Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto "Linguistica Storica", Elisabetta Magni, Sintesi del corso di Linguistica

Riassunto completo del manuale di glottologia "Linguistica Storica", Elisabetta Magni

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 31/03/2020

michele-zubani
michele-zubani 🇮🇹

4.6

(45)

6 documenti

1 / 43

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "Linguistica Storica", Elisabetta Magni e più Sintesi del corso in PDF di Linguistica solo su Docsity! CAPITOLO 1 La variazione e il cambiamento Le lingue non sono entità monolitiche e inalterabili e similmente ad altre creazioni umane, come le mode o la cultura, sono intrinsecamente mutevoli nello spazio e nel tempo. La situazione linguistica del presente è infatti frutto di innumerevoli avvenimenti che nel corso dei secoli hanno causato la morte, la nascita o la trasformazione delle lingue. La lingua è un sistema in costante sviluppo non solo nel singolo individuo che la acquisisce, ma soprattutto a livello di comunità di parlanti che la usano e la adattano alle loro esigenze comunicative sempre nuove e diverse. La competenza di una lingua dipende quindi anche dalla consapevolezza dei meccanismi che ne regolano la variazione nel passato e nel presente. A tal proposito nello studio della linguistica distinguiamo due prospettive:  La linguistica sincronica: descrive le lingue e le loro strutture per come si presentano in un determinato punto del tempo.  La linguistica diacronica: studia le lingue e i fenomeni linguistici lungo l’asse temporale, considerandone le vicende storiche e l’evoluzione. Lo studio della variazione linguistica interessa sia la dimensione diacronica che quella sincronica, perché le lingue variano non solo nel tempo ma anche all’interno delle comunità di parlanti che se ne servono. Il contesto del cambiamento linguistico è tridimensionale e si basa su tre fattori: 1. La variazione diacronica Secondo Saussure, l’immobilità linguistica assoluta non esiste se non nella lingua letteraria, ma essa è vincolata da regole non naturali e non può quindi mostrarci le variabili del mutamento linguistico. Ovviamente, la variazione diacronica è empiricamente osservabile soprattutto sulla base di fonti scritte, ma lo studio richiede non poche cautele. Nel caso dei materiali linguistici molto antichi si incontrano problemi di decifrazione, la normalizzazione dei testi operata dagli scribi si è adattata difficilmente all’evoluzione di lingue ed alfabeti e molto spesso si è persa la corrispondenza fra ortografia e pronuncia. Leggere la variazione è leggere fra le righe di un testo, individuando tutti quei cambiamenti, anche minimi, che accumulandosi vanno a formare mutamenti macroscopici regolari. Nel confronto fra testi del passato e del presente si fa spesso riferimento al principio di uniformità, che afferma che i processi naturali che hanno operato nel passato sono in ultima analisi gli stessi che operano nel presente. La lingua non farebbe eccezione a questo principio. 2. La variazione interlinguistica Sempre per Saussure, ciò che più colpisce nello studio delle lingue è la loro diversità, le differenze linguistiche che appaiono quando si passa non solo da un paese all’altro ma anche in aree e comunità estremamente vicine. La variazione interlinguistica è la prospettiva che si occupa di studiare e spiegare tali differenze. L’osservazione e la percezione di somiglianze o differenze possono essere facili punti di partenza per formulare ipotesi sulla parentela fra lingue, ma fattori come elenchi di parole e vicinanza geografica sono solo alcune delle variabili da tenere in considerazione e non sono sufficienti per delineare i rami delle complesse famiglie linguistiche e la loro diffusione. 3. La variazione intralinguistica Riguardo alla dimensione sociale Saussure dice che la lingua non è libera ed essendo una istituzione sociale si può intendere come regolata a priori da prescrizioni, similmente a come accade per la società e le altre istituzioni. Di queste dinamiche si occupa la sociolinguistica, che studia le modalità con cui la lingua in una comunità di parlanti si diversifica nello spazio geografico (variazione diatopica), in base alle classi sociali (variazione diastratica), alle situazioni comunicative (variazione diafasica) e al mezzo attraverso cui si comunica (variazione diamesica). Per capire la realtà di una lingua, secondo la prospettiva intralinguistica, è utile guardare al linguaggio in uso, o parole, piuttosto che all’astratto concetto di langue, interpretando la lingua come un diasistema, ossia un sistema che riunisce sottosistemi rappresentati dalle singole varietà linguistiche di parlanti individuali o comunità. Gli ambiti della linguistica storica Uno dei rami della linguistica che si occupa dello studio della variazione e del cambiamento linguistico è la linguistica storico-comparativa, che si pone principalmente alcuni obiettivi:  Descrivere la storia delle comunità linguistiche. È la raccolta di informazioni sulle vicende dei gruppi linguistici.  Interpretare i mutamenti osservati nel confronto fra diverse fasi di una lingua. Presuppone la conoscenza dei termini e dei criteri di classificazione e analisi delle differenze tra stati di lingua successivi, al fine di porre una tipologia generale sui mutamenti fonologici, morfologici, semantici, sintattici e lessicali.  Definire modelli e teorie sul cambiamento linguistico. Richiede di capire i meccanismi e i principi alla base delle trasformazioni linguistiche, influenzati da diversi fattori come il contatto linguistico o la diffusione di innovazioni. Il contatto tra lingue è sicuramente una delle cause più immediate e vistose del cambiamento, specialmente laddove causa rinnovamenti nel lessico attraverso fenomeni di prestito. (ing. Street < lat. Strata). In generale, avvicinamenti di popoli e culture, in pace o in guerra, hanno da sempre generato molteplici confronti fra lingue che hanno permesso scambio e condivisione di vocaboli e strutture linguistiche. Nella riflessione sul mutamento linguistico è quindi ovvia la centralità del ruolo dei processi di interferenza, sia a livello macroscopico che microscopico. La trasmissione di caratteri innovativi in un’area linguistica, così come la propagazione del cambiamento linguistico in una comunità ristretta di parlanti, sono legate da alcune variabili, tra cui:  Fattori geografici, come i confini nazionali o gli ostacoli naturali che possono rallentare la trasmissione di innovazioni da un gruppo di parlanti o un altro  Fattori politici, come la differenziata distribuzione di popoli dominanti che possano e hanno effettivamente ridisegnato il panorama linguistico di interi continenti (come il latino per l’Impero Romano o l’arabo per l’Islam).  Fattori sociali, laddove il prestigio degli individui o dei gruppi può decretare il successo di una innovazione, che può essere imitata o adottata dagli altri membri meno influenti della società. Questi fenomeni sono ampi e complessi e hanno spinto a cercare spiegazioni nella dimensione globale degli universali e della tipologia linguistica. Nell’organizzazione dei sistemi linguistici certi tratti o strutture sono più frequenti o possono essere correlati ad altri. Considerando che tali tendenze si manifestano sia in diacronia che in sincronia, è legittimo pensare che le proprietà strutturali sincroniche delle lingue influenzino i percorsi di mutamento linguistico, che concorrono pertanto a rafforzare quelli che sono i tratti più diffusi. Un’altra teoria segue la prospettiva opposta e vede alla base delle generalizzazioni tipologiche traiettorie evolutive convergenti, che sancirebbero la natura diacronica degli universali linguistici. A questi due approcci, strutturale ed evolutivo, si accosta un'altra visione, che tiene conto dei fattori esterni alla lingua nell’analisi della variazione linguistica, cognitivi, biologici e funzionali. CAPITOLO 3 Il panorama delle lingue in Europa Il contesto indoeuropeo è il dominio della linguistica in cui matura la prima vera riflessione scientifica sul cambiamento. Per la descrizione di tale contesto, il termine generalmente adottato è di “famiglia indoeuropea”. Più generalmente, in Europa, alcune lingue sono rimaste isolate e relativamente omogenee, altre hanno avuto uno sviluppo più complesso e articolato da fenomeni di interferenza e dalla formazione di sottofamiglie linguistiche. È importante precisare che la vicenda evolutiva di una lingua non ha un legame diretto con il tempo della storia e che ad ogni periodo storico può corrispondere una evoluzione più o meno considerevole. Le traiettorie di mutamento, in altre parole, non procedono con velocità uniforme. Le lingue indoeuropee La distinzione fra le varie lingue della famiglia indoeuropea viene tradizionalmente rappresentata secondo il modello ad albero, che ne riporta le rispettive sottofamiglie. 1. Lingue anatoliche: sono le lingue un tempo parlate nel territorio dell’attuale Turchia. Esse includono il palaico, il luvio, il lidio, il licio, il cario e soprattutto l’ittita. L’ ittita era particolarmente diffuso nella penisola anatolica in epoca antica e può contare su numerosi documenti in scrittura cuneiforme distribuiti su un arco temporale che va dal II millennio a.C. al XIII secolo a.C. 2. Lingue greche: il ramo del greco era originariamente suddiviso in vari dialetti ed è una lingua di antichissima attestazione. I primi materiali linguistici risalgono infatti al II millennio a.C., relativamente al miceneo tramandato in una grafia sillabica nota come lineare B. Dopo il cosiddetto medioevo ellenico la documentazione scritta del greco fa uso di un nuovo alfabeto, che è un adattamento del sistema di scrittura fenicio. Sotto il regno di Alessandro Magno (IV sec a.C.) le varietà dialettali del greco antico finirono per unificarsi in una lingua comune, oggi continuata nel neoellenico (o greco moderno) 3. Latino: è una lingua di attestazione più recente, considerato che i primi testi epigrafici risalgono la VI sec. a.C. Era inizialmente parlato da una piccola comunità insediata intorno al cosso del basso Tevere e divenne ben presto la lingua di Roma e del suo Impero prima e della cristianità poi. Il latino volgare finirà per allontanarsi dal latino classico e diverrà la base da cui si formeranno le lingue neolatine. 4. Lingue italiche: includono principalmente osco e umbro, la cui documentazione è abbastanza consistente e da una serie di tradizioni linguistiche minori di più frammentaria attestazione. 5. Lingue celtiche: erano originariamente diffuse in un territorio vastissimo e sono divise tradizionalmente in due sottogruppi: celtico continentale, estinto, e celtico insulare, che sopravvive nelle lingue gaeliche e britanniche parlate in Regno Unito. 6. Tocario: lingua parlata anticamente nel Turkestan cinese e tramandata attraverso testi religiosi redatti tra la metà e la fine del I millennio d.C. 7. Lingue indo-iraniche: si suddividono in lingue iraniche, documentate a partire dal VI sec. a.C. e che si evolvono nel persiano e persiano moderno, e lingue indoarie, che includono vedico (la lingua dei Veda), il sanscrito e i dialetti pràcriti, parlati nell’India moderna e nel Pakistan (hindi e urdu). 8. Armeno: è una lingua isolata documentata dal V sec. d.C. e tuttora parlata nella Repubblica di Armenia. 9. Albanese: altra lingua isolata documentata in tempi recenti, cioè dalla metà del Cinquecento e parlata in Albania e alcuni stati confinanti. 10. Lingue baltiche: documentate a partire dal Cinquecento, comprendono lituano, lettone e antico prussiano, estinto nel Settecento. 11. Lingue slave: derivano dal proto-slavo e sono suddivise in tre sottogruppi: lingue slave occidentali, lingue slave orientali e lingue slave meridionali. Le lingue slave occidentali sono scritte in alfabeto latino e includono polacco, ceco, slovacco e sòrabo. Le lingue slave orientali sono scritte in alfabeto cirillico e comprendono il russo, parlato in Russia e nelle minoranze nelle repubbliche dell’ex URSS, bielorusso e ucraino. Le lingue slave meridionali sono scritte sia in latino, come lo sloveno e il croato, che in cirillico, come il serbo, il macedone e il bulgaro. Il bulgaro è la lingua slava di cui si hanno attestazioni più antiche, con una traduzione della Bibbia del IX sec. 12. Lingue germaniche: presentano un panorama particolarmente articolato e si sono progressivamente distinte da un nucleo comune, il proto-germanico, a partire dal III sec. d.C. Gli studiosi le suddividono in tre sottogruppi: lingue germaniche orientali, lingue germaniche occidentali e lingue germaniche settentrionali. Le lingue germaniche orientali sono tutte estinte ed il gotico del IV sec. d.C. è l’unica che fornisce un corpus linguistico sufficientemente consistente: la Bibbia di Wulfila rappresenta un punto di riferimento per la ricostruzione filologica delle lingue germaniche ed indoeuropee. Le lingue germaniche occidentali includono inglese e tedesco (alto e basso tedesco), ma anche il frisone (zona costiera e insulare di Olanda e Germania), il nederlandese (Belgio e Paesi Bassi), l’afrikaans (coloni giunti in Africa nel 1600), lo yiddish (dialetto ebraico- tedesco, diffuso negli USA). Le lingue germaniche settentrionali, che includono lo svedese, il danese, il norvegese, l’islandese e il feroese. 13. Lingue romanze (o neolatine): insieme alle lingue slave e alle lingue germaniche sono il terzo grande gruppo linguistico in Europa. Si sono sviluppate e diffuse su un vasto territorio tradizionale detto Romània. Sono costituite da diversi sottogruppi: a. Lingue ibero-romanze: includono portoghese, castigliano, gallego e catalano. b. Lingue gallo-romanze: la più importante è il francese, ma conta anche il provenzale (lingua letteraria medievale), il guascone e l’aranese. c. Italo-romanzo: include italiano e corso. d. Reto-romanzo: si riferiscono a tre dialetti isolati dell’italiano, ovvero romancio svizzero, ladino e friulano. e. Sardo: sviluppato in contesto storico e ambientale di isolamento in Sardegna. f. Rumeno: è la più orientale delle lingue romanze ed è parlata in Romania, Moldavia, Albania e Grecia. 14. Lingue romanì: lingue parlate dagli zingari sinti e kalé che si sono spostati dall’India all’Europa a partire dall’anno Mille. Le lingue non indoeuropee parlate in Europa Tra esse si contano: 1. Lingue uraliche: ungherese, finlandese ed estone, appartenenti al gruppo più ampio delle lingue ugro-finniche. La storia dell’ungherese inizia nel IX sec. quando gli Ungari invasero la provincia della Pannonia; una volta cristianizzati, consolidarono la loro tradizione culturale e linguistica. La transizione all’ungherese moderno inizia nel Quattrocento ed è influenzata dalla dominazione turca e poi austriaca. 2. Finlandese: parlato in Finlandia, nasce nel contesto della Riforma ed è influenzato dalla dominazione dell’Impero russo e dal conseguente nazionalismo romantico che culmina con la creazione dell’epopea nazionale, il Kalevala. 3. Lingue sami: lingue lapponi molto frammentate e in parte prossime all’estinzione, parlate in Norvegia, Svezia, Finlandia e Russia, principalmente nelle aree più settentrionali. 4. Basco: lingua isolata per eccellenza, parlato in una piccola regione situata tra Francia e Spagna è riuscito a conservare la propria individualità genetica. È una lingua agglutinante. CAPITOLO 4 Il mutamento fonologico Le indagini sui mutamenti di suono nelle lingue figlie sono uno dei temi principali della ricerca linguistica ottocentesca. In questo ambito i Neogrammatici si occuparono di individuare e teorizzare le cosiddette “leggi fonetiche”. I cambiamenti di suoni, o meglio fonemi, può avvenire in due modi principali:  Mutamento sistematico: mutamento che modifica con regolarità un dato tipo di articolazione. Ne esistono di due tipi, ovvero condizionato e non condizionato,  Mutamento non sistematico (o sporadico): mutamento che si verifica occasionalmente, solo in singole parole o in una serie limitata di vocaboli. Il mutamento sistematico non condizionato Il mutamento sistematico non condizionato si verifica in condizioni indipendenti dal contesto. Secondo i Neogrammatici la procedura scientifica corretta per stabilire la parentela tra lingue e formare una lingua originaria è proprio l’individuazione di corrispondenze sistematiche, in primo luogo tra i suoni delle parole a confronto. Da questo confronto possono emergere prove di mutamenti fonologici. Prendendo ad esempio le parole che significano “madre” in latino, greco e sanscrito, è possibile formulare una prima ipotesi su quella che può essere la lingua originaria, che viene tradizionalmente indicata col termine proto- indoeuropeo (PIE). Quello delle parole che si riferiscono a “madre” è un caso ideale, infatti la procedura è solitamente più complessa. L’apparente assenza di linearità emerge per esempio confrontando le forme delle lingue germaniche, laddove la situazione delle consonanti va a complicarsi considerevolmente. Da prove empiriche si è osservato che le consonanti attraversano nel tempo e nello spazio un processo di cambiamento regolare, riguardo labiali, dentali e velari sia sorde che sonore. Il punto interessante è proprio il carattere regolare della diversità fra le consonanti delle varie lingue germaniche, che appaiono caratterizzate da un mutamento sistematico non condizionato. Nella Deutsche Grammatik, Jacob Grimm descrive in maniera estremamente dettagliata e convincente la sistematicità del consonantismo germanico in relazione alle altre lingue indoeuropee attraverso la cosiddetta “prima mutazione (o rotazione) consonantica”, anche nota come “legge di Grimm”. La legge di Grimm codifica la serie di mutamenti che causano la ristrutturazione del sistema consonantico nel proto- germanico dall’indoeuropeo. Nelle tre fasi principali, i fonemi ereditati dall’indoeuropeo mutano come segue: 1. PIE occlusive sonore aspirate  PGerm occlusive sonore 2. PIE occlusive sonore  PGerm occlusive sorde 3. PIE occlusive sorde  PGerm fricative sorde Il mutamento sistematico condizionato Per i Neogrammatici il mutamento fonetico è in linea di principio un processo meccanico assolutamente regolare e le leggi che lo codificano operano senza eccezioni. Se così fosse, allora bisogna pensare che nelle parole in cui il suono presenta delle eccezioni, il suono non si trovi in uguali condizioni e che, quindi, l’influsso di un determinato contesto determini esiti differenti . Qualora questi sviluppi mostrino sistematicità, siamo di fronte ad un fenomeno di mutamento condizionato, descrivibile da una legge precisa. I mutamenti che interessano gruppi di suoni contigui possono provocare sia la fonologizzazione, quindi la produzione di fonemi nuovi, che la defonologizzazione, quindi la perdita di fonemi. Nel primo caso si parla di coalescenza, che è la fusione di due o più fonemi, mentre nel secondo caso di scissione. Quando in un sistema fonologico si verifica una serie di mutamenti uno correlato all’altro, si parla di mutamento a catena. Si parla di catena di propulsione quando il mutamento in sequenza è dovuto alla pressione esercitata dallo spostamento di un suono che si motiva con l’esigenza di mantenere sufficiente distanza e riconoscibilità tra fonemi. Rovesciando il ragionamento, si parla invece di catena di trazione, ossia un riassetto del sistema fonologico innescato dalla necessita di riempire una posizione fonologica (come una “casella”) vuota, che attrae naturalmente un fonema attiguo nel sistema. La scelta dell’una o dell’altra rappresentazione può essere arbitraria e dettata dai dati empirici utili a documentare le tappe dello sviluppo a catena. Nel caso della mutazione consonantica delle lingue germaniche o del Great Vowel Shift, per esempio, i due ragionamenti possono essere complementari. La cronologia del mutamento Nell’osservare e studiare i mutamenti delle lingue si possono seguire due strategie principali: il metodo della comparazione e il metodo della ricostruzione interna. La raccolta, la valutazione e le analisi dei materiali di studio, sia per un metodo che per l’altro, richiedono particolari cautele. Studiando fasi linguistiche remote, per esempio, i documenti sono tanto preziosi quanto difficili da decifrare ed interpretare. Inoltre, la prima testimonianza scritta di un mutamento linguistico non coincide necessariamente con l’esordio effettivo del fenomeno, perché in genere l’ortografia si adegua con lentezza alle innovazioni che la lingua parlata accoglie già da tempo. Questo è il motivo per cui molti degli alfabeti moderni presentano incoerenza più o meno evidente tra grafemi e fonemi, come nel caso dell’inglese in relazione al Great Vowel Shift. Il metodo comparativo consente di ricavare indizi sulla cronologia relativa dei fenomeni linguistici osservandone la distribuzione geografica su più lingue. Il linguista italiano Matteo Giulio Bartoli ha concepito l’idea di formulare ipotesi cronologiche in base alla distribuzione geografica dei fenomeni linguistici seguendo quattro cosiddette norme areali: 1. Norma dell’area isolata, secondo la quale le aree meno esposte alle comunicazioni e al contatto conservano tendenzialmente la forma linguistica anteriore. Ne sono esempi l’Islanda e la Sardegna. 2. Norma delle aree laterali, secondo la quale di solito le aree laterali, appunto, conservano forme più antiche rispetto all’area centrale. Ne sono esempi la Spagna e la Romania, che si trovano ai due poli opposti della Romània. 3. Norma dell’area maggiore, che conserverebbe forme più antiche rispetto all’area minore, a meno che questa non sia area isolata o laterale. 4. Norma dell’area seriore, secondo la quale le zone in cui la lingua dei colonizzatori è arrivata più tardi, esse conservano le forme più antiche. Il metodo della ricostruzione interna, nel caso del mutamento fonologico, consente di ricavare indizi sulla cronologia relativa dei fenomeni linguistici osservandone i rapporti di implicazione all’interno di una stessa lingua. La gradualità del mutamento fonologico Sebbene leggere il mutamento attraverso le testimonianze linguistiche scritte del passato, è sempre bene tenere conto dei limiti dei nostri mezzi di indagine e della nostra prospettiva, lontana dagli eventi presi in analisi. In più, nonostante la ricerca muova partendo dal presupposto che i fenomeni più diffusi e documentati siano mutamenti regolari (leggi fonetiche), nella realtà dei comportamenti umani, il modo in cui si attua un cambiamento è raramente “regolare” e più normalmente “graduale”. O ancora, la novità può avere una diffusione limitata nel tempo e nello spazio, oppure può stabilizzarsi, in un sistema che accetta pienamente la variazione. Osservando un mutamento del tipo AB, come lat. folia, filius, fabulari  sp. hoja, hijo, hablar, per esempio, è legittimo percepire la regolarità delle corrispondenze tra gli elementi (f  h) come una transizione immediata. Tuttavia, l’analisi di fenomeni linguistici non può mai prescindere dal postulato di gradualità, ovvero che esistano delle fasi intermedie nel mutamento da A a B. Nel caso specifico di questo mutamento, tipico del castigliano, in una fase iniziale la [f] si realizzava con tre allofoni, che sono stati successivamente generalizzati e gradualmente persi: la [h] iniziale, infatti, non si pronuncia. Inoltre, è possibile seguire le tappe dell’estensione di questo fenomeno di mutamento anche dal punto di vista geografico, a partire dal fulcro dell’innovazione, ovvero la Castiglia, come testimoniano i documenti più antichi che lo segnalano. Qui, il nome latino Forticius, compare come Ortiço in un testo dell’863 e come Hortiço in un testo del 927. Lo stesso nome appare nella vicina Aragona nel 1099, stavolta come Hortiz prima e Ortìz poi, nel 1100. Altre testimonianze confermano che l’innovazione si propaga successivamente a nord-est, nord-ovest e sud del punto d’origine del mutamento, in corrispondenza all’espansione territoriale della Castiglia nei secoli della Reconquista. La questione della gradualità diventa ancora più complessa nell’ambito delle palatalizzazioni, ovvero una serie di fenomeni di assimilazione parziale di consonanti attigue a segmenti vocalici anteriori. Questo fenomeno è ben noto nelle lingue slave, dove si realizzano diverse serie di palatalizzazioni. Un altro fenomeno che testimonia il carattere graduale del mutamento linguistico è la seconda rotazione consonantica dell’alto tedesco. La diversificazione interna delle lingue germaniche in seguito alla prima rotazione consonantica (legge di Grimm), risulta nell’emergere di tratti specifici di ciascuna lingua. A questo punto, il tedesco ha subito una ulteriore fase di riassetto del sistema consonantica, riconosciuta da Grimm proprio come “seconda mutazione consonantica”. Questa legge, anche nota come “seconda legge di Grimm”, descrive una serie di cambiamenti che si articolano non solo nel tempo, ma soprattutto nello spazio: è infatti un fenomeno proprio dell’alto tedesco, quello su cui si basa la varietà standard, poiché la maggior parte dei cambiamenti ha come centro di irradiazione le regioni meridionali della Germania. Si possono distinguere tre fasi della seconda mutazione consonantica: 1. /p, t, k/ in posizione centrale o finale di parola  /f(f), s(s), x(x)/, in un passaggio da occlusive sorde a fricative sorde. (ing. water, make, deep  ted. Wasser, machen, tief) 2. /p-, t-, k-/ in posizione iniziale di parola e geminate /-pp-, -tt-, -kk-/  /pf, ts, kx/, affricate in alto tedesco. (ing. apple  ted. apfel) 3. /b, d, g/  /p, t, k/ per colmare lo spazio vuoto lasciato dalle fasi precedenti del mutamento, in un passaggio da occlusive sonore a occlusive sorde. (ing. door, god  ted. Tür, Got) Nel 1876, George Wenker, si propose di individuare i confini dei dialetti tedeschi osservando proprio la propagazione di questi fenomeni dell’alto tedesco. Uno dei suoi scopi era dimostrare la tesi dei Neogrammatici dell’assolutezza delle leggi fonetiche, attraverso la proiezione cartografica del cambiamento, ovvero tracciandone le isoglosse. L’esito della sua ricerca, ossia la proiezione dei confini di questi fenomeni di cambiamento, fu inaspettato: le isoglosse, anziché apparire in un fascio sovrapposto ai territori del fiume Reno, si aprivano a ventaglio, formando quello che i dialettologi chiamano “ventaglio renano”. Questa scoperta porta alla conclusione che il mutamento agisce in rapporto alla variazione non solo diatopica (quindi geografica), ma anche diastratica a diafasica. Di conseguenza, si nota che la diffusione del cambiamento molto spesso complica le idealizzazioni teoriche dei linguisti. In generale, i fenomeni di variazione si possono correlare a fattori sociali come età, sesso, istruzione e prestigio, ossia il livello di rispetto accordato a una varietà. La coesistenza di varianti diverse, inoltre, molto spesso è indicativa di un processo evolutivo ed è proprio la differenza nella loro distribuzione all’interno della comunità di parlanti a dare indizi sulla direzione del cambiamento. Per questo motivo, sebbene il principio di uniformità sia sempre osservabile, è indubbio che anche le variabili sociali, e quindi la dimensione diastratica, influenzino il cambiamento e vadano tenute in considerazione quando lo si studia. Ritornando all’esempio dell’innovazione lat /f-/  sp. /h-/  cast. /Ø/, si nota che è un caso esemplare di influenza diastratica sul mutamento. Nell’antica Castiglia la pronuncia di questa innovazione è un tratto tipico della parlata rurale, quindi una variante “bassa”, ma è percepita come ben più prestigiosa e “alta” nelle zone limitrofe. Con l’ascesa politica e culturale della Castiglia, infatti, l’innovazione acquista prestigio e si diffonde in tutta la penisola iberica, per poi nominalizzarsi nel XVI sec. Atlanti linguistici e ricerca dialettologica anche in questo caso, quindi, contribuiscono a ridimensionare le posizioni dogmatiche dei Neogrammatici: se da un lato si palesano i limiti dell’assunto secondo cui il mutamento si realizzerebbe sempre e simultaneamente in tutte le parole che contengono un certo suono interessati, dall’altra di fa sempre più evidente la necessità di indagare gli altri fattori che pilotano la diffusione di una data innovazione nel lessico. Secondo un punto di vista “diffusionista”, il mutamento ha origine in un gruppo limitato di parole, per poi trasmettersi in modo graduale ad altre serie di elementi lessicali a cui sono foneticamente, morfologicamente, sintatticamente, semanticamente o socialmente (usate dallo stesso gruppo di parlanti) vicine. Ritornando alla transizione del castigliano lat /f-/  sp. /h-/  cast. /Ø/, è evidente come le parole che fanno eccezione al mutamento sono di uso specialistico e meno frequenti, come fiel, fiebre, fiesta o fin. La sociolinguistica, che si occupa di studiare e interpretare proprio l’influenza di queste variabili, sostiene la tesi che il mutamento colpisce prima le parole più usate. Mutamento fonologico e universali La linguistica storica, che ha inaugurato il metodo scientifico della comparazione si è occupata per la prima volta di stabilire una classificazione genealogica delle lingue del mondo. Sviluppata più di recente, la tipologia linguistica applica invece una comparazione centrata sulla classificazione tipologica delle lingue, con il fine di individuare degli universali linguistici. Sovrapponendo i due modelli di indagine della variazione linguistica, è stato possibile individuare degli universali assoluti, che descrivono la diffusione e la frequenza di singoli parametri linguistici e universali implicazionali, che riguardano il rapporto fra due parametri. È stato così possibile anche nella dimensione della fonologia, riconoscere universali fonologici in senso stretto, ovvero fenomeni fonologici presenti in tutte le lingue del mondo e svariate tendenze universali, attestate con frequenza ma non sempre presenti. In tal senso, gli universali fonologici assoluti sono pochi e generalmente poco indicativi (per esempio: “tutte le lingue hanno consonanti e vocali” o “tutte le lingue hanno vocali orali”). Le tendenze universali risultano più numerose ed interessanti: “il contrasto fra cinque vocali è la norma e i sistemi linguistici più comuni sono quelli che si approssimano a questo numero di vocali basiche”, oppure “la tendenza diacronica alla simmetria fonologica è universale”. Un approccio più recente ai fenomeni di variazione interlinguistica propone assunti riguardanti la nozione di marcatezza, ovvero la distinzione tra un elemento strutturalmente più semplice e/o frequente e un elemento più complesso e/o meno frequente: “le vocali orali sono non marcate rispetto alle vocali nasali” o “se una lingua ha un suono marcato come fonema, avrà come fonema anche il corrispondente non marcato”. La marcatezza delle vocali nasali è interpretata in due modi: 1. Per la linguistica generativa di Chomsky, il fatto che il tipo di vocale più diffuso sia orale, risulta nel fatto che il tratto [+ nasale] rende la grammatica più complessa. Di conseguenza i bambini, che nel piano dell’acquisizione di una lingua madre prediligono la semplicità, tendono a non attivare il tratto [+nasale]. 2. Per la tipologia diacronica di Greenberg, cercando di cogliere il nesso storico fra fattori funzionali e sincronici, la constatazione che tutte le lingue hanno vocali orali e solo poche hanno vocali nasali è motivata dal fatto che le seconde si sviluppano dalle prime quando seguite da una consonante nasale.  Analogia non proporzionale, che omologa una serie di forme all’interno di un paradigma (per questo viene definito anche “livellamento paradigmatico”. Consiste nella completa o parziale eliminazione di alternanze allomorfiche nella flessione. Ad esempio, il verbo corrispondente a “scegliere” (o “choose” in inglese moderno”, presentava un’alternanza allomorfica nell’antico inglese. Il morfema lessicale del verbo muta, al fine di “riparare” all’irregolarità causata dall’azione di leggi fonetiche che hanno operato nei secoli successivi, e giunge completamente livellato e stabile per tutta la coniugazione in inglese moderno. È stato osservato che i processi di creazione analogica e livellamento paradigmatico sono accomunati dal principio di isomorfismo, laddove ad una forma corrisponde sempre un solo significato. In base a questo principio i parlanti tenderebbero a stabilire relazioni biunivoche tra significanti e significati, tendendo ad eliminare alternanze di forma che non implicano anche differenze rilevanti nel significato. È stato osservato anche che non esiste un modo uniforme per prevedere la direzione del mutamento morfologico. Similmente, non è possibile prevedere la coerenza dei processi che ammettono nel processo di transizione la presenza di “doppioni” o varianti allomorfiche, che sopravvivono al termine del processo di mutamento sottoforma di “forme relittuali”, come nel caso di ing. was e were. Jerzy Kurylowizc, che si è occupato di indagare sulla possibilità che il mutamento morfologico, nella misura in cui produce regolarità, sia descrivibile da leggi precise ed abbia una direzionalità definita. Le sue generalizzazioni sono riassumibili in alcune leggi:  Una marca bipartita tende a sostituire un morfema isofunzionale costituito da uno solo dei due elementi  le marche complesse tendono a rimpiazzare quelle semplici.  I mutamenti analogici seguono la direzione forma basica  forma derivata.  Quando, a seguito di un mutamento analogico, una forma si diversifica, la nuova assume la funzione primaria e la vecchia si conserva in una funzione secondaria, come nel caso della diversificazione older/elder.  Per stabilire una distinzione di rilevanza centrale, le lingue ne abbandonano una di rilevanza marginale, come nel caso della distinzione del numero a discapito del caso nell’evoluzione dello spagnolo.  Il primo e il secondo termine di una proporzione di una formazione analogica possono appartenere a sistemi originariamente diversi: per esempio, uno alla varietà di prestigio e l’altro alla varietà che la imita. Le leggi di Kurylowizc sono confermate e completate dalle riflessioni di base statistica di Witolf Manczak circa l’analogia. Il linguista polacco registra la tendenza a rimodellare parole o marche flessionali lunghe sulla base di quelle brevi e la tendenza a rimpiazzare morfi vuoti, ovvero monosillabici, con morfi pieni, ovvero polisillabici: con ciò conferma la constatazione che l’analogia muove dall’elemento basico (più semplice) a quello derivato (più complesso). La creazione analogica, tuttavia, non sempre produce mutamenti sistematici o regolarità estesa . Esistono dei fenomeni, infatti, che danno luogo a cambiamenti sporadici, o comunque relativi solo ad ambiti ristretti della morfologia:  Estensione: consiste nell’impiego di un morfema in contesti più ampi di quello originario.  Risegmentazione: è il processo di rianalisi che interessa la struttura fonologica dei morfemi, ma non la loro funzione. Questo tipo di processo, quando applicato agli affissi e sommato all’estensione, può portare alla creazione di nuovi morfemi.  Fusione: consiste nello sviluppo di un compromesso morfologico tra due forme con significato uguale o simile.  Retroformazione: come l’analogia, ha carattere proporzionale e generalizza un modello di relazione morfologica. Ma in questo caso la base di derivazione è il prodotto di una rianalisi, e il processo derivato ha senso inverso a quello già esistente. I risultati della retroformazione possono dare atto a esperimenti che si scontrano con forme diacronicamente regolari. (pag. 82)  Contaminazione: consiste nell’avvicinamento fonetico tra due forme semanticamente vicine. In italiano, il caso esemplare è composto dalla coppia di aggettivi grave e greve, laddove il secondo è un’innovazione del latino tardo influenzata nel suo vocalismo dall’antonimo levis, ossia leggero: [levis : gravis = levis : grevis]. È per questo suo potenziale esito anche nota come attrazione antonimica.  Concrezione/discrezione: sono processi opposti di agglutinazione (o deglutinazione) di una forma, soprattutto di tipo grammaticale, con un’altra di tipo lessicale (o viceversa).  Etimologia popolare (o paretimologia): consiste nel rendere trasparenti gli elementi opachi di un termine, spesso composto o derivato, tramite associazioni arbitrarie con altri lessemi, simili foneticamente o semanticamente al termine in considerazione. Un esempio è lat. postumus (superlativo di post, “dopo)  lat. volg posthumus (associazione con humus, “terra”). Grammaticalizzazione La grammaticalizzazione, già osservata dagli studiosi dell’Ottocento, è un tipo di mutamento che comporta la creazione di nuove forme e/o categorie grammaticali. Un elemento lessicale perde il suo significato proprio e assume funzione grammaticale: una volta grammaticalizzato, inoltre, l’elemento può sviluppare nuove funzioni grammaticali. Gli elementi lessicali, che appartengono a classi aperte (nomi, aggettivi, verbi), si evolvono in elementi grammaticali, che appartengono a classi chiuse (congiunzioni, pronomi, articoli, preposizioni, affissi flessivi, ecc.). Un caso esemplare di grammaticalizzazione riguarda il nome latino mens, mentis: il termine perde gradualmente il suo significato originale pieno per assumere la funzione di elemento derivazionale, che ritroviamo negli avverbi che terminano con –mente [lat. clara mente  it. chiaramente]. Gli studiosi hanno osservato la trasformazione delle entità lessicali coinvolte nella grammaticalizzazione implica una graduale diminuzione di autonomia, che si manifesta su tre livelli:  Riduzione semantica (o desemanticizzazione), ovvero l’indebolimento semantico di un termine grammaticalizzato. Un esempio è il verbo avere, usato come ausiliare: nelle fasi più antiche delle lingue romanze “habere” esprimeva esclusivamente il possesso di un’entità e diventa un elemento che veicoli informazioni di carattere morfologico, senza l’idea di “possesso”.  Riduzione morfologica (o decategorizzazione), la perdita di alcune proprietà morfosintattiche. Ciò si verifica ad esempio, con certe forme verbali usate come avverbi o preposizioni, come “tranne”, che nasce come una forma di imperativo (traine, “togline”).  Riduzione fonetica (o erosione), ossia la diminuzione di salienza fonetica. L’italiano e le lingue romanze, per esempio, hanno sostituito nelle loro prime fasi di sviluppo le forme sintetiche del futuro con una costruzione analitica costituita da [infinito + habere]. Nel tempo l’erosione ha portato dalla forma analitica a quella sintetica in uso oggi, [cantar habeo  canterò]. Ai fenomeni di riduzione, corrispondono in parallelo dei percorsi di “espansione” di funzioni e di uso. Gli elementi interessati dalla grammaticalizzazione vedono un crescente ampliamento di funzioni e di impiego in relazione ai seguenti processi:  Inferenze pragmatiche, la cui convenzionalizzazione è innescata da particolari condizioni semantiche e pragmatiche, con conseguente rianalisi delle forme, generalizzazione degli ambiti d’uso di tali forme e diffusione in altri contesti. Un esempio è il verbo ing. go, utilizzato per esprimere il futuro nella forma progressiva “to be going to”, laddove la grammaticalizzazione causa uno “scolorimento” del verbo di moto e, conseguentemente, uno slittamento di significato che ne estende in contesti più ampi. Contemporaneamente, la forma verbale analitica si fissa come sequenza obbligata nella forma standard “be going to”, che utilizziamo oggi e in certi casi subisce ulteriori processi di mutamento, come nella forma colloquiale erosa “gonna”.  Metafora e metoimia, che sono i percorsi di estensione semantica più diffusa e procedono da domini più concreti a domini più astratti . In diverse lingue del mondo, per esempio, è stata registrata una tendenza comune al passaggio di natura metaforica da nomi che designano le parti del corpo a locuzioni che indicano concetti spaziali, come in “di fronte” (a una statua) o “ai piedi” (del monte). Per quanto riguarda la metonimia, essa è basata su una relazione di vicinanza semantica percepita dal parlante in determinati contesti, come nel caso di “while” o “mentre”, che nascono come connettivi temporali ma sviluppano valore contrastivo in determinati contesti particolari.  Stratificazione di livelli: certi elementi possono conservare la forma e la funzione lessicale originaria in parallelo all’esito della grammaticalizzazione, laddove il rapporto di coesistenza è spesso di competizione e legato a una discrepanza tra strutture di differente antichità e origine. Un esempio chiaro è il verbo avere dell’italiano, utilizzato sia come verbo lessicale autonomo indicante l’idea di possesso, sia come ausiliare.  Ciclicità e rinnovamento, ovvero quando gli elementi si opacizzano e prendono salienza fonetica e forza pragmatica (enfasi o novità espressiva). Spesso, gli elementi interessati da questo fenomeno vengono affiancati e poi sostituiti da altri in un nuovo ciclo di grammaticalizzazione. Questo tipo di fenomeno si può osservare nel mutamento del morfema flessivo ing. –like, che si presenta come forma non ridotta di –ly ed ha portato all’espansione del lessico con la formazione di nuovi composti trasparenti, come “ godlike” (in contrapposizione con godly). Gli effetti e le cause del mutamento morfologico In sintesi, i fenomeni evolutivi che interessano la morfologia di una lingua possono produrre mutamento nell’inventario o nella funzione di morfemi, classi flessionali e categorie flessionali, per processi di riduzione, estensione, rianalisi, ecc. stando alla classificazione proposta da Benveniste nel 1977, la maggior parte dei mutamenti possono essere:  Innovativi, quando non solo modificano l’inventario di strutture di una lingua causando la scomparsa o la creazione di elementi formali, ma innescano anche la rianalisi e ridistribuzione delle forme e l’istituzione di diverse correlazioni fra di esse.  Conservanti, quando i mutamenti causano la sostituzione di forme con altre nella medesima funzione. Questa classificazione, in particolare, presenta tuttavia un paradosso: questi mutamenti non modificano l’inventario di forme o categorie, ma corrispondono spesso (per motivazioni di natura intrinseca alla lingua e al comportamento dei parlanti) a una rianalisi o riorganizzazione di contenuti concettuali e quindi ad un’innovazione delle funzioni. Un esempio chiaro è il caso della categoria dei plurali in –a dell’italiano a partire da “le membra”. La loro formazione si inserisce nel contesto di riorganizzazione della flessione nominale nel passaggio da latino tardo a italiano antico, laddove i nomi in neutro generano un’irregolarità. Nel nuovo sistema ( italiano) che tende all’omologazione dei morfemi finali in base a processi cognitivi legati al genere naturale, gli antichi neutri latini vengono di norma assegnati alla classe dei nomi in – o, lasciando però dietro di sé forme residuali, che sono proprio i neutri plurali in –a. Essi hanno portato nelle fasi successive dell’italiano, pur non modificando di fatto l’inventario di forme o classi morfologiche, a un riassetto del sistema e di conseguenza alla formazione di nuovi nomi “simili” come “le fila”, “le fondamenta”, “le paia”, “le uova”, ecc. Gli unici mutamenti veramente conservanti sembrano quelli che si limitano al piano della forma, come l’imperfetto italiano in cui, per esempio, cantavo sostituisce cantare habeo. CAPITOLO 6 Il mutamento sintattico L’analisi del mutamento sintattico appare decisamente problematica perché chiama in causa un vasto ambito di fenomeni. Sebbene la teoria generativa abbia contribuito a fare importanti passi avanti sull’orizzonte dello studio sul mutamento sintattico, è rimasta sempre limitata alla prospettiva sincronica. D’altro canto, la linguistica storica, che tradizionalmente si è occupata dell’indagine dei fenomeni fonologici e morfologici in diacronia, ha lasciato in disparte l’ambito della sintassi. In generale, la sintassi riguarda le relazioni tra le parole all’interno di una frase; il suo mutamento, quindi, influenza le relazioni sintattiche e i mezzi che le codificano. È proprio in questi due ambiti che si attivano i meccanismi principali del cambiamento sintattico, ovvero:  Grammaticalizzazione, ovvero la trasformazione di unità lessicali in morfemi grammaticali, quindi lo spostamento di un’espressione verso il polo funzionale.  Rianalisi, ossia il mutamento nella struttura di un’espressione che non produce trasformazioni immediate nella sua manifestazione superficiale.  Estensione, cioè l’introduzione di nuove costruzioni per codificare un ambito concettuale inizialmente espresso mediante altre costruzioni. In questo senso, il rapporto fra mutamento sintattico e gli altri tipi di mutamento si fa esplicito e mostra la molteplicità di elementi presi in causa in questo processo di evoluzione Infatti, gli elementi coinvolti nei processi di grammaticalizzazione, rianalisi ed estensione subiscono cambiamenti non solo sul piano morfosintattico, nel passaggio da classe aperta a classe chiusa, nella perdita di autonomia o nell’irrigidimento posizionale, ma anche sul piano semantico-funzionale, nella riduzione dei significati lessicali causata dalla grammaticalizzazione e la conseguente espansione di funzioni, che genera molto spesso polisemia. Rianalisi La rianalisi, come suggerisce il nome stesso, è un fenomeno di rilettura e reinterpretazione delle forme, che a livello di sintassi si configura come un fenomeno particolarmente complesso e molto spesso difficile da osservare. La rianalisi, infatti, è un meccanismo che, interessando la struttura più profonda di uno schema sintattico, non produce nessuna trasformazione immediata nell’espressione superficiale degli elementi che va a modificare. Il suo carattere non manifesto si può comprendere meglio guardando alle forme interrogative del francese standard, che prevedono inversione di soggetto e verbo, come in: “Aime il?”  “Ama egli?” “Dort il?  “Dorme egli?” In contesto colloquiale, i verbi terminanti con -t hanno favorito la rianalisi che isola l’elemento finale [ti], rianalizzato come particella interrogativa. In questo caso, la rianalisi diventa manifesta solo quando il suo esito si estende anche a costruzioni non in terza persona singolare, in quanto l’espressione superficiale (almeno a livello di pronuncia) della particella non cambia. Si può inoltre osservare, guardando a questo esempio, che non si verifica di fatto alcun fenomeno di grammaticalizzazione, spingendo alla considerazione della rianalisi come fenomeno ben distinto dalla grammaticalizzazione, poiché il passaggio da pronome a particella non implica necessariamente il passaggio da lessico a grammatica. In sostanza: la grammaticalizzazione comporta la perdita di autonomia dei costrutti linguistici, il loro spostamento verso il polo funzionale, è graduale e generalmente unidirezionale; la rianalisi non causa perdita di autonomia di entità linguistiche, è istantanea e potenzialmente reversibile. Cionondimeno, rianalisi e grammaticalizzazione intrattengono relazioni strette, come testimonia lo sviluppo del futuro analitico “be going to”. Il passaggio dal senso di intenzione all’idea di futuro in senso stretto è di fatto una rianalisi che sancisce la fusione di due frasi [be going to + verbo], un conseguente “scolorimento” del verbo di moto e l’estensione del suo significato in contesti più ampi. Come esiste la rianalisi senza grammaticalizzazione, ovviamente è possibile anche il caso opposto. Ad esempio, in inglese alcune congiunzioni temporali come “after” possono assumere valore causale in determinati contesti, come in “after we heard the speech, we felt very inspired”. Il valore causale può essere interpretato indipendentemente da quello temporale, dimostrando che, a partire da contesti ambigui, l’implicazione causale si è convenzionalizzata, laddove un elemento già funzionale acquisisce ulteriori funzioni, si irrigidisce sul piano posizionale, ma amplia anche i contesti di impiego. Estensione Il concetto di estensione, d’altro canto, è del tutto speculare alla rianalisi: essa infatti cambia l’espressione superficiale di uno schema sintattico, pur non implicando alcuna trasformazione immediata della sua struttura sintattica più profonda e costituisce un mutamento manifesto. Un caso istruttivo è rappresentato in inglese dal cambiamento dell’espressione “different from” in “different than”. L’innovazione nasce nell’inglese americano, ma è stata negli ultimi anni completamente accolta ed assorbita dall’inglese britannico, probabilmente perché favorisce la concisione e quindi il principio di economicità. Nell’ambito dell’estensione, frequenza e ripetizione nel mutamento linguistico sono di importanza centrale, anche in rapporto alle dinamiche cognitive dei parlanti che presiedono all’uso della lingua. In particolare, sembra che la ripetizione di certi elementi risulti in un accesso o recupero facilitato di tali elementi nella memoria. Un esempio è la sostituzione dell’ausiliare “be” con l’ausiliare “have” per la formazione del present perfect inglese nel contesto del passaggio da antico a medio inglese. La standardizzazione delle forme analitiche con l’ausiliare “have” (tra l’altro grammaticalizzato) è dovuta ad un aumento della loro frequenza, dalla ripetizione che rafforza la memorizzazione, influenzando i meccanismi cognitivi dei parlanti e la prevedibilità della struttura. La gradualità del mutamento sintattico La gradualità del mutamento sintattico è divenuto un argomento centrale nel dibattito tra l’approccio funzionale e quello dei generativisti, che intende la sintassi come un insieme di regole e tratti innati. Il contrasto fra questi due paradigmi riguarda soprattutto la variazione diacronica, cioè quando, dove e come nascono le innovazioni linguistiche. In generale, la gradualità dei fenomeni esprime un punto di vista che assume il ruolo centrale dei parlanti e dell’uso linguistico nel modellare il cambiamento. Come testimonia il fenomeno della rianalisi, tuttavia, nella sintassi il mutamento può essere immediato e non sempre percettibile. Più in particolare, alcuni sviluppi della ricerca linguistica hanno dimostrato la centralità dell’acquisizione delle forme linguistiche nel processo di mutamento sintattico, anziché del loro uso. Già per i neogrammatici, soprattutto nella persona di Hermann Paul, la trasmissione di una lingua da una generazione all’altra rappresenta un momento cruciale per la variazione diacronica. In particolare, Paul parla di iodioletto, ovvero una sorta di grammatica interiore individuale del parlante: l’accumularsi dei cambiamenti nei vari idioletti comporta la definizione di una innovazione linguistica. Circa un secolo dopo, la linguistica generativa di Chomsky concepisce l’idea che il mutamento linguistico avvenga proprio nella fase di acquisizione del bambino della lingua madre dai genitori. Secondo la visione dei generativisti, la fissazione dei parametri della grammatica universale di ogni apprendente sulla base dei dati ambientali sancirebbe, qualora si raggiungesse un numero sufficiente di cambiamenti comuni in termini di distribuzione statistica, la trasformazione generale del sistema linguistico. Il cambiamento negli usi linguistici di una generazione precedente aprirebbe quindi la strada alle rianalisi applicate dalla successiva. Questo modello ha favorito successivamente l’estensione della prospettiva chomskiana alla dimensione della sintassi, dando vita agli studi sulla sintassi diacronica. Basandosi sull’assunto che il mutamento è quello individuale della fissazione dei parametri nel quadro della grammatica universale, le nuove teorie suggeriscono che il modulo della sintassi rimane inerte finché non è sollecitato da mutamenti di altri moduli o da fattori extralinguistici, che influenzerebbero e trasformerebbero il modulo stesso della sintassi. In questo senso, le principali ipotesi riguardo al mutamento sono:  Variazione dell’input, che, considerati due parlanti, risulta sempre diverso è può portare a variazioni imprevedibili nell’uso della grammatica.  Grammatiche in competizione, secondo cui, quando c’è un mutamento in corso, gli apprendenti di una lingua possono interiorizzare due elementi alternativi dello stesso sottosistema della grammatica. Nel tempo, una delle due alternative viene esclusa per motivi di uso, mentre l’innovazione si stabilizza aumentando la propria frequenza d’uso. Ovviamente, i fenomeni di cambiamento sintattico (ma anche fonologico, morfologico, semantico, ecc.) devono tenere in conto anche tutti quei fattori che riguardano la variazione sincronica. Questo ragionamento ha portato allo sviluppo del concetto di gradienza nel mutamento sintattico. In senso ampio, la gradienza si può definire come il corrispondente della gradualità sul piano sincronico e si manifesta come le diverse categorie (o gradienti) che si distanziano dalle categorie prototipiche di un certo elemento linguistico, sia a livello scalare che di continuità. (“utter”, pag. 109). Mutamento sintattico e universali Ne contesto della tipologia linguistica, la sintassi e il suo mutamento hanno da sempre avuto un ruolo importante, a partire dalle indagini di Greenberg, che ha aperto alla classificazione delle lingue in base ai loro elementi sintattici. Già un secolo prima, a dire il vero, Henri Weil, confrontando lingue antiche e lingue moderne, aveva osservato il crescente incremento di restrizioni con le diversità nella prospettiva comunicativa della frase e in quella che oggi chiamiamo pragmatica delle lingue. Verso la fine dell’Ottocento le leggi elaborate da Jacob Wackernagel e Otto Behagel precisano tendenze del mutamento sintattico delle lingue europee che troveranno conferma negli studi dei decenni successivi. Da allora in poi, la ricerca tipologica nell’ambito della sintassi ha visto costanti progressi. Greenberg, considerando l’ordine dei costituenti basici di un enunciato non marcato, formulò per primo la divisione dei tipi linguistici principali SVO, SOV e VSO a cui si associano diversi tipi di adposizione. Inoltre, al tipo linguistico si correlano anche regolarità pertinenti alla struttura dei sintagmi, più precisamente all’ordine di teste nominali e modificatori: nelle lingue SOV emerge la tendenza all’uso di posposizioni di modificatori prenominali (come in giapponese), mentre nelle lingue SVO si riscontrano di solito preposizioni e modificatori che seguono la testa nominale (come in italiano e le altre lingue romanze). Tuttavia, considerando le lingue su un’ampia base statistica, ben poche sono quelle che ricadono con assoluta coerenza in un tipo sintattico, spesso perché l’ordine dei costituenti è influenzato dalle funzioni comunicative, ossia la pragmatica del linguaggio e la struttura informativa dell’enunciato. A ben guardare, esistono dunque tre modi diversi e non esclusivi di guardare ai confini della variazione sintattica tra le lingue e ai fenomeni relativi all’ordine dei costituenti:  Approccio sintattico, che individua rapporti gerarchici e relazioni grammaticali di dipendenza fra i costituenti.  Approccio pragmatico, che pone il focus sull’interazione comunicativa dei parlanti.  Approccio cognitivo, che indaga il ruolo e l’influenza di vincoli/processi mentali. Se la situazione de mutamento sintattico si mostra già particolarmente complessa in termini di sincronia, è facile intuire la sfida ancora maggiore che propone il piano della diacronia. In tal senso, Greenberg propone, nell’ambito della “tipologia dinamica”, di considerare le incoerenze tipologiche delle lingue come segno di un processo di mutamento, che potrebbe giustificare casi come quello dell’inglese, una lingua SVO che presenta la caratteristica di due costrutti di ordine speculare GN/NG (genitivo sassone e complemento di possesso) per esprimere il possesso. Il genitivo sassone, secondo la visione di Greenberg, non sarebbe altro che una forma più antica appartenente a uno stadio linguistico precedente in cui vigeva il tipo SOV (antico inglese). Tuttavia, l’approccio dinamico non si è dimostrato universalmente corretto e le origini della disarmonia tra le forme di possesso dell’inglese moderno potrebbe avere diversa origine. La presenza A livello di significanti, la somiglianza e la contiguità fra i membri delle associazioni danno luogo rispettivamente a:  Etimologia popolare (o paretimologia, cfr cap.5): è determinata dalla somiglianza tra significanti e consiste nel rendere trasparenti gli elementi opachi di un termine, spesso composto o derivato, tramite associazioni arbitrarie con altri lessemi, simili foneticamente o semanticamente al termine in considerazione. Un esempio è [lat. postumus (superlativo di post, “dopo)  lat. volg. posthumus (associazione con humus, “terra”)].  Ellissi: è determinata dalla contiguità fra significanti ed è l’omissione di termini in un sintagma che si possono sottintendere. Ha portato a mutamenti come [it. giornale quotidiano  quotidiano]. Gli effetti del mutamento semantico Gli effetti del mutamento semantico sono avvertibili sia sul piano qualitativo che sul piano quantitativo. Nel primo caso, il mutamento semantico può corrispondere a:  Miglioramento, cioè innalzamento in positivo della valutazione associata ad un termine, come nel caso di [lat. minister “servo”  it. ministro]  Peggioramento, cioè abbassamento in negativo della valutazione associata ad un termine, come nel caso di [lat. villanus “abitante della campagnia”  it. villano “zotico, maleducato”]. Nel secondo caso, ovvero quello del piano quantitativo, assistiamo a due esiti opposti:  Estensione, cioè ampliamento dell’ambito semantico dei contesti d’impiego, come spesso capita ai vocaboli dei linguaggi settoriali che si generalizzano, come in [lat. cubare “giacere”  it. covare].  Restrizione, cioè riduzione dell’ambito semantico e dei contesti di impiego, come talora capita ai vocaboli che si specializzano in un valore più specifico come [ant. Ing, hund “cane”  ing. hound “cane da caccia”]. La classificazione del mutamento semantico fornita da Bloomfield riconosce inoltre altri due fenomeni opposti:  Iperbole, cioè il passaggio da un significato più debole a uno più forte, come in [ant. Ing. kill “colpire, tormentare”  ing. “uccidere”].  Litote, cioè il processo inverso, nel passaggio da un significato forte a uno più debole. In senso più generale, la generalizzazione e la specializzazione semantica possono corrispondere rispettivamente ad un percorso verso l’alto o verso il basso di un termine nell’ambito di una tassonomia categoriale. Le cause del mutamento semantico Ulmann fornisce una iniziale lista di sei cause del mutamento semantico, dipendente da fattori linguistici, storici, sociali e psicologici, che viene poi completata dall’indagine di Blank del 1999. Blank riduce la lista di cause a due ordini principali di fattori:  Fattori linguistici, che determinano cambiamenti in relazione a particolari condizioni sintagmatiche o paradigmatiche. Ne sono esempi quei processi del mutamento semantico che riguardano la grammaticalizzazione, oppure il conflitto omonimico di espressioni come fr. hui “oggi”, che per la somiglianza con oui “sì” è stato sostituito, mutando in aujourd’hui “al giorno d’oggi”.  Fattori extralinguistici, che chiamano in causa elementi esterni al sistema linguistico, principalmente in tre ambiti che rimandano alla lista di Ulmann. Si tratta di fattori socioculturali, come cambiamenti che si riflettono nella riorganizzazione del lessico; fattori storici, quelli che, in relazione alla scomparsa di una determinata realtà materiale, eliminano significati o determinano sdoppiamenti semantici (come in penna, usato originariamente per indicare la penna d’oca usata per scrivere); e infine fattori psicologici, ovvero quelli che riguardano la tendenza all’enfasi espressiva. Questi ultimi in particolare sono frequenti in campi dell’esperienza rilevanti dal punto di vista emotivo, come mangiare e bere, sesso, morte, paura, rabbia, bellezza, ecc. Alcuni di questi ambiti sono soggetti a fenomeni di tabu ed eufemismo, in cui le dinamiche psicologiche incontrano quelle socioculturali, laddove la tendenza ad evitare il riferimento diretto a concetti spiacevoli o stigmatizzati determina sostituzioni di parole (morte  “ultimo viaggio”, “dipartita”, “sonno eterno”). Anche la volgarità di certe parole, similmente alla spiacevolezza dei significati a cui certe parole fanno riferimento, può sancire mutamento semantico, come lucciola per intendere quella che oggi viene chiamata escort, “prostituta”. Tra gli altri, anche il prestito pare avere un ruolo considerevole nel mutamento semantico, specie nella dimensione della variazione diacronica. Le riflessioni più recenti sulle dinamiche e cause del mutamento semantico hanno portato a spiegazioni di portata più ampia, che inquadrerebbero tutti i fenomeni evolutivi relativi al significato in tre tendenze principali, secondo Traugott e Dasher:  Passaggio da significati basati sulla situazione esterna a significati basati sulla situazione interna . Appartengono a questa tendenza quei mutamenti da significato concreto ad astratto, da fisico a mentale. In questo ambito metafore e metonimie tendono all’opacizzazione, perdendo il loro significato originale come in [lat. capere “prendere, afferrare”  it. capire].  Passaggio da significati basati sulla situazione esterna o interna a significati basati sulla situazione testuale o metalinguistica. Per esempio, i verbi che descrivono azioni concrete o percezioni mentali, tendono a sviluppare significati e funzioni tipici dei cosiddetti speech act verbs, come in [ing observe “guardare attentamente, percepire”  “affermare, dichiarare”].  Significati basati in modo crescente su credenze/stati/attitudini del parlante verso la proposizione. Un caso istruttivo è il verbo inglese may, “potere”, che deriva dall’ant. Ing magan “avere la forza di” e che passa quindi dal significato concreto di abilità fisica al valore di permesso o possibilità logica. La gradualità del mutamento semantico Il piano della semantica si intrinseca con tutti i livelli della lingua ed è pertanto comprensibile che il suo mutamento, che è il cambiamento del lessico, si verifichi con gradualità, soprattutto dal punto di vista cronologico. Morris Swadesh, uno studioso di lingue amerindiane, fonda la glottocronologia, un ambito di studio della trasformazione del lessico fondato sui due assunti del possesso da parte di tutte le lingue del mondo di un “lessico di base” relativamente stabile e della costanza della velocità con cui si modifica il loro patrimonio lessicale. La teoria elaborata da Swadesh si basa su liste di parole che compongono il suddetto lessico di base, che sono vocaboli più indipendenti possibili, come parti del corpo, numerali, pronomi e così via. Il confronto su base statistica tra il lessico fondamentale di due lingue imparentate permetterebbe, tramite l’applicazione di opportune formule e opportuni calcoli, di determinare l’arco di tempo nel quale si sono sviluppate indipendentemente. In sostanza, più i due lessici di base si somigliano, più è recente il momento di separazione fra le due lingue. La glottocronologia non si è dimostrato un modello affidabile ed ha raccolto diverse critiche ed opposizioni. Innanzitutto, la selezione di un campione apprezzabile per l’elenco di vocaboli basilari è arbitraria e non è di per sé garanzia di nessuna continuità nella struttura organizzativa dei significati. Per quanto riguarda l’assunto che sostiene la costanza del ritmo di cambiamento, pare essere un postulato del tutto infondato e che non tiene conto di tutte le variabili extralinguistiche (per definizione imprevedibili) che possono alterare la velocità con cui una lingua evolve, come la storia, la società, il contatto, e così via. In conclusione, il modello di Swadesh risulta impraticabile per la definizione di protolingue e del tutto inaffidabile nel processo di ricostruzione linguistica. Grazie ai recenti miglioramenti della metodologia statistica, si è cercato di calibrare i calcoli in base ad eventi storici e sociali, col fine di abbandonare almeno l’assunto della velocità costante del cambiamento ed aggirare una delle maggiori critiche al modello. Similmente, la lessicostatistica e la mass lexical comparison si sono basati sulla rilevazione e il calcolo di percentuale statistica di somiglianza tra due lingue piuttosto che sulle loro caratteristiche strutturali, ma i risultati di queste metodologie risultano ancora poco affidabili e sono al centro di un dibattito ancora aperto. In conclusione, sebbene la gradualità nei processi di mutamento semantico appaia evidente, la loro complessità intrinseca non ha permesso di sviluppare un modello di analisi sufficientemente efficiente ed ampio. Mutamento semantico ed universali I fenomeni di mutamento semantico si sono rivelati difficili da inquadrare nell’ambito più ampio degli universali e della tipologia linguistica, soprattutto per via della preponderante arbitrarietà esercitata dai parlanti e la variabilità con cui le lingue organizzano il loro vocabolario in base ai fatti e alle variabili del reale. La tipologia semantica e la tipologia lessicale costituiscono il panorama d’indagine che si occupa dello studio degli universali semantici, proprietà semantiche comuni a tutte le lingue (da non confondere con la semantica universale, ovvero quella parte della teoria semantiche che studia le proprietà semantiche generali del linguaggio confrontandole a quelle delle specifiche lingue). Questi due ambiti di ricerca spesso si sovrappongono, con il comune obiettivo di analizzare le interazioni tra grammatica e lessico. Un importante lavoro di elaborazione e raccolta di generalizzazioni tipologiche è l’archivio di universali dell’Università di Costanza, che ne raccoglie 142 nella semantica e 158 nel lessico. Per quanto riguarda il lessico, oltre agli inventari latamente universali, come le liste di Swadesh, le misurazioni glottocronologiche e lessicostatistiche, recenti studi hanno portato alla formulazione di “primitivi semantici”, ovvero i concetti elementari in cui è potenzialmente scomponibile il significato di ogni unità lessicale. Per quanto riguarda la semantica, invece, l’indagine si è concentrata soprattutto su determinati domini concettuali, che sono apparsi più produttivi nella ricerca di universali semantici: relazioni di parentela, parti del corpo, la percezione, l’idea di misura o dimensione, ecc. Riguardo alle parti del corpo, sono state rilevate alcune tendenze interessanti, di cui si riportano alcuni esempi (ne sono state registrate diverse altre):  Tutte le lingue hanno una parola per corpo.  La maggior parte delle lingue ha termini dedicati per le varie parti del corpo, in particolare testa, tronco, braccio, occhio, naso e bocca.  Se una lingua ha un termine per designare il piede, ne ha una anche per designare la mano. I cromonimi Un altro dominio che si è rivelato particolarmente interessante è quello dei cromonimi, che ha attirato l’interesse non solo di linguisti, ma anche di antropologi come Franz Boas ed Edward Sapir, che ne hanno fatto terreno empirico per dimostrare le proprie ipotesi sulla relatività culturale. La lingua fornisce le categorie mediante cui la mente dell’uomo struttura la realtà, allora le lingue diverse dovrebbero veicolare e pilotare diverse modalità di organizzazione percettiva. Per dimostrare ciò gli studi condotti dai sostenitori del relativismo fecero molto riferimento proprio ai nomi dei colori. Questo ambito lessicale, tuttavia, si collega ad uno dei pochi domini percettivi per cui gli esseri umani possiedono ricettori periferici dedicati: lo studio sui cromonimi, in ultimo, non dimostra l’ipotesi della relatività linguistica. Al contrario, l’idea opposta, ovvero che universali percettivi possano generare universali linguistici, prende piede. Nel 1969, Brent Berlin e Paul Kay hanno confrontato i nomi dei colori in un centinaio di lingue analizzate, arrivando alla conclusione che ciascuno dei termini, indipendentemente dalla lingua analizzata, era riconducibile a undici colori “base” di riferimento. Gli studiosi hanno poi rilevato un preciso ordine nello sviluppo dei cromonimi, ossia una vera e propria gerarchia implicazionale secondo cui, se una lingua possiede un dato termine di colore, allora avrà sicuramente anche il termine che si trova adiacente a sinistra nella gerarchia, secondo uno schema: NERO/BIANCO  ROSSO  VERDE/GIALLO  BLU  MARRONE  … che spinge i parlanti a adottare quelle forme che riducono i loro sforzi, come nel caso della sostituzione dei pronomi di terza persona plurale dell’antico inglese con quelli scandinavi they, them e their. In altri casi la particolare espressività di un termine può essere determinante per l’adozione di un termine straniero, come nel caso di toilette, al fine di evitare la menzione esplicita di certi elementi della realtà, anche per motivi di tabu. In ultimo, le tendenze xenofile che si stanno sviluppando negli ultimi anni, ma che sono una costante nell’evoluzione delle lingue anche del passato, possono spingere alla formazione di neologismi su base straniera o al prestito lessicale. Il prestito Il fenomeno del prestito, che agisce sia sul piano del significato che su quello del significante, si può accertare solo in presenza di un concreto rapporto di imitazione, non solo sul piano della forma. In tal senso, esistono i cosiddetti “falsi prestiti”, ossia quei derivati e composti creati autonomamente con materiale di origine straniera, come “snobbare”, creazione dell’italiano indipendente dall’inglese. Altri esempi sono quei composti originali che, pur risalendo a modelli stranieri, non hanno nessun riscontro nella lingua modello, come motocross o autogrill. Inoltre, un prestito è di solito diretto, cioè si trasmette per via orale nel contesto di aree multilingui, o, principalmente negli ultimi decenni, tramite la stampa ed altri mezzi di comunicazione che connettono anche aree lontane. La lingua replica, nei processi di interferenza, non ricopre mai un ruolo completamente passivo, ma adatta in maniera variabile i materiali stranieri alle proprie strutture attraverso processi di assimilazione:  Acclimatamento, ovvero una condizione determinata dall’uso protratto del termine che si manifesta nella produttività. Permette quindi la creazione di forme derivate, come baretto, da bar.  Integrazione, che consiste nell’adattamento del prestito alla lingua replica sul piano grafico, fonologico, morfologico e lessicale, con la stabilizzazione nel vocabolario della lingua ricevente. Spesso un prestito altamente integrato nella lingua replica risulta anche acclimatato, ma ciò non sempre avviene: sebbene un termine possa essere integrato, potrebbe non essere di uso o dominio comune e non risultare produttivo. L’integrazione può avvenire anche sul piano della fonologia, tramite differenti strategie:  Approssimazione, quando la lingua replica ricorre a fonemi sentiti più simili al modello, come nel caso del suono /y/ del francese, reso in italiano con /u/ in parole come “menu”.  Adeguamento meccanico, sostituzione di foni che si verifica soprattutto nel caso di nessi non contemplati dalle regole fonotattiche proprie della lingua replica.  Analogia, ossia il consolidarsi ed estendersi di precise sostituzioni di fonemi in una situazione di ripetuti scambi interlinguistici, come il suono del francese /j/ realizzato con <ll>, trasformato sistematicamente in italiano in /λ/, realizzato con <gl>. Tuttavia, quando tra due comunità di parlanti si istituiscono scambi stabili o si ha una situazione di bilinguismo, l’attitudine a riprodurre fedelmente il significante del modello può favorire l’introduzione di fonemi nuovi. Similmente, l’integrazione può concretizzarsi anche in processi che riguardano la morfologia, laddove le strategie di interpretazione e adattamento che i parlanti possono mettere in campo sono molteplici. Per esempio, un processo piuttosto comune nel caso di lingue simili consiste nell’ individuazione della classe flessionale che presenta i morfemi più simili a quelli del prestito nella forma, come [fr. brioche  it. brioscia], o con quelli più frequenti nella lingua replica, come in [ing. to flirt  it. flirtare]. In certi casi, quando le categorie delle due lingue si sovrappongono solo apparentemente, è più difficile risalire ai meccanismi che connotano l’integrazione. Questo avviene particolarmente col genere grammaticale: per esempio il sostantivo tedesco “die Nummer”, dal latino “numerus”, maschile, è diventato femminile per analogia con il sinonimo indigeno “die Zahl”. In altri casi, la distanza tra le lingue risulta in un’analisi errata della struttura morfologica, come in [it. maccheroni  fr. macaroni] o [it. zucchine  ing. zucchini, pl. zucchinis]. Oppure, in determinate circostanze è possibile che un morfema presente in più prestiti possa essere segmentato, estrapolato e reso produttivo in indipendenza per dare vita a nuove formazioni: questo fenomeno è noto come “prestito di secondo grado” o induzione. Un esempio istruttivo è il suffisso -age, presente in alcuni nomi astratti di origine francese come “marriage” o “coniage”: il morfema finale è stato isolato e riutilizzato per derivare nuovi nomi astratti, come “stoppage” (blocco, cessazione). L’integrazione può essere anche lessicale e semantica. L’integrazione lessicale è un processo di adattamento in cui il prestito si “mimetizza” nel vocabolario della lingua replica, in cui un elemento della lingua indigena interviene a motivare e chiarire il termine di origine straniero. Il caso più tipico è quello dell’etimologia popolare, che spesso risulta in una scomposizione del prestito, accostandone i segmenti ad altri segmenti della lingua replica. Un esempio dell’italiano è “stambecco”, che deriva dal tedesco “Steinbock”, letteralmente “caprone delle rocce, da cui si recupera il segmento “becco”, riferimento al maschio della capra: la prima parte della parola rimane opaca e rende difficile l’individuazione del prestito. L’integrazione semantica è la riproduzione del concetto o oggetto a cui un termine della lingua modello fa riferimento, del quale è impossibile riprodurre i tratti connotativi, poiché non viene riprodotta quella parte di significato determinata dai peculiari rapporti che intercorrono tra le unità del sistema linguistico. Un esempio è [tur. çorap “calzettone rustico di lana”  it. calza “capo d’abbigliamento elegante, di moda”], laddove l’atteggiamento verso il termine cambia evidentemente. Questo fenomeno colpisce di rado i termini specializzati e tecnici, poiché referenza e significato molto spesso coincidono, come in computer. È stata registrata una certa tendenza del fenomeno di integrazione semantica a provocare un restringimento del campo semantico, risultato dell’attualizzazione di solo un determinato valore del modello. Un esempio chiaro è [ing. goal “obiettivo, fine”  it. gol “punto nel calcio”]. Una volta entrato nel lessico della lingua replica, il prestito va a coprire una determinata area semantica, spesso sovrapponendosi a termini indigeni generando una situazione di conflitto fra lingua modello e lingua replica. Questa condizione tende a risolversi col tempo secondo due modalità:  Neutralizzazione tra termini quasi sinonimici, che può concretizzarsi con l’abbandono del prestito o la sostituzione del vocabolo indigeno.  Polarizzazione (o differenziazione funzionale) di termini concorrenti, ossia il confinamento del prestito a una particolare sfumatura di significato più specifica o diversa da quella del termine indigeno, risultato della tendenza al restringimento semantico dell’integrazione del significato. Il calco Il calco è l’imitazione della forma interna di un modello alloglotto e richiede un’analisi sul piano sia del significato che della struttura. Si parla di calco strutturale quando il modello è reinterpretato non solo sul piano semantico ma anche su quello della struttura. Si distinguono varie tipologie di calco strutturale:  Calco di derivazione, ovvero la resa di un derivato formato da un termine base e da un affisso, come in [fr. oreangeade  it. aranciata]  Calco di composizione, ovvero la resa di composti stranieri con mezzi della lingua replica, come [ing. redskin  it. pellerossa].  Calco sintagmatico, ovvero la resa di sequenze sintagmatiche, come [ing. white collar  it. colletto bianco].  Calco fraseologico, ovvero la resa di intere frasi, come in [fr. il va sans dire  ing. it goes without saying]. Molto spesso, il calco non si risolve con un’imitazione perfetta, sia formalmente che a livello di significato, e che tale imperfezione può assumere due forme:  Calco imperfetto, ovvero una resa scorretta della struttura del modello da parte della lingua replica, come in [ing. honeymoon  it. luna di miele], laddove il composto N + N è realizzato come combinazione di N + SP.  Semicalco, ossia una resa divergente dal modello imitato sia sul piano formale che su quello semantico, come [ing. science-fiction  it. fantascienza]. Il calco sintattico, invece, differisce da quello strutturale e replica uno schema strutturale produttivo, copiando un costrutto della lingua modello ma non la referenza semantica. Se la relazione del calco con il modello imitato è solo sul piano del significato, si parla invece di calco semantico, che è una tipologia di calco particolarmente diffusa, ma difficile da individuare. Un esempio attuale è l’acquisizione del significato di “memorizzare digitalmente” nell’it. salvare, come calco semantico della parola ing. save. Il gergo dell’informatica, effettivamente, è ricco di calchi semantici. I percorsi degli elementi alloglotti Per stabilire il percorso dello scambio e datare il materiale alloglotto è necessario seguire determinati criteri e cautele. Innanzitutto, un ambito generalmente utile per riconoscere le direzioni dell’influsso linguistico è ovviamente la storia culturale delle aree in cui avviene lo scambio linguistico. I fenomeni di contatto linguistico, come per buona parte dei fatti di lingua, si inseriscono all’interno di un contesto in cui un’area di maggior prestigio o di superiorità culturale entra in contatto con un’area più tendente alla ricettività. La prima area diventa esportatrice di materiale linguistico e ciò configura una direzione preferenziale dell’interferenza. Per quanto riguarda la cronologia di prestiti ed altri fenomeni di contatto linguistico, l’osservazione della documentazione scritta non è generalmente affidabile e non può prescindere da qualche cautela, poiché non è raro che la presenza di un prestito nella lingua replica avvenga prima delle sue prime attestazioni scritte. Allo stesso modo, la ricerca di anomalie del significante nei prestiti non è una procedura infallibile. La fonetica storica è il criterio di analisi più valido ed affidabile e si basa sull’associazione tra un episodio di interferenza e un mutamento fonetico della lingua replica o della lingua modello. La conoscenza precida dei mutamenti che caratterizzano le lingue in contatto, in generale, è quasi sempre uno strumento utile per definire sia la direzione dei fenomeni di contatto, che la loro distribuzione cronologica. La cronologia degli elementi alloglotti Una volta che un prestito si è integrato o acclimatato nella lingua replica, esso si inserisce nella nuova struttura linguistica e agisce come le altre forme indigene, venendo quindi coinvolto negli eventuali mutamenti fonetici successivi al suo arrivo. Stabilito un determinato mutamento del prestito nella lingua ricevente, dunque, è possibile datare ad una fase anteriore il suo ingresso nella lingua replica. Sarà posteriore, di conseguenza, se non si trovano tracce del mutamento. Un esempio istruttivo è il percorso della parola per “pepe” in latino, ovvero “piper”. Nel passaggio [lat. piper  ing. pepper], deduciamo che il prestito si è mosso proprio dal latino e non da una lingua indoeuropea per l’assenza di esiti della prima rotazione consonantica, che avrebbe trasformato l’occlusiva /p/ in fricativa /f/. Ne consegue che l’episodio di interferenza si sia verificato dopo l’influsso della prima legge di Grimm sulle lingue germaniche. Il corrispettivo tedesco “Pfeffer”, invece, testimonia che l’interferenza è successiva alla prima rotazione consonantica ed anteriore alla seconda, come testimonia l’esito della stessa nella trasformazione di /p/ in / pf/ in posizione finale e /ff/ in posizione interna di parola. In conclusione: sarà sicuramente databile ad una fase anteriore di un mutamento il prestito che ne mostra gli effetti, mentre sarà posteriore se non ne appare influenzato. Rovesciando il ragionamento, anche il processo inverso è possibile, ossia stabilire la cronologia di fenomeni fonetici, sia della lingua modello che di quella replica, basandosi sulla datazione del prestito. Similmente, il come “elmo” o “guardia”. Ben diversa è l’entità dei longobardismi, che costituiscono il nucleo di prestiti dalle lingue germaniche più corposo. Per quanto riguarda l’Italia e l’italiano, sono stati registrati numerosi prestiti soprattutto dai longobardi e un notevole incremento di tedeschismi intorno al XV e XVI sec. Vicende simili hanno riguardato la Francia, che ha visto l’arricchimento non solo del suo vocabolario ma anche della toponomastica. Vandali, Svevi e Goti attraversano la Romània e puntano verso l’Hispania, lasciando tracce poco consistenti nel portoghese ma ben più evidenti nel castigliano, in germanismi come “ robar”, “guisa” o “tregua”. In particolare, l’eredità visigota appare in alcuni nomi di persona, come Rodrigo, Alfonso o Alvaro e in alcuni cromonimi, come “gris” e “blanco”. L’arabo e le lingue romanze L’arabo è un’altra di quelle lingue che hanno fortemente segnato lo sviluppo delle lingue romanze, tra cui anche l’italiano. Dopo la morte di Maometto, l’espansione dell’impero teocratico musulmano, che riunisce in pochi secoli arabi, turchi, persiani, berberi, curdi, segnò l’infittirsi dei rapporti con l’Occidente cristiano e un lungo periodo di contatto linguistico tra i due mondi. In particolare, nella penisola iberica e in Sicilia, affacciati sul mediterraneo, si svilupparono numerosi insediamenti arabi che diedero il via a stabili fasi di bilinguismo. La prova più immediata di questi contatti è la toponomastica (“Marsala”, ”Rambla”, “Gibilterra”), ma la pervasività del biculturalismo e del bilinguismo che interessa l’area mediterranea si fa ancora più evidente guardando al vocabolario di queste regioni, che accolgono prestiti in moltissimi campi semantici. Alcuni esempi dell’italiano, che sono solo una piccola parte di tutta quella che è stata l’influenza dell’arabo in Europa, sono: arancia, zucchero, limone, carciofo, caraffa, cotone, magazzino, dogana, tariffa, zecca, algebra, alchimia, ecc. Tipologia e interferenza Riguardo all’interferenza, gli studiosi tendono ad accordare su una serie di assunti relativamente universali: “i nomi sono più facilmente oggetto di interferenza dei verbi”, “il lessico di base viene raramente interessato dall’interferenza”, “le unità di significato sono più influenzabili di quelle funzionali” , e così via. Nell’ambito della tipologia, il concetto di “prestabilità lessicale” relativo agli studi del World Loanword Database ha contribuito alla formulazione di alcuni universali dell’interferenza lessicale, basati su un campione di 395 lingue. Partendo dalla lista dei termini elaborata da Swadesh, la ricerca di Haspelmath e Tadmor ha raffinato il concetto di “lessico di base”, proprio attraverso la valutazione della “prestabilità” degli stessi. In sostanza, diversi ambiti del vocabolario hanno diversa propensione e di essere oggetti di prestito, secondo una specifica gerarchia, la “scala dei prestabilità”, che ne definisce la probabilità statistica. In generale, gli elementi più grammaticali risultano meno prestabili di quelli lessicali e, all’interno del lessico, i nomi sono i più prestabili, perché non creano alterazioni nella struttura della lingua ricevente, a differenza dei verbi, che mostrano notevole resistenza al passaggio da una lingua all’altra. Nel contesto di questa teoria, la ricerca si è occupata di precisare anche la semantica della prestabilità, ovvero le motivazioni e le modalità con cui un termine appartenente ad un dato campo semantico risulta più predisposto ad essere oggetto dell’interferenza. In tal senso, trovano conferma alcune delle teorie di Swadesh: gli ambiti del lessico riguardanti le attività umane essenziali, per esempio mostrano una scarsa predisposizione al prestito. D’altro canto, hanno maggior possibilità di essere prestati quei significati relativi a innovazioni, a specifici campi del sapere, come la legge, la religione o la scienza, e quelli che designano realtà specifiche delle comunità che entrano in contatto, soprattutto quelli della cultura o della natura. Come in altri campi dell’interferenza, il prestigio del modello si applica anche alla semantica, ma in misura minore rispetto all’intensità del contatto, alla frequenza o alla pressione culturale, che può configurarsi in atteggiamenti di purismo letterario o di xenofobia. Gli effetti dell’interferenza I fenomeni di interferenza hanno importanti effetti nell’evoluzione delle lingue, percepibili soprattutto nel lungo periodo. Questi fenomeni, di solito, accompagnano eventi come invasioni, conquiste, colonizzazioni o che può svilupparsi in territori di confine. Quando i codici in contatto hanno uno status sociale paragonabile, si parla propriamente di bilinguismo. Il bilinguismo è una condizione assai diffusa, probabilmente la più comune a livello globale, sia a livello di società che di individui. Si parla di bilinguismo monocomunitario quando la popolazione è in maggioranza bilingue (Valle d’Aosta), e di bilinguismo bicomunitario quando una parte della comunità parla una certa lingua e l’altra ne parla una diversa (Trentino-Alto Adige). Esistono anche casi in cui, col passare del tempo, si può verificare una specializzazione funzionale delle varietà, per cui una sola viene considerata lingua ufficiale, mentre l’altra viene impiegata solo per la comunicazione informale. Questa condizione, in cui i due codici sono istituzionalizzati con diverso rango, è detta di diglossia. Un caso canonico di diglossia riguarda il mondo arabo, in cui coesistono arabo standard e diverse varietà locali, che si differenziano per uso, funzione e prestigio. Tornando indietro nel tempo, la diglossia ha caratterizzato la quasi totalità dell’Europa medievale, in cui il latino ricopriva il ruolo di prestigio e i volgari, tra l’altro sviluppati dal latino stesso, erano utilizzati per la comunicazione corrente. L’Italia, per esempio, e similmente a come è accaduto altrove nel continente, ha privilegiato una lingua standard a discapito delle altre varietà regionali, ritrovandosi al giorno d’oggi in una condizione peculiare. Berruto definisce dilalìa la coesistenza, tipica dell’Italia, di due varietà di rango diverso, di cui una è riservata agli usi formali, mentre in quelli informali sia la varietà alta che quella bassa sono accettabili. Il caso in cui due lingue confinanti o coesistenti nello stesso territorio si influenzino a vicenda senza che una risulti superiore all’altra, configura una condizione di adstrato. Questo contesto, tuttavia, è piuttosto raro, laddove il bilinguismo propriamente inteso tende ad andare per la maggiore. Quando una delle varietà linguistiche coesistenti arriva a sopraffare l’altra, la lingua recessiva può lasciare forme residuali nello sviluppo di quella dominante, influenzandola nel tempo. Si parla di sostrato in riferimento alla lingua sottomessa e di superstrato a quella dominante. Un caso tipico di sostrato è quello delle lingue celtiche sull’inglese, mentre uno di superstrato è quello del francese sull’inglese durante i secoli della dominazione normanna. La stratigrafia linguistica, con un metodo simile a quello che, nelle scienze geologiche, permette di datare le rocce e i sedimenti del terreno in fasce distinte, permette di rappresentare la cronologia di una lingua in uno schema a strati, basandosi proprio sui fenomeni di superstrato e sostrato. In contesti di contatto prolungato e diffuso, fenomeni di ampia portata che coinvolgono il piano fonologico, morfologico, sintattico e lessicale possono dare origine ad una lega linguistica. Ciò avviene, di solito, quando una serie di lingue presenta tratti consistentemente diversi da quelle della sua famiglia di appartenenza e tratti più comuni a quelle delle regioni geograficamente attigue. In questi casi, si assiste ad uno sviluppo comune e alla trasmissione di innovazioni, piuttosto che alla conservazione dei tratti ereditati dalla propria famiglia o gruppo linguistico originario. Un esempio classico e ampiamente studiato è quello della lega linguistica balcanica, laddove isoglosse grammaticale condivise uniscono albanese e neogreco (isolate indoeuropee), rumeno (romanza), bulgaro, macedone e serbo (slave), lingue rom (indoaria), e turco (altaica). Le lingue di contatto Quando l’incontro tra due comunità linguistiche è caratterizzato da una forte asimmetria nel prestigio e nel potere, come ad esempio nel caso delle lingue europee dei colonizzatori rispetto a quelle indigene, si possono formare le cosiddette “lingue di contatto”. Si tratta di sistemi linguistici piuttosto rudimentali e semplificati, che nascono con lo scopo pratico di assicurare comunicazione almeno basilare tra le due comunità che entrano in contatto. Le lingue pidgin si formano per assenza o scarsità di input fornito dai parlanti nativi e, quindi, la struttura base del sistema è fornito dalla lingua indigena. Dalla lingua di prestigio vengono di solito importate entrate lessicali: è il caso di portoghese, francese, inglese e nederlandese, che sono state tutte lingue lessicalizzatrici di numerose lingue pidgin sviluppate nel contesto del colonialismo europeo. Tra le lingue pidgin più diffuse esistono il WAPE (West African Pidgin English), parlato da alcune comunità in Gambia, Ghana, Nigeria e Camerun, il nàmglish, utilizzato in Vietnam nel secolo scorso in ambito militare, e il russonorsk, utilizzato intorno a Capo Nord in ambito marittimo. Sebbene le lingue pidgin per loro natura non abbiano parlanti nativi, quando diventano primarie per un certo numero di individui, generalmente figli di coniugi che usano una lingua pidgin per comprendersi, nascono le cosiddette lingue creole. Queste particolari lingue sono più complesse e ricche delle lingue pidgin da cui derivano, sebbene non si assista durante la fase di creolizzazione a nessun recupero dell’impianto originario della lingua lessicalizzatrice, quanto piuttosto ad una creazione quasi ex-novo di una varietà originale. Ciò è avvenuto, per esempio, nel caso del tok pisin, forma creolizzata del pidgin di base inglese nato in Papua Nuova Guinea e dell’haitiano. comunità, mentre la seconda si occupa di osservare la variazione linguistica interna alle comunità e di studiare le variabili sociali che contribuiscono a tale diversificazione. Ciò che accomuna queste due branche è la netta opposizione alla linguistica teorica, la quale cerca di definire le strutture e le tendenze universali di una lingua partendo dall’astrazione della langue, piuttosto che da un’osservazione concreta della lingua in uso dei parlanti. Punto cardine di etnolinguistica e sociolinguistica, infatti, è l’analisi empirica della lingua “viva”, ossia della parole. Decadenza e progresso L’ipotesi della discendenza da una perduta lingua comune è generalmente associata a giudizi negativi sullo stato presente delle lingue. Nella concezione di Schleicher, il declino, tuttavia, è un fattore intrinseco di tutte le lingue nella loro evoluzione, che come ogni essere vivente (modello biologico) nascono, crescono, maturano e, infine, decadono. Non sorprende quindi che molti suoi contemporanei vedessero con preoccupazione al futuro delle lingue europee, che sarebbero andate incontro ad un inevitabile impoverimento in ogni ambito, dalla fonologia alla flessione. William Dwight Whitney rileva nei suoi studi sull’evoluzione del linguaggio che l’inglese è stato particolarmente soggetto a impoverimento e decadenza, tanto che “non vi sia altra lingua conosciuta che dall’essere stata così ricca è giunta a tale povertà”. Questo regresso secondo il linguista americano (e già secondo le ipotesi dei Neogrammatici) sarebbe dovuto a un principio che opera per il fine della comodità e dell’abbreviazione comune a tutti i parlanti. Whitney sostiene inoltre che i fenomeni di contatto linguistico accelerano ulteriormente il declino di una lingua, come è successo, per esempio, con il latino, giunto ad una “forma corrotta” da uno stato di perfezione originaria. Altri studiosi, in particolare Jespersen, sottolineano l’importanza degli episodi di contatto linguistico nei processi necessari di riassetto di una lingua, ponendo come istanza positiva l’evoluzione delle lingue, così come i fenomeni di interferenza. Pochi anni dopo Joseph Vendryes, nel volume “La langage” precisa che è sbagliato considerare una lingua come un’entità monolitica che si sviluppa indipendentemente dagli uomini mossa da un proprio fine teleologico. La lingua, di fatto, secondo Vendryes non esiste al di fuori di coloro che la parlano: pertanto la sua evoluzione non è che uno specchio dell’evoluzione della società e della cultura. Ancora più avanti, Popper liquiderà tutte quelle dottrine che descrivono la condizione umana come uno sviluppo governato da leggi proprie e prevedibili, orientato verso un fine superiore agli interessi individuali dei singoli. Per quanto riguarda invece la nascita delle lingue, già prima di Schlegel e di Humbolt, Johann Cristoph Adelung aveva proposto una suddivisione delle lingue in “tipi”, basandosi su una visione secondo cui gli uomini avrebbero usato dapprima solo le vocali, poi anche le consonanti in segmenti monosillabici, fino all’impiego di polisillabi. Dalla “riproduzione di ciò che si udiva” e “l’espressione di ciò che si pensava come udibile”, si è passati con la formazione della ragione allo sviluppo delle lingue atte all’espressione di cultura gradualmente sempre più complessa. La questione dell’origine del linguaggio ha rappresentato da sempre un tabu per la ricerca, come campo di studio inaccessibile all’approccio scientifico e pertanto insolubile. In tempi recenti, tuttavia, trova spazio negli studi di neurolinguistica e psicolinguistica, aprendo nuovi orizzonti meritevoli di interesse. Uno su tutti il modello di Derek Bickerton, che esplora questi temi in relazione all’osservazione diretta dei creoli della Guyana e delle Hawaii. Bickerton formula la “ipotesi del programma biologico del linguaggio”, secondo cui tra le lingue di contatto, la fase di creolizzaione e l’omogeneità strutturale delle diverse lingue pidgin creolizzate da lingue lessicalizzatrici diverse spiegherebbero l’esistenza di una predisposizione biologicamente comune e predeterminata. In sostanza, un bambino, nell’acquisizione di lingua prima attingerebbe ad abilità e conoscenze innate, non da quelle specifiche della lingua lessicalizzatrice. Del tutto simile la teoria generativa di Chomsky, che muove dall’assunto che la struttura delle diverse lingue si fonda su meccanismi di base biologica, e che le competenze linguistiche siano modellate dall’attivazione di parametri innati che rispecchiano le regole e categorie della lingua, dipendentemente dalle condizioni ambientali. Gli “Universali della creolizzazione” di Bickerton, tuttavia, non sono semplice conferma della Grammatica Universale di Chomsky, che lega il suo modello a principi matematici rigorosi. Inoltre, se Chomsky pone sullo stesso livello di complessità tutte le lingue, Bickerton ritiene le lingue creole più facili da acquisire per loro stessa natura. Per quanto la teoria di Bickerton sia stata criticata, ha offerto indubbiamente spunti interessanti circa la riflessione sui limiti e vincoli imposti alla variabilità delle lingue che, a differenza di quella biologica, può essere intenzionale e in certa misura controllata. Anche l’idea di morte è naturalmente contemplata dalla metafora della lingua come organismo vivente ed è stato un concetto ripreso più volte dagli studiosi nei decenni. Lo stesso Vendryes in “ La mort des langues”, riporta in un quadro rigoroso e lucido la situazione delle lingue celtiche in Europa nella pria metà del Novecento, riportando quanto esse stiano sparendo a poco a poco e mostrando l’effettivo rischio di estinzione di queste ed altre lingue minori. Il tema delle lingue a rischio d’estinzione, in particolare, ha suscitato negli ultimi decenni crescente attenzione tanto nella comunità scientifica, quanto nell’opinione pubblica, in un generale atteggiamento che tende a voler preservare e salvaguardare la diversità linguistica, patrimonio dell’umanità alla pari delle altre espressioni di cultura. Il concetto di scomparsa di una lingua è stato descritto con una serie di termini variatamente evocativi, tra cui glottofagia e linguicidio meritano una menzione speciale. La prima esprime il ruolo delle lingue “dominanti”, soprattutto nel contesto colonialista, di assorbimento o distruzione del patrimonio linguistico di comunità sottomesse, mentre la seconda presuppone l’idea di una scomparsa tanto improvvisa quanto irreversibile. Considerando il legame tra lingua e cultura, è evidente come la perdita della prima risulti in un impoverimento della seconda, arrecando per dipiù danni alla comunità scientifica che indaga sui fatti di lingua, sebbene questo punto di vista sia forse più “cinico”. Movimento e stabilità La lingua è caratterizzata da due aspetti dicotomici , ossia movimento e stabilità, che generano un paradosso: la natura dinamica della lingua, che esiste in divenire, si scontra con il suo carattere strutturato e necessitante di stabilità. L’idea di movimento chiama in causa un senso di fluidità dell’oggetto in transizione, un po’ come la teoria delle onde di Schmidt, che materializza la modalità di propagazione delle innovazioni complicando le biforcazioni nette dei diagrammi ad albero delle teorie filogenetiche. Saussure, che tra l’altro supporta la teoria delle onde, descrive l’evoluzione linguistica mediante un’immagine diversa, ovvero quella del fiume che scorre ininterrottamente e che riceve sempre nuovo materiale da ruscelli e altri affluenti. Sapir offre un’immagine ancora più vivida e feconda, ovvero quella del mutamento linguistico come movimento dell’acqua alla deriva (drift). Secondo il linguista ed antropologo statunitense, la lingua si muoverebbe nel tempo seguendo una corrente da essa stessa generata. Questo movimento, detto appunto di deriva, non avrebbe una direzione precisa, ad indicare che solo le variazioni individuali che si muovono in una certa direzione possano delineare la “marea” linguistica. Sapir parla di una selezione inconscia fatta dai parlanti, che porterebbe la deriva a concentrarsi verso una specifica direzione: il mutamento linguistico sarebbe solo in apparenza casuale, ma in realtà seguirebbe una corrente in cui confluiscono tutte quelle variazioni individuali moltiplicate e convergenti. Ordine e caos In un primo periodo, la ricerca degli studiosi dell’Ottocento, ancora incapace di ricavare una teoria complessiva del mutamento linguistico, muoveva soprattutto da motivazioni di carattere pseudo- psicologico, tendenti a sottolinearne il carattere fortemente entropico. Con l’ordine portato dai Neogrammatici, tuttavia, si viene a formare una concezione della lingua come tutt’altro che caotica, ma regolata da leggi ordinate, seppur cieche nel loro operare. Ne consegue una riflessione sulle finalità della lingua, che appare nel suo sviluppo del tutto siile a quello che Darwin descrive circa la natura organica: la maggiore o minore funzionalità dei modelli è decisiva per la loro conservazione o la loro estinzione. In altre parole, il mutamento pare essere mosso da una deviazione verso la comodità e che obbedisca a regole di utilità e convenienza strutturale, testi ampiamente sostenuta dalla linguistica strutturale. Il mutamento non appare quindi telelogicamente teso verso l’ordine, quanto più all’economicità degli sforzi impiegati per la produzione linguistica. La transizione da uno stato di lingua ad un altro, quindi, non può avvenire per mezzo di mutamenti isolati: la lingua è un insieme organico e relativamente regolato da proprie finalità. Pertanto, la ricerca dei fatti diacronici deve tenere conto del sistema nel suo complesso e non può prescindere proprio da una considerazione della lingua come teleologica nel suo mutamento. In tal senso, risulta significativa la cosiddetta “legge di Zipf”, che teorizza, basandosi su un’analisi della distribuzione delle parole in un testo, l’Ulisse di Joyce, approssimando a quelle della lingua reale, che nella comunicazione, emittente e ricevente cercano entrambi di minimizzare i loro sforzi. I calcoli dello studioso, infatti dimostrano una prevalenza di pochi termini brevi, che appaiono con una frequenza evidentemente superiore a tutti gli altri. Il principio di economicità può essere ricondotto a tutte le forme di vita e, in generale, tutti i sistemi il cui funzionamento si basa su risorse limitate. I fattori economici dimostrano il loro peso osservando il mutamento fonologico: André Martinet afferma che le lingue operano per mantenere il loro equilibrio mediante strategie “economiche”, ovvero riducendo al minimo lo sforzo dell’apparato fonatorio nell’articolazione dei suoni. L’idea che un sistema dinamico debba essere necessariamente mosso verso un obiettivo verso cui tendere, comunque, è sbagliata. Nel caso della teoria darwinista, per esempio, è evidente che gli organismi non evolvano mossi da un fine predeterminato, ma piuttosto lo trovino nel loro progredire. Anche e soprattutto per questo motivo, la ricerca attuale tende ad escludere la dimensione funzionale a priori nello studio del mutamento linguistico. Keller offre un modello che si oppone in questo senso a quello biologico/teleologico, ovvero quello della “mano invisibile”, mutuato dalla teoria sul liberismo economico di Adam Smith. Il mutamento linguistico differisce dai processi naturali, che escludono qualsiasi intenzionalità, e da quelli artificiali, che presuppongono una progettazione volontaria: la lingua sarebbe guidata nel suo mutamento da una “forza invisibile” verso un fine non prestabilito. Non sono i parlanti a pianificare il cambiamento, bensì è la somma delle loro azioni individuali a guidare l’evoluzione della lingua verso un fine non preciso. Il mutamento prevede quindi due piani: nel microlivello i parlanti operano mossi da interessi individuali, influenzando involontariamente il macrolivello, che influenza a sua volta il sistema linguistico. Secondo Keller i parlanti agiscono nel microlivelllo per aderire a cinque massime comportamentali condivise: 1. Ipermassima: parla in modo da avere successo. 2. Chiarezza: parla in modo da farti capire. 3. Economia: parla in modo da non sprecare energia. 4. Conformità: parla come gli altri. 5. Stravaganza: parla in modo da farti notare. Il valore di queste massime è ancora da dimostrare e, in generale, il modello teorico di Keller non è scevro di contraddizioni: se fosse vero che tutti i parlanti compiono autonomamente le medesime scelte, le innovazioni dovrebbero di fatto propagarsi molto più rapidamente di quanto non succeda in realtà. Inoltre, la “teoria della mano invisibile” non approfondisce la complessità dei processi selettivi del mutamento rispetto alle intenzioni del singolo parlante. Nell’emergere del fenomeno di mutamento, il destino di un’innovazione è sicuramente influenzato da fattori funzionali e cognitivi in conflitto. Il mutamento avviene ad opera dei parlanti, seppur inconsciamente, mossi da motivazioni tendenzialmente differenti: se il mutamento fosse il risultato di una pressione uniforme e concorde dei parlanti, tutte le lingue dovrebbero ormai trovarsi in uno stato di equilibrio, ma questo non è. Anzi, con tutta probabilità questa condizione non verrà mai raggiunta. L’idea di fondo, quindi, è che gli schemi strutturali delle lingue siano modellati in base a tendenze di carattere generale e in rapporto conflittuale e che il mutamento linguistico sia pilotato da fattori che tendono a condizioni “ottimali”. La linguistica cognitivo-funzionale definisce come “ottimale” tutto ciò che riguarda le
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved