionari, l’aristocrazia locale si poneva in un rapporto spesso di collaborazione, talvolta di conflitto, ma sempre di chiara distinzione gerarchica: gli ufficiali regi erano non solo i principali detentori del potere, ma anche il centro della società aristocratica regionale. La svolta si ha nell’XI secolo quando cambiano i distretti dei conti e dei marchesi : i confini perdono rilievo, il potere si proietta su quadri sociali territoriali più piccoli, costruiti sulla base della concreta capacità di azione delle singole dinastie signorili. Conti e marchesi non furono i difensori dell’ordinamento regio ; furono invece pienamente parte del mutamento verso la costituzione dei poteri signorili. Già durante l’età carolingia gli ufficiali regi cercavano di occupare stabilmente le funzioni di governo, perché ricoprire la carica di conte e di marchese nello stesso territorio per molti anni (per poi trasmetterla ai figli), permetteva di concentrare nella regione le proprie terre, le proprie clientele, le proprie alleanze. L’attenuarsi della capacità regia di controllo lasciò maggiore spazio all’iniziativa autonoma delle dinastie di conti e marchesi. Nella maggior parte del regno italico le dinastie di tradizione funzionariale svilupparono poteri analoghi alle altre famiglie signorili. In Francia, in Borgogna, in Germania e in alcuni settori del regno italico si svilupparono veri e propri principati territoriali, che erano molto più ampi e strutturati delle normali signorie di castello . In Italia, in linea generale, conti e marchesi costituirono invece poteri signorili sulla base delle proprie terre, castelli e clientele. Certo, il potere delle famiglie di conti era più ampio di quello di una normale dinastia signorile, perché univa molti castelli, erano più ricchi e potevano contare su più terre e più clientele. Ma era una differenza dimensionale, non qualitativa: all’interno di ogni nucleo signorile, i conti si comportavano più o meno come qualunque altro signore. Se ci concentriamo sulla realtà italiana, l’unica vera differenza qualitativa era nei titoli: i documenti fanno riferimento ai signori con il titolo di dominus (signore) mentre i discendenti dei conti e dei marchesi continuavano a usare i titoli che richiamavano le funzioni un tempo ricoperte dai loro antenati. Il titolo di conte non corrispondeva più a una funzione effettiva; ma sul piano politico aveva importanza e non a caso vediamo che lungo tutto il Medioevo e l’età moderna le dinastie che potevano fregiarsi di un titolo comitale continuarono a farlo. ’aristocrazia funzionariale e i grandi possessori sì assimilarono progressivamente e da punti di partenza lontani giunsero a risultati analoghi : dominazioni fondate sul concreto controllo di terre e persone, organizzati attorno alle fortificazioni. Questa similitudine derivò da una forma di imitazione reciproca: i grandi possessori imitarono i poteri pubblici (giustizia, fisco, difesa); i conti imitarono invece la capacità signorile di agire direttamente sulla società locale, la capacità di fondare il potere su basi materiali come le terre e castelli. All’interno di ciascun territorio questi poteri erano condivisi e spartiti tra diversi signori, con forme molto diverse da luogo a luogo. Se pensiamo al potere signorile come a un’emanazione diretta del castello, la sua forma naturale sarebbe quella di un dominio piccolo ma omogeneo sul territorio; se lo pensiamo invece come proiezione del patrimonio signorile, come sviluppo dell’egemonia padronale sui contadini, penseremo un potere estremamente frammentato e disperso, a ricalcare la frammentazione e la dispersione del patrimonio. Le due cose però coesistevano: i signori cercarono prima di tutto di trasformare i propri contadini in sudditi; al contempo, chi aveva costruito un castello lo usavo per cercare di sottomettere l’intera popolazione dell’area circostante. Questo diede vita a conflitti tra diversi signori, tra chi controllava un castello e chi disponeva di un grande patrimonio fondiario nei pressi di quel castello. Ma ne derivarono soprattutto forme di convivenza e di spartizione del potere signorile all’interno dei singoli territori. Così, all’interno della signoria organizzata attorno a Nel corso dell’XI secolo, insieme alle signorie e principati territoriali e alla piena affermazione del ceto militare si sviluppò anche una fitta rete di città in molte regioni europee, in particolare in Francia, intorno a Parigi, nel corridoio verso le città tedesche, lungo il Reno e la Mosa, ma anche in Italia. Si tratta di un fenomeno diffuso che riguardo centri di origine molto diversa: dai villaggi rurali ai borghi nati attorno ai Castelli - Si parla quindi di città castrensi - o alle abbazie - si parla quindi di città ecclesiastiche - dalle città di origine romana, ai piccoli porti e così via. Questa nascita urbana così ampia modificò in profondità l'assetto sociale e politico dei principati e, poi, anche dei regni. Nel corso del dodicesimo secolo, difatti, questo movimento assunse ritmi più ordinati, ad esempio con l'avvento delle mura che definirono ovunque lo spazio urbano separato dalla campagna, accompagnato da atti giuridici ufficiali che sanzionano lo statuto politico di città, l'affermazione di una nuova élite economica dei commercianti e così via: ciò mise, in seguito, in atto un processo di stratificazione sociale che portò alla luce i contrasti e le gerarchie che avrebbero caratterizzato il mondo urbano. 4.1 Le basi dello sviluppo urbano La città, sia come centro urbano che come organo politico, è un processo di trasformazione continua di più elementi materiali e culturali : popolazione, diritti, rapporti di potere, scambi economici, attività produttive, rivendicazione di autonomia. Sono almeno tre gli elementi che più di altri hanno determinato le vicende dello sviluppo urbano nell’Europa medievale:  il legame con il territorio;  la capacità di trasformare la condizione degli abitanti;  l’impulso dei signori territoriali alla promozione di centri urbani. Il primo elemento è di natura economica e demografica e mette in relazione il centro urbano con il territorio circostante. Non esiste un centro abitato che non dipendesse direttamente dei movimenti di popolazione e dei processi produttivi del territorio circostante. Con il suo territorio, il centro urbano conservò un rapporto costante e vitale: si riforniva di prodotti agricoli e di materie prime e redistribuiva prodotti finiti. La città quindi iniziò a svolgere la funzione di centro redistributivo, con relazioni socio- economiche tra le persone. Il secondo elemento dinamico riguarda la composizione sociale delle popolazioni urbane: tramontato il mito delle città come “isole borghesi” in un mare di signorie, la ricerca ha fornito un’immagine più complessa delle trasformazioni del tessuto sociale delle città tra l’XI e il XII secolo. Due sono i dati che ricorrono in maniera costante. In primo luogo, la dipendenza signorile del nucleo originario di abitanti delle città: i contadini, gli artigiani, i funzionari laici ed ecclesiastici, i cavalieri, i grandi vassalli si addensavano a ridosso della residenza signorile spesso fortificata con la chiesa e il castello, e nei borghi circostanti abitava una popolazione mista. Alla metà dell’XI secolo, i legami di dipendenza degli abitanti con i signori erano ancora forti. Spesso il suolo dove si costruivano le case era di proprietà del signore e gli abitanti pagavano un censo. Il secondo dato insiste maggiormente sulla capacità di trasformazione degli abitanti delle città. Sia i vecchi residenti sia gli immigrati dal territorio tendono a riconoscersi nel corso del XII secolo come membri di un nuovo insieme sociale, che condivide diritti e doveri derivanti dalla comune appartenenza alla città . Riuniva soprattutto una comune aspirazione all’autonomia delle proprie attività economiche. Il principale processo di trasformazione sociale avvenuto nelle città riguarda proprio la costruzione di una nuova identità politica degli abitanti, fondata sul riconoscimento di uno statuto giuridico condiviso da tutti i residenti in città : una relativa libertà personale, una solidarietà necessaria per dar corpo alle richieste collettive da indirizzare ai signori, il comune bisogno di uno stato di pace che salvaguardasse le persone e le cose dei cittadini. Il terzo elemento da tenere presente è quello politico, vale a dire i rapporti fra i centri urbani e i poteri signorili della regione che spesso avevano sede in città. In alcuni casi questi rapporti furono di collaborazione immediata, anzi di vera promozione dello sviluppo urbano. In diverse città gli abitanti ottennero la proprietà dei suoli abitativi, dopo aver acquistato il censo dal signore. In tal modo i residenti in città divennero proprietari e poterono così lasciare in eredità i loro beni urbani, creando una popolazione di cittadini indipendenti dagli oneri signorili sul suolo. A questa forma di autonomia, si aggiunsero alcuni privilegi giudiziari, l’esenzione da alcune imposte sui beni commerciali e il permesso di costruire le mura come protezione e delimitazione dello spazio urbano. Le autonomie degli abitanti dovevano favorire lo sviluppo commerciale della città e una rapida accumulazione di capitali che affluivano in parte nelle casse signorili. Queste concessioni facevano parte di un progetto di rafforzamento del potere politico locale: lo sviluppo precoce di una rete urbana favoriva una maggiore stabilizzazione delle regioni interessate, grazie al popolamento di zone prima poco attive, al potenziamento delle vie commerciali che assicuravano lo scambio di merci nella regione, e alla crescita delle entrate signorili garantite dalle imposte pagate dai cittadini. È indubbio che le città presero una forma istituzionale solo dopo aver ottenuto un riconoscimento dall’autorità superiore. In alcune città della Francia meridionale, vennero eletti dei magistrati chiamati “ consoli”, su ispirazione di modelli romani già in uso in Italia nei primissimi anni del XII secolo. A differenza delle città del Nord, generalmente rette da un rappresentante signorile, si trattava di un governo collegiale di cittadini, coadiuvato da un consiglio che poteva contare anche un centinaio di membri. La nomina dei consoli era interna a una élite urbana formata dalle famiglie dell’aristocrazia militare più in vista che si passavano le cariche di padre in figlio: fino alla metà del XII secolo i “borghesi non nobili” ne rimasero sostanzialmente esclusi. I consoli amministravano sia la giustizia civile (in tema di eredità) sia quella penale (ingiuria), ma non potevano toccare il dominio e i diritti dei signori maggiori. La sensazione che le città europee avessero una natura doppia è rafforzata dalla presenza di due apparati istituzionali in città: da un lato gli ufficiali signorili che detenevano il controllo militare e la giustizia per conto del signore; dall’altro i giudici della città e i consoli che rappresentavano la fascia di popolazione ammessa alla vita politica della città. Molti principi laici ed ecclesiastici trovarono opportuno – per convenienza o necessità – riconoscere l’esistenza di nuovi soggetti sociali ed economici che reclamavano un ruolo attivo nella vita politica della regione. I residenti nelle città chiedevano soprattutto la difesa dei propri interessi, la possibilità di espandere le attività produttive e le relazioni commerciali assicurando un flusso di interscambio con il territorio. Al contempo si riconoscevano fedeli al principe, non contestavano le sue prerogative signorili, non minacciavano il suo dominio sul territorio. I signori a loro volta dovevano garantire queste sfere di autonoma organizzazione dei cittadini, limitare le loro pretese fiscali, premiare con dei privilegi che assicuravano la libertà questa fedeltà politica al loro dominio. Restava fermo che il dominio militare rimaneva saldamente nelle loro mani. 4.2 Le città tra XII e XIII secolo: unificazione e differenziazione sociale Dalla metà del XII secolo in avanti le città – formate da borghi, residenze signorili, castello, chiese – furono riunite in un’unica realtà territoriale urbana. La costruzione di nuove mura rese visibile questo processo. Tra il XII secolo e la prima metà del XIII secolo, tutte le città furono circondate da una nuova cerchia di mura. La nuova cerchia abbracciava una superficie due o tre volte superiore rispetto alle fortificazioni precedenti, non solo perché riuniva parti prima separate, ma perché inglobava ampie zone di terreno non costruito, messo a coltivazione con vigne e orti. Le mura divennero il simbolo della città, assorbirono per anni le energie tecniche ed economiche della popolazione, alimentarono la prima fiscalità urbana (visto che tutti cittadini dovevano contribuire a finanziare la costruzione della nuova cinta). Segnarono anche un confine più netto con il territorio esterno, una soglia fra il dentro e il fuori che alimentò una coscienza civica più accentuata rispetto al primo secolo di vita delle città. Anche la condizione giuridica e sociale di chi abita all’interno delle mura cambiò considerevolmente. La concessione di carte di franchigia o di carte di comune ai centri urbani era diventata una pratica generalizzata da parte di tutti i poteri territoriali. Le città anzi erano contraddistinte da questo riconoscimento ufficiale della libertà dei propri abitanti. E “libertà” significava avere definito per iscritto l’elenco dei propri diritti, in primo luogo la possibilità di organizzare la vita economica delle città, assicurando lo sviluppo delle attività produttive e di scambio. In quest’epoca le città, ormai protette dal re e inserite saldamente nella gerarchia del regno, divennero ottimi contribuenti del fisco regio e giocarono di conseguenza un ruolo politico importantissimo nella costituzione dello Stato. Lo sviluppo economico tuttavia acuiva le differenze sociali. La popolazione era percorsa da un inarrestabile processo di stratificazione sociale e di differenziazione tra gruppi diversi: antiche famiglie della piccola e media nobiltà, ricchi mercanti, nuovi ricchi che aspirano a entrare nel ristretto cerchio di chi governa la città, capi botteghe, artigiani di medio livello, dipendenti e salariati che resistono alle pressioni dei padroni. Il comune urbano presentava un arco assai maggiore di differenze di ceto e di status. In primo luogo all’interno dei ceti che guidavano il comune. Dopo una lunga fase di governo, il ceto dirigente del primo comune formato dai vecchi funzionari signorili fu costretto a integrare nuove famiglie di borghesi. I primi a essere inseriti erano coloro che avevano fatto fortuna con i commerci e che potevano vantare relazioni utili a sostenere l’espansione commerciale della città, moltiplicando le rotte e i guadagni. L’accumulazione di denaro liquidò fu rapido e sconvolse in pochi anni le gerarchie consolidate. Questa élite economica conquistò il potere nel corso del XIII secolo: si appropriò dei posti di comando e del controllo della vita economica della città, facendosi garante con i principi della prosperità del territorio. Al contempo, esisteva un frastagliato mondo artigianale che abbracciava gran parte della popolazione urbana e aspirava a una presenza politica. Era un mondo attraversato da infinite tensioni interne. Nessuno, nel Medioevo, parlava in maniera generica di un “ceto artigianale”. Certamente gli artigiani si distinguevano da coloro che svolgevano mestieri umili, che rimasero esclusi dalla vita politica. Esisteva infatti una doppia gerarchia sociale: una tra i diversi mestieri, che vedeva primeggiare i mercanti e i banchieri, seguiti dei proprietari di botteghe tessili, orafi, fabbri; e un’altra tra le funzioni che venivano svolte all’interno dello stesso mestiere. Il prestigio sociale raggiunto da alcune corporazioni di mestiere riguardava solo i maestri in possesso dei mezzi tecnici più costosi e avanzati, per diminuire ma mano che le fasi di lavorazione si facevano più pesanti. Coloro infatti che ricoprivano incarichi meccanici e umili erano ridotti a una condizione umana e giuridica inferiore chiamata condizione di “infame”. Infame nel Medioevo era un termine tecnico che indicava persone senza diritti e senza reputazione, escluse dai tribunali e soprattutto prive di qualsiasi rappresentanza politica. Il salariato urbano fu spinto lentamente verso questa condizione di marginalità nel corso del Duecento. Le tensioni accumulate nel corso del XIII secolo alimentarono i numerosi movimenti di rivolta del Trecento. Queste tensioni riflettono anche un processo di crescita e di maturazione della città. Si trasformarono le condizioni sociali degli abitanti e si affermò una nuova élite sociale che usava strumenti di governo diversi , imponendo una logica mercantile ai rapporti politici : contare, misurare, valutare, prevedere, divennero azioni indispensabili per governare le persone. Così come controllare i flussi di denaro e determinare il valore delle monete si rivelò sempre di più un’attività dai chiari risvolti politici, in grado di influenzare gli assetti dei principati territoriali. Capitolo 5 I regni e i sistemi politici europei fra XI e XIII secolo Il reticolo dei poteri dell’Europa nei secoli centrali del Medioevo sembra lasciare poco spazio ai tentativi di creare una dominazione politica unitaria sotto il governo di un re: signorie di castello ormai autonome, un ceto militare frammentato, principati regionali in conflitto e gelosi della propria autonomia, città in crescita come centri economici in grado di influenzare gli assetti regionali. l re fino a buona parte del XII secolo avevano poteri limitati: controllavano un territorio ristretto, dovevano contrattare le principali azioni di governo con i grandi potentati locali, provenivano da dinastie poco legittimate che faticavano a imporre i propri candidati alla successione al trono. I compiti delle monarchie dall’XI al XIII secolo erano molto più elementari rispetto a quelli di uno Stato nel senso moderno del termine: bisognava in primo luogo affermare un “diritto a esistere” come entità politiche superiori, e quindi sforzarsi di recuperare un coordinamento dei poteri sparsi in mani diverse e contesi da principi regionali da tempo abituati a governare in piena autonomia i propri territori. 5.1 Limiti dei regni nei secoli XI e XII Nel XII secolo i poteri di tipo monarchico che si erano affermati dopo la dissoluzione del regno carolingio mostravano una serie di debolezze strutturali che si traducevano in limiti alle capacità d’azione dei singoli re. In primo luogo, le dinastie regnanti si fondavano ancora sulle alleanze matrimoniali tra le grandi famiglie aristocratiche: un sistema mobile, costruito sull’unione temporanea di titoli principeschi diversi nella stessa persona. Per esempio, si poteva diventare re di una regione anche molto lontana sposando l’erede di quel principato. Era una trama debole, che veniva disfatta al primo mutare delle alleanze tra le famiglie. Al contempo era una trama che era in grado di disegnare quadri territoriali molto diversi nel giro di pochi anni. Pensiamo alla Francia: il suo assetto mutò radicalmente quando il Ducato di Aquitania fu unito per via matrimoniale alla contea di Angiò e alla Normandia, e quindi all’Inghilterra, sotto il dominio di Enrico II. Prese vita così una configurazione politica sovraregionale che sovrastò a lungo il re di Francia. È difficile in questa situazione tracciare una chiara geografia dei regni tra l’XI secolo e il XII secolo, fatto salvo il caso inglese: non solo perché le regioni di volta in volta compresi in un dato regno cambiavano velocemente di mano, ma perché sul piano politico i regni non si distinguevano ancora così chiaramente dai tanti principati vicini, spesso più forti e più estesi. Il regno di Francia per esempio era di fatto limitato alla regione intorno a Parigi. In Germania invece, l’Impero univa formalmente i ducati nazionali, ma aveva poca influenza su di essi, al di fuori delle regioni meridionali dove si concentravano i possessi della dinastia regnante. I regni erano soprattutto potenze regionali; o meglio dovevano avere una base territoriale su cui fondare materialmente la propria esistenza. Più che di veri e propri regni, dovremmo parlare di principati a tendenza egemonica o, in alcuni casi, di regioni inquadrate in sistemi di alleanze con al vertice un re. A questa mobilità dei quadri territoriali, molto acuta in Francia e in Spagna, si aggiunse anche la difficoltà tecnica di coordinare sul piano feudale una miriade di signorie. I sistemi di alleanze feudali non disegnavano ordinate reti di fedeltà in senso gerarchico. Nel XII secolo i re erano signori parziali di grandi vassalli che avevano a loro volta i propri vassalli. Questi ultimi non erano per nulla legati al re, ma avevano obblighi solo verso il proprio signore. Vigeva il principio per cui “il vassallo di un vassallo del re, non era vassallo del re”. Sfuggivano da questa rete tutte le fedeltà locali che vivevano di vita propria, senza preoccuparsi molto dei cambiamenti di titoli né dei passaggi nominali di potere tra una dinastia o l’altra. Ultimo grande limite dei regni era l’assenza di un vero apparato di funzionari pubblici. I grandi uffici regi erano in genere in mano della stessa alta nobiltà che circondava il re. Doveva servire il re e al contempo rafforzare le proprie posizioni nel regno: due funzioni che non sempre era possibile armonizzare in un’efficace azione di governo. Una vera entità statale faticò a mostrarsi compiuta ancora nel Duecento maturo; e anche quando sembrava ormai stabilizzata, poteva decomporsi con grande rapidità nel giro di pochi anni. Questo avvenne a tutti gli Stati monarchici del XIV secolo. 5.2 L’Inghilterra dalla conquista al Duecento Guglielmo il Conquistatore (re 1066-1087) sbarcò in Inghilterra dalla Normandia nel 1066 sconfiggendo il re. I Normanni sostituirono l’intera élite aristocratica anglosassone e i baroni francesi si imposero come classe dominante. Le istituzioni pubbliche furono conservate, sia per necessità sia per opportunismo. Riallacciarsi alle consuetudini del popolo inglese servì in particolare a costruire una base di consenso più ampia tra la popolazione dell’isola. Il regno d’Inghilterra prima della conquista era diviso in circoscrizioni di origine militare e fiscale chiamate shires, assegnate a ufficiali pubblici chiamati ealdormen. Al di sotto degli shires, esistevano circoscrizioni minori (hundreds) formate da gruppi di dieci famiglie. Queste unità godevano di ampia autonomia organizzativa e avevano come fine principale l’amministrazione della giustizia attraverso il mantenimento della pace. Le assemblee delle hundreds discutevano anche di questioni fiscali, ma il carattere giudiziario delle sedute era prevalente. I processi seguivano i costumi locali, e applicavano quello che lo stesso re chiamava il folkright, il “diritto della gente”. Per il mantenimento dell’ordine, la pace era centrale anche nella legislazione regia. La pace del regno dunque era un compito del re, ma era condiviso con le comunità locali. Anche Guglielmo riprese questa tradizione, tanto più che il tema della pace era per lui urgente dopo le guerre di conquista e la repressione dei baroni inglesi. Il giuramento con cui fu incoronato conteneva molti elementi del tradizionale patto tra il re e il popolo: Guglielmo si impegnava a mantenere i diritti delle chiese e a governare il popolo suddito in modo Guglielmo esigevano, come premio della loro fedeltà, non solo l’assegnazione di gran parte delle terre dei nobili inglesi, ma anche una relativa autonomia politica nei rispettivi possessi, e un ruolo di controllo sulle azioni del re. Dall’altro il dominio del re, se voleva proclamò “La pace per tutto il regno”, un atto importante proprio per la dimensione sovralocale che aveva assunto il re, grazie al suo compito di pacificatore. Il concetto fu ribadito nel 1157, quando si attribuì al re il compito di assicurare la pace e di punire i colpevoli che i signori locali non avevano perseguito. Da un lato si assegnava al re una funzione superiore sostitutiva rispetto ai signori locali (interveniva in caso di negligenza); dall’altro si indicava chiaramente come mantenere la pace equivalesse di fatto e di diritto a esercitare la giustizia coercitiva e punitiva contro tutti. Ci fu solo un caso in cui i principi minacciarono direttamente i confini del regno: quando si unirono i ducati di Normandia, di Aquitania e il regno d’Inghilterra, grazie al matrimonio tra Enrico II e Eleonora d’Aquitania, unendo in un solo dominio tutta la Francia nord-occidentale e meridionale, oltre che l’Inghilterra. L’attrito con il re francese fu inevitabile, perché se Enrico come duca di Normandia era vassallo di Luigi VII, come re inglese si sentiva suo pari se non superiore per quanto riguardava il controllo della Francia atlantica e meridionale. Iniziò così quella che venne chiamata “la guerra dei cento anni” fra i re francesi e i re inglesi: una serie di guerre e di tregue che si prolungarono fino alla morte di Luigi VII senza grandi conseguenze sul piano territoriale. Anzi, le guerre continue misero alla prova le reti di alleanze di entrambi i re: molti principi si schierarono con estrema facilità prima con Enrico e poi con Luigi VII a seconda delle convenienze del momento. Luigi VII morì nel 1180, lasciando il regno al figlio Filippo, incoronato già nel 1179. Il regno di Filippo Augusto è considerato da molti storici il punto di svolta della monarchia francese, sia per la durata quarantennale del suo governo sia per le trasformazioni che impresse ai metodi di governo del regno. In primo luogo, a seguito di alcune guerre contro i baroni vicini riuscì a conquistare aree molto importanti della Francia settentrionale. Nel corso dello scontro ventennale con gli anglo-normanni approfittò della competizione fratricida tra i due figli di Enrico, Giovanni e Riccardo. A fasi alterne, Riccardo si dichiarò vassallo di Filippo re di Francia e suo alleato sia contro il padre sia contro il fratello Giovanni. Alla sua morte, Giovanni subentrò come erede unico, ma senza avere un reale supporto né fra i vassalli inglesi né fra quelli normanni. Questo portò alla conquista della Normandia da parte di Filippo (1204). Il re francese riuscì ad allearsi con i baroni normanni, ai quali riconobbe ampie autonomie, e a estendere un’influenza diretta sui ducati dipendenti, come quello di Bretagna. La svolta però si ebbe con la battaglia combattuta nel 1214: fu uno dei rari eventi bellici a influenzare in profondità le vicende dei regni europei della prima metà del Duecento. Contro Filippo si erano uniti tutti i suoi avversari storici: il re inglese Giovanni Senzaterra, l’imperatore tedesco Ottone IV, il conte di Fiandra e molte città fiamminghe. Sconfiggere questa coalizione permise a Filippo di superare nello stesso momento le maggiori resistenze alla sua espansione verso la Fiandra e il nord del regno. Soprattutto, Filippo non fu più costretto a difendersi e poté iniziare una politica più aggressiva, anche se a volte con esiti fallimentari, come il più volte ripetuto tentativo di invadere l’Inghilterra. Una delle principali capacità di Filippo Augusto non fu tanto le annessioni che ottenne per espandere il regno. Sostenere a lungo uno stato di guerra richiedeva una grande capacità di tenere insieme gli alleati, di usare e remunerare clientele militari estese, di condurre assedi per lungo tempo; in altre parole richiedeva una grande capacità di accumulare e mobilitare risorse economiche. Filippo riuscì ad assicurare al regno una superiorità economica in grado di sostenere un apparato militare così imponente. Le spese del regno erano quasi interamente occupate dai costi della guerra e dal mantenimento dell’esercito (così come accadde agli altri re e principi). Filippo però riuscì a razionalizzare la contabilità e l’amministrazione locale, sfruttando con abilità le entrate finanziarie dei feudi. La possibilità di sfruttare meglio il dominio regio fu sostenuta anche dalla creazione di una nuova figura di ufficiale pubblico, il balivo, responsabile del governo, della giustizia e della fiscalità in una circoscrizione definita. Migliorarono anche le tecniche contabili e di controllo: i balivi dovevano redigere dei rendiconti mensili della loro attività in libri di entrate e uscite . Questa gestione diretta del dominio assicurò al re entrate più stabili e prevedibili. L’amministrazione centrale inoltre era stata affidata a un personale diverso: furono chiamati esponenti della cavalleria e della nobiltà urbana, membri dell’ ordine templare specializzati nella contabilità finanziaria. Questo era un ceto fedele al re, non legato ai vassalli del regno. Inoltre, Filippo riuscì a sfruttare sul piano economico la struttura feudale: richiese enormi somme per riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo, o per monetizzare il mancato servizio militare. Fu proprio la combinazione sapiente di strumenti giuridici ed economici diversi ad assicurare il successo della politica regia. Filippo divenne così uno dei principi più potenti e solidi sul piano finanziario, in grado di resistere più a lungo nelle guerre locali. 5.4 I regni spagnoli La Spagna dell’XI secolo era divisa in numerose contee con aspirazioni monarchiche, relegate nella parte settentrionale. Il grosso del territorio era sottoposto al dominio musulmano. La storia della Spagna è stata infatti profondamente segnata dalla conquista araba dell’VIII secolo che mise fine al regno visigoto. Durante il dominio arabo, un regno cristiano continuò a esistere per poi risvegliarsi nell’XI secolo e iniziare una lenta ma inarrestabile riconquista dei territori verso sud. Reconquista è il termine usato dagli storici per indicare la formazione dei regni spagnoli del basso Medioevo: è quasi una riacquisizione di una cosa già posseduta e ora tornata nelle mani dei legittimi proprietari. Per molti intellettuali infatti la presenza araba si configurò come una vera usurpazione, un’occupazione illegittima che non aveva diritto di esistere. È evidente che questa visione pecca di alcune esagerazioni ideologiche. I regni spagnoli nell’XI secolo non erano dei regni: erano contee di dimensione regionale, che occupavano solo la parte settentrionale della penisola. Una maggior stabilità fu raggiunta solo nel Duecento avanzato. Anche l’identità etnica della popolazione era incerta. Il mito della “purezza del sangue” assicurata dalla discendenza dai Visigoti è l’elemento più fragile di tutta l’ideologia della storia spagnola. La lunga permanenza della dominazione araba aveva chiaramente creato una popolazione nuova, che solo dopo la fine del dominio musulmano si riconobbe come ispanica. Anche la separazione tra cristiani e musulmani non era così netta. Anzi, si assistette tra l’XI e XII secolo a una commistione politica fra i regni cristiani del nord e i vari califfati del centro sud. Furono innumerevoli i casi di collaborazione, protezione, scambio e alleanza fra i re spagnoli e i diversi potentati arabi. Questa relazione fu favorita da un intenso lavoro di traduzione di opere nelle due lingue. La Reconquista fu in sostanza, una celebrazione in termini epici di una mutazione politica molto lunga, che solo in parte dipese dalle conquiste militari dei principi cristiani; la svolta infatti si ebbe con la crisi della dominazione berbera. La guerra all’infedele era da tempo un motivo ricorrente del linguaggio politico dei regni spagnoli, soprattutto dopo l’appoggio papale concesso alle spedizioni di cavalieri francesi della fine del XI secolo, configurate appunto in termini di pre-crociata. I sovrani più impegnati nelle guerre di espansione, il re di Castiglia e quello di Aragona-Catalogna ricorsero spesso a questa retorica quando affrontarono conflitti armati con i califfi confinanti e trovarono nell’ esaltazione religiosa delle attività belliche un sostegno ideologico forte alle loro pretese monarchiche. Si legittimarono i re in quanto liberatori. Le guerre che segnarono la prima metà del XII secolo furono tutto sommato poco decisive sul piano territoriale: alcune spedizioni cristiane ottennero qualche successo, ma erano razzie e saccheggi, non guerre di occupazione. La vera svolta si ebbe con la crisi interna al regno dei berberi, in particolare all’interno della dinastia degli Almoravidi. Provenienti dal Maghreb, questi avevano esteso una pesante dominazione militare in tutta la regione andalusa. La rigidità dei costumi religiosi imposti dai loro capi, la differenza linguistica e culturale dall’élite precedente e soprattutto un regime fiscale opprimente, resero il governo almoravide lontano e ostile alla popolazione andalusa. Le minoranze perseguitate, i cristiani e in genere gli abitanti delle città, non trovarono più ragioni per sostenere attivamente il loro dominio. La crisi partì dal Marocco, dove una setta denominata Almohadi, riuscì in un decennio a conquistare il Marocco e a espandersi in Andalusia. Intorno agli anni 1144-1147, anche le maggiori città spagnole passarono dalla parte degli Almohadi, che elessero capitale Siviglia. Per la Reconquista questa mutazione del quadro politico musulmano segnò una sostanziale battuta d’arresto L’ulteriore svolta si ebbe nei primi anni del Duecento, con la proclamazione di una crociata antimusulmana da parte di papa Innocenzo III. La penetrazione nelle regioni sottoposte ai musulmani si fece più veloce: tra il 1212 e il 1240 i territori nelle mani dei principi cristiani, soprattutto in quelle del re di Castiglia, raddoppiarono e si moltiplicarono gli insediamenti di comunità cristiane sotto il controllo regio conquistando anche la regione dell’Andalusia. Meno ampi furono i possedimenti acquisiti dal regno catalano-aragonese, anche se la conquista delle Baleari e del regno di Valencia aprirono alla dinastia uno scenario nuovo verso il Mediterraneo. La sottomissione politica dei territori veniva accompagnato da una vasta opera di popolamento delle regioni acquisite. La creazione di villaggi e di città abitati da contadini e cavalieri in funzione di una colonizzazione agricola divenne un tratto distintivo della Reconquista. Il ripopolamento, così fu chiamato più tardi, si basava sulla fondazione di città con un esteso territorio e sulla concessione di lotti di terra agli abitanti, incaricati anche della difesa militare della zona. Un misto di colonizzazione agraria e militare che conferiva agli abitanti una duplice natura di contadino-soldato . Più la conquista si stabilizzò, più il destino delle popolazioni di origine musulmana divenne un problema, risolto il più delle volte con l’emarginazione economica e spaziale degli ex infedeli, rinchiusi in quartieri etnici nelle città o relegati nelle campagne. Rimane da ricordare il carattere pubblico di queste iniziative. Furono i re ad autorizzare l’insediamento, la divisione delle terre e anche le forme di autonomia che tali comunità conservavano. Questa peculiare organizzazione per insiemi sociali con diversi diritti e doveri condizionò in profondità la struttura politica dei regni. I re si trovarono davanti gruppi sociali con una precisa fisionomia politica, provvisti di autonomia e con una spiccata propensione a rivendicare una rappresentanza collettiva davanti agli organi regi . Per questo motivo fin dal XII secolo, i re convocarono assemblee dei grandi del regno, che comprendevano le tante corporazioni, le città, i cavalieri, i nobili, i mercanti, chiamate le Curie generali o Cortes che deliberavano sui grandi temi della politica regia. 5.5 La Germania e l’Impero La Germania dell’XI secolo presentava a prima vista un quadro territoriale più stabile rispetto i regni vicini. I quattro ducati tradizionali – Franconia, Sassonia, Baviera e Svevia – erano ben saldi nelle mani delle grandi famiglie dell’aristocrazia che coordinava una galassia di conti e castellani privi di una reale autonomia. Il dato particolarmente interessante della Germania medievale riguarda i dati demografici, che segnano una crescita impressionante della popolazione: dei 4 milioni del XII secolo agli 8 del Duecento, che salirono a 14 nel Trecento. Una crescita che alimentò in quest’epoca un ampio movimento migratorio verso est, dove i principi tedeschi chiamavano coloni per consolidare i propri territori. Ciò nonostante l’Impero come istituzione continuò ad avere un funzionamento intermittente. Per tradizione, l’imperatore era eletto dai grandi principi dei ducati maggiori, e poteva contare sul Ducato di Franconia e sui possessi personali della dinastia come base del proprio potere. Era una base cospicua ma non tale da superare quella dei grandi principi elettori suoi concorrenti. Così già nell’XI secolo il problema principale dei sovrani fu quello di resistere alle ribellioni dei nemici interni (risale a quest’epoca la lotta tra i guelfi, le casate dei Sassoni e dei Bavaresi, e i ghibellini, gli Svevi). Inoltre, la crisi dei rapporti con il papato e lo scontro violentissimo con Gregorio VII colpirono duramente il prestigio dell’Impero sotto Enrico IV (1050-1106). In questi anni non solo moltissimi principi gli si rivoltarono contro, ma fu anche eletto da parte papale un altro re: come dire che il principio dinastico doveva essere rimesso in discussione. E così avvenne con il successore di Enrico V, quando furono eletti imperatori appartenenti a una casata diversa da quella precedente, scelti dai principali elettori anche per la loro relativa debolezza. Proprio sul lato della fedeltà militare gli imperatori tedeschi soffrirono di più. E questo era dovuto al fatto che le famiglie ducali fondavano il proprio potere su una grande base terriera di loro proprietà, il che gli rendeva poco dipendenti dalle concessioni feudali del re. Inoltre, la tendenza all’ereditarietà delle cariche, assai diffusa nel regno, portò ben presto una dispersione dell’autorità di origine pubblica, slegandoli dalla fedeltà all’imperatore. In questo contesto di debolezza iniziò il regno di Federico I di Svevia, chiamato Barbarossa. Federico viene ricordato come un grandissimo imperatore dalla storiografia tedesca, perché riuscì in quasi quarant’anni di regno (1152-1190) a rendere almeno temporaneamente unita la Germania dei grandi duchi. Federico sottomise le casate più ribelli alla fedeltà imperiale. Come Luigi VII in Francia, fece propria la funzione di pacificatore del regno, ordinando una pace generale dell’Impero nel 1158. In secondo luogo, fece ricorso al diritto feudale per confiscare i ducati e i principi ribelli. Ogni volta che riusciva a entrare in possesso di un ducato, Federico lo divideva creandone due, diminuendo la forza dei singoli principati. Così fece per la Baviera e per la Sassonia. Creò inoltre due nuovi ducati in Austria e in Stiria affidati ai suoi alleati. Infine, cercò di rafforzare la sua base patrimoniale in Franconia attraverso un’intensa opera di passaggi di feudi. Alla fine del suo regno i principi laici erano circa 20 e altrettanti quelli ecclesiastici legati direttamente all’imperatore. Ancora una volta, l’uso dello strumento feudale servì come connettore delle fedeltà dei grandi verso il centro, dopo aver ridotto l’ambito d’azione dei principi. Inoltre, Federico, come i re francesi, si sforzò di dare al legame feudale un significato politico e giurisdizionale reale. Nell’assemblea dei grandi, chiamata Dieta, del 1158 a Roncaglia, dopo aver elencato quali erano i diritti regi, aveva stabilito che ogni potere di natura pubblica doveva provenire dal re attraverso un’investitura formale. I giuristi italiani gli fornirono probabilmente alcuni passi del diritto romano come base giuridica per fondare le sue pretese di superiorità. Questo principio consentiva a Federico di ordinare la restituzione al sovrano di tutti i poteri e diritti di natura regia in mani private . L’imperatore avrebbe poi redistribuito queste risorse dietro un esplicito riconoscimento della loro qualità pubblica. Federico non divenne per questo un imperatore romano: usò il diritto romano per rafforzare le sue prerogative feudali, confermando i poteri esistenti attraverso l’investitura. Nella stessa Dieta Federico rinnovò il divieto di alienare i feudi, di venderli o dividerli, di giurare fedeltà a più signori, indurendo le punizioni contro i vassalli infedeli. Barbarossa cercò di preservare la fedeltà al sovrano come legame superiore rispetto a quelli tra i signori, cercando quindi di imporre il suo potere come vertice di una gerarchia feudale, non come sovrano assoluto di stampo classico. La dieta di Roncaglia riguardava soprattutto il regno d’Italia, dove la posizione di alcune città lombarde aveva provocato una dura reazione dell’imperatore. Le guerre italiane che scoppiarono, durate circa trent’anni, misero a dura prova l’intera struttura imperiale, perché Federico per ogni spedizione doveva chiedere aiuto ai grandi dell’Impero, che non sempre erano disposti a prolungare la presenza in Italia oltre il limite pattuito. La struttura nel complesso resse, i principi tedeschi rimasero fedeli al loro imperatore anche dopo la “non vittoria” contro i comuni italiani sancita dalla pace di Costanza del 1183. Resta comunque l’impressione di una fedeltà personale, legata al prestigio di Federico e non certo alla dinastia. Lo provano i dissidi che scoppiarono nuovamente sotto il regno del figlio, Enrico VI, che aveva cercato di imporre il diritto di successione dinastica all’Impero abbandonando il criterio elettivo. In cambio aveva proposto ai principi tedeschi la quasi completa libertà di lasciare in eredità i propri feudi in linea maschile e femminile. Dopo una prima adesione al documento imperiale i principi tedeschi rifiutarono definitivamente il patto di Enrico e mantennero il diritto di scegliere il futuro imperatore. Enrico VI aveva guadagnato tuttavia una posizione di forza quando prese in moglie nel 1186 l’ultima erede dei re normanni, Costanza d’Altavilla, dalla quale ebbe un figlio chiamato Federico Ruggero (poi Federico II). Nonostante le ribellioni in Sicilia e l’elezione del 1190 di un anti-re nella persona di Tancredi conte di Lecce, Enrico riuscì a entrare a Palermo nel 1194 e fu eletto re di Sicilia. Il figlio Federico si trovò così a ereditare nello stesso momento il regno di Sicilia e il titolo imperiale (quindi re di Germania e d’Italia). Carica che non ricoprì subito considerando che aveva tre anni quando il padre morì nel 1197. 5.6 Il regno di Sicilia Costanza d’Altavilla era l’ultima esponente della famiglia che più aveva contribuito a conferire una patina di unità alla multiforme presenza dei cavalieri normanni sbarcati nell’Italia meridionale intorno al 1013- 1016. I cavalieri normanni si erano insediati nelle regioni meridionali dell’Italia nei primi decenni del XI secolo per mettersi al servizio dei principi Longobardi come mercenari. Un gruppo riuscì a stabilirsi ad Aversa nel 1030 e a impadronirsi del principato di Capua nel 1058. Altri gruppi si espansero in Campania, Calabria, Puglia, costruendo le basi di un potere locale disperso ma con tendenze egemoniche regionali assai ambiziose. Fu un processo lungo e ci vuole almeno un secolo prima di poter parlare di un “regno”. Il controllo esercitato sui territori da questa aristocrazia militare fu violento e inedito: i normanni anche la carica di conte (che era laica, ma detenuta da un ecclesiastico). Il vescovo rappresentava l’unità spirituale e politica della città, ma era al contempo un grande signore feudale, con interessi economici da tutelare: doveva inquadrare i suoi vassalli in una clientela stabile, fornirli di terreni come ricompensa della loro fedeltà e venire a patti con loro. Le famiglie di tradizione militare, legati al vescovo, trovavano nel servizio feudale uno sbocco politico ed economico necessario per mantenere il prestigio della dinastia, ma non rinunciavano ad ampliare la propria potenza privata con frequenti usurpazioni di terreni di proprietà vescovile. I conflitti interni erano quindi frequenti e contrassegnarono la vita interna delle città italiane per lungo tempo. Gli imperatori nella prima metà dell’XI secolo intervennero più volte a favore dei vescovi. Nella città si muovevano gruppi sociali diversi in grado di condizionare il governo del publicum – la sfera pubblica e collettiva della vita dei cittadini – e anzi questo publicum si configurava come un coacervo di alleanze e di cooperazioni forzate fra il vescovo, le famiglie militari, e i cives, un insieme indeterminato di abitanti politicamente attivi. In molte realtà urbane, per esempio, i cittadini erano gli abitanti di estrazione non militare, distinti secondo livelli di ricchezza e di mestiere. La parte alta della cittadinanza era composta da alcune categorie di professionisti distinti dai semplici abitanti: giudici, avvocati, notai, grandi mercanti. I giudici davano forma ai governi cittadini, fornendo regole di funzionamento, fornendo giustificazioni del potere decisionale del vescovo, fornendo assistenza nei tribunali episcopali. Al ceto dei giuristi si affiancavano i mercanti, i cambiatori (coloro che valutavano e cambiavano le monete), i prestatori di denaro. Questi costituivano un ceto tecnico ormai necessario per il governo della città, in cerca di un ruolo politico più attivo. Al di sotto si trovavano tutti gli abitanti senza particolari qualifiche , soggetti al potere del vescovo, esposti alle angherie dei suoi vassalli, ma capaci di farsi sentire come corpo collettivo nelle assemblee pubbliche che dovevano ratificare le decisioni più importanti. Questo groviglio di interessi divergenti trovava nel vescovo un punto di raccordo relativamente stabile. Nei momenti di conflitto, era lui a risolvere le liti e imporre la pace, spesso con giuramenti collettivi che impegnava tutti gli abitanti al rispetto della tregua. Chi la rompeva, si poneva contro la comunità e veniva bandito. Nel corso dell’XI secolo le città crescevano per numero di abitanti, per attività economiche, per rilievo culturale e soprattutto per l’importanza delle decisioni politiche che venivano prese nelle assemblee e nel palazzo episcopale. Le città divennero centri decisionali che regolavano sempre di più la vita delle persone, anche nel contado. Proprio l’aumento delle funzioni di coordinamento economico e politico, fece sì che si creò una nuova istituzione che si occupasse specificatamente del governo urbano. Fra il 1090 e il 1120 circa, compaiono in quasi tutte le città italiane dei magistrati chiamati “consoli”. Era un nome evocativo che rimandava al momento glorioso della Repubblica romana. Il consolato medievale era molto diverso da quello romano: era formato da un numero variabile di membri, da quattro a sei o superiore, che si riunivano in genere nel palazzo del vescovo, a sottolineare una dipendenza dal potere episcopale almeno nella fase iniziale; inoltre provenivano spesso da famiglie di suoi vassalli, dalla media e alta aristocrazia urbana, con l’apporto determinante del giudice. Questa estrazione sociale condizionò a lungo le scelte di governo, a difesa degli interessi delle classi alte. Rimasero comunque delle somiglianze con il modello antico, come la durata annuale della carica, per evitare una permanenza troppo lunga delle stesse persone nelle istituzioni cittadine; e soprattutto il carattere elettivo della nomina, che si contrapponeva al semplice prevalere dei più forti. In Francia e in Germania i consoli venivano nominati da un’autorità superiore, mentre in Italia erano scelti da un organo collettivo della città, l’assemblea generale dei cives, detta concio. Nel corso degli anni si creò un “consiglio cittadino”, formato da un centinaio di persone, in grado di affiancare i consoli nelle scelte più importanti. Lentamente prese piede una politica di tipo parlamentare: in consiglio si potevano infatti avanzare richieste, discutere le decisioni, contestare anche l’operato dei consoli, eleggere i consoli futuri. Nel corso dei primi decenni del XII secolo si iniziò a far approvare gli atti dalla maggioranza del consiglio, una decisione storica per le istituzioni dell’età moderna. Era questo il fondamento della libertà delle città italiane: l’autonomia di scelta dei propri governanti e le decisioni politiche legittimate dalla maggioranza di un’assemblea cittadina eletta dagli stessi cives. Fra i cittadini e le istituzioni si stabiliva un legame diretto, rafforzato da un giuramento reciproco dei consoli verso la città e dei cives verso i consoli. Era un patto che legittimava i nuovi magistrati ad agire come rappresentanti ufficiali della comunità , a imporre un ordine delle relazioni sociali garantito da strumenti coercitivi come il bando, e a regolare la vita economica della collettività. Questi elementi mostrano come le città fossero consapevoli della propria struttura istituzionale. Fu un processo di maturazione anche sul piano culturale e lessicale, come mostra la comparsa, alla fine del XII secolo, della parola “comune”. Nato come aggettivo, “di tutti”, assunse nel tempo una connotazione politica che lo trasformò in sostantivo, “ciò che è comune”. Nasce così un nuovo vocabolario politico. 6.2 Le funzioni di governo: giustizia, economia e controllo del territorio Tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo le città italiane affrontarono una serie di sfide importanti:  l’aumento demografico, con flussi migratori che portavano in città persone di vari livelli sociali;   l’ampliamento delle zone abitate, con la creazione dei sobborghi, i nuovi quartieri poco fuori la prima antica cinta muraria;  l’inserimento sociale dei nuovi arrivati, da integrare giuridicamente e politicamente con il resto della cittadinanza;   la richiesta dei nuovi ceti urbani di ampliare gli spazi di partecipazione politica e di riformulare le istituzioni secondo differenti equilibri sociali. La crescita delle città portava con sé nuove tensioni. Le liti per il possesso della terra, i conflitti di lavoro fra artigiani e mercanti, incomprensioni fra immigrati e cittadini, creavano continuamente occasioni di scontro. Il consolato riuscì a risolvere questi conflitti senza ricorrere alla violenza. La giustizia divenne una funzione prioritaria della nuova magistratura: per molti storici il vero inizio del Comune come istituzione va individuato proprio nell’atto di nascita di tribunali cittadini. Si instaurarono delle corti comunali, aperte a tutti, dove era possibile presentare lamentele e ottenere giustizia dopo un processo, mentre gli atti di vendetta furono considerati un reato grave contro la pace pubblica. La giustizia inoltre aiutava a contenere la conflittualità sui beni (terreni e case); consentiva ai più deboli di accedere a un tribunale in caso di dispute contro i potenti; infine, rendendo pubblica una lite, si evitava la riproduzione di atti violenti. Un altro compito fondamentale riguardava il mantenimento dell’istituzione comunale, un problema economico e politico al tempo stesso. Il comune e la città avevano bisogno continuo di finanziamenti, di entrate garantite da un costante afflusso di denaro da parte dei cives. Bisognava convincere i cittadini a pagare le tasse senza dar loro l’impressione di essere sudditi. Le imposte in città erano sempre straordinarie, a differenza del contado dove erano invece ordinarie, vale a dire raccolte ogni anno come segno di dipendenza dalla città. Pagare le tasse da liberi doveva essere considerato un privilegio, e quindi i pagamenti dovevano essere giustificati come necessaria contribuzione di tutti alla salvezza della patria . Essere cives era anche un dovere, liberamente assunto nel momento in cui si voleva abitare in città; e la traduzione materiale di questo dovere era appunto la contribuzione volontaria, ma allo stesso tempo doverosa, alle necessità finanziarie del comune. Strade, edifici pubblici, e soprattutto le mura (l’opera edilizia più impegnativa), assorbirono gran parte delle entrate, legando sempre di più la condizione giuridica di cittadino al pagamento delle imposte pubbliche: chi non pagava perdeva la qualifica di cives e la protezione pubblica della sua persona e dei suoi beni. Anche l’amministrazione economica si rivelò un compito fondamentale dei consoli. Con l’aumento della popolazione era necessario assicurare l’arrivo del grano in città, organizzare i mercati urbani, e anche disciplinare le attività produttive. Compiti questi che richiedevano non solo competenze tecniche nuove, ma anche un controllo del territorio circostante. Lo stretto legame della città con il contado fu una delle principali conseguenze dell’affermazione del sistema comunale. Il rapporto con il territorio, indebolito nei decenni seguiti alla caduta dell’Impero carolingio, era rimasto comunque vitale grazie all’opera di coordinamento assicurata dal vescovo. Nel XII secolo i comuni progettarono di estendere il loro potere sull’intero territorio diocesano come naturale conseguenza della superiorità politica del centro urbano rispetto al territorio. Naturalmente i consoli sapevano bene che il controllo effettivo e capillare delle dominazioni locali era di fatto irrealizzabile; si cercò piuttosto di ottenere un potere di coordinamento sul territorio circostante la città. Con i signori disposti ad allearsi, mettendo a disposizione del comune le proprie fortezze, si raggiunsero dei compromessi onorevoli. Molti di questi divennero cittadini e iniziarono una nuova vita politica come esponente di spicco del Comune. In alcuni casi gli stessi signori, una volta donato il castello al Comune, lo ricevevano in feudo dai consoli conservandone il controllo. Solo in alcuni casi si ricorse alla forza, assediando i castelli dei signori ribelli. Numerosi privilegi furono concessi alle comunità di villaggio che si sottraevano al dominio di un signore. Gli abitanti furono dichiarati liberi, sottomessi alla città e in alcuni casi trasferiti in altri luoghi con un nuovo nome. Molti di questi nuovi centri, chiamati villefranche o villenove, avevano una condizione giuridica ibrida: gli abitanti erano considerati cives, ma con forme di dipendenza rurale verso il Comune di pertinenza. Quando era possibile infine il Comune comprava direttamente i castelli. Rimasero comunque fuori ampie zone di territorio in mano alla nobiltà militare, che in alcuni casi riuscì a costruire dei veri e propri principati, territori sottomessi alla dinastia con una piccola capitale. Insomma, l’Italia medievale non si presentava come un compatto mosaico di città. Tuttavia, all’inizio del XIII secolo alcune tendenze erano chiare. Per esempio, la rilevanza politica ed economica delle città sul mare, le cosiddette “repubbliche marinare”: Genova, Pisa, Venezia (Amalfi era di minore importanza nel XII secolo) erano diventate grandi empori commerciali, ma anche centri con forti istituzioni cittadine, consolari le prime due, già orientata verso un modello regale Venezia, che era governata da un doge. Pisa e Genova si lanciarono alla conquista del Mediterraneo occidentale, creando colonie nei principali approdi del tempo, dalle coste nordafricane alla Sicilia. Inoltre, una lotta lunga e violenta contrappose le due città per il dominio sulla Sardegna e la Corsica. Anche Venezia, delle tre forse la più dinamica e la più ricca, costruì un ampio dominio sull’Adriatico e sui porti d’Oriente usando sapientemente forza militare e penetrazione economica. Milano appariva già una città di indiscussa supremazia politica ed economica nella regione padana. Dopo le campagne militari contro le città vicine, Milano divenne il terminale dei traffici commerciali tra l’Italia e l’Impero, con un centro politico fortissimo. Le città emiliane, Piacenza, Parma, Reggio, Modena, Bologna, si erano avvantaggiate dalla ripresa dei commerci lungo il Po e la via Emilia. Le città crescevano a ritmo sostenuto, soprattutto Bologna, sede della prima università italiana, anche se i territori del contado non erano molto ampi e una piccola nobiltà di castello rendeva la vita politica interna alquanto agitata. La Toscana aveva molte città con territori piuttosto grandi, in perenne lotta fra di loro: Pisa, Siena, Arezzo, Lucca e Firenze (ancora piccola nel XII secolo: il boom si ebbe nel secolo successivo) si combattevano per definire i propri confini territoriali. In Umbria e nelle Marche le dimensioni dei centri urbani erano di taglia minore. Nel corso del XII secolo le città dell’Italia centro settentrionale divennero comuni, sperimentarono le stesse forme di governo e usarono un medesimo linguaggio politico. A favorire questa omogeneità del sistema politico comunale concorsero vari fattori: la circolazione di uomini e di idee fra centri urbani regionali e comuni minori; la spontanea diffusione di forme assembleari di autogoverno nelle comunità rurali, la funzionalità della forma consolare per governare città diverse. Infine, e soprattutto, la necessità di fronteggiare l’Impero nei decenni fra il 1154 e il 1183, sotto il regno di Federico I Barbarossa. 6.3 Le città italiane alla prova della guerra: lo scontro con Federico Barbarossa L’importanza del periodo federiciano consiste in questo processo di definizione politica delle istituzioni comunali contro l’imperatore. All’inizio del conflitto ci fu un’incomprensione reciproca, una distanza fra modelli di comportamento che rendeva difficile il dialogo fra la cancelleria imperiale e i comuni lombardi. Le città secondo la concezione dell’imperatore dovevano essere tutte sottomesse, la cavalleria una casta chiusa e riservata solo ai nobili, gli artigiani un ceto inferiore senza diritti politici. Il casus belli fu quando Federico Barbarossa ricevette due ambasciatori di Lodi dopo che la loro città era stata attaccata da Milano. Federico convocò i consoli milanesi ritenendoli colpevoli di aver offeso il potere imperiale, dato che solo l’imperatore poteva distruggere e rifondare una città. Dopo che i milanesi provarono a convincere l’imperatore a concedere loro il dominio sulla città conquistata, Federico dichiarò guerra, arrivando a saccheggiare Milano il 7 settembre 1158. Iniziò una guerra che durò per quasi un trentennio, e che coinvolse tutto il mondo comunale italiano. Molti comuni infatti sentirono minacciata la sopravvivenza della loro istituzione. Nella dieta del 1158 a Roncaglia Federico infatti proclamò il principio che ogni potere discendeva dall’imperatore e richiese ufficialmente la restituzione di tutti i diritti regi usurpati dalle città: le tasse regie, il potere di elezione dei consoli, tutte le imposte sulle opere pubbliche. Di fatto svuotava il potere dei consoli e privava i comuni delle risorse. Dopo la distruzione di Milano, Federico impose alle città ribelli dei rettori di nomina imperiale, i cosiddetti podestà imperiali. Il governo di questi podestà è ricordato come violento e dispotico: i podestà si distinsero per la rapacità con cui raccoglievano le tasse da destinare alla guerra. Il tema fiscale divenne subito un campo di scontro vitale per le città italiane, perché gli esborsi di denaro venivano richiesti a tutti i cittadini e non restavano nelle casse comunali. I cittadini quindi tornarono ad essere sudditi, con limitate libertà politiche. Quando nel 1162 Federico attaccò una seconda volta Milano, radendola al suolo, tutti i comuni si misero in allerta. Gran parte dei comuni del centro nord, anche quelli inizialmente alleati dell’imperatore, iniziarono a vedere nel governo imperiale una minaccia grave alla propria autonomia. Anche le città venete iniziarono a reagire, creando una lega di comuni alleati impegnati a prestarsi aiuto in caso di attacco. L’idea fu ripresa dalle città lombarde che nel 1168 crearono la Lega Lombarda: fu un’alleanza tattica di città, alcune in conflitto fra loro, che sospendevano le ostilità per difendersi da un pericolo maggiore, il dominio imperiale, che rischiava di minare le basi della politica cittadina. Vi aderirono anche Milano e Lodi, le due città il cui conflitto diede inizio alla guerra contro l’Impero. La Lega era governata dai rettori, eletti da tutte le città ; aveva un tribunale per risolvere le controversie fra i comuni; coordinava sul piano militare le azioni delle singole città, spostando eserciti e aiutando i membri in difficoltà. La Lega diffuse anche fra tutti i comuni alleati un modello unico e coerente di città comunale , governata da consoli eletti, gravitante sul territorio di pertinenza del comune intoccabile da parte delle altre città. L’alleanza con il Papa Alessandro III rafforzò la natura ideologica della Lega, che diventava il baluardo della libertà delle città italiane contro il tiranno Federico Barbarossa. Sul piano militare furono molto più efficaci le azioni di disturbo delle armate italiane contro quelle imperiali, che gli scontri in campo aperto. Sebbene Federico avesse il titolo di imperatore, le sue risorse erano limitate: ad ogni spedizione militare, doveva convincere i principi tedeschi a fornire uomini per l’esercito e non sempre questi erano disposti a concederli. Federico iniziò a concedere sempre più benefici negando nei fatti l’idea di un governo monarchico totalizzante. Nel 1176 avvenne il celebre scontro di Legnano in cui i comuni lombardi riuscirono a sconfiggere l’esercito imperiale. Fu una vittoria modesta sul piano militare, ma formidabile su quello della propaganda politica. Aiutati anche dalla Chiesa di Roma, i comuni lombardi usarono Legnano come “sanzione divina” della loro giusta lotta contro il tiranno. La parola libertà divenne il manifesto di questa rappresentazione e per la prima volta assunse il significato politico di “non dipendenza dall’imperatore”. Nel 1177 il Papa riuscì a strappare all’imperatore una tregua di cinque anni (la pace di Venezia), e allo scadere del termine, nel 1183, si raggiunse la pace di Costanza tra l’Impero e le città. La pace di Costanza è un documento interessante, soprattutto per le diverse interpretazioni che ricevette dai protagonisti del tempo. Federico Barbarossa la intendeva come una grazia imperiale, un atto di generosità con cui consentiva alle città di continuare a godere dei diritti pubblici, dopo una formale concessione imperiale. Le città invece ne fecero la loro “carta costituzionale”, una sorta di riconoscimento di fatto delle istituzioni consolari come forma di autogoverno delle città. Da allora le istituzioni comunali non furono più messe in discussione e Federico pose fine alle guerre d’Italia. L’imperatore si dedicò a imprese più gloriose, come la crociata e la liberazione di Gerusalemme (riconquistata nel 1187). Partì nel 1188 e poco dopo trovò la morte attraversando un fiume. Per le città italiane, la fine del pericolo imperiale fece emergere nuovi conflitti politici e sociali. Gli anni della guerra avevano richiesto un grande sforzo collettivo da parte della cittadinanza non solo in termini economici, ma anche in termini di impegno personale. Il grosso degli eserciti comunali era composto da soldati senza cavallo, vale a dire normali cittadini che lasciavano la propria attività per combattere sotto il comando di una cavalleria aristocratica. Dopo aver combattuto per il comune, questi chiedevano un Anche i regni dovettero convivere con conflitti profondi. La forma monarchica si sviluppò enormemente nel Trecento e ancora di più nel Quattrocento, sia sul piano morale e ideologico sia su quello istituzionale; ma fu proprio questo il periodo in cui più forte si fece la resistenza ai re e più violenta la lotta delle fazioni per il dominio sui regni. Alcuni regni superarono la crisi grazie alla forza delle istituzioni centrali; in altri la nascita di istituzioni rappresentative permise ai re di negoziare le decisioni politiche con le forze sociali locali; quasi ovunque fu necessario integrare una parte della nobiltà principesca concorrente e in qualche forma di governo condiviso del regno. In sostanza, la monarchia si salvò grazie alla sua flessibilità, alla sua capacità di adattamento alle situazioni più diverse e alla scelta di condividere il governo del regno con le élite regionali più dinamiche: dalla nobiltà signorile, ai ceti dirigenti delle città. Nelle campagne e nelle città si avviò una profonda trasformazione dei rapporti sociali. Nuovi assetti proprietari e nuove forme contrattuali si diffusero fra il Trecento e il Quattrocento nelle campagne, già duramente colpite dalle crisi di carestia e dalla peste del 1348. La massa di lavoratori non proprietari si scontrò spesso con i poteri politici ed economici delle città europee, generando ribellioni violente e repressioni feroci. In molte regioni europee, la condizione contadina peggiorò sensibilmente. Le crisi ripetute portarono in alcuni casi i ceti eminenti e i governi a elaborare nuove strategie di contenimento della povertà. Istituzioni caritative, ospedali, confraternite si impegnarono in una diffusa opera di redistribuzione di una parte dei profitti in forme organizzate di carità pubblica. Il controllo della povertà divenne un segno esplicito di sensibilità religiosa verso i deboli, una sorta di redenzione in terra per le ricchezze accumulate. Capitolo 1 Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della Chiesa (1215-1378) La vasta costruzione dottrinale e pastorale elaborata negli anni successivi alla riforma dell’XI secolo, fu sistematizzata sotto Innocenzo III nel concilio ecumenico tenutosi nel 1215 a Roma, in Laterano. Il concilio lateranense disciplinava e rinnovava la procedura giudiziaria interna alla Chiesa, la lotta agli eretici, le pratiche pastorali da seguire nelle diocesi, inquadrando queste regole in un sistema istituzionale sempre più centrato sulla figura del Papa come guida spirituale e politica dell’intera cristianità. La curia pontificia di Roma divenne un vero centro di potere e di controllo della vita religiosa delle diverse diocesi europee. Il concilio lateranense promulgò anche due canoni che cercavano di dare una forma ai nuovi movimenti religiosi nati nei primi anni del Duecento. Soprattutto i due principali ordini mendicanti – così chiamati perché avevano rinunciato alle ricchezze e ai possessi sostenendosi con il lavoro e le elemosine –: i predicatori, fondati da Domenico di Caleruega, e i minori, seguaci di Francesco d’Assisi (più tardi chiamati domenicani e francescani). La nascita e la rapidissima diffusione dei due ordini rappresentò una delle maggiori novità nella vita religiosa delle società europee. Essendo loro difensori della fede e devoti servitori del Papa di Roma, esercitarono anche ruolo di inquisitori. L’eresia divenne infatti un campo di tensioni fortissime nel mondo politico-religioso del tardo Medioevo. Da un lato esisteva l’eresia religiosa, quella perseguitata dagli inquisitori; dall’altro il reato di eresia fu applicato alla politica: l’infedeltà politica divenne anche infedeltà religiosa. Il ricorso spregiudicato all’eresia per salvare la Chiesa dalle resistenze dei fedeli ribelli mise il papato del XIV secolo in una crisi politica senza precedenti. Prima lo scontro fra Bonifacio VIII e il re di Francia nel 1303, culminato con un processo per eresia intentato contro il Papa ormai defunto; poi l’abbandono di Roma e il trasferimento del papato ad Avignone per un settantennio (1307-1378). E infine, dopo il primo tentativo di riportare la sede a Roma nel 1378, uno scisma fra un papa romano e un antipapa francese che divise in due l’Europa per un cinquantennio. I regni europei non accettavano più inquadramenti dall’alto, neanche sul piano religioso come pretendeva la Chiesa di Roma. Proprio la lotta tra papi romani e papi francesi mise in luce il carattere nazionale delle chiese che sempre di più ubbidivano a logiche locali nelle loro scelte. 1.1 La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato Il concilio lateranense riassumeva un’intera stagione di riforme ed innovazioni istituzionali che riguardavano in primo luogo il governo della Chiesa. Sotto Innocenzo III fu approvata la procedura inquisitoria contro i chierici, sottomettendo tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica al potere di inchiesta del Papa; fu stabilito l’obbligo di scrittura degli atti giudiziari , e fu permesso durante i processi il ricorso alle testimonianze e alle prove scritte. Andare in chiesa divenne un segno di adesione esplicita alla comunità dei fedeli, mentre disertare le funzioni religiose era considerato un atto di rifiuto che meritava l’esclusione degli spazi sacri. Tutte le posizioni eterodosse, giudicate errate da un tribunale ecclesiastico, furono condannate con la scomunica, l’espulsione del colpevole dalla comunità, il sequestro dei beni, il divieto per i figli di ereditare i possedimenti di una persona scomunicata : una vera morte civile, aggravata in alcuni casi dall’eliminazione fisica. Il concilio fu guidato direttamente da Innocenzo III, che aveva redatto di persona la maggior parte dei canoni approvati, lasciando all’assemblea dei vescovi il ruolo di ratificare i documenti. Era un riconoscimento aperto del grande potere assunto dal pontefice romano nelle decisioni che riguardavano lo Stato della Chiesa, vale a dire il suo assetto istituzionale. Verso la metà del Duecento, le correnti di pensiero a favore del pontefice si concentrarono sulla natura giuridica di questo potere, formalizzando la concezione di una potestà assoluta del Papa. Il cambio di titolazione da vicario di San Pietro a vicario di Cristo voluto da Innocenzo III andava già in questa direzione: il titolo di vicario di Cristo sottolineava infatti l’origine divina delle prerogative papali, che non potevano essere messe in discussione da persone o istituzioni terrene. Nella metà del Duecento vennero inoltre distinti un potere ordinario del Papa, che era in accordo con le leggi, e un potere assoluto, cioè superiore alle leggi stesse, che il Papa poteva esercitare in caso di necessità e per il bene della Chiesa. La necessità e il bene collettivo dipendevano dalla valutazione personale dei singoli pontefici. Bisognava quindi sostenere che il Papa avesse qualità superiori in virtù del ruolo che ricopriva. I teorici arrivarono a sostenere che il Papa non poteva sbagliare, era infallibile. La pretesa del Papa di governare sulle istituzioni ecclesiastiche fu rafforzata assegnando ulteriori incarichi ai legati apostolici . Sotto Innocenzo III, i legati divennero dei veri rappresentanti plenipotenziari del Papa soprattutto per le questioni interne alla Chiesa; anzi, definendo il legato papale “un altro Papa” sancirono ufficialmente la sua superiorità rispetto ai vescovi locali. Nel corso del Duecento i pontefici cercarono in ogni modo di mettere sotto controllo l’elezione dei vescovi, i loro patrimoni e si riservarono il potere di trasferirli da una sede all’altra . Le tensioni generate dai contrasti fra il Papa e i vescovi durarono a lungo e diedero vita a una vera e propria corrente politica chiamata “conciliarismo” che affermava la superiorità del concilio dei vescovi sul Papa. L’accentramento dell’autorità nella figura del Papa richiese un notevole sforzo organizzativo della curia romana. La curia romana cercò di articolare meglio le funzioni di governo del Papa che si muoveva ormai in uno spazio d’azione europeo, soprattutto in due settori: quello finanziario, con l’afflusso delle decime da tutto il mondo cristiano, e quello giudiziario, con un numero crescente di cause che giungevano a Roma per essere risolte dal Papa. Questo secondo aspetto fece sì che la curia romana divenne la più importante sede giudiziaria dell’Occidente medievale, la sola di natura veramente internazionale che riceveva richieste da tutte le diocesi europee. Il controllo sulla gerarchia episcopale divenne ancora più assiduo quando si perfezionarono due fondamentali strumenti di governo: i peccati riservati al Papa, vale a dire i peccati dei quali solo il pontefice poteva assolvere; il potere di concedere una dispensa, un esonero, dall’osservanza di alcune norme canoniche, secondo il principio che solo il legislatore che aveva fatto la legge poteva sciogliere dal rispetto della regola. 1.2 Nuove forme di religiosità monastica: gli ordini mendicanti In quest’epoca assistiamo ad una moltiplicazione di esperienze di fedeli laici che sperimentavano forme diverse di vivere il messaggio cristiano. Un fenomeno a cui la Chiesa guardava con sospetto e interesse. Due furono i movimenti religiosi destinati a cambiare la struttura della Chiesa medievale: i predicatori fondati da Domenico di Caleruega e i minori fondati da Francesco d’Assisi , chiamati ordini mendicanti. Proponevano un modello di vita vicino alla povertà del Vangelo, fondato sulla rinuncia ai beni, sul lavoro come sostentamento, sulla carità e sulla predicazione aperta a tutti nelle piazze. Questa rinuncia tipica del monachesimo tradizionale (i mendicanti non erano monaci, ma frati) li rese più credibili come pastori e come guide spirituali. Grazie alla capacità di trovare seguaci e di farsi ascoltare dalle popolazioni urbane, i mendicanti riuscirono a svolgere un ruolo di mediazione con la Chiesa. Da un lato furono in grado di mantenere nell’ortodossia una gran parte dei fedeli più critici verso le ricchezze della Chiesa istituzionale; dall’altra divennero uno strumento di controllo delle coscienze e di repressione dell’eterodossia di tutte le sue forme. Ai due ordini, ormai inseriti pienamente nel corpo istituzionale della Chiesa come predicatori e come confessori, fu affidata l’Inquisizione contro l’eresia, un tribunale speciale contro i crimini ideologici e politici che si sovrappose alla normale giustizia vescovile. L’origine dei frati predicatori (più tardi detti domenicani) è strettamente legata alla lotta antiereticale, che fu condotta intensamente in Francia meridionale agli inizi del Duecento sotto l’impulso di Innocenzo III. Fu qui che Domenico si rese conto che la predicazione dei frati cistercensi, da tempo abituati a un’aperta ostentazione di potere e poco inclini alle controversie dottrinarie, era spesso inefficace. Il movimento di eretici che si trovavano ad affrontare si basava su un’accesa contestazione dei poteri sacramentali della Chiesa. Gli eretici conoscevano il Vangelo e praticando una povertà densa di richiami spirituali al primo cristianesimo, come la condivisione dei beni e la vita in comunità. La contestazione di una Chiesa potente e ancorata all’egemonia signorile trovava sempre più ascolto nelle popolazioni locali. Domenico ebbe l’intuizione di unire una predicazione esemplare con una predicazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie degli eretici. Esemplare per Domenico significava che il predicatore doveva essere di esempio, facendo propri quegli ideali di povertà e di semplicità che chiedeva la popolazione. Domenico scelse così di presentarsi vestito umilmente, a differenza dei cistercensi, e di accettare il confronto con tutti, cercando di persuadere i fedeli che la povertà non era in contrasto con la fede ed era possibile anche all’interno della Chiesa cattolica. Domenico riuscì a organizzare un primo gruppo di seguaci che aumentò nel corso degli anni Venti e Trenta del Duecento. Il nuovo ordine fu approvato nel 1216 e poco dopo ne furono redatte le Costituzioni, che definirono le forme di vita in comune (simili a quelle dei primi cistercensi): promozione della povertà individuale e dell’elemosina come sostentamento, intensa attività di predicazione in accordo con i vescovi locali, vita in comune nei conventi, formazione di un capitolo che doveva eleggere un maestro generale dell’ordine. Caratteristica principale dei predicatori fu la formazione culturale richiesta ai nuovi frati, necessaria per contrastare con argomenti teologici corretti le teorie degli eretici. Una formazione scolastica e poi universitaria fu da subito un criterio necessario per entrare nell’ordine. Nei conventi doveva esserci anche un insegnante di teologia per i giovani monaci e lo studio era parte integrante della vita conventuale. L’origine dei minori è legata indissolubilmente alla figura di Francesco d’Assisi, nato nel 1182 da un agiato mercante di Assisi, e lentamente convertito a una vita religiosa che presentava fin da subito caratteri di spiccata originalità. Nel Testamento, scritto alla fine della sua vita nel 1226, Francesco pose come inizio della sua conversione l’incontro con i lebbrosi. Bisognava iniziare dagli ultimi e scorgere in tutte le forme di emarginazione una traccia della presenza di Cristo. Fu un’intuizione fecondissima, che animò la scelta di povertà assoluta e di rinuncia a tutti i segni di potere che Francesco abbraccio subito dopo l’incontro con i lebbrosi. Tra il 1207 e il 1208, iniziò la predicazione itinerante con i primi fratelli, portando il suo messaggio e il suo esempio nelle regioni dell’Italia centro settentrionale. La regola di San Francesco del 1221 presentava alcuni punti fissi dell’ordine: i frati dovevano rinunciare a tutti i beni, donarli ai poveri, vestire semplicemente di una tunica di panno vecchio, lavorare sempre per fuggire l’ozio, non avere possessi individuali ne comuni ed evitare in tutti i modi il contatto con il denaro. Non era una fuga dal mondo, né una critica di natura sociale all’invadente uso del denaro nelle città mercantili, né tantomeno un attacco alla Chiesa ricca e potente di Roma. La povertà per Francesco aveva due dimensioni: una esterna, che prevedeva la rinuncia totale alle cose materiali e al possesso; e una interna, che richiedeva la rinuncia alla propria interiorità per consentire a Dio di entrare nell’animo umano e di portarlo verso la salvezza. Un patto che si rinnovava mediante l’eucarestia, il sacramento fondamentale della spiritualità francescana. Per questo, in tutti i suoi scritti, Francesco predicava la penitenza e l’eucarestia come compimento naturale del percorso di salvezza del fedele e obbligava i suoi frati al rispetto assoluto per i sacerdoti investiti della funzione indispensabile di amministrare i sacramenti. Tuttavia, i conflitti interni ed esterni all’ordine crebbero. L’ordine doveva essere inquadrato in un sistema di regole comuni, anche se i confratelli faticavano a seguire una spiritualità così alta come quella proposta da Francesco. Nel 1220, con un gesto che ancora oggi gli storici faticano a capire, Francesco rinunciò a guidare la fraternità e chiese al Papa un cardinale protettore che si prendesse cura dell’ordine. Ugolino d’Ostia, cardinale di curia (e futuro Papa Gregorio IX) divenne il cardinale di riferimento dei minori e scrisse insieme a Francesco la seconda Regola dell’ordine approvata nel 1223. La seconda Regola era più stringata della prima: prevedeva un’articolazione istituzionale dell’ordine più chiara e soprattutto un controllo maggiore sugli ingressi nell’ordine, per disciplinare lo sviluppo impetuoso della fraternità che contava ormai diverse migliaia di adepti. Negli ultimi anni Francesco accentuò la dimensione mistica della sua ricerca di vita pienamente cristiana. Si ritirò sul monte della Verna e lì ricevette il dono delle stimmate, le ferite sulle mani e sul costato presenti sul corpo di Cristo come riporta nel Testamento. In esso ribadì i punti fermi della sua spiritualità (povertà, penitenza, eucarestia, obbedienza) ma avverti anche la distanza che si era creata fra la fraternità di pellegrini itineranti, e l’ordine, formato sempre più da chierici e impegnato in funzione di governo al servizio del Papa. Nel Testamento chiedeva ai suoi frati di non farsi coinvolgere nelle cose del mondo, di vivere del proprio lavoro in povertà. Francesco morì nel 1226, fu beatificato dopo solo due anni da Gregorio IX, e una basilica immensa fu costruita in suo onore ad Assisi. Il suo culto iniziò prestissimo. Nel 1254 ai minori e ai predicatori fu assegnato l’ufficio di inquisitori contro l’eresia, vale a dire l’apparato repressivo speciale contro gli eretici che coordinava e guidava i tribunali vescovili ordinari delle diocesi europee. Nei decenni successivi l’ordine dei minori tornò a dividersi su innumerevoli temi: sulla natura del messaggio francescano, che non andava interpretato ma vissuto in prima persona; sull’adesione a un modello radicalmente evangelico di povertà, in base al quale l’ordine non poteva possedere nulla; sulle forme organizzative dell’ordine ormai diffuso in tutti i paesi europei. 1.3 I mendicanti e l’inquadramento dei fedeli I minori e i predicatori divennero consiglieri di re e di principi, guidarono le autorità laiche con nuovi modelli di governo ispirati al bene pubblico e si posero come nuovi pastori di anime. Entrambi gli ordini ricevettero il privilegio di predicare, di confessare, celebrare messa e accogliere i morti, in aperta concorrenza con il clero ordinario che si vide minacciato nel monopolio della cura delle anime. Il successo dei mendicanti e dei predicatori fu enorme: erano seguiti da masse di fedeli nelle città e le nuove chiese mendicanti recuperarono lo schema architettonico tardoantico, formato da una basilica a tre navate, per aumentare il numero di fedeli che assisteva alle prediche. L’uso di un linguaggio comprensibile a tutti (le prediche erano in volgare), la semplificazione dei problemi teologici, la capacità retorica di tenere viva l’attenzione attraverso una sapiente distribuzione di emozioni, permisero ai frati di trasmettere ai fedeli modelli di comportamento eticamente positivi, correggendo e integrando i valori correnti nelle società urbane. Predicazione e confessione erano strettamente correlate: si predicava per spingere i fedeli a confessarsi e ci si confessava per essere pronti a ricevere il corpo di Cristo nell’eucarestia. La penitenza era dunque un passaggio necessario per la salvezza. I fedeli spesso non sapevano di peccare e non erano in grado di valutare se quel dato atto era un peccato grave o veniale. Così alcuni manuali iniziarono a presentare elenchi di peccati, o di comportamenti considerati peccaminosi, per istruire sia i preti sia il penitente a riconoscere gli errori da emendare. Il prete poi decideva la gravità della colpa e l’entità della pena. La confessione diventava così un piccolo processo, dove il sacerdote-giudice giudicava la coscienza del fedele. Nel corso del Trecento la confessione si diffuse come pratica corrente del buon fedele – e anche del buon cittadino – come segno di consapevole sottomissione del singolo alla valutazione degli uomini di Chiesa. La partecipazione dei minori all’ufficio dell’Inquisizione fu antecedente al 1254. Solo in quell’anno però venne istituzionalizzato. La procedura adottata dagli inquisitori era chiamata inquisitio ex officio. Nei processi contro gli eretici spesso non era chiaro il capo di imputazione: nella gran parte dei casi infatti non era tanto la fede in un determinato credo a essere punita, quanto la frequentazione del gruppo sospetto, l’adesione alla setta. Dell’eresia importava in primo luogo la rete sociale che la sosteneva, non la dottrina. Questa impostazione prettamente poliziesca fu confermata dalla normativa antiereticale seconda fase, gli aspetti politici prevalsero. Non era solo la presenza degli inglesi a minacciare il regno, ma una spaccatura interna all’alta aristocrazia francese che assunse una dimensione nazionale prima mai raggiunta. La guerra civile era iniziata nel 1392, quando si era aperto un conflitto fra due membri della corte che avevano tentato di influenzare Carlo VI, detto il Folle: da un lato il duca di Borgogna, Giovanni Senza Paura e dall’altro il fratello del re, Luigi duca d’Orleans. Lo scontro scoppiò quando Luigi, con l’approvazione della reggente, impose una nuova tassa, respinta dagli altri principi. Presero allora forma due partiti: gli Armagnacchi, fedeli a Luigi d’Orleans, e i Borgognoni, seguaci del duca di Borgogna, i quali riuscirono a prendere il controllo di Parigi e della Francia settentrionale. Gli orleanisti abbandonarono Parigi e la Francia settentrionale, per creare un regno itinerante nelle regioni centrali. È interessante notare come il conflitto sulla tassazione pubblica fosse diventato un conflitto sulla monarchia: i sostenitori del re erano i sostenitori di un apparato pubblico centrale e potente, e di un sistema fiscale pesante che doveva assorbire risorse del paese per sorreggere il sistema monarchico centrale. Al contrario, il partito dei borgognoni era favorevole a un assetto politico più decentrato, basato su una relativa autonomia dei territori e meno esosa sul piano fiscale. Autonomia dal fisco si traduceva in autonomia dal re, ma anche in divisione del regno in regioni relativamente autonomi. La complicazione divenne massima quando, in seguito al trattato di pace con il quale la Francia era riuscita a raggiungere una tregua con gli inglesi, il re d’Inghilterra Enrico V sposò Caterina, la figlia del re francese Carlo VI. Non solo Carlo VI aveva esautorato l’erede legittimo, il figlio Carlo (poi Carlo VII), ma aveva eletto come successore il re inglese. Alla morte dei due re (Carlo VI Enrico V), l’erede inglese Enrico VI pretese legittimamente di essere eletto re di Francia. Ancora una volta il nodo dinastico è indicatore di una debolezza strutturale dei regimi monarchici, ancorati a un sistema di alleanze matrimoniali non privo di contraddizioni. La minaccia di avere un re straniero fu sfruttata dagli orleanisti, che sostenevano l’altro figlio del re francese Carlo VII. Due partiti e due re: i Borgognoni, alleati di Enrico VI; gli Armagnacchi a sostegno di Carlo VII. In questi anni la guerra assunse un tono fortemente propagandistico, in cui la politica, le lotte di fazione e forse per la prima volta, l’ideologia nazionale confluirono in un grande processo di trasformazione dello Stato francese. Fu in questi anni, tra il 1428 il 1431, che si svolse la parabola di Giovanna d’Arco: una donna condottiera, ispirata dalle voci divine che le indicarono Carlo VII come vero re francese, guidandolo alla vittoria contro gli inglesi e i borgognoni. Autorizzata dal re a portare le armi, Giovanna fu protagonista di miracolosi scontri armati e di riconquiste impossibili di città occupate dagli inglesi. La figura di Giovanna fu subito messa al servizio della propaganda regia, anche dopo il processo e la condanna a morte per stregoneria, eseguita nel 1431 dal vescovo al servizio dei borgognoni (Giovanna fu riabilitato nel 1456 dal legato pontificio che annullò la sentenza del 1431). Nell’ultimo ventennio la guerra con gli inglesi si risolse a favore della Francia: una serie di campagne vittoriose fra il 1449 e il 1453 permisero a Carlo VII di riconquistare alcuni territori in mano inglese, anche se la guerra si spense soprattutto per le divisioni che investirono l’Inghilterra, secondo uno schema molto simile a quello francese: un re pazzo (Enrico VI), due partiti che si contendevano la corona, una lunga guerra civile. Le vicende del successore di Carlo VII, Luigi XI, mostrano bene le contraddizioni dello Stato monarchico francese alla fine del Quattrocento. Luigi, divenuto re (1461-1483), cercò in vari modi di riaffermare la sovranità francese su tutti i principati . Gli si contrappose un fronte composito, da suo fratello Carlo, al duca di Borgogna e i signori di altri principati. Luigi XI mise in atto una spietata repressione giudiziaria, dopo averli accusati di lesa maestà. In questa fase molto dinamica, emergeva lentamente la costruzione istituzionale di un regno ormai radicato nelle sue funzioni di base (la fiscalità, la moneta, la Chiesa, la giustizia, l’esercito, gli ufficiali pubblici) che portò verso un rafforzamento dello Stato. Fu così che tra il 1460 e il 1490 le tante regioni autonome furono inglobate al regno di Francia, tra cui la Bretagna nel 1498. Un mosaico che si ricompose grazie all’applicazione del diritto successorio (matrimoni soprattutto) e del diritto feudale (i principati rimasti senza eredi furono riassegnati al re). • L’Inghilterra Dopo il lungo regno di Edoardo I (1272-1307), i successori misero in evidenza la debolezza strutturale della monarchia: un regno incapace di finanziarsi, impoverito, in mano al potere dei grandi baroni che per decenni attaccarono i detentori della corona; un Parlamento – l’assemblea di nobili, ecclesiastici e rappresentanti dei comuni – molto forte nell’imporre un controllo intorno al re e alla gestione delle finanze regie, ma non altrettanto forte nel proporsi come garante di un assetto istituzionale stabile. La monarchia inglese nel corso del XIV secolo fu segnata da una rapida successione di re deposti, dimessi o uccisi. Nel Quattrocento, nonostante i successi della guerra e le pretese al trono di Francia quasi realizzate (con Enrico V), il vuoto di potere continuò, creando lunghi momenti di assenza di un vero re. Davanti a questo vuoto di potere due erano le forze che potevano aspirare a trovare un ordine: il Parlamento e i Grandi, la nobiltà militare dei pari. Il Parlamento inglese assunse nel Trecento un vero ruolo di controllo e di indirizzo della politica regia. Fu un periodo glorioso della storia parlamentare inglese, ma non risolse il problema della stabilità. Questo perché i baroni, che pure usavano il Parlamento per porre un freno al re, agivano anche da potenti signori locali, favorendo un frazionamento del regno inglese in ducati semi- indipendenti. Nel 1453 questa ostilità fazionaria che mirava alla conquista della corona del regno, si polarizzò intorno al conflitto tra la casa di Lancaster, che aveva a lungo dominato il Parlamento, e quella di York. La guerra, chiamata delle Due Rose, che vide tra l’altro la morte violenta di due re, terminò con l’ascesa al trono di una nuova dinastia, quella dei Tudor (1485). Sul piano territoriale, l’unità dell’Inghilterra è tutt’altro che scontata. Le guerre con la Scozia avevano segnato la prima metà del Trecento senza risolvere la questione in modo definitivo. I re scozzesi riuscirono a mantenere un regno di Scozia separato da quello inglese. Anche il dominio sul Galles era incerto, indebolito da continue ribellioni interne. Per non parlare dei territori in Francia, perduti dopo il 1453. Anche in Inghilterra quindi, la guerra aveva messo a dura prova il sistema istituzionale monarchico. • La Spagna Anche nelle monarchie spagnole il peso delle lotte interne per la corona determinò una serie di cambiamenti a catena delle dinastie e di scontri fra pretendenti . Le vicende dei regni spagnoli rimasero molto legate l’una con l’altra, a partire proprio dal fitto tessuto di relazioni parentali fra i diversi re. La struttura interna dei singoli regni era molto diversificata, poco aperti a una vera unificazione politica. Se in tutti i regni i re dovettero confrontarsi con assemblee rappresentative influenti, le Cortes, la composizione e il ruolo di queste istituzioni variava da caso a caso. In Castiglia, le Cortes non comprendevano i nobili ed erano formate quasi esclusivamente dai rappresentanti delle città. Negli altri regni, le Cortes assunsero un ruolo ben diverso. In Catalogna e Aragona i rappresentanti dei tre ordini del regno – Chiesa, nobiltà e città – ebbero amplissimi poteri sulle finanze e sulla legislazione. Il re di Aragona e di Navarra erano costretti a chiedere consiglio e consenso alle Cortes quasi per ogni cosa, dai tributi alle leggi da approvare. Le Cortes crearono addirittura istituzioni permanenti, le Deputazioni. Le Deputazioni non si limitavano a esercitare poteri di controllo, ma amministravano direttamente alcune funzioni politiche, stipendiavano una milizia e riscuotevano in proprio una tassa sul valore delle produzioni tessili. Questa struttura fu in qualche modo un freno alla formazione di una monarchia centralizzata e di una concezione assoluta del potere monarchico. Un matrimonio e una successione portarono all’unificazione delle corone di Castiglia e di Aragona. Nel 1469 Isabella di Castiglia sposò l’erede al regno di Aragona, Ferdinando, che divenne, insieme alla moglie, re di Castiglia e Aragona. Si trattava di un’unione solo personale delle due corone, ma di fatto l’unificazione di tutta la Spagna, a guida castigliana, si completò nel corso del loro regno, dopo la caduta dell’ultima enclave musulmano di Granada (1492) e l’assorbimento del regno di Navarra nel 1512. Queste vicende mostrano quanto fosse rilevante il peso della vecchia politica dinastica nella costruzione delle monarchie europee e quanto la struttura dello Stato rimanesse ancora in balia dei legami familiari e personali interni all’alta aristocrazia europea. 2.2 L’Impero e i regni dell’est: crisi e flessibilità della forma monarchica Tra il Duecento e il Quattrocento l'Impero perse uno dei suoi pezzi fondamentali, l'unione dei regni d'Italia, di Borgogna e di Germania. La Borgogna era da tempo divisa fra il ducato, vassallo del re di Francia, e la contea, di fedeltà imperiale. L'Italia era formalmente sotto l'Impero, ma Enrico VII fu l'ultimo imperatore a tentare di comprenderla in una dominazione unitaria; ma la sua morte precoce nel 1313 non permise alcuna ricomposizione dei regni. Gli imperatori successivi si concentrarono sulla Germania e sui regni dell’est, che trovarono un assetto stabile solo alla fine del Quattrocento, sotto la dinastia degli Asburgo, detentrice del titolo imperiale fino al 1805. Difficile capire quanto realmente contasse la nozione di Impero nei territori tedeschi del basso Medioevo. Sul piano politico-territoriale incise assai poco. Da un lato, i candidati alla carica di imperatore erano relativamente deboli , dall’altro la natura elettiva del regno garantiva ai principi elettori, ridotti in numero di sette, un potere di intervento diretto nelle vicende politiche della corte. In fondo, la Bolla d’Oro del 1356, concessa da Carlo IV ai principi elettori, concedeva loro la piena autonomia giurisdizionale nei propri territori e un potere di controllo sull’attività imperiale che limitava molto le capacità di comando dei singoli regnanti. Il ruolo guida era assunto dai principi tedeschi, che componevano il Collegio degli elettori. Insignito del potere di eleggere l’imperatore, si impadronì anche del potere di deporre il regnante in caso di necessità. Anche i principi regionali non elettori conservarono sempre un’autonoma linea d’azione. Un esempio è quello degli Asburgo, una famiglia ducale (non elettrice) che era in competizione per la corona imperiale ma allo stesso tempo rivendicava con forza la piena autonomia del Ducato d’Austria dall’Impero. Rodolfo IV d’Asburgo rese pubblico un diploma falso, il “privilegio grande”, in cui si concedeva all’Austria una totale autonomia dall’Impero e che di fatto poneva il duca allo stesso livello dei sette principi elettori. I suoi successori riuscirono ad accedere al trono imperiale. Nel 1439 Alberto d’Asburgo fu eletto imperatore e trasmise la carica al cugino Federico III e questi a suo figlio Massimiliano I, il vero fondatore del nuovo Impero ormai asburgico. I tentativi di legiferare per tutto il regno furono pochi e di scarso successo. Massimiliano d’Asburgo aveva cercato di creare un tribunale imperiale che superasse i diritti locali e di imporre una tassa per tutti i territori del regno, ma suscitò numerose resistenze e non ebbe una reale applicazione. Il nuovo Impero rimase così bipartito fra l’imperatore e i principi. La consapevolezza di essere un regno che era (stato) anche un Impero servì per lungo tempo a legittimare le pretese di espansione che i re germanici continuarono a nutrire nel corso dei secoli. L’espansione verso est divenne il compito della nuova configurazione regia- imperiale del sacro Romano Impero di nazione germanica. Il regno di Boemia era strettamente legato alle sorti dell’Impero, visto che il suo re era stato uno dei sette principi elettori. Il regno di Ungheria fu conteso da alcune dinastie locali e si unì, in momenti alterni, alla Boemia e alla Polonia, ma soprattutto trovò una sua dimensione territoriale ideologica nel XV secolo. La Polonia si era unita con l’enorme ducato di Lituania nel 1386. Nonostante le differenze tra i tre paesi, le vicende della Boemia, dell’Ungheria e della Polonia rimasero strettamente collegate, sia sul piano dinastico sia su quello politico. Le complesse trame dinastico-familiari legarono infatti la regione in una fitta matassa di parentele prima con i principi europei (tedeschi e francesi), e in un secondo tempo, tra le famiglie dei tre regni. In periodi diversi infatti i regni si unirono a due o tre, fino alla dinastia polacca dei Jagelloni in cui furono tutte riunite alla fine del XV secolo fino al 1572. Queste unioni furono possibili perché le aristocrazie dei tre paesi accettarono di delegare una parte del potere regio a una persona esterna al regno. Al sovrano veniva riconosciuto solo un formale coordinamento della politica sovralocale, che non si traduceva nell’adesione a uno Stato centralizzato. La formazione di uno Stato potente ed esteso dall’Asia minore alle regioni balcaniche aveva condizionato moltissimo la natura ideologica e i limiti territoriali dei nuovi regni dell’Europa orientale. Nato da uno dei numerosi emirati presenti nella penisola anatolica, lo Stato ottomano ha avuto una storia lunga e complessa. Le conquiste dell’Anatolia e poi delle regioni bizantine della Tracia e dell’Europa sudorientale furono il risultato di un’abilissima campagna di unificazione politica e militare delle diverse tribù nomadi realizzata dalle élite turcomanne. Una élite nomade, militare ma anche commerciale, che scelse di gravitare verso l’Occidente e il Mediterraneo staccandosi dalle dominazioni dell’oriente musulmano, pur conservando la fede islamica. Fortissima fu infatti la spinta verso la guerra di conquista come guerra santa, almeno a livello ideologico; e altrettanto forte fu la capacità di inglobare i popoli e gruppi sociali diversi riunificati nella stessa struttura politica sovralocale in funzione di una medesima religione. L’espansione ottomana fu inarrestabile dalla metà del Trecento in avanti: stanziati vicino alla capitale, Bisanzio, gli Ottomani si spinsero presto oltre i Dardanelli nella Tracia, per assoggettare gradualmente la Macedonia, la Bulgaria, l’Albania, fino a una parte del regno di Ungheria. La caduta di Bisanzio nel 1453 sotto Maometto II segnò la fine del dominio bizantino e l’inizio di un processo di unificazione politica e religiosa di tutta la regione, con gradi diversi di dominazione e assimilazione religiosa e culturale. La dominazione ottomana si insinuava in profondità nelle terre dei regni europei, e rappresentò per secoli un nemico e una minaccia che alimentava le ideologie religiose dei regni dell’est e dell’Impero e con minor successo una serie di sfortunate crociate contro i turchi. Il fallimento delle crociate riflette uno scontro impari: l’Impero ottomano era uno Stato solidissimo sotto il potere assoluto del sultano, in grado di resistere tranquillamente ai colpi di re europei poco saldi e di un’aristocrazia regionale in cerca di autonomia. 2.3 Il caso italiano: gli Stati regionali dal XIV alla fine del XV secolo Nei primi anni del Trecento le regioni italiane furono soggette a un doppio processo di ricomposizione e di divisione. Da un lato vi fu la riunificazione di molteplici realtà cittadine e comunali in alcuni “Stati territoriali” maggiori, di carattere regionale . Dall’altro lato, questa pluralità di dominazioni regionali non aveva alcun coordinamento centrale superiore, visto che né l’imperatore né il Papa riuscirono a presentarsi come poteri unificanti. Possiamo distinguere tre aree politico-territoriali principali: 1) I grandi Stati regionali principeschi:  il Ducato di Savoia nel Piemonte e nell’area di confine tra Italia e Francia;  lo Stato dei Visconti, tra Lombardia, Piemonte ed Emilia;  lo Stato Estense, che comprende l’Emilia e la Romagna con capitale Ferrara;  lo Stato della Chiesa, dai confini ancora incerti tra Lazio, Marche, Umbria e Romagna. 2)  Le formazioni regionali sotto regimi repubblicani:  la Repubblica di Venezia con la Terraferma (Veneto e Friuli);  la Repubblica di Firenze ,estesa su quasi tutta la Toscana dopo la conquista di Pisa nel 1406;  la Repubblica di Genova. 3)  Le regioni meridionali inserite nei regni:  la Sicilia sotto gli Angioini e poi gli Aragonesi;  il regno di Napoli sotto gli Angioini fino al 1442 e poi unito la corona di Aragona. Rimanevano numerosi piccoli Stati incentrati su singole città rimaste indipendenti e collegate agli Stati maggiori. La dimensione regionale dei poteri territoriali italiani era diversa da quella dei regni europei. La prima generazione di signorie italiane era di fatto dominazioni personali, ancora bisognose di legittimazione dal basso: come la delega formale della carica di rettore dal consiglio comunale, o il prolungamento per dieci o più anni della durata delle magistrature ordinarie, podestà o capitano. Stratagemmi e formalismi istituzionali che nascondevano allo stesso tempo un atto di forza (il sistema si reggeva su una rigida rotazione delle cariche) e un’implicita debolezza (si doveva ricorrere a forme di legittimazione esterne) di queste prime signorie cittadine. Neanche la più forte ed estesa dominazione regionale del XIV secolo, quella dei Visconti di Milano, riuscì a sfuggire all’obbligo di formulare le basi di legittimità del proprio governo. Tutte le maggiori città lombarde si sottomisero a Milano (Pavia, Como, Cremona, Piacenza, Brescia, Bergamo); ma anche città piemontesi (Novara, Vercelli, Alessandria, Asti). In alcuni periodi della storia del Ducato di Milano c’erano anche grandi comuni emiliani come Reggio, Modena, Bologna. I Visconti si presentavano programmaticamente come i restauratori dell’ordine, i salvatori delle città dilaniate dalle lotte civili. I signori non erano piccoli re. Le loro pretese erano poco fondate, i loro atti di potere spesso fuori dai sistemi riconosciuti di derivazione del potere. La teoria del trasferimento del potere dal popolo al signore, che spesso usarono per giustificare il loro dominio, era forzata. L’ampliamento del dominio con la messa in opera di un sistema di ufficiali locali richiese una ristrutturazione delle corti centrali . La costruzione di una sorta di burocrazia centrale faceva progressi ovunque, dai grandi Stati ai piccoli principati. Nascevano nuovi organismi, spesso occupati da giuristi ed esperti di diritto . In alcuni casi i signori puntarono sulla promozione culturale, sostenendo o fondando università di prestigio. La presenza di un personale tecnico di estrazione “borghese” fornì il Dio, non era costretto a giustificarsi. Naturalmente queste posizioni suscitarono reazioni accese. Una corrente assai diffusa in Inghilterra legava il re alla legge. Henry Bracton, il più importante giurista inglese del Duecento, pur attribuendo al re una superiorità rispetto ai sudditi, e la natura quasi divina del suo mandato (era un vicario di Cristo, come il Papa), lo riteneva sottoposto alla legge, “perché è la legge che fa il re, e non c’è il re se non ce la legge”. All’interno di questo sistema, alla Corona spettavano i compiti della giustizia, il mantenimento della pace e altre prerogative che non potevano essere alienate a nessuno. La tradizione inglese conservò questa dimensione di monarchia regolata: il re inglese aveva il potere regale, ma si doveva conformare alla legge, che non poteva cambiare senza il consenso del popolo. La debolezza delle successioni e la fragilità dei re – deposti, uccisi o sdoppiati nel corso dei secoli – favorirono la nascita di un concetto più astratto di regno, qualcosa che potesse rappresentare l’istituzione separata dalla persona. Emerse così la nozione di Corona, come astrazione personificata del regno, investita dei beni e dei diritti pubblici. Questi erano inalienabili e indisponibili, non potevano essere ceduti dal re perché non appartenevano a lui personalmente. In Inghilterra questo processo fu relativamente precoce. In Francia arrivò a maturazione solo nella metà del XIV secolo. La guerra dei Cento anni e il pericolo di avere re stranieri misero in luce una nozione più complessa di regno, inteso come comunità di persone che appartenevano, per nascita, allo stesso paese. La nascita comune era un legame naturale e l’ordine naturale delle cose imponeva che fosse un re francese a governare sul popolo francese. L’aggettivo naturale si diffuse ovunque nella pubblicistica regia perché giustificava una catena di metafore importantissima: naturale era il dominio che il signore esercitava sulla sua terra e che trasmetteva in eredità; naturale era l’erede che succedeva al re legittimo; e naturale era l’esercizio del dominio sulla terra dove era nato e dove risiedevano i sudditi nati in quel luogo. Con il termine naturale si indicava dunque un’obbligazione necessaria e spontanea verso il proprio paese e il proprio signore, che era necessario difendere dagli attacchi esterni. Le dominazioni di re stranieri erano infatti usurpazioni innaturali, potenzialmente eretiche perché i reati contro natura erano un’offesa a Dio. Le correnti filomonarchiche – molto forti in Francia e in Castiglia – insistevano anche sul carattere religioso della missione dei re. Se il potere dei re era di origine divina, era evidente che i re non erano solo fedeli come gli altri, ma persone sacre. In Francia, già nel tardo Duecento, il re fu chiamato “re cristianissimo”, in onore della sua funzione di difesa della fede della Chiesa. Una definizione che giustificava la superiorità del re francese sulle altre autorità a cominciare dall’Impero e dal papato, come dimostrò il conflitto di Filippo il Bello con Bonifacio VIII. Anche i teologi portarono nuova materia alla riflessione sui re. Tutta la manualistica pensata per il buon re, di matrice ecclesiastica, aveva recuperato modelli biblici di re giusti, elevando la giustizia a primo compito del re sulla terra. Giustizia imposta con la spada, ma temperata dalla misericordia, dalla clemenza, dalla protezione dei poveri dei potenti. Il re giusto riequilibrava ineguaglianze sociali e attenuava il rigore della legge umana. Altri autori insistevano anche sull’amore che il re doveva avere per il suo popolo e che doveva ricevere dai sudditi. Un amore generato dal suo senso di giustizia, e provato dalla correttezza dei suoi comportamenti (per esempio non esigere troppo dai sudditi). La figura del re divenne oggetto di devozione religiosa: il re e la sua dinastia dovevano essere ricordati nelle preghiere pubbliche e in quelle private dai sudditi-fedeli. Si diffusero simboli e culti religiosi pubblici legati alla storia del paese. In Francia si affermò inizialmente il culto di San Dionigi, dal nome dell’abazia dove erano custodite le spoglie dei re francesi; durante la guerra tra Armagnacchi e Borgognoni, quando il nord della Francia (dove era l’abazia di San Dionigi) era occupato dai Borgognoni, si scelse il culto di San Michele Arcangelo. Gli inglesi si posero invece sotto il dominio di San Giorgio, il santo cavaliere che sconfisse il drago. Questo insieme di celebrazione di immagini religiose della monarchia non era solo strumento di propaganda. Le virtù assegnate al re furono tradotte in poteri di governo in quasi tutti regni:  la protezione dei poveri e dei deboli richiedeva un rafforzamento della giustizia pubblica verso i potenti arroganti;   la misericordia del re si tradusse in un potere di grazia in base al quale il re poteva condonare le pene comminate dai giudici, accogliere le suppliche dei sudditi e cambiare il normale corso delle leggi;   l’amore verso il re portava una celebrazione religiosa della sua superiorità istituzionale;   i fondamenti celesti del regno rafforzavano l’immagine della monarchia come scudo protettivo, guida naturale della nazione. La salvezza della nazione finiva così per giustificare una politica fiscale sempre più pesante, un’intromissione della giustizia pubblica che erodeva le giurisdizioni private e anche una richiesta crescente del coinvolgimento diretto dei sudditi nella difesa della patria. 3.2 L’amministrazione del regno: corti, ufficiali, fiscalità Sulla base della struttura di governo impostata dai re nel XIII secolo, in quest’epoca si sviluppò un sistema burocratico su più livelli. Si ebbe da un lato un rafforzamento dell’amministrazione centrale, articolata in organismi sempre più complessi; dall’altro la costruzione di un sistema di ufficiali pubblici nei territori. E ovviamente fu migliorato e intensificato il sistema fiscale per finanziare lo Stato. Organi centrali, uffici territoriali e sistema fiscale sono elementi che troviamo in tutte le monarchie europee e in ogni territorio principesco con ambizioni di governo pubblico. Lo sviluppo di una burocrazia pubblica fu importante per diversi motivi:  favoriva una vita autonoma del regno che funzionava anche senza re;  assicurava una presenza capillare nei territori di un corpo di ufficiali che rappresentavano il re in quel luogo;  permetteva la promozione del ceto intermedio urbano, favorendo gli esponenti più dinamici delle classi cittadine che avevano più facilmente accesso a una formazione di base (scrivere e far di conto). Lo sviluppo degli organi centrali dei regni era strettamente dipendente dalla formazione di una corte intorno al principe e dall’individuazione di una capitale del regno. In generale, le funzioni della corte erano essenzialmente tre: fornire al re un consiglio ristretto; assistere il re nelle principali funzioni di governo; amministrare le finanze. La corte francese presenta un modello particolarmente ricco di questa struttura burocratica centrale. Si sviluppò il Consiglio del re, un organo consultivo radunato dal re e dalla composizione variabile. Le funzioni della corte furono assegnate dall’Hotel del re, che comprendeva tutti gli ufficiali al suo servizio diretto, fra cui spicca il cancelliere, esperto nella scrittura e nella legittimazione degli atti firmati dal re. L’attività contabile fu svolta da una Camera dei conti, retta da due presidenti, un chierico e un laico. Aveva come primo compito quello di controllare due volte all’anno i conti degli ufficiali locali ed era investita anche di poteri giudiziari . Una parte importante della funzione giudiziaria era svolta dal Parlamento, che in Francia non era un organo consultivo ma giudiziario. La corte inglese non era meno ricca: in continuità con i secoli precedenti assunsero maggiore rilievo i tribunali regi e lo Scacchiere, che controllava la contabilità degli ufficiali locali. Una parte importante delle funzioni degli organi centrali era assorbita dal controllo dell’attività di governo degli ufficiali territoriali. Nei regni più organizzati, come la Francia e l’Inghilterra, una rete di ufficiali pubblici esisteva già nella prima metà del Duecento. L’evoluzione dei secoli successivi riguardò la loro diffusione capillare nei territori e la trasformazione graduale dei loro compiti. Gli ufficiali rappresentavano il re nei vari territori, amministravano la giustizia, spesso in competizione con la giustizia signorile, raccoglievano le tasse, convocavano l’esercito. La funzione di rappresentare il re non era solo formale. Molti di questi ufficiali erano sostenitori attivi della monarchia: ne difendevano le prerogative, a discapito dei diritti signorili locali, imponendo anche con la violenza la giustizia regia. La burocrazia pubblica divenne uno dei maggiori canali di ascesa sociale del basso Medioevo. La necessità di reclutare in breve tempo migliaia di funzionari promosse infatti gli esponenti più dinamici dei ceti urbani che avevano più facilmente accesso a una formazione di base (leggere, capire il latino e rudimenti di calcolo). La diffusione delle scuole e delle università servì in tal senso da acceleratore. Nel corso del Quattrocento si assiste a una riproduzione del ceto amministrativo: un numero crescente di funzionari trasmetteva il proprio ufficio ai figli, creando così una classe di impiegati provenienti dalla stessa amministrazione regia. I re avevano un continuo bisogno di denaro. L’aiuto feudale al re aveva per lungo tempo giustificato le richieste di contributi finanziari ai grandi e alle città. I tentativi di rendere più regolare e sistematici questi contributi non erano mancati, come pure i trucchi dei re per far pagare i vassalli quante più tasse feudali possibile. Ma un vero prelievo fiscale ordinario e permanente non esisteva nell’Europa del Duecento. Il Trecento, con le guerre continue e uno stato di necessità prolungato per decenni, cambiò le cose in maniera sensibile. I bisogni finanziari erano enormi, le spese per gli apparati militari aumentarono. Il sistema fiscale divenne il motore principale delle trasformazioni politiche dei regni. La fiscalità pubblica nel basso Medioevo aveva assunto due forme: una indiretta e una diretta. La fiscalità indiretta era composta dalle imposte messe sui beni prodotti o sui beni di consumo. Il peso di queste imposte ricadeva sui consumatori in maniera indistinta: i redditi più bassi erano i più colpiti. La gran parte dei sistemi finanziari dei regni europei si basava su questo tipo di imposte. Le tasse dirette gravavano invece sui beni dei singoli individui o dei nuclei familiari. In teoria erano tasse straordinarie che si potevano chiedere solo in casi eccezionali. Una volta deciso l’ammontare complessivo, la ripartizione per individui era delegata ai consigli cittadini o agli organi rappresentativi territoriali che suddividevano il carico fra tutti gli abitanti secondo un principio proporzionale. In molte città italiane e francesi, per calcolare l’importo da versare come tassa si erano preparati dei catasti, che contenevano l’elenco dei beni dei cittadini. In teoria la tassazione diretta proporzionale era più equa perché colpiva di più i redditi alti, ma in pratica i sistemi di accertamento reale della ricchezza erano troppo approssimativi o arbitrari. Per questo fu molto contestata e aggirata in vari modi, dall’occultamento delle ricchezze alla falsificazione del valore dei beni. Alla fine del Medioevo le classi alte ne erano praticamente esenti e a pagarle rimasero gli abitanti delle campagne e qualche città. L’imposizione fiscale non era solo una questione finanziaria ma anche e soprattutto una questione politica. Imporre una tassa senza consenso implicava un potere del re di fatto assoluto; accettare il consenso significava invece che il potere del re doveva trovare un limite nella libertà dei sudditi. Le resistenze al potere regio di imporre tasse senza consenso furono sempre numerosissime. In Inghilterra, i Parlamenti furono assai severi nell’esaminare le ragioni delle richieste di contributi. 3.3 Assemblee e parlamenti: la società locale nei sistemi monarchici Per governare regni sempre più grandi e costosi era necessario chiedere l’aiuto delle comunità. Così, già nel corso del Duecento, acquistarono un rilievo nuovo le assemblee del regno, formate dai rappresentanti dei diversi corpi del paese : in Inghilterra il Parlamento, diviso in una Camera bassa dei Comuni e in una Camera alta dei nobili (lords). In Francia gli Stati generali erano composti dai tre “ordini”: uomini di Chiesa, nobiltà e “borghesi”, vale a dire esponenti del mondo urbano. Si distinguevano Stati provinciali, che discutevano problemi locali da sottoporre al re o eleggevano i rappresentanti della regione per gli Stati generali ; gli Stati generali , convocati dal re per discutere questioni diverse, di natura economica e politica, e naturalmente per ottenere il consenso al prelievo delle tasse. In Spagna, le Cortes comprendevano in Castiglia solo le città ed escludevano i nobili, mentre in Aragona e nelle città catalane la formazione di Deputazioni stabili avevano consegnato nelle mani delle assemblee di eletti un vero potere di controllo sull’operato del re . Nell’Impero, ampia autonomia godevano le Diete, distinte in genere in tre ordini (ecclesiastici, nobili e città). La loro convocazione era richiesta quando si trattavano questioni inerenti al regno sul piano economico e militare; nelle terre dell’Impero, il consiglio degli elettori aveva anche il potere di eleggere il nuovo regnante. In gran parte dei casi lo stato di guerra richiedeva la concessione da parte dei sudditi di un contributo in denaro sotto forma di imposte dirette o indirette: il sistema guerre-tasse-assemblea divenne così il meccanismo di base della politica regia, ma anche il metro per valutare la tenuta della monarchia, il suo grado di legittimità e la sua capacità di governare ottenendo un certo grado di consenso. L’Inghilterra è il regno che più ha usato il sistema delle assemblee, sia sotto forma di Parlamento, sia ricorrendo al Consiglio nazionale del re, un’assemblea composta dai grandi e dai rappresentanti delle città. Motivi di queste riunioni riguardavano il più delle volte le richieste finanziarie del re, che a loro volta presupponevano pesanti imposizioni fiscali nei territori del regno. È naturale che in un quadro così dinamico, le sedute dell’assemblea assumessero funzioni diverse. Non si votava solo se concedere o meno l’aiuto finanziario ma si presentavano ai re diverse questioni. Le assemblee iniziarono a svolgere di fatto anche un’attività legislativa o direttamente come nelle Cortes aragonesi, o indirettamente sotto forma di patti che il re doveva concedere per ottenere l’aiuto richiesto. In Inghilterra, le decisioni del Parlamento, chiamate statuti, non potevano essere modificate dal re, ma solo da un altro statuto. È bene non generalizzare queste assemblee come un potere contrapposto al re, o come un’alternativa politica alla forma monarchica del regno, una sorta di democrazia ante litteram. Queste assemblee conservavano alcune caratteristiche strutturali che è bene ricordare:  erano ancora temporanee e furono convocate con una periodicità variabile;  avevano una rappresentanza sociale limitata, vale a dire che non rappresentavano tutti gli ordini nello stesso modo (tranne il caso castigliano);  non erano ideologicamente contro la monarchia: potevano attaccare un re ma alla fine furono proprio le assemblee che sostennero l’unità della Corona;  fissarono la divisione in ordini, conferendo alla nobiltà un prestigio pubblico che ne sostenne a lungo la preminenza politica oltre che sociale. Queste assemblee non erano rappresentative nel senso moderno del termine: non erano eletti dal popolo e avevano una composizione sociale interna molto sbilanciata. In genere, i membri degli ordini maggiori, ecclesiastici e baroni, erano convocati individualmente ed erano presenti di persona; mentre le città e le comunità, quando erano chiamate, dovevano inviare solo dei rappresentanti scelti tra i migliori e più saggi del luogo (da due a sei). Sul piano numerico erano spesso una minoranza, e in più non erano consultati su tutte le questioni, ma solo su quelle che li riguardavano direttamente come nel caso di tassazione dirette o di prestiti al re. Il Parlamento inglese per esempio prevedeva una rigida gerarchia sociale: prima dovevano essere convocati, individualmente, i membri del clero, arcivescovi, vescovi, abati e priori che erano anche detentori di una baronia; poi i baroni e i conti o i proprietari terrieri di pari livello; a seguire i rappresentanti dei cavalieri, eletti due per ogni contea; poi i cittadini di Londra e di altre città, i rappresentanti dei borghi, sempre in numero di due per località. La stessa composizione fissa si aveva nelle Diete tedesche e dei regni dell’est. Le riunioni delle assemblee nel corso del XIV e XV secolo erano occasionali; la frequenza dipendeva soprattutto dalla funzione delle assemblee e dalla regione in cui si tenevano. Si è molto discusso sul ruolo politico di queste assemblee, da alcuni storici viste come un embrione di democrazia moderna, l’inizio di un dialogo alla pari fra il potere regio e i territori; da altri ridotte a camere di consultazione dei re che prendevano atto delle loro richieste, senza modificare molto le decisioni finali. È difficile però dare una risposta univoca. Alla base del potere monarchico non ci fu mai un patto con valore costituzionale, ma dei re che, in momenti alterni, per convenienza o per necessità si convinsero a stringere dei patti e in alcuni casi a rispettarli. Il governo politico dello Stato del basso Medioevo si reggeva anche sulla negoziazione, sullo scambio, sulle pressioni incrociate tra un re che si voleva assoluto e una serie di corpi che limitavano queste pretese senza rovesciarle del tutto. I re integrarono questa attività nei loro modelli di buon governo, usarono la concessione e l’ascolto delle richieste del popolo per rafforzare il loro potere. La composizione sociale delle assemblee era molto varia, ma la presenza di un nucleo costante delle alte aristocrazie territoriali fu un dato comune a tutta l’Europa. I territori erano rappresentati dagli elementi più in vista di quella regione, dalle persone che avevano più interessi da difendere: i baroni, i principi territoriali, la nobiltà terriera. Senza contare che in molti casi, anche i rappresentanti dei comuni erano legati al re, anzi spesso erano ufficiali regi. Alla fine del XV secolo le assemblee vennero convocate sempre più raramente. I motivi di questo declino furono diversi, ma tra loro collegati:  il re, alla fine del Quattrocento, avevano in genere reintegrato i beni della Corona, ridotto il numero delle guerre e quindi diminuito le richieste di aiuto ai sudditi;   la tassazione ordinaria era ormai un dato accettato e poco contestato anche dai territori: si poteva discutere l’importo ma non la sua imposizione;
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