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riassunto Loporcaro - Profilo linguistico dei dialetti italiani, II edizione,, Sintesi del corso di Dialettologia

Accuratissimo riassunto del libro

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 22/09/2021

Mirtilla158
Mirtilla158 🇮🇹

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Scarica riassunto Loporcaro - Profilo linguistico dei dialetti italiani, II edizione, e più Sintesi del corso in PDF di Dialettologia solo su Docsity! RIASSUNTO DI LOPORCARO “PROFILO LINGUISTICO DEI DIALETTI ITALIANI” CAPITOLO I Il termine dialetto è utilizzato per designare una varietà linguistica non standardizzata, tendenzialmente ristretta all’uso orale entro una comunità locale ed esclusa dagli impieghi istituzionali, propri invece della lingua che è l’italiano standard su base fiorentina, assurto al rango di lingua nazionale in seguito a vicende storico-politico-culturali consumatesi fra i secoli XIV e XVI. Infatti a partire dal prevalere della linea culturale rappresentata da Pietro Bembo e dalla sua codificazione nelle Prose della volgar lingua del 1525, nessuno in Italia ha dubitato dello status di lingua del fiorentino, divenuto dapprima strumento di espressione scritta dei soli ceti intellettuali e per i soli usi alti ed infine estesosi in fase postunitaria a tutte le fasce sociali come varietà dell’uso quotidiano. Questa ascesa di una varietà al rango di lingua nazionale ha relegato al rango di dialetti tutte le altre parlate. Nel corso di tale processo storico è insorto anche l’impiego stesso del termine dialetto, voce greca (diàlektos) utilizzata nella classicità per designare le diverse varietà del greco nei loro impieghi nei diversi generi letterari, passata all’umanesimo (dialectus) e rimessa in circolo in Italia nel ‘500 per indicare quelle parlate divenute subalterne le quali, prima dell’ascesa del fiorentino, erano tutte indistintamente definite al pari di quest’ultimo volgari. Il termine dialetto caratterizza ugualmente in Italia varietà linguistiche che stanno con l’italiano in rapporti del tutto diversi dal punto di vista storico: sono dialetti parlati in Italia ad esempio, l’arbereshe di varie località dal Molise alla Sicilia o il grico del Salento e della Calabria meridionale. Si tratta di varietà dialettali di altre lingue (l’albanese e il greco rispettivamente) giunte in Italia per migrazione ed oggi costituenti isole o colonie linguistiche alloglotte. Si dice alloglotta una persona parlante una lingua (greco glotta) diversa (greco allos) da quella della maggioranza. Nel caso delle isole linguistiche il carattere alloglotto coincide con quello allogeno, poiché i parlanti non sono autoctoni. Ai dialetti di questo tipo di comunità è stato recentemente attribuito uno statuto particolare con la legge 482 del 1999 che tutela le minoranze linguistiche storiche. Il termine stesso di isole, colonie o minoranze indica però che le situazioni di questo tipo sono minoritarie rispetto a quella più frequente: la maggior parte dei dialetti in Italia costituiscono uno sviluppo del latino parlato nelle rispettive località. È questo tipo di varietà che normalmente si ha in mente quando si parla di dialetti italiani. Constatata la subalternità socio linguistica del dialetto, la concezione popolare deduce spesso una secondarietà storica vedendo nei dialetti forme alterate dell’italiano, il che è erroneo. Derivando indipendentemente dal latino, i dialetti sono lingue sorelle dell’italiano. Per designarle è utile poter disporre del termine varietà, usato in sociolinguistica per indicare un qualsiasi sistema linguistico facendo astrazione da considerazioni di prestigio, uso, estensione geografica e senza dunque le ambiguità insite nel termine dialetto. I dialetti italiani sono dialetti primari romanzi, categoria che si oppone a quella di dialetti secondari, distinzione dovuta a Eugenio Coseriu. Sono dialetti primari dell’italiano quelle varietà che con esso stanno in rapporto di subordinazione sociolinguistica e condividono con esso una medesima origine (latina). I dialetti secondari quei dialetti insorti dalla differenziazione geografica di tale lingua anziché di una lingua madre comune: ad esempio i dialetti spagnoli parlati in America latina. In Italia sono dialetti secondari i cosiddetti italiani regionali, che s’interpongono come varietà intermedie del repertorio fra italiano standard e dialetto locale e derivano dalla sovrapposizione di quello a questo. O, più precisamente, dall’importazione nelle diverse regioni dell’italiano letterario comune che differenziandosi di luogo in luogo ha assunto diversi tratti per contatto coi dialetti locali. Prendiamo ad esempio la seguente frase, in tre diverse varietà del repertorio linguistico (l’insieme gerarchicamente ordinato delle varietà disponibili) di una data comunità italiana meridionale: [ma kkOsa ti vjene i mmente] — italiano standard [ma kousa ti vjene i mennde] — italiano regionale pugliese [ma Coekke te vene e geip] — dialetto locale di Altamura La frase italiana regionale presenta alcuni fenomeni fonetici locali (sonorizzazione dopo nasale) sovrapposti alla struttura dello standard. La frase in dialetto presenta non solo questi fenomeni ma alcune scelte lessicali diverse ([e grip] = in capo anziché in mente). Lo studio del tipo di stratificazione del repertorio ora esemplificato è stato inaugurato da Pellegrini nel 1960, che distingue quattro livelli, qui illustrati con le frasi iniziali del testo la Parabola del figliol prodigo: [un wOmo aveva due fiXAi il pju gBovane disse al padre] — italiano standard Italia nord occidentale e continua oltre confine nel gallo-romanzo. Quanto alla caduta di Ù latina finale, il confine passa tra Piemonte e Liguria, per poi seguire l’ Appennino tra Emilia e Toscana. Anche qui il gallo-romanzo si comporta come il torinese. Perché dunque chiamiamo quest’ultimo un dialetto italiano? La risposta è di natura sociopolitica: il torinese, sin dal ‘500, ha come lingua tetto l’italiano e in direzione di un omologazione strutturale all’italiano lo spingono i processi di standardizzazione. Se il Ducato di Savoia nel ‘500 fosse rimasto per intero culturalmente francese, del torinese si darebbe oggi una classificazione diversa. La classificazione dialettale si fonda su: - Criteri intemni: la classificazione poggia sulle somiglianze/differenze fra dialetti accertate in base al metodo di individuazione di isoglosse. Fra i motivi per cui definiamo il torinese un dialetto non gallo-romanzo ma italo-romanzo c’è anche una ragione linguistica. Fra Torino e la Sicilia si estende un continuum dialettale, ovvero un territorio sul quale i dialetti evolutosi in loco a partire dal latino sono legati fra loro da una catena di intercomprensibilità: presa ogni località X, i parlanti del dialetto locale capiscono quelli delle località adiacenti. Se un tale continuum non esistesse, avremmo grave difficoltà a classificare sia il torinese che il siciliano come italo- romanzi. Questa è però una condizione necessaria ma non sufficiente. Il continuum dialettale prosegue infatti anche oltre i confini italiani: infatti tutte le varietà romanze parlate nelle loro sedi storiche europee sono parte di un continuum dialettale detto Romania continua. Tale continuum è insorto per dialettizzazione primaria, ossia per il graduale sviluppo divergente del latino sull’intero territorio in questione. - Criteri esterni: possono essere di natura storico-culturale (lingua tetto), storico-politica (spostamenti di confine), geografica (dialetti separati da ostacoli naturali). La distinzione fra i valori di un tratto linguistico, segnata sulla carta da un’isoglossa (come per esempio nelle figure a pp. 11-12) si deve spesso al fatto che in una delle due aree si è prodotto un mutamento linguistico. Il metodo per lo studio del mutamento è stato messo a punto nell’800 a Lipsia dalla scuola dei neogrammatici: va per questo sotto il nome di metodo neogrammaticale. L’ipotesi di lavoro fondamentale è che il mutamento sia regolare, colpisca cioè in una data lingua in un dato momento tutte quante le parole presentanti le condizioni appropriate. Così, se ad esempio, nel bolognese A latina accentata in sillaba aperta è divenuta [e] in [pela] “pala”< PALAM, ci aspettiamo di trovare una [e] anche in tutte le altre parole il cui etimo presentasse A tonica nello stesso contesto, il che effettivamente accade: [leg] “lago”<LAGUM. Laddove si riscontrano eccezioni, il metodo impone di cercarne dapprima una spiegazione interna e poi esterna, secondo la gerarchia seguente: 1. Verificare se un altro mutamento fonetico abbia interferito. Esempio: in bolognese “chiama”<CLAMAT suona [Cama] non [Cema], nonostante anche qui si abbia una sillaba aperta la spiegazione sta nel fatto che la M intervocalica si è raddoppiata già in fase alto-medievale, cosicché ogni vocale precedente M è stata trattata come sillaba chiusa. 2. Verificare se l’eccezione possa avere causa di natura morfologica. Così l’italiano “vedo” non può continuare il latino VIDEO, a quest’ultimo corrisponde infatti, nel toscano antico “veggio”, mentre “vedo” è sorto per analogia sulle restanti forme del paradigma (“vedi”, “vede” ecc.), derivate regolarmente da VIDES, VIDET ecc. 3. Ricorrere alla postulazione di un prestito da un’altra lingua. Esempio: nel sardo [bettsu] “vecchio” non si osserva il normale sviluppo del nesso consonantico TL/CL di VET(U)LUM — sviluppo che si vede invece ad esempio in [ozu] “occhio”<OC(U)LUM — è perché questa parola è un prestito dal toscano “vecchio”, penetrato all’epoca della dominazione toscana del XI sec. E’ da sottolineare che al prestito si ricorre in ultima istanza, contrariamente a quanto fa il discorso popolare sui fatti di lingua. Così, di fronte al fatto che in tarantino “morto” si dice [mwerte] e “tempo” si dice [tjembe], il metodo impone di verificare quali siano gli esiti di Ò ed È latine nello stesso contesto. Una volta constatato che Ò dà regolarmente [we] ed È da regolarmente [je] non si sarà bisogno di invocare lo spagnolo come fonte di queste parole. La corrente di linguistica storica romanza rappresentata da Schuchardt (1870), teorizza l’esistenza di continua dialettali e l’impossibilità di stabilire confini dialettali netti. Pur tenendo presente la validità di questo dubbio di metodo, la dialettologia non ha però rinunciato alla classificazione dialettale Un confine linguistico corrisponde all’addensamento in un fascio di un numero consistente di isoglosse. Ad esempio, la linea La Spezia-Rimini che corre lungo il crinale appenninico fra Emilia e Toscana e che lascia a Nord dialetti in cui cadono le vocali finali diverse da [a] (bolognese [amig]<“amico”), si sonorizzano le consonanti sorde intervocaliche (bolognese [amvod]<“nipote”) e si scempiano le consonanti geminate (bolognese [vaka]<”vacca”), mentre a sud il toscano non ha subito nessuno di questi mutamenti, come mostra la figura a p.17. Il mutamento linguistico procede attraverso: - Il tempo, cioè la variazione diacronica; - Lo spazio, cioè la variazione diatopica; - I parlanti di qualsiasi società, mediante la loro variazione nell’uso linguistico, cioè la vari ne diastratica; - Glistili selezionati nei diversi contesti, cioè la variazione diafasica: - Il lessico, conquistandone porzione via via più ampie sino eventualmente a generalizzarsi, per esempio nel toscano e quindi nello standard, la sonorizzazione si è imposta in alcune parole come ago, strada ecc. ma senza generalizzarsi. La dialettologia, la sottodisciplina della linguistica che ha il dialetto come oggetto di studio, si consolida come disciplina scientifica moderna nell’800. La storia della ricerca dialettologica può essere così riassunta: - In Italia il suo iniziatore è Graziadio Isaia Ascoli che coi Saggi ladini (1873), costituenti il I° volume della rivista Archivio glottologico italiano, da lui fondata, forniva il modello per lo studio della struttura linguistica dei dialetti. Tale modello considerava i fatti linguistici includendo nella descrizione la dimensione temporale, cioè diacronica: descrivere i dialetti italiani significava descrivere il loro svilupparsi dal latino. - Nel 1922 con Saussure si consolida l’idea che sia legittimo studiare la lingua come sistema, a prescindere dal suo mutare nel tempo: si crea dunque una nuova prospettiva definita sincronica, opposta a quella precedente. - La geolinguistica che concepisce gli atlanti dialettali, su cui ci si soffermerà in seguito. La conseguenza è paradossale: le carte linguistiche degli atlanti permettono la visualizzazione spaziale delle isoglosse utilizzate per individuare i dialetti. Tuttavia il contesto ideologico che ha prodotto questi atlanti nega la possibilità di poter individuare confini dialettali netti. Prodotto estremo della prospettiva geolinguistica è la dialettometria, metodo per la misurazione e cartografazione della distanza strutturale fra dialetti, che ha il suo principale esponente in Goebl. Per esempio la figura a p. 23, è una “carta di similarità” avente per fulcro Roma, infatti, in corrispondenza di quest’ultima si nota l’unico poligono bianco. Per i dialetti, cui corrispondono gli altri poligoni, è rappresentato in diversi colori il diverso grado di distanza strutturale, calcolata con formule matematiche, rispetto al dialetto di Roma. antica, dando origine a una diversificazione del latino più capillare che nelle provincie (Gallia, Dacia ecc.). Le popolazione prelatine avrebbero dunque trasferito nel latino caratteristiche tipiche delle loro lingue originarie. Cfr. la figura a p. 35 che presenta il quadro delle lingue prelatine parlate nella penisola. - La teoria del superstrato: afferma che un decisivo impulso alla differenziazione dialettale si dovrebbe ad influssi di superstrato esercitati dalle lingue sovrappostesi al latino con le invasione che segnarono il passaggio dall’antichità al Medioevo. In Italia, queste due teorie arrivano entrambe alla linguistica moderna attraverso una serie di studiosi: - Nel ‘400, a Firenze, nella cerchia di umanisti alla corte papale di Eugenio IV, si svolge il dibattito tra Bruni e Flavio. Quest'ultimo sostiene che il volgare sia sorto dalla mescolanza del latino con le lingue germaniche parlate dagli invasori barbarici + teoria del superstrato. - Nel ‘700, una posizione analoga è sostenuta dallo storico Muratori. - Nell’800, la teoria del sostrato viene elevata al rango di teoria linguistica dall’ Ascoli, che fonda su di essa la classificazione dei dialetti italiani. Il procedimento messo a punto da quest’ultimo per la dimostrazione di effetti di sostrato comporta tre prove: - corografica: coincidenza della diffusione geografica delle due lingue, la moderna e l’antica, nelle quali si osserva il fenomeno. - intrinseca: identità strutturale del fenomeno nelle due lingue - estrinseca: ricorrenza dello stesso fenomeno in lingue di altre aree con identico sostrato. - Nel ‘900, la fiducia in questa teoria si è affievolita. Per quanto riguarda il lessico, è indubitabile che vi sia un lascito delle lingue di sostrato, come dimostra per esempio il termine “zolla”, che nei dialetti intorno al golfo di Taranto assume varie forme tutte risalenti ad un originario GLEFA la cui F intervocalica è indizio di oscismo, di contro al latino GLEBA. Se si esce da questo ambito, però, si osserva che per quanto riguarda la fonologia oggi si tende a ridimensionare l’effetto di sostrato, non ritendo più, così, che tutte le isoglosse caratterizzanti i dialetti italiani affondino le proprie radici nel processo di romanizzazione, perché molte di queste ultime, infatti, sono più tarde: — in Toscana si dovrebbe al sostrato etrusco la gorgia, ossia la spirantizzazione delle occlusive sorde intervocaliche: fiorentino [fOho] = “fuoco”. L’ascendenza etrusca della gorgia viene argomentata in base alle prove ascoliane: la prova corografica è 10 fornita dal fatto che oggi i dialetti toscani si parlano in quella che un tempo era l’Etruria; la prova intrinseca è data dal fatto che le iscrizioni etrusche, scritte in alfabeto di derivazione greca, mantengono i segni relativi alle consonanti aspirate pQy. E se questi segni in etrusco sono stati mantenuti, se ne può argomentare che essi servissero: che l’etrusco, cioè, avesse delle consonanti aspirate e non solo occlusive. AI contrario di quanto accadde per il latino, che pure adottò l’alfabeto greco, che non mantenne le consonanti aspirate, poiché non avrebbero avuto alcuna funzione distintiva mancando nel sistema le consonanti corrispondenti. A questa tesi Rohlfs obbietta la differenza strutturale: il fenomeno toscano è un indebolimento intervocalico, mentre delle aspirate etrusche ricorrono anche in altri contesti. - in Italia centro-meridionale, è stata ricondotta all’effetto di sostrato osco l’assimilazione progressiva di ND>nn, MB> mm: [kwanno] quando”, [pjommo] = “piombo”. In osco sono infatti attestate forme come il gerundivo upsannam “da costruirsi” corrispondente al latino OPERANDAM. A questa tesi Varvaro obbietta che il fenomeno si irradia nel Medioevo a partire dall’Italia mediana: i testi duecenteschi lo mostrano presente a Roma, ma ancora in via di diffusione in Campania, già territorio osco, mentre Basilicata, Calabria e Sicilia ne vengono toccate solo nel ‘500. Gli effetti di superstrato (prodotti dal contatto con una lingua egemone sovrappostasi solo temporaneamente a quella preesistente, che non viene scalzata) sono meglio accertabili data la maggiore vicinanza nel tempo. Anche qui pacifico è l’apporto lessicale, infatti, le lingue dei dominatori hanno lasciato all’italiano molte parole: sono germanismi voci come “fianco” “schiena”; sono arabismi voci come “albicocca”, “zenzero”. Nella fonologia si deve al superstrato arabo la presenza nel dialetto di Pantelleria di una fricativa laringale h, che in italiano, essendo un suono ignoto, viene adattato col suono più vicino ossia k: italiano “carciofo”< arabo “harsuf”, italiano “carruba”< arabo “harruba”. Sempre nel Pantesco, si ha nella morfologia un ulteriore esempio di superstrato arabo, perché questo dialetto forma il trapassato prossimo in modo particolare: ad una forma invariabile dell’imperfetto di “essere” si unisce il passato remoto del verbo regolarmente coniugato, per esempio, [era Samasti] = “avevi chiamato, [era fu mmalau] era stato malato”. Ben più all’indietro che nella fase di romanizzazione della penisola è stata collocata l’origine della differenziazione dei dialetti italiani da Alinei con la sua teoria della continuità: propone che l’indoeuropeo sia stato importato in Europa con la prima diaspora della specie Homo dall’Africa e che alla fine del Paleolitico (9000 a.C.) le lingue europee erano già 11 separate e nel Mesolitico (7000 a.C.) e Neolitico (5000 a.C.) erano anche insediate nelle loro sedi storiche. Dunque, la formazione dei dialetti italiani come delle altre lingue europee risale già a questo periodo. In questo quadro i dialetti italo-romanzi non sarebbero lingue figlie del latino, prodottesi per dialettalizzazione primaria nell’area romanizzata, bensì autonome varietà indoeuropee, sorelle del latino di Roma entro un sottogruppo che Alinei chiama “italide” esteso in età neolitica dall’Iberia all’Adriatico. Corollario di questa ipotesi è l’abbandono di ogni visione sostratica. Tale visione si è potuta applicare all’Italia e all'Europa sulla base di un presupposto cioè che le lingue indoeuropee siano giunte in Europa per migrazione, in una fase preistorica collocata fra 3000-5000 a.C. Arrivando in Europa, dunque, tali lingue si sarebbero sovrapposte ad altre preesistenti, perché il continente era già allora popolato. Le prove della preistoricità dei dialetti italiani vengono attinte da Alinei soprattutto dal lessico. Ad esempio, una denominazione come quella del vomere dell’aratro in Emilia (il tipo “mazza”) può essere sorta, sostiene lo studioso, solo al momento dell’invenzione dell’aratro, alla fine del Neolitico. Dunque l’emiliano “mazza” deve continuare, sia per significato che per significante, un latino d’Emilia MATTEA. La mancanza di documentazione dei dialetti emiliani prima della romanizzazione sarebbe dovuta al fatto che la documentazione diretta, essendo scritta, è limitata alle lingue egemoniche (nel nostro caso il latino di Roma): tutto il resto non emerge per iscritto. Ma a questo scenario Renzi obietta che forme dialettali come quelle indagate da Alinei non testimoniano della persistenza preistorica dell’emiliano, bensì della persistenza di concezioni arcaiche in aree rurali concezioni indipendenti dalla lingua in cui sono espresse. Questo materiale lessicale addotto da Alinei si può interpretare come frutto di un calco (esso si ha quando una lingua replica, in una sua parola, la struttura semantica di una parola di un’altra lingua): una denominazione dell’aratro motivata dal nome del bastone può essere stata tradotta per calco, all’atto della romanizzazione, con un MATTEA “bastone” disponibile nel lessico latino. Anzi, l’imporsi di MATTEA nel latino locale può aver tardato anche di secoli, perché in una fase di transizione il latino è certamente coesistito con le lingue prelatine relegate via via al polo basso del repertorio. Sostenere che una forma linguistica deve essere necessariamente antica quanto l’invenzione del suo referente (è questo il criterio di autodatazione lessicale di Alinei) vuol dire ignorare il principio di autonomia del significante. Dato un significante e significato (nel nostro caso MATTEA “bastone” poi “aratro”) quel che si autodata nella lingua con l’innovazione tecnologica è il significato non il significante. 12 - Il glossario di Monza del X sec, una raccolta lombarda di parole di prima necessità utili a coloro che dovevano viaggiare in Oriente, contiene forme soltanto settentrionali come zobia = “giovedì”. - I placiti campani del X sec, quattro formule di testimonianza in volgare messe per iscritto fra Capua, Sessa Aurunca e Teano, mostrano forme del Centro-Meridione come kelle = “quelle”. - Nel ‘400 la letteratura dialettale s’incrina quando il toscano inizia ad emergere come varietà alta di impiego sovraregionale, che porterà la sua canonizzazione nel ‘500 ad opera di Bembo nelle Prose della volgar lingua. - Nel ‘500/600 il dialetto è utilizzato in letteratura per esempio nelle opere novellistiche come Lo cunto de li cunti di Basile. - Nel ‘700/800 vi sono capolavori in dialetto che s’inscrivono a pieno titolo fra i massimi della letteratura italiana, come le commedie veneziane di Goldoni o i versi milanesi di Porta e romaneschi di Belli. - Nel ‘900, con la progressiva ritirata dei dialetti dall’uso parlato e quindi col loro avviarsi alla scomparsa, si presenta una tradizione letteraria di lirica alta che fra le molte voci importanti annovera ad esempio il romagnolo Guerra e il veneto Zanzotto. CAPITOLO II La storia della classificazione dei dialetti italiani è così sintetizzabile: - Dante nel De vulgari eloquentia aveva diviso la penisola in dodici aree dialettali, sei a destra (guardando dalle Alpi verso sud) e sei a sinistra degli Appennini: - Adovest: Apulia, Lazio, Spoleto, Marche, Sicilia, Sardegna - Adest: Apulia, Marche, Romagna, Lombardia, Veneto, Friuli Si tratta di una suddivisione puramente geografica, non fondata su tratti linguistici. - Lo spartiacque appenninico resta l’asse portante della classificazione di Fernow del 1808, che inizia a proporre alcuni tratti linguistici come caratterizzanti delle singole aree: ad esempio, la ricorrenza di [9] per i dialetti del Nord-Ovest o il passaggio ND>[nn] per quelli del Meridione. 15 Alla dimensione geografica si aggiunge quella storica con Biondelli nel 1856, che suddivide i dialetti italiani in sei famiglie (carnica, veneta, gallo-italica, ligure, tosco- latina e sannitica) ispirate, come è evidente dai nomi, ai popoli dell’Italia antica, ma non sostanziate da riferimenti a tratti linguistici. La moderna classificazione scientifica dei dialetti italiani inizia con l’articolo L'Italia dialettale di Ascoli del 1882. La novità costituita dall’intervento dello studioso sta nel fissare un modello per cui la classificazione tiene conto non solo di geografia e storia ma anche di fenomeni linguistici. È con Ascoli che le isoglosse demarcanti una zona dall’altra diventano l’architrave della classificazione. E poiché all’epoca il metodo era di linguistica storica, volto ad illustrare mutamenti nel tempo, è ovvio che i fatti linguistici considerati, fossero tutti diacronici: ossia relativi a sviluppi di un determinato dialetto dalla matrice latina. Ma a questa prospettiva diacronica se ne sovrappone una sincronica, visto che del toscano si proclama la maggiore vicinanza al latino da cui le altre varietà son venute invece a divergere per effetto del sostrato. La distanza diacronica dal latino degli altri sistemi è dunque automaticamente anche una distanza sincronica dal toscano. Ascoli definisce i raggruppamenti dialettali con un procedimento centripeto. Si tratta nell’ordine di: - Dialetti che dipendono da sistemi neo-latini non peculiari all’Italia (provenzale, franco-provenzale e ladino) - Dialetti che si distinguono dal sistema italiano vero e proprio, ma pur non entrano a far parte di alcun sistema neo-latino estraneo all’Italia (gallo-italico e sardo) - Dialetti che possono entrare a formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neo-latini (veneziano, dialetti centro-meridionali, corso) - Toscano Le classificazioni proposte successivamente (Merlo, Devoto, Pellegrini) mantengono tutte la centralità del toscano, divergendo però per: - la collocazione del veneto, che Ascoli separava dai dialetti gallo-italici raggruppandolo col toscano, oggi veneto e gallo-italico sono correttamente riuniti entro un raggruppamento italiano settentrionale -_la considerazione di quali dialetti parlati in Italia debbano essere considerati alloglotti: Ascoli includeva nella prima categoria, sullo stesso piano, i dialetti gallo- romanzi (provenzale e franco-provenzale) e ladino, mentre sui primi oggi vi è il consenso, sul ladino c’è molta discordanza. 16 Le varietà alloglotte sono quei dialetti che non possono dirsi italo-romanzi, costituendo colonie linguistiche insorte per migrazione ovvero propaggini in Italia di altri sistemi. Le parlate alloglotte d’Italia si possono classificare in: - Dialetti non romanzi: - i dialetti tedeschi, costituiscono propaggine dei dialetti tirolesi e sono in rapporto con il tedesco come lingua tetto. - i dialetti sloveni, che si trovano lungo il confine delle provincie di Udine, Gorizia e Trieste. - i dialetti croati, che si parlano in Molise e sono il frutto di un’immigrazione avvenuta nel XV secolo. - i dialetti greci, si parlano nella Grecìa salentina, a sud di Lecce e quella calabrese, sull’Aspromonte. La presenza greca nel Mezzogiorno d’Italia, considerata da Rohlfs continuazione ininterrotta della colonizzazione magno-greca, è ricondotta da altri alla dominazione bizantina. Corollario dell’ipotesi di Rohls era l’ulteriore ipotesi che in Sicilia il greco fosse rimasto, anche in epoca romana, l’unica lingua di uso popolare, mentre il latino non avrebbe mai attecchito. Studi successivi hanno mostrato, infatti, che nella Sicilia medievale ci fosse la coesistenza del greco e del latino. Un effetto strutturale di questo plurilinguismo medievale è stato riconosciuto nella nascita del vocalismo siciliano — Cfr. il capitolo seguente. - i dialetti albanesi, diffusi sull’intera area centro-meridionale dall’Abbruzzo alla Sicilia. Ad esempio, nelle provincie di: Foggia, Cosenza, Palermo. - Dialetti romanzi - -i dialetti provenzali e franco-provenzali si parlano al confine nord-occidentale, in continuità territoriale con la Francia e la Svizzera. L'area franco-provenzale abbraccia la Valle d’Aosta e il Piemonte occidentale, sino alla Valle di Susa dove inizia l’area provenzale. - Il ladino: ad esso viene attribuito uno statuto diverso nelle varie classificazioni dialettali degli studiosi. - Ascoli, nel 1873, definisce l’unità ladina articolata in tre aree geografiche: ad est il friulano, al centro il ladino dolomitico (fra Veneto e Trentino), ad ovest il romancio (nell’elvetico Canton Grigioni). Due di queste tre aree sono oggi italiane in senso politico-amministrativo, ma solo il friulano ha un rapporto con l’italiano come lingua tetto. Il Canton Grigioni è da secoli orientato all’area germanica (da quando, nell’843, 17 questo vocalismo fu descritta per la prima volta da Lausberg, che osservò come a pochi chilometri di distanza si trovassero concentrati, nell’area di confine calabro - lucana sistemi vocalici diversi. Lausberg, infatti, oltre al vocalismo rumeno, constatò la presenza del vocalismo sardo, a Trebisacce in provincia di Cosenza, che presenta: TELAM> “tela” [tere]; TENET> “tiene” [tene]; PIPER> “pepe” [pipe]; NÒVAM> “nuova” [nOve]; SOLEM> “sole” [sDre]; NÙCEM> “noce” [nuce]. — Cfr. Il vocalismo a p.75 + Cfr. L’area Lausberg a p.76. Il vocalismo siciliano: caratterizza i dialetti meridionali estremi che iniziano a partire dalla Calabria. Questo sistema è stato ritenuto da Rohlfs uno sviluppo indipendente all’origine, sullo stesso piano di quelli sardo e rumeno. Più probabilmente, però, come argomenta Fanciullo lo si dovrà invece considerare uno sviluppo ulteriore del vocalismo pan-romanzo, incentivato nel Medioevo dal contatto greco. La spiegazione dello studioso rimanda al concetto diasistema, che rappresenta la competenza linguistica dei parlanti bilingui. Supponendo che i parlanti della Sicilia medievale avessero un vocalismo pan - romanzo e dicessero dunque [candela], [fornu] e non ancora, dunque, [candila], [fornu] il bilinguismo con il greco li induceva a concepire una corrispondenza fra le vocali toniche di queste forme e quelle del greco candila, phournos. Corrispondenze rese al parlante tanto più evidenti dati i numerosissimi prestiti latini del greco come appunto quelli citati. L’imitazione del modello della lingua di prestigio avrebbe dunque generato, in siciliano, le pronunce con le stesse vocali toniche [i/u] invece delle [e/o] originarie, determinando il passaggio al vocalismo siciliano. — cfr. la figura a pag. 77. Il vocalismo marginale: individuato da Lausberg si estende da est dalla costa adriatica fra Brindisi e Ostuni proseguendo verso ovest in Lucania fino a toccare la provincia di Salerno. Per Lausberg si tratta di un’area originariamente a vocalismo pan-romanzo modificato per contatto con il sistema siciliano; al contrario secondo Barbato doveva aversi in questa zona originariamente il vocalismo siciliano, sul quale il sistema pan- romanzo avrebbe influito determinando la modifica. — cfr. la figura a pag.78. I sistemi delle vocali atone finali costituiscono isoglosse cruciali per la suddivisione delle aree dialettali italiane. Il tipo più conservativo è quello dell’area mediana e del sardo logudorese, in cui si conservano tutte e cinque le vocali originarie. I dialetti settentrionali hanno subito la caduta delle vocali atone finali, ad eccezione del ligure, in posizione appartata nel gruppo gallo-italico, e il veneto (veneziano e veneto centrale). Fortemente ridotto è anche 20 il vocalismo dell’alto meridione, dove vi è la generale neutralizzazione di tutte le vocali in [e]. Il meridione estremo è compattamente contrassegnato dall’innalzamento di “O” > [u] mentre l’innalzamento parallelo “E” > [i] si riscontra dovunque tranne nel Salento e in Calabria salentina. In Italia la linea La Spezia — Rimini segna il confine Sud dei dialetti settentrionali. Tale linea ha rilevanza non solo per l’Italia, ma per l’intera Romania, che viene classificata: - in una Romania Occidentale, a Nord e ad Ovest della linea, comprende oltre ai dialetti italiani settentrionali, il francese, il franco-provenzale, il provenzale, il romancio, il catalano, lo spagnolo, il portoghese. - in una Romania Orientale comprende oltre ai dialetti italiani centrali e meridionali, il rumeno. Le isoglosse distintive di tutta la Romania Occidentale sono: - La sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche: milanese [rgda] = italiano “ruota”. - Il mantenimento della S latina nella flessione nominale e verbale: spagnolo [cabras] = italiano “capre”. Ancora oggi i dialetti dell’Italia settentrionale conservano i resti di questa situazione: piemontese [saz] = italiano “sai” - La degeminazione delle consonanti geminate latine: ESSERE > “essere” > [gser]. La degeminazione costituisce insieme con la sonorizzazione un mutamento a catena, cioè, un insieme di mutamenti che comporta l’alterazione di più elementi del sistema, ognuna dei quali viene ad occupare nel sistema la posizione precedentemente occupata da altro elemento. Es.: nel dialetto di Imola la TT geminata latina è passata a scempia rimanendo sorda (“cattivo” > [katìf]) mentre la T scempia latina si è sonorizzata in [d] (“ruota” > [rwada]), confondendosi con D latina (“suda” > [suda]). Quest'ultima può, poi, secondo i dialetti, partecipare al mutamento a catena cancellandosi: “sudare” > [suar]. Le isofone distintive dei dialetti settentrionali: - La caduta (apocope) delle vocali finali diverse da A ad eccezione del ligure. - L’assibilazione in [s/z] < [ts/dz] < delle affricate palatali [é/8] insorte dalle consonanti velari latine davanti a vocale palatale: Cte/i, G+e/i. Esempio: genovese [segna] = “cena”, veneziano [sento] ‘cento”. 21 La palatizzazione di CL/GL in [é/&]: VETULUM > “vecchio” > [veto], OCULUM > “occhio” > [oto]. La metafonia, cioè palatalizzazione o innalzamento della vocale tonica per effetto di una vocale seguente, che essendo di norma la vocale finale è poi caduta. Il tipo più diffuso di metafonia nel settentrione è quello provocato da I: “sasso/sassi” = [sas/ses] in generale il fenomeno appare in regresso: ad esempio a Milano ad inizio ‘800 si aveva “denti [dinc], che già Salvioni a fine ‘800 considerava più frequente nel contado, che non nel capoluogo e che oggi è sostituito da [dent]. Le isomorfe dei dialetti settentrionali: La presenza, in generale, della forma debole dell’articolo determinativo maschile singolare, cioè uscente per consonante preceduta da una vocale che varia di luogo in luogo: milanese [el ka], bergamasco [ul ka] = “il cane”. Ad eccezione del ligure, che presenta la forma forte dell’articolo, cioè uscente per vocale: genovese [u kan]. La perdita delle forme di pronome personale derivanti da EGO, TU, sostituite ovunque in fase medievale dagli originariamente obliqui: ligure, piemontese, lombardo, veneziano, [mi ti], emiliano [me te]. La caduta in disuso nel ‘900 del passato remoto sostituito dal passato prossimo. osse sintattiche distintive dei dialetti settentrionali: Lo sviluppo delle particelle proclitiche soggettive che accompagnano il verbo. Queste si organizzano in paradigmi diversi di luogo in luogo, ricorrendo in alcuni dialetti in tutte le persone del verbo (esempio: Grizzana, provincia di Bologna [me a kt / te t ket /lo e ksta / le la ksta / nu a kante / vuveter a kante / lo i kgten] ‘io canto / tu canti / lui canta / lei canta / noi cantiamo / voi cantate / essi cantano) o anche soltanto in alcune di esse (esempio: Cavareno, in Val di Non, dove i clitici ricorrono nelle sole terze persone, singolari e plurali:[el el Canta / ela la Canta / ei i Canta / ele le fanta]). Inoltre, queste particelle soggettive ricorrono a destra del verbo, mediante l’inversione, per la formazione delle interrogative (esempio: Grizzana, provincia di Bologna [kstja / ketet / kgtal / kantena / kantev / kgtni] ‘Canto? Canti? Canta? Cantiamo? Cantate? Cantano?”. La coniugazione interrogativa sta scomparendo in alcune aree, come ad esempio a Trieste e in Liguria. Il costrutto impersonale, che comport: 22 L’enclesi del clitico pronominale al participio nei tempi composti: “ve me ha dati due”> [a l a davne due]. La posizione postverbale della negazione (caratteristica condivisa con il lombardo occidentale): “non parlano” > [a parlu nen]. La Lombardia dialettale si suddivide: In lombardo occidentale, che si estende nelle provincie di Milano, Varese, Como, Sondrio e nella parte meridionale della Svizzera italiana. Le isofone distintive sono: - Il rotacismo ambrosiano: PALAM> “pala” > [para], PULICEM > “pulce” [pyres]. - La caduta di L/R finali dopo la vocale tonica (diversamente da quanto accade nel lombardo orientale): “sale” > [sa]. L’isomorfa consiste nella desinenza [um] nella I° persona plurale della coniugazione verbale: “cantiamo” > [kantum], “vediamo” > [vedum]. L’isoglossa sintattica consiste nella posizione post verbale della negazione: “non parlo” > [parli m]. In lombardo orientale, che si estende nelle provincie di Bergamo e Brescia e nelle parti settentrionali delle provincie di Cremona e Mantova. Le isofone distintive sono: - la caduta della consonante V intervocalica (“cavallo” > [kaal]) e la caduta della consonante N dopo vocale tonica (“pane” > [pa], “ponte” > [put]). - la conservazione delle consonanti L/R finale dopo vocale tonica (diversamente da quanto accade nel lombardo occidentale): “moglie” > [moér], “figlio” > [fig] In lombardo alpino, che si estende nel bacino della Toce in Piemonte e nella Valle Spluga in Lombardia. Le isoglosse distintive di tutti i dialetti lombardi sono le stesse della Romania occidentale. > Cfr. sopra per la spiegazione del fenomeno: La sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche. La degeminazione delle consonanti geminate latine. Le isoglosse distintive di tutti i dialetti lombardi sono le stesse dei dialetti settentrionali. > Cfr. sopra per la spiegazione del fenomeno: La caduta (apocope) delle vocali finali diverse da A _ad eccezione del ligure. 25 - Lo sviluppo delle particelle proclitiche soggettive che accompagnano il verbo: “lui mangia” > milanese [ly el manga - La metafonia. Le isoglosse distintive di tutti i dialetti lombardi sono le stesse dei dialetti del Nord-Ovest > Cfr. sopra per la spiegazione del fenomeno: - La palatizzazione delle vocali latine 0/Ù in [g/y]: “suolo” > milanese [sgl], “muro” > milanese [myr - La palatalizzazione del nesso CT nella forma [it]. L’Emilia dialettale, secondo Merlo, è suddividibile in: - Settentrionale, che comprende le provincie di piacenza e Parma. - Centrale, che comprende le provincie di Bologna e Ferrara. - Meridionale, che comprende le provincie di Ravenna, di Forlì e Rimini. Pellegrini propone una suddivisione diversa: - Emiliano Occidentale, che comprende le provincie di Piacenza, Parma, Reggio, Modena - Emiliano Orientale, che comprende le provincie di Bologna e Ferrara. - Romagnolo, che comprende aree periferiche. Le isofone distintive dei dialetti emiliani: - La palatalizzazione di A tonica in sillaba aperta: “naso” > [ngz] - La palatizzazione delle vocali latine O/Ù in [g/y]: fenomeno diffuso solo in alcune aree. - La dittongazione delle vocali toniche: “tela” > [taila], “signore” > [snaur]. Fenomeno diffuso solo in alcune aree. - L’alterazione delle vocali toniche davanti a consonante nasale: “vino” > [vein], “lino” > [lein] - La quantità vocalica ha potere distintivo: “miele” > [me:la] vs “migliaia” > [mela], “botta” > [bo:ta] vs “botte” > [bota] - La sincope delle vocali protoniche: “domani” > [dman], “nipote” > [mvo]. Ne risultano nessi consonantici così complessi, a tal punto che, alcune volte, avvengono 26 dei mutamenti di semplificazione: metatesi (“vicino” > [vzen] > [zven]), prostesi (“letame” > [aldam], “legname” > [alnam], “nipote” > [amvaud]. - La caduta delle vocali finali. - La sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche e la degeminazione delle consonanti geminate latine: isoglosse distintive della Romania occidentale. > Cfr. sopra per la spiegazione dei fenomeni. passaggio dal nesso consonantico CI/TI > S: i primi non lo presentano (“braccio” > [bra@s], “piazza” > [pia@sa]), mentre i secondi sì (“braccio” > [bras], “piazza” > [piasa]. Il Veneto dialettale si suddivide in quattro sottogruppi: - Veneziano: lagunare e di terra ferma. - Veneto centrale: padovano, vicentino. - Veneto occidentale: veronese. - Alto veneto: trevigiano, feltrino, bellunese. Nel Veneto si parlano anche i dialetti ladini del Comelico, del Cadore e del Livinallongo. Le distinzioni fra i sottogruppi del veneto erano più marcate in fase medievale, quando ad esempio l’alto veneto presentava la caduta delle vocali finali poi ripristinate per influsso del veneziano cui l’apocope è estranea. Dunque, è soprattutto il veneziano a garantire la posizione autonoma del veneto entro il raggruppamento dei dialetti settentrionali, benché esso condivida con i dialetti gallo-italici (settentrionali Romania occidentale) le isoglosse> Cfr. sopra per la spiegazione del fenomeno: - La sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche. - La degeminazione delle consonanti geminate latine. fone - Il mantenimento delle vocali atone finali (come il ligure): “manico” > [manego]. Cadono soltanto “e” dopo “n/1/r” (“cane” > [can], “male” > [mal]. “cuore” > [kwr]) ed “o” dopo “n” (“fieno” >[fen]). - Non vi è la sincope delle vocali protoniche (presente nell’emiliano): “manico” > [manego] 27
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