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Riassunto Lineamenti di dottrina pura del diritto - Kelsen, Sintesi del corso di Filosofia del Diritto

Riassunto completo dei Lineamenti di dottrina pura del diritto

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 04/09/2023

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Scarica Riassunto Lineamenti di dottrina pura del diritto - Kelsen e più Sintesi del corso in PDF di Filosofia del Diritto solo su Docsity! I. Diritto e natura La dottrina pura del diritto è una teoria generale del diritto positivo. Essa vuole conoscere esclusivamente il suo oggetto, rispondendo alla domanda: cosa e come è il diritto, non come deve essere o come deve essere costituito. È scienza del diritto, non politica del diritto. È “pura” poiché vuole liberare la scienza del diritto da tutti gli elementi che le sono estranei (nei secoli XIX-XX, la giurisprudenza si è mescolata con psicologia, etica, teologia in maniera acritica). Fatto naturale (atto) e significato. La norma come schema qualificativo Se si analizza un fatto considerato come diritto, si distinguono due elementi: l’atto sensibilmente percepibile (l’accadimento esteriore) e il suo significato (es.: un uomo in toga pronuncia determinate parole da un seggio elevato: il significato di questo accadimento è una sentenza). Questo significato non può essere rilevato nell’atto come fatto esteriore, come le qualità di un oggetto. L’atto, di per sé, può dichiarare il suo significato (significato soggettivo): questa autoqualificazione del materiale precede la qualificazione che deve effettuare la scienza giuridica. Il significato soggettivo può, ma non deve, coincidere col significato oggettivo, attribuito a quest’atto nel sistema del diritto. Il significato oggettivo è attribuito all’atto per mezzo di una norma, che trasforma il fatto (appartenente al sistema della natura, determinato causalmente) in atto giuridico. La norma funziona quindi come schema qualificativo; un fatto ha un determinato significato perché il suo contenuto coincide col contenuto di una norma. Essa è prodotta da un atto giuridico, che riceve di nuovo il suo significato da un’altra norma. Validità e sfera di validità della norma Con “validità” della norma non si intende altro che la sua esistenza specifica. L’atto con cui la norma è stabilita non sta nello spazio e nel tempo poiché non è un fatto naturale; ma poiché il contenuto possibile della norma è lo stesso dell’accadere effettivo, è necessario che spazio e tempo siano determinati nel contenuto della norma: la validità delle norme è una validità spaziale e temporale (una norma vale per un determinato spazio e tempo). Questa validità può essere delimitata ma anche illimitata (la norma non vale al di fuori dello spazio e del tempo, ma soltanto non vale per un determinato spazio o tempo). Accanto alla validità spaziale e temporale si possono distinguere la sfera della validità reale (o materiale) delle norme, quando si prendono in considerazione le diverse direzioni del comportamento umano regolate da norme, e della validità personale, se ci si riferisce agli uomini la cui condotta è regolata dalle norme. Anche queste sfere possono essere delimitate o illimitate. Considerando il diritto come norma e la scienza del diritto come conoscenza delle norme, si delimita il diritto di fronte alla natura e la scienza giuridica di fronte alle altre scienze, tra cui la sociologia del diritto, che studia il diritto come fatto naturale nella coscienza degli uomini che pongono, eseguono o violano norme giuridiche. La dottrina pura del diritto, a differenza, rivolge l’attenzione alle norme giuridiche come strutture qualificative, e comprende qualsiasi fatto solo in quanto contenuto in norme giuridiche. II. Diritto e morale La scienza del diritto è scienza dello spirito e non della natura, poiché il diritto come norma è una realtà spirituale e non naturale. Si deve pertanto distinguere il diritto non solo di fronte alla natura ma anche agli altri fenomeni dello spirito, e specialmente rispetto alla morale. Si respinge la concezione per cui il diritto sia parte integrante della morale e sia in un certo qual grado morale. Come categoria morale, il diritto significa “giustizia”, espressione di un ordinamento che soddisfa tutti. La tendenza verso la giustizia è la tendenza eterna dell’uomo alla felicità, che si realizza solo in società: la felicità sociale si chiama giustizia. Tale parola è utilizzata anche per indicare la conformità al diritto positivo, alla norma; la legalità. Nel significato che le è proprio e che la distingue dal diritto, la giustizia esprime un valore assoluto che non può essere determinato dalla dottrina pura del diritto e dalla conoscenza razionale: è un ordinamento superiore che sta di fronte al diritto positivo ed è diverso da questo. Ma in cosa consiste la giustizia? Nel tempo sono state elaborate solo formule vuote (es.: “a ciascuno il suo”, “il giusto mezzo”…), poiché si è tentato di logicizzare un oggetto del tutto estraneo alla logica: la giustizia è un ideale irrazionale; non è accessibile alla conoscenza umana. All’uomo è dato soltanto il diritto positivo. Le dottrine giusnaturalistiche conservatrici e rivoluzionarie tentavano rispettivamente di legittimare e problematizzare il diritto positivo, sostenendone la conformità o difformità con un ordine naturale assolutamente giusto. Al contrario, la dottrina pura del diritto vuole rappresentare il diritto com’è, senza legittimarlo come giusto; si occupa del diritto reale e non del diritto giusto: è una teoria radicalmente realistica, che si rifiuta di valutare il diritto positivo, ma si limita soltanto a comprenderlo, analizzandone la struttura. Si rifiuta di servire a qualsiasi interesse politico fornendo ideologie con cui legittimare o squalificare l’ordine esistente. III. Il concetto del diritto e la dottrina della proposizione giuridica Il concetto trascendente di diritto presentato dal giusnaturalismo corrisponde al carattere metafisico della filosofia del tempo. Nel XIX sec., con la vittoria della borghesia liberale e i progressi delle scienze empiriche, ha inizio una reazione contro la metafisica e la dottrina del diritto naturale: si compie il passaggio al positivismo. Non si presuppone più il diritto come categoria eterna e assoluta ma come soggetto a un mutamento storico. Col positivismo, tuttavia, non si perde il riferimento a un valore giuridico assoluto: l’idea etica della giustizia. La dottrina del diritto naturale è semplicemente sostituita dall’idea di “minimo etico”: il diritto positivo deve corrispondere in qualche misura all’idea del diritto. La giurisprudenza positivistica del XIX sec. riconosce il valore assoluto della morale come norma, “dover essere” e pertanto, la definizione del diritto come norma e dover essere resta legata all’idea di norma morale. La dottrina pura del diritto si sforza di distinguere totalmente il concetto di norma giuridica da quello di norma morale. Questo avviene considerando la norma giuridica non come imperativo, ma come giudizio ipotetico che esprime il rapporto di un fatto condizionante con una conseguenza condizionata: come la legge naturale connette un fatto come causa a un altro come effetto, la legge giuridica connette la condizione con la conseguenza del diritto. Nel primo caso la forma della connessione è la causalità, nel secondo l’imputazione. L’espressione di questo rapporto designato come “imputazione” non è altro che il dover essere (das Sollen), con cui la dottrina pura del diritto rappresenta il diritto positivo; così come la necessità (das Müssen) è espressione della legge di causalità. Per la legge naturale: se c’è A deve necessariamente (muss) esserci B; ci sarà B. Per la legge giuridica: se c’è A deve (soll) esserci B. Se si dice: quando avviene un’illegalità deve subentrare la conseguenza, questo “dovere” significa soltanto il senso specifico con cui condizione e conseguenza sono collegate nella proposizione giuridica: questa categoria del diritto è puramente formale, e con ciò si distingue da un’idea trascendente di diritto. Essa è, nel senso kantiano, gnoseologicamente trascendentale, non metafisicamente trascendente. Il diritto come norma coattiva. Il concetto di illecito La teoria del diritto del XIX sec. riteneva che la norma giuridica fosse una norma coattiva. In questo è concorde la dottrina pura del diritto, secondo cui in una proposizione giuridica, ad una condizione è unito come conseguenza l’atto coattivo dello stato, cioè la pena. Solo per questo il fatto condizionante è qualificato come illecito: illecito è quel comportamento che nella proposizione giuridica viene posto come condizione per l’atto coattivo. La conoscenza giuridica può concepire anche l’illecito soltanto come diritto; il concetto di illecito rinuncia alla sua posizione extrasistematica (al riferimento a valori sovrapositivi) e ne assume una intrasistematica. La dottrina pura del diritto respinge la concezione secondo cui l’uomo, con l’illecito, verrebbe a infrangere o violare il diritto: è proprio tramite l’illecito che il diritto conferma la sua esistenza e raggiunge la sua funzione. Il diritto come tecnica sociale. Norma primaria e secondaria Se il diritto non è altro che un ordinamento coattivo, allora sarà concepito come tecnica sociale: si cercherà di raggiungere lo stato sociale desiderato collegando al comportamento non voluto un atto coattivo come conseguenza, inducendo gli uomini a seguire un comportamento contrario. La norma che determina la condotta che evita la coazione (es.: “non si deve rubare”) è detta norma secondaria; esprime in forma abbreviata ciò che solo la proposizione giuridica (norma primaria) enuncia in modo corretto e completo, e cioè che alla condizione della condotta contraria debba seguire un atto coattivo come conseguenza. Con questa concezione, la dottrina pura del diritto supera il dualismo tra diritto soggettivo e oggettivo: il diritto soggettivo non è altro che il diritto oggettivo stesso soltanto in quanto si rivolge contro un soggetto concreto (obbligo) o si mette a disposizione di questo (autorizzazione). Riducendo il diritto soggettivo all’oggettivo, viene escluso ogni abuso ideologico. c) L’autorizzazione come partecipazione alla creazione del diritto L’autorizzazione consiste nell’assumere la manifestazione di volontà dell’interessato diretta alla conseguenza dell’illecito come parte costitutiva nel processo di produzione della norma individuale della sentenza giudiziaria. In questo senso, allora, la concessione di un diritto soggettivo significa l’ammissione alla partecipazione nella creazione del diritto. I diritti politici, similarmente, si definiscono come facoltà di influire sulla formazione della volontà dello stato, in particolare, tramite la partecipazione alla legislazione da parte dei cittadini sottoposti alle leggi (carattere essenziale dello stato democratico). Nella democrazia diretta, ciò corrisponde al diritto soggettivo dell’individuo di partecipare e votare nell’assemblea popolare legislativa; nella democrazia indiretta, al diritto dell’elettore di eleggere i rappresentanti, e degli eletti di partecipare e votare in parlamento. Il diritto soggettivo privato è anch’esso un diritto politico, poiché fa partecipare l’autorizzato alla formazione della volontà dello stato, che si esprime nella norma individuale della sentenza non meno che nella norma generale della legge. Se si considera il diritto soggettivo (nel senso di autorizzazione) come struttura della funzione creatrice del diritto, scompare ogni antitesi tra diritto oggettivo e soggettivo. Con ciò si è aperta anche la via per ravvisare nel concetto di soggetto di diritto e persona soltanto un artificio del pensiero. “Persona” è un’espressione unitaria personificante di un gruppo di obblighi e autorizzazioni giuridiche, cioè di un complesso di norme. La “persona fisica” non è l’uomo come sostiene la dottrina tradizionale, poiché il diritto non comprende l’uomo nella sua totalità ma qualifica come obblighi o autorizzazioni solo atti umani determinati. Essa è quindi solo l’espressione unitaria personificata di norme; è una rappresentazione ausiliare che rende più agevole l’esposizione del diritto, ma non indispensabile. Anche la persona giuridica è espressione unitaria di un complesso di norme: talvolta è personificazione di un ordinamento parziale (es.: persona giuridica della società), talvolta totale (es.: persona giuridica dello stato). Gli obblighi e i diritti di una persona giuridica debbono risolversi in obblighi e diritti dell’uomo; se l’ordinamento obbliga o autorizza una persona giuridica, si tratta di obbligo e autorizzazione di uomini singoli mediata dall’ordinamento giuridico parziale. La norma che obbliga o autorizza una persona giuridica determina solo l’elemento reale (oggettivo) dell’azione, mentre delega un’altra norma per la determinazione dell’elemento personale (soggettivo). L’obbligo e l’autorizzazione possono quindi essere diretti o indiretti. Obblighi e diritti di una persona giuridica sono sempre e soltanto obblighi e diritti di individui singoli, ma in forma collettiva: se la persona giuridica ha un diritto di credito, esso è un diritto collettivo dei membri, e infatti l’atto di farlo valere si compie a messo di un organo determinato dall’ordinamento giuridico parziale. L’atto viene riferito all’unità dell’ordinamento: si parla di “imputazione centrale”; gli atti delle persone giuridiche sono atti di uomini, ma che vengono imputati al soggetto fittizio. Quando la persona giuridica è obbligata a una prestazione, in caso di inadempimento l’esecuzione non va contro il patrimonio individuale dei membri, ma contro un patrimonio collettivo: si ha una limitazione della responsabilità. Per concludere, la dottrina pura del diritto, col concepire il diritto soggettivo come forma speciale o rappresentazione personificata del diritto oggettivo, supera quella posizione soggettivistica che considera il diritto soltanto dal punto di vista dell’interesse di parte (tipica della giurisprudenza romana). L’atteggiamento della dottrina pura del diritto è del tutto oggettivistico e universalistico; essa è rivolta alla totalità del diritto, concepito in maniera organica non come entità superempirica (immagine dietro cui si nascondono postulati etico-politici), ma come ordinamento. La teoria del diritto, liberata da ogni giudizio di valore etico-politico, diventa così un’analisi esatta della struttura del diritto positivo. V. L’ordinamento giuridico e la sua costruzione a gradi L’ordinamento come sistema di norme e concatenazione produttiva Il diritto, o l’ordinamento giuridico, è un sistema di norme giuridiche. Una pluralità di norme forma un’unità quando la sua validità può essere ricondotta a un’unica norma come fondamento ultimo di questa validità: la norma fondamentale (Grundnorm). Una norma appartiene a un ordinamento se la sua validità può essere ricondotta alla norma fondamentale. Secondo la norma fondamentale, esistono due specie di ordinamenti. Le norme di una specie sono valide in forza del loro contenuto, che ha una qualità immediatamente evidente che gli attribuisce validità. Le norme ottengono questa qualificazione di contenuto in quanto sono riferibili a una norma fondamentale, sotto il contenuto della quale si può sussumere il contenuto delle norme dell’ordinamento. Di questo tipo sono le norme della morale, che possono essere tratte dalla norma fondamentale tramite una deduzione dall’universale al particolare. La norma fondamentale ha qui carattere statico-materiale. Di diversa specie sono le norme giuridiche, che non sono valide in forza del loro contenuto: ogni contenuto può essere diritto. Una norma vale come giuridica solo perché è stata prodotta secondo una regola determinata. Il diritto vale soltanto come diritto positivo, posto, indipendente dalla morale. La norma fondamentale non è altro che la regola per la quale sono prodotte le norme dell’ordinamento; ha carattere dinamico-formale. Le singole norme non possono essere dedotte logicamente da questa, ma devono essere prodotte da un atto di volontà. Una norma è valida se è prodotta conformemente alla norma fondamentale. Se ci si chiede perché un atto è atto giuridico e appartiene a un ordinamento, la risposta deve essere: perché è stato prescritto da una norma individuale. Questa norma individuale è valida in quanto posta conformemente a un codice. Quest’ultimo è valido poiché conforme alla costituzione dello stato. Ma qual è il fondamento di validità della costituzione? La norma fondamentale La norma fondamentale stabilisce che deve valere come norma tutto ciò che l’organo costituente, storicamente originario, ha manifestato come propria volontà. La dottrina pura del diritto si avvale di questa norma come fondamento ipotetico: se si presuppone che questa norma sia valida, è valido l’ordinamento giuridico che si fonda su essa. La norma fondamentale attribuisce all’atto del primo legislatore il significato del dover essere, significato per il quale nella proposizione giuridica, forma tipica in cui deve presentarsi tutto il diritto positivo, la condizione è legata alla conseguenza. La norma fondamentale non vale come norma positiva, perché non è prodotta nel procedimento del diritto: non è posta ma presupposta come condizione di ogni posizione del diritto. La teoria della norma fondamentale vuole dare coscienza di ciò che i giuristi fanno inconsciamente quando, nel comprendere il loro oggetto, rifiutano un diritto naturale da cui dedurre la validità dell’ordinamento, ma intendono il diritto positivo come ordinamento valido, non come realtà psicologica, ma come norma. Se un ordinamento viene sostituito per mezzo di una rivoluzione, il nuovo ordinamento sarà valido nel momento in cui l’effettivo comportamento degli uomini non corrisponderà più all’antico ma al nuovo. Si presuppone una nuova norma fondamentale, che delega come autorità legislatrice il regime rivoluzionario. Il contenuto della norma fondamentale, quindi, riposa su quegli elementi di fatto che hanno prodotto l’ordinamento a cui corrisponde, fino a un certo grado, il comportamento effettivo degli uomini. Non può esserci piena corrispondenza tra l’ordinamento normativo e gli eventi ad esso riferibili, perché in tal caso un ordinamento normativo non avrebbe nessun significato. La validità di un ordinamento si trova in un rapporto di dipendenza con la sua efficacia (tensione tra dover essere ed essere). Questo rapporto è determinato da un limite superiore e inferiore: la corrispondenza non può superare un massimo stabilito e non può scendere sotto un minimo stabilito. Il tentativo di identificazione della validità dell’ordinamento con la sua efficacia è destinato a fallire, poiché se si sostiene che la validità, cioè la specifica esistenza del diritto, è una realtà naturale, non si è in grado di intendere il senso con cui il diritto si rivolge alla realtà, la quale solo in quanto non identica alla validità del diritto, può essere in corrispondenza o in contrasto con esso. Allo stesso modo, il diritto non può esistere senza forza e ciò nondimeno non è identico ad essa: è un determinato ordinamento (od organizzazione) della forza. Il principio dell’effettività è un principio di diritto internazionale, funge come norma fondamentale dei diversi ordinamenti dei singoli stati: la costituzione del primo legislatore è valida solo se è efficace. Se però la norma che sta alla base degli ordinamenti dei singoli stati è riconosciuta come norma giuridica positiva (es.: se si concepisce il diritto internazionale come ordinamento superiore ai singoli stati da esso legittimati e delegati), non si può più parlare di una norma fondamentale presupposta come base degli ordinamenti dei singoli stati, ma solo di una norma come base del diritto internazionale, fondamento della validità di un ordinamento giuridico totale che comprende tutti gli ordinamenti dei singoli stati. Se l’ordinamento è valido quando è efficace, ciò non è vero per la singola norma giuridica: essa rimane valida anche qualora non sia efficace, in quanto inserita nella concatenazione produttiva di un ordinamento valido (la prima costituzione dà il fondamento della validità a tutte le norme). Il principio di diritto internazionale dell’effettività si riferisce solo alla prima costituzione. L’ordinamento giuridico dello stato singolo può erigere il principio dell’effettività a principio giuridico positivo e così far dipendere la validità delle singole norme dalla loro efficacia (es.: la costituzione ammette come fonte del diritto la consuetudine, e in base a ciò una norma di diritto positivo viene abrogata per la sua costante disapplicazione). La costruzione a gradi dell’ordinamento giuridico Il diritto regola la propria produzione: una norma (di grado inferiore) vale in quanto è stata prodotta in una forma determinata da un’altra norma (superiore); quest’ultima rappresenta il fondamento di validità della prima. L’ordinamento giuridico ha una costruzione a gradi (Stufenbau). La sua unità è data dalla concatenazione risultante dal fatto che la produzione e quindi la validità di una norma risale all’altra la cui produzione è a sua volta determinata da un’altra; un regresso che sbocca nella norma fondamentale, fondamento supremo di validità. Al di sotto del presupposto della norma fondamentale, il più alto grado del diritto positivo è rappresentato dalla costituzione nel senso materiale, la cui funzione essenziale è regolare gli organi e il procedimento della legislazione. Essa può anche determinare il contenuto delle leggi, prescrivendo o escludendo certi contenuti (es.: tramite l’enunciazione di diritti e libertà fondamentali). La legge ordinaria non può derogare alla legge costituzionale; la costituzione deve prescrivere per la sua modifica o abrogazione un procedimento più difficile rispetto al procedimento legislativo ordinario. Nel grado che segue si trovano le norme generali prodotte nel procedimento legislativo, la cui funzione è determinare organi e procedimento, ma anzitutto il contenuto delle norme individuali emanate da tribunali e autorità amministrative. Il diritto che si manifesta in forma di legge è sia formale che materiale. Il grado della produzione generale del diritto regolata dalla costituzione è spesso diviso in due o più gradi: la costituzione trasferisce la produzione di norme giuridiche generali a un parlamento eletto dal popolo, ma ammette l’esecuzione più particolareggiata delle leggi per mezzo di norme generali emanate da organi amministrativi o dal governo (regolamenti, che eseguono le leggi, o decreti legislativi, che vi suppliscono). Si parla di “legge in senso formale”, per indicare in generale ogni contenuto che si presenta in quella forma. La norma generale che collega un fatto astrattamente determinato a una conseguenza pure astrattamente determinata deve essere individualizzata per raggiungere il proprio significato. La funzione giurisdizionale è totalmente costitutiva, è produzione di diritto: per mezzo della sentenza viene posto in essere il rapporto per cui, in generale, un fatto concreto viene collegato a una specifica conseguenza giuridica. Come i due fatti, nel campo generale, sono collegati a mezzo della legge, così tali fatti, nel campo dell’individuale, devono essere uniti dalla sentenza. Essa è una norma giuridica individuale, concretizzazione della generale e continuazione del processo di produzione del diritto dal generale all’individuale: è anch’essa fonte del diritto. L’identificazione del diritto con la legge è erronea. Come la giurisdizione, anche l’amministrazione è individualizzazione e concretizzazione di leggi (amministrative). Essa non si distingue in generale funzionalmente dall’attività giudiziaria, in quanto dal punto di vista tecnico lo scopo dello stato viene perseguito dal meccanismo amministrativo nello stesso modo di quello dei tribunali: cercando di raggiungere lo stato socialmente desiderato reagendo contro il suo opposto con un atto coattivo. Il fine dello stato è realizzato in entrambi i casi indirettamente. La differenza risiede solo nell’autonomia del giudice, che manca per lo più agli organi amministrativi. Una differenza funzionale fra giurisdizione e amministrazione ha luogo soltanto quando lo scopo dello stato è realizzato direttamente per mezzo degli organi statali. VI. L’interpretazione L’interpretazione accompagna la produzione del diritto. Deve rispondere alla domanda: come dalla norma generale della legge nella sua applicazione a un fatto concreto si può estrarre la norma individuale (sentenza, atto amministrativo)? Vi è anche un’interpretazione della costituzione, quando essa deve essere applicata a gradi più bassi, e di norme individuali; in breve, di tutte le norme in quanto esse debbono essere eseguite. L’indeterminatezza del grado inferiore. La norma come schema con più possibilità di esecuzione Il rapporto fra grado superiore e inferiore dell’ordinamento è un rapporto di determinazione o di vincolo: la norma di grado superiore determina il procedimento di produzione e eventualmente il contenuto della norma più bassa. Ma questa determinazione non è mai completa; la norma di grado superiore ha solo il carattere di uno schema, che deve essere riempito dall’atto di produzione o di esecuzione che la esegue. L’indeterminatezza del grado inferiore può essere intenzionale, quando un organo pone una norma puramente generale, presupponendo che la norma individuale continui il processo di determinazione (per cui può essere stabilito nella legge un limite superiore o inferiore). Analogo è il caso della delegazione. L’indeterminatezza può essere anche conseguenza non intenzionale della natura della norma da eseguire; può derivare dall’ambiguità della formulazione della norma, che può avere più possibili significati, o da una supposta discrepanza tra espressione letterale della norma e volontà del legislatore. Può infine essere la conseguenza del fatto che due norme, contemporaneamente valide, si contraddicono del tutto o parzialmente. In tutti questi casi si presentano più possibilità di esecuzione, tutte conformi alla norma, che costituisce solo uno schema. Se per “interpretazione” si intende la constatazione della norma da eseguire, il suo risultato può essere solo la constatazione dello schema e quindi il riconoscimento delle varie possibilità di esecuzione: l’interpretazione non conduce a un’unica decisione, la sola esatta, ma a varie decisioni con lo stesso valore. La giurisprudenza tradizionale crede che l’interpretazione possa colmare lo schema stabilito, cioè che la legge applicata al caso concreto possa fornire sempre un’unica decisione esatta. Essa presenta il processo di interpretazione come puro atto mentale di comprensione e conoscenza del diritto positivo, e non di volontà. Malgrado gli sforzi della giurisprudenza tradizionale, nel diritto positivo non vi è un criterio in base al quale, nello schema, una delle possibilità di esecuzione possa essere preferita. Tutti i metodi di interpretazione conducono solo a un risultato possibile, mai all’unico esatto. I mezzi comuni di interpretazione, argumentum a contrario e analogia, sono privi di significato in quanto conducono a risultati opposti e non vi è nessun criterio per sapere quando applicare l’uno o l’altro. Anche il principio di valutazione degli interessi non fornisce una misura oggettiva per confrontare interessi opposti; questa graduazione è lasciata a un atto di produzione della norma, come la sentenza del giudice. L’idea alla base della teoria tradizionale dell’interpretazione per cui, mediante la conoscenza del diritto positivo, si potrebbe ottenere quella determinazione dell’atto che la norma superiore non ha ancora effettuato, è un’illusione: il problema dell’individuazione della possibilità “giusta” non è rivolto alla conoscenza del diritto positivo, ma è un problema politico-giuridico. Come non si possono estrarre dalla costituzione leggi giuste a mezzo dell’interpretazione, così non si possono estrarre dalla legge sentenze giuste. Il vincolo del legislatore è molto più debole di quello del giudice, ma anche il giudice è un creatore del diritto ed è relativamente libero in questa funzione. La determinazione della norma individuale è una funzione della volontà, e non della conoscenza, in quanto con questa viene riempito lo schema della norma generale. Quando nell’applicazione della legge ha luogo un atto conoscitivo, non vi è conoscenza del diritto positivo, ma di altre norme (della morale, della giustizia…). In rapporto a queste, la realizzazione dell’atto giuridico è libera, a meno che il diritto positivo stesso non deleghi una norma metagiuridica, che però con ciò sarebbe trasformata in diritto positivo. La concezione per cui l’interpretazione sarebbe una conoscenza del diritto positivo, fondamento della “giurisprudenza dei concetti”, si basa su una rappresentazione del diritto come ordinamento fisso che determina il comportamento umano in ogni suo aspetto: è illusione della certezza del diritto. Il problema delle lacune All’interpretazione viene attribuita la funzione di colmare le lacune. Con “lacuna” non si intende che per mancanza di una norma sia impossibile una decisione (infatti, in una lite, una decisione in base alla legge è sempre possibile; l’ordinamento vigente è applicato anche nella decisione che respinge la pretesa di una parte), ma soltanto che la decisione logicamente possibile è ritenuta tanto inadatta o ingiusta da far supporre che il legislatore non abbia pensato a questo caso e che, se vi avesse pensato, avrebbe deciso diversamente. Questa supposizione, tra l’altro non facilmente dimostrabile, è irrilevante davanti all’obbligo costituzionale di applicare la norma che il legislatore ha emanato di fatto, anche se cattiva secondo chi applica il diritto. La lacuna, quindi, non è altro che la differenza tra diritto positivo e un ordinamento ritenuto più giusto. Una tale lacuna non può essere colmata dall’interpretazione, che non applicherebbe la norma ma, al contrario, la eliminerebbe per sostituirla con una migliore, quella desiderata da chi applica il diritto. Da tali lacune si distinguono le lacune tecniche, considerate colmabli tramite l’interpretazione. Esse hanno luogo quando il legislatore omette di regolare situazioni che avrebbe dovuto regolare (es.: la legge stabilisce che un organo debba essere creato per via elettiva, ma non regola il procedimento elettorale. In tal caso, ogni forma di elezione è legale; la determinazione del procedimento è lasciata a una norma di grado inferiore). Una norma può avere anche un contenuto privo di senso. Ma allora nessuna interpretazione è in grado di ricavare da essa un senso. La teoria delle lacune del legislatore Sebbene teoricamente le lacune della legge non esistano, il legislatore, indotto da una falsa teoria, può presupporre l’esistenza di lacune, stabilendo regole nel caso in cui non si possa trarre nessuna decisione dalla legge. Se la legge autorizza il giudice a decidere nel caso di lacune come se fosse il legislatore, ciò significa che il giudice, nei casi in cui ritiene insostenibile l’applicazione della legge, è autorizzato a decidere discrezionalmente al posto della legge. Il legislatore non può determinare i casi in cui vuole che subentri al suo posto il giudice: c’è quindi il rischio che questi deliberi anche nei casi in cui il legislatore voleva che fosse applicata la legge. Per limitare il pericolo di spostare il centro di produzione del diritto dal legislatore a colui che applica il diritto, l’autorizzazione di prescindere dalla legge è formulata in modo che il giudice non abbia coscienza del potere che gli viene trasferito: egli deve pensare che gli è permesso non applicare la legge solo nei casi in cui non può essere applicata. La finzione della “lacuna” gli nasconde che, in verità, è libero. Questa formula ha l’effetto voluto dal legislatore, cioè che il giudice faccia un uso raro della libertà concessagli; solo nel caso di una fortissima divergenza tra legge e propria coscienza giuridica avvertirà l’esistenza di una reale lacuna. VII. I metodi della produzione del diritto La teoria della costruzione a gradi dell’ordinamento considera il diritto nel suo movimento e autoproduzione, è una teoria dinamica. Al centro dei problemi di una dinamica giuridica sta quello dei metodi di produzione del diritto o delle forme del diritto. Se si riconosce come funzione essenziale della norma il fatto che essa obbliga gli uomini a un comportamento, per giudicare la produzione della norma bisogna vedere se l’uomo obbligato partecipa o no alla produzione della norma, cioè se l’obbligo si effettua con la sua volontà (autonomia) o senza di essa e eventualmente contro (eteronomia). Questo contrasto tra autonomia ed eteronomia viene applicato nel campo del diritto statale, in cui si presenta come distinzione tra democrazia e autocrazia, repubblica e monarchia, e ci fornisce la suddivisione comune delle forme di stato. La forma di stato è la forma del diritto, cioè il suo metodo di produzione, nel grado più alto dell’ordinamento: è il metodo di produzione di norme generali regolato dalla costituzione. L’identificazione della forma di stato con la costituzione corrisponde al pregiudizio che il diritto si esaurisca nella legge. Invece, il problema della forma di stato come metodo di produzione giuridica si presenta per tutti i gradi dell’ordinamento e in particolare per tutti i casi di produzione di norme individuali: atto amministrativo, sentenza, negozio giuridico. Diritto pubblico e diritto privato Secondo l’opinione più diffusa, il diritto privato indica un rapporto giuridico tra soggetti di egual ordine e valore giuridico (rapporto giuridico in senso stretto), e il diritto pubblico un rapporto tra un soggetto sovraordinato e uno sottordinato (rapporto di “potere”, di “imperio”). Il tipico rapporto di diritto pubblico è quello tra stato e suddito. La distinzione fra diritto privato e pubblico prende il significato di un contrasto tra diritto e un potere non giuridico o metagiuridico, e in particolare tra diritto e stato. Il maggior valore giuridico che spetta allo stato consiste nel fatto che l’ordinamento attribuisce ai suoi organi dotati di potestà d’imperio la capacità di obbligare i sudditi tramite una manifestazione unilaterale di volontà, ad esempio un ordine amministrativo. Mentre nel caso dell’ordine amministrativo i soggetti obbligati non hanno nessuna parte nella produzione della norma che li obbliga (produzione autocratica), nel negozio giuridico, e in particolare nel contratto, esempio tipico di rapporto di diritto privato, i soggetti obbligati partecipano alla produzione della norma (produzione democratica; sfera dell’autonomia privata). La dottrina pura del diritto scorge anche nel negozio giuridico, come nell’ordine amministrativo, un atto dello stato, cioè un fatto produttivo di diritto, che deve essere attribuito all’unità dell’ordinamento. Così relativizza il contrasto tra diritto pubblico e privato, trasformandolo da distinzione extrasistematica tra diritto e non diritto, diritto e stato, in distinzione intrasistematica. Con ciò supera l’ideologia unita all’idea di concepire come assoluto questo contrasto, e cioè che il principio del diritto non valga nel dominio del diritto pubblico con la stessa intensità con cui vale nel diritto privato. Nel campo del diritto pubblico prevarrebbe l’interesse dello stato, il pubblico bene, da realizzare liberamente entro i limiti della legge e, nel caso di necessità, anche contro la legge. Sviluppata dalla dottrina costituzionalistica, quest’ideologia deve assicurare al governo e al meccanismo amministrativo una libertà dalla legge. L’attribuzione del carattere assoluto al contrasto tra diritto pubblico e privato fa sorgere anche l’idea che solo il campo del diritto pubblico sia il dominio della sovranità, da cui sarebbe escluso il diritto privato. Si è mostrato come questo contrasto tra “politico” e “privato” non sussiste, perché i diritti privati sono diritti politici, in quanto anch’essi garantiscono la partecipazione alla formazione della volontà statale, cioè alla sovranità. IX. Stato e diritto internazionale Le norme del diritto internazionale generale attribuiscono obblighi e autorizzazioni a tutti gli stati. Fra queste, ha particolare significato la norma indicata con la formula “pacta sunt servanda”: autorizza i soggetti della comunità internazionale a regolare tramite patti il loro comportamento. Il diritto internazionale convenzionale oggi vigente ha solo carattere particolare. Accanto a questo, esistono il diritto internazionale consuetudinario generale e le norme giuridiche prodotte dai tribunali internazionali o organi simili. Dato che il diritto convenzionale poggia su una norma del diritto internazionale consuetudinario generale, dovrà valere come norma fondamentale del diritto internazionale (e con ciò anche degli stati singoli) una norma che instauri come fatto produttivo di diritto la consuetudine formatasi attraverso i comportamenti reciproci degli stati. Il fatto che il diritto internazionale consuetudinario generale sia più recente degli ordinamenti degli stati non impedisce che questi trovino in quello il fondamento della loro validità: la validità dell’ordinamento di uno stato membro si fonda sulla costituzione dello stato federale, sebbene successiva. Il diritto internazionale, come quello statale, è un ordinamento coattivo. La proposizione giuridica di diritto internazionale è il legame tra un fatto dannoso considerato come condizione, e un atto coattivo come conseguenza che, nel diritto internazionale, è rappresentato dalla rappresaglia e la guerra. Esso è però anche un ordinamento giuridico primitivo, caratterizzato da un vasto decentramento: manca un organo per la produzione ed esecuzione di norme giuridiche basato sulla divisione del lavoro, così come manca un organo oggettivo per decidere le liti tra stati; uno stato leso nel suo diritto è autorizzato a reagire contro il trasgressore con la rappresaglia o la guerra. È questa la tecnica dell’autodifesa da cui è partito anche lo sviluppo dell’ordinamento giuridico dello stato particolare. Domina il principio della responsabilità collettiva e indiretta: la conseguenza dell’illecito non si dirige contro un organo dello stato che ha violato il diritto internazionale, ma contro il popolo o l’esercito, che in nessun modo hanno partecipato al fatto. Il diritto internazionale attribuisce organi e autorizzazioni agli stati; obbliga e autorizza individui singoli non direttamente, come l’ordinamento statale, ma indirettamente, per mezzo dell’ordinamento giuridico dello stato particolare. Le norme di diritto internazionale sono imperfette, determinano solo l’elemento materiale (cosa si deve fare/omettere) e non l’elemento personale (chi deve compiere l’azione/omissione prescritta). Esse delegano l’ordinamento statale a determinare quest’ultimo. Esistono eccezioni, cioè norme di diritto internazionale che obbligano e autorizzano direttamente individui particolari; la responsabilità individuale diretta va a sostituirsi a quella collettiva indiretta. Questa tendenza procede di pari passo con la formazione di organi centrali per la produzione ed esecuzione di norme. Come per l’ordinamento statale, l’accentramento inizia dalla giurisdizione. L’unità del diritto internazionale e del diritto statale particolare a) L’unità dell’oggetto come postulato gnoseologico Lo scopo ultimo dell’evoluzione giuridica sembra essere un crescente accentramento e la formazione di uno stato mondiale, con totale unità di diritto internazionale e statale. Per ora, si può parlare solo di unità di tutto il diritto dal punto di vista gnoseologico. Si oppone a questa concezione quella tradizionale che vede il diritto internazionale e il diritto statale come sistemi normativi diversi, indipendenti e autonomi. Questa concezione è insostenibile se tanto le norme di diritto internazionale quanto quelle dei singoli stati devono essere considerate norme valide, giuridiche. La conoscenza giuridica si pone il compito di presentare il suo soggetto come unità, concependo come diritto tanto il diritto internazionale quanto quello statale. b) Il rapporto reciproco di due sistemi normativi Il giurista, quindi, deve concepire questo complesso di norme in un sistema unitario, privo di contraddizioni. Due complessi di norme possono costituire un sistema unitario: o se un ordinamento è subordinato all’altro in quanto trova nell’altro il fondamento della sua validità, la sua norma fondamentale, o se entrambi sono equiparati fra loro, reciprocamente delimitati nella loro sfera di validità. Ma ciò presuppone l’esistenza di un terzo ordinamento più elevato che li delimiti e li coordini. Il rapporto dell’ordinamento superiore con gli inferiori deve essere il rapporto di un ordinamento totale con gli ordinamenti parziali in questo compresi. La norma fondamentale dell’ordinamento superiore, in quanto grado più alto dell’ordinamento totale, è fondamento di validità di tutte le norme degli ordinamenti inferiori. c) Costruzione monistica o dualistica Contro una costruzione monistica che per la dottrina pura del diritto è solo una conseguenza gnoseologica, si obietta che l’indipendenza reciproca di diritto internazionale e statale risulta dalla possibilità di contraddizioni insuperabili fra i contenuti dei due. Se questa obiezione fosse esatta, la costruzione dualistica dovrebbe da un lato considerare l’ordinamento statale particolare come sistema esclusivo di tutte le norme giuridiche valide, dall’altro dovrebbe trattare gli ordinamenti degli altri stati e il diritto internazionale non come norme valide, ma solo nella loro esistenza di fatto, e non come diritto. Questo è il punto di vista dell’uomo primitivo, che riconosce come comunità giuridica solo la propria comunità. d) Il primato dell’ordinamento giuridico statale Secondo la costruzione dualistica, se il diritto internazionale deve essere obbligatorio per uno stato, e se gli altri stati devono essere trattati come comunità giuridiche, è necessario che siano “riconosciuti” da esso come tali: la volontà del proprio stato, inteso come ente giuridico più elevato, diventa il fondamento della validità dell’ordinamento internazionale, che perciò non appare più come superstatale ma solo come “diritto statale esterno”, e degli ordinamenti degli altri stati. La teoria del riconoscimento stabilisce un nesso di delegazione tra ordinamento giuridico statale e altri stati singoli. Ma con ciò si ricostruisce l’unità dell’immagine giuridica del mondo, non sulla base del primato dell’ordinamento internazionale ma del primato dell’ordinamento giuridico dello stato singolo: la costruzione dualistica è spinta a sopprimere se stessa attraverso la teoria del riconoscimento, che le è indispensabile. Si riconosce chiaramente l’intenzione politica di questa concezione: mantenere l’idea della sovranità dello stato, comunità giuridica assolutamente suprema. Il dogma della sovranità dello stato corrisponde ad una concezione soggettivistica del diritto, a cui si oppone il primato dell’ordinamento internazionale, come espressione di una concezione oggettivistica del mondo e del diritto. e) La negazione del diritto internazionale Questo soggettivismo è incapace di concepire un non-io con eguale pretesa di sovranità. La negazione della sovranità di tutti gli altri stati implica la negazione del diritto internazionale che, assunto nell’ordinamento giuridico dello stato, non può compiere la sua funzione essenziale di equiparazione di tutti gli stati. Il diritto internazionale, che diventa diritto statale esterno, trova il fondamento della sua validità nella costituzione dello stato, e la sua validità può essere annullata secondo le regole di questa costituzione. Con ciò viene annullato anche il riconoscimento degli altri stati: si ammette come diritto valido solo l’ordinamento giuridico del proprio stato. f) La risoluzione della “contraddizione” fra diritto internazionale e diritto dello stato singolo Nella teoria del riconoscimento del diritto internazionale da parte del diritto statale risiede già il superamento dell’obiezione basata sulla possibilità di una contraddizione irrisolvibile fra i due diritti: come potrebbe essere possibile una contraddizione se è la stessa volontà dello stato a riconoscere il diritto internazionale? Ciò che viene designato come contraddizione non è una contraddizione logica; è un caso speciale del conflitto già esaminato tra norma di grado superiore e inferiore: l’“antinormatività” di una norma indica solo la sua annullabilità o la punibilità di un organo responsabile. La posizione di una norma contraria alla norma può essere un fatto illecito a cui l’ordinamento collega un atto coattivo come conseguenza. Lo stesso si rileva nel rapporto tra diritto internazionale e statale: che il diritto internazionale obblighi lo stato a un atto o alla posizione di norme di un determinato contenuto, significa solo che l’atto opposto o la posizione di norme di contenuto diverso è la condizione a cui il diritto internazionale collega l’atto coattivo. La norma dell’ordinamento dello stato singolo che “viola” il diritto internazionale rimane valida anche dal punto di vista del diritto internazionale, il quale infatti non prevede nessun procedimento per annullarla. Nulla si oppone all’ammissione dell’unità di diritto internazionale e diritto dello stato singolo. g) Il primato dell’ordinamento giuridico internazionale L’unità non è solo, in senso negativo, mancanza di contraddizione logica, ma vi è anche un senso positivo. L’ordinamento internazionale coordina gli stati e ne determina la sfera di validità, in particolare territoriale. Una proposizione di diritto internazionale generale stabilisce che un governo giunto al potere tramite rivoluzione o colpo di stato è legittimo nel senso del diritto internazionale quando è in grado di assicurare durevole obbedienza alle norme che emana: il principio di effettività indica una delegazione da parte del diritto internazionale, che autorizza l’autorità del singolo stato a porre il diritto. Con ciò, il diritto internazionale determina la sfera di validità spaziale e temporale dell’ordinamento dello stato: essa si estende fin dove quest’ordinamento è efficace, e solo entro questa sfera lo stato singolo può porre i suoi atti coattivi senza violare il diritto internazionale. Così diventa possibile la contiguità spaziale di più stati. Il diritto internazionale inoltre, dato che le sue norme possono comprendere tutti gli oggetti possibili e quindi anche quelli finora regolati dagli ordinamenti statali, delimita anche la loro sfera materiale di validità. Lo stato singolo non ha più la “competenza della competenza”; ha una pretesa di totalità ristretta solo dal diritto internazionale. h) Lo stato come organo della comunità giuridica internazionale Lo stato è quindi un ordinamento giuridico parziale derivato immediatamente dal diritto internazionale, accentrato, con sfera di validità territoriale e temporale delimitata dal diritto internazionale e con una pretesa di totalità rispetto all’ambito materiale di validità, limitata solo dalla riserva del diritto internazionale. Lo stato particolare può essere designato come organo della comunità giuridica internazionale; solo come tale partecipa alla produzione del diritto internazionale. Questa visione è particolarmente importante per la produzione pattizia del diritto internazionale, che secondo alcuni sarebbe l’unica via per modificare e perfezionare il diritto internazionale. Tali autori infatti fingono che la produzione consuetudinaria del diritto sia un patto tacito, e fanno ciò per conservar il dogma della sovranità e ricondurre la validità del diritto internazionale alla volontà del singolo stato. Per mezzo della volontà di uno stato, però, un altro stato non può essere obbligato o autorizzato: se gli stati sono eguali, ciascuno può obbligare o autorizzare solo i propri sudditi. E anche due stati singoli uniti, senza delegazione di un ordinamento superiore, non sono in grado di produrre norme che valgano per il territorio di entrambi. C’è bisogno quindi di presupporre una norma di un ordinamento più elevato, appunto l’ordinamento internazionale, che qualifichi il trattato statale come metodo di produzione del diritto. Da questo punto di vista, i rappresentanti dei due stati contraenti formano un organo, composto ma unitario, della comunità giuridica internazionale. Solo in seconda linea, ognuno degli organi parziali che conclude il contratto è organo del proprio stato. Pertanto, non sono gli stati singoli (dogma della sovranità), ma è la comunità giuridica internazionale a produrre il diritto tramite i trattati internazionali. Questa immagine dello stato come organo del diritto internazionale serve a rappresentare in senso positivo l’unità del sistema giuridico (unità gnoseologica, non dal punto di vista organizzativo). La dottrina pura del diritto relativizza lo stato, concependolo come grado giuridico intermedio. i) Dottrina pura del diritto ed evoluzione del diritto universale La dissoluzione del dogma della sovranità, strumento dell’ideologia imperialistica contro il diritto internazionale, portata a termine dalla dottrina pure del diritto, ha importanti conseguenze politiche. Viene rimosso un ostacolo al perfezionamento del diritto internazionale e ad un possibile progressivo accentramento, sinora ostacolato da false rappresentazioni. La constatazione della possibilità di tale effetto non arreca nessun pregiudizio alla purezza della dottrina, perchè essa non mira ad altro che alla conoscenza pura. ritiene essenziale al diritto. Il diritto non è quindi, come afferma Austin, un comando di comportarsi in modo conforme alla legge, ma è l’istituzione di una misura coattiva, la sanzione, per una condotta “illegale”; e questa condotta ha il carattere di “illecito” solo in quanto è condizione della sanzione. Sebbene Austin riconosca l’importanza della sanzione, la dottrina pura del diritto arriva ad una conclusione evidente quando formula la norma giuridica come giudizio ipotetico nel quale l’illecito è condizione e la sanzione è conseguenza. Il senso col quale condizione e conseguenza sono collegate è quello del dover essere. L’obbligo giuridico Tanto per la dottrina pura del diritto quanto per Austin, l’obbligo è la base del diritto. Dire che un individuo è obbligato ad osservare una condotta significa che una norma giuridica prevede una sanzione per la condotta contraria, per l’illecito. Se la sanzione è diretta solo contro il trasgressore, si parla di responsabilità individuale; se è diretta contro i membri del suo gruppo, si parla di responsabilità collettiva. Quest’ultimo è il modo di agire del diritto internazionale, le cui sanzioni (rappresaglia e guerra) sono dirette contro i cittadini dello stato i cui organi hanno violato il diritto. Il fatto che la sanzione possa essere diretta contro individui diversi dal trasgressore rende necessario distinguere l’obbligo dalla responsabilità: la responsabilità grava sull’individuo contro cui è diretta la sanzione; l’obbligo grava sul potenziale trasgressore. Di regola, i soggetti di obbligo e responsabilità coincidono, ma esistono eccezioni, come appunto nel campo del diritto internazionale. Austin non distingue obbligo e responsabilità; parte dal presupposto che la sanzione è sempre diretta contro il trasgressore. Ad impedire ad Austin questa distinzione è il concetto di comando: una norma giuridica è un comando rivolto ad ottenere un comportamento conforme alla legge; la determinazione della sanzione non appare nella norma. Solo se questa viene indicata si può distinguere il caso in cui la sanzione si diriga contro l’individuo o contro qualcuno reso responsabile per un illecito altrui. Il diritto soggettivo L’espressione “diritto soggettivo” indica il diritto che uno ha di comportarsi in un certo modo, cioè la libertà, negazione di un obbligo, ma può anche indicare un diritto per cui un altro è obbligato a comportarsi in un certo modo. Ogni diritto che non costituisce una semplice libertà negativa da un obbligo, consiste in un obbligo di un altro. Come afferma Austin, diritto soggettivo e obbligo relativo esprimono la stessa nozione. La teoria di Austin non contiene però un concetto di diritto diverso da quello di obbligo. Questo diritto esiste quando a un individuo è concessa la possibilità di rendere effettivo l’obbligo di un altro, tramite la sanzione: solo in questo caso, il diritto di A di agire rispetto a B non coincide con l’obbligo di B verso A. Solo qui, secondo la dottrina pura del diritto, vi è un diritto soggettivo nel senso stretto della parola. La dottrina statica e quella dinamica del diritto: la gerarchia delle norme La giurisprudenza analitica di Austin considera il diritto come sistema di norme pronte per essere applicate, senza considerare il processo della loro creazione: è una teoria statica del diritto. La dottrina pura del diritto riconosce la necessità di uno studio della sua dinamica, del processo della sua creazione, perché il diritto regola la propria creazione. Il procedimento con cui si crea una norma, e in una certa misura il suo contenuto, è regolato da un’altra di grado superiore. La differenza tra norme che regolano la creazione e il contenuto di altre norme è espressa con la distinzione tra diritto formale (adjective) e sostanziale (substantive). L’ordinamento giuridico è quindi una gerarchia in cui le norme della costituzione formano il grado più alto; regolano la creazione e occasionalmente il contenuto delle norme generali, che a loro volta regolano le norme individuali. In questo sistema, la consuetudine è riconosciuta come fonte del diritto. Nella norma superiore si trova la ragione di validità dell’inferiore: una norma è valida in quanto creata nel modo prescritto da un’altra. È un principio dinamico. In questa concatenazione risiede l’unità dell’ordinamento. La ragione della validità della costituzione risiede nella norma fondamentale. Il diritto e lo stato La dottrina di Austin non ha un concetto giuridico dello stato; egli lo intende come persona sovrana o corpo sovrano di persone, da cui emana tutto il diritto positivo e che non è sottoposto al diritto stesso. Questo è un concetto del sovrano sociologico o politico. Nel diritto positivo non si può trovare un concetto di sovrano non suscettibile di limitazione giuridica; Austin non si occupa dello stato, bensì di un organo dello stato. La dottrina pura del diritto rileva che l’elemento costitutivo della comunità politica è un ordinamento. Lo stato non consiste nei suoi individui ma nella loro unione, cioè nell’ordinamento coattivo che regola il loro reciproco comportamento: l’ordinamento giuridico. La dottrina pura del diritto riconosce che lo stato è un ordinamento giuridico, superando il dualismo tradizionale tra diritto e stato. Gli individui che creano il diritto sono organi dello stato; certi atti da loro compiuti sono attribuiti allo stato, riferiti all’unità dell’ordinamento, perché questa condotta è determinata dall’ordinamento giuridico. Il diritto regola la propria creazione. Superato questo dualismo, gli elementi dello stato, territorio e popolazione, appaiono come le sfere territoriale e personale di validità dell’ordinamento. Sovrano è l’organo più alto dell’ordinamento e sovranità è una caratteristica dello stato stesso, al di sopra del quale non può esistere un ordinamento superiore. Diritto internazionale e diritto statale Se vi è un ordinamento giuridico superiore a quelli statali, questo deve essere il diritto internazionale. Mentre Austin ammette la sua validità solo come “una moralità positiva internazionale”, la dottrina pura del diritto lo riconosce, in quanto ordinamento coattivo, come diritto genuino. Il diritto internazionale obbliga gli stati a un certo comportamento reciproco in quanto stabilisce sanzioni (rappresaglia e guerra) contro il comportamento contrario. Secondo il diritto internazionale, la guerra è permessa solo come reazione contro un illecito (principio del bellum justum). Il diritto internazionale è diritto autentico, ma primitivo in quanto radicalmente decentrato, specialmente perché la reazione contro l’illecito è lasciata allo stato stesso e non delegata a un organo centrale. L’ordinamento internazionale non è uno stato ma un’unione di stati. Esistono due punti di vista riguardo al rapporto tra diritto statale e internazionale. Secondo quello dualistico, sono due sistemi di norme distinti e indipendenti. La dottrina pura del diritto dimostra che ciò è logicamente impossibile: se si riconoscono due sistemi di norme simultaneamente validi dal punto di vista del diritto positivo, si deve anche ammettere una relazione normativa tra i due; si deve ammettere l’esistenza di una norma o ordinamento che regoli i loro rapporti reciproci. La teoria monistica considera il diritto statale e internazionale come un sistema di norme, un’unità. Questa concezione si scinde in due teorie. Per la teoria del primato dell’ordinamento statale, le norme di diritto internazionale possono obbligare uno stato solo se sono riconosciute e incorporate nel suo ordinamento; non esiste un vero e proprio diritto internazionale, ma solo un “diritto statale esterno”. Questa teoria procede dal dogma della sovranità dello stato. La dottrina pura del diritto mostra che ciò è logicamente possibile, ma incompatibile con l’idea di uguaglianza tra gli stati, la quale è possibile solo nell’ipotesi che al di sopra degli stati vi sia un ordinamento giuridico che li parifichi, determinando le loro reciproche sfere di validità: è questa la teoria del primato del diritto internazionale. Secondo la teoria pura del diritto, la sovranità non è una caratteristica reale ma un giudizio di valore. Nella sfera delle relazioni internazionali, l’opinione per cui lo stato è sovrano per propria essenza corrisponde a una filosofia individualistica; il dogma della sovranità non è il risultato di un’analisi scientifica dello stato, ma il presupposto di una filosofia dei valori. Le norme del diritto internazionale sono incomplete; determinano solo l’elemento materiale ma non quello personale, per la cui determinazione l’ordinamento internazionale delega quello del singolo stato. Il diritto internazionale, quindi, obbliga gli individui indirettamente, per mezzo dell’ordinamento statale. Ciò presuppone la validità simultanea dei due. In base al principio di effettività, per cui un potere capace di assicurare obbedienza permanente al proprio ordinamento coattivo è uno stato nel senso del diritto internazionale, l’ordinamento internazionale determina le sfere di validità territoriale e personale degli ordinamenti statali. La giurisprudenza, nel considerare una norma valida quando è inserita in un ordinamento complessivamente efficace, si vale di un principio di diritto internazionale. Siccome gli ordinamenti statali trovano il fondamento della propria validità in quello internazionale, esso deve essere superiore agli ordinamenti statali e forma con questi un sistema giuridico uniforme e universale. Il compito della giurisprudenza è quello di comprendere tutto il diritto in un sistema di norme; se la giurisprudenza di Austin non si è posta questo compito, la dottrina pura del diritto ha percorso un notevole cammino in questa direzione. Appendice: Causalità e imputazione Natura e società Le scienze naturali e sociali hanno due diversi oggetti. La natura è un sistema di elementi connessi l’un l’altro come causa ed effetto, cioè secondo il principio di “causalità”. Le leggi della natura sono applicazioni di questo principio. La società è un ordinamento della condotta umana. Se si concepisce il comportamento umano come regolato dal principio di causalità, la scienza sociale non è diversa dalle scienze naturali. Ma se analizziamo le proposizioni concernenti il comportamento umano, troviamo che colleghiamo gli atti degli esseri umani anche secondo un principio diverso. Provando l’esistenza di questo principio, potremo considerare la società come sistema diverso dalla natura e le scienze sociali come diverse da quelle naturali. La struttura della regola giuridica Un principio diverso da quello di causalità si applica nelle regole con cui la giurisprudenza descrive il diritto. La regola giuridica afferma: se un illecito è stato commesso, deve essere applicata una sanzione. Mentre la connessione tra causa e effetto è indipendente dall’atto di un essere umano, quella tra illecito e sanzione è stabilita da un atto umano che produce diritto, cioè da un atto il cui significato è una norma. Se presupponiamo una norma che prescriva o autorizzi un comportamento, possiamo qualificare il comportamento conforme alla norma come giusto, corretto, e quello non conforme come non corretto. Se queste asserzioni sono giudizi di valore, la norma è il valore. Possiamo dire di un comportamento concreto che cade o non cade nella definizione di comportamento corretto, e perciò è o non è corretto. La norma non è una definizione, ma parte del contenuto della definizione di un comportamento corretto o non corretto. Definizione indica un atto di conoscenza. Gli atti che hanno ad oggetto una norma non sono atti di conoscenza ma di volontà; le autorità giuridiche non devono conoscere e descrivere il diritto ma produrlo. Conoscere il diritto è la funzione della scienza del diritto. Il principio di imputazione La scienza del diritto descrive i suoi oggetti con proposizioni in cui illecito e sanzione sono connessi dalla copula “deve essere”. Kelsen qualifica questa connessione come “imputazione” (Zurechnung). Se un individuo è zurechnungsfähig (responsabile) significa che si può applicargli una sanzione se commette un illecito; se è irresponsabile, in quanto per esempio è un bambino o insano di mente, non gli si può applicare una sanzione se commette un illecito. Possiamo dire quindi che la sanzione è imputata all’illecito, non è effetto di esso. La scienza del diritto descrive i suoi oggetti applicando il principio di imputazione e non di causalità. L’interpretazione socio-normativa della natura nei popoli primitivi L’uomo primitivo interpreta i fatti percepiti dai propri sensi in base agli stessi principi che regolano i suoi rapporti con gli altri uomini, cioè le norme sociali. Il principio più primitivo che determina la vita sociale è la norma della retribuzione: se ti comporterai in modo giusto, sarai ricompensato; se ti comporterai male, sarai punito. Condizione e conseguenza non sono unite dal principio di causalità ma di imputazione. Un fatto dannoso è quindi interpretato come punizione di un comportamento ingiusto; un fatto vantaggioso come ricompensa per un comportamento giusto. Se un fatto avviene, l’uomo primitivo non si chiede quale sia la causa, ma chi ne sia responsabile: questa è un’interpretazione socio-normativa della realtà. Il cosiddetto animismo dell’uomo primitivo, la convinzione che tutte le cose abbiano un’anima, significa credere che le cose reagiscano verso l’uomo così come gli uomini reagiscono nei loro mutui rapporti, cioè secondo la norma della retribuzione. L’essenza dell’animismo è un’interpretazione personalistica, socio- normativa della realtà, non in base al principio di causalità ma di imputazione. Per l’uomo primitivo, la natura è parte della società. Il dualismo di natura come ordinamento causale e società come ordinamento normativo è il risultato di un’evoluzione intellettuale con cui si è stabilita la differenza tra uomo e altri esseri, persone e cose. È frutto dell’emancipazione dall’animismo, il cui strumento è stato il principio di causalità. L’origine del principio di causalità dalla norma della retribuzione Il principio di causalità ha origine da una trasformazione del principio di imputazione per cui nella norma della retribuzione il comportamento ingiusto è collegato a una punizione e quello giusto a una ricompensa.
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