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RIASSUNTO LUCE ATTIVA FABRIZIO CRISAFULLI, Sintesi del corso di Comunicazione Teatrale

pp. 13-16 (Premessa); 17-22 (Luce-oggetto, luce corpo); 27-33 (Fortuny); 33-41 (Adolphe Appia); 41-49 (Gordon Craig); 147-155 (Josef Svoboda); 158-166 (Robert Wilson); 166-171 (Nuove tecnologie, nuove questioni)

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 15/02/2022

Elisabetta.Beritelli
Elisabetta.Beritelli 🇮🇹

4.5

(298)

154 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica RIASSUNTO LUCE ATTIVA FABRIZIO CRISAFULLI e più Sintesi del corso in PDF di Comunicazione Teatrale solo su Docsity! RIASSUNTO F. Crisafulli, Luce attiva. Questioni della luce nel teatro contemporaneo, Corazzano (Pisa), Titivillus, 2007, pp. 7-22 introd. 27-49 Fortuny, Appia, Craig; 147-155 Svoboda; 158-171 Wilson e altri contemporanei. PREMESSA (pp. 13-16) Il titolo "luce attiva" è un riferimento diretto ad Adolphe Appia, che alla fine dell'Ottocento fu tra i primi ad affrontare in maniera precisa - con i propri scritti e con le proprie creazioni - la questione della luce quale questione artistica del teatro. Per Appia lumière active era la luce scenica "propriamente detta": luce espressiva e creatrice di forme; luce come materia poetica e sostanza drammatica. Egli contrapponeva tale idea alle pratiche più comuni del teatro del suo tempo, nelle quali la luce era intesa essenzialmente come ‘illuminazione’; come elemento tecnico e funzionale; secondario, se non addirittura esterno, rispetto al processo creativo. Idee innovative come quelle di Appia, Craig e altri artisti venuti dopo di loro, di alcuni dei quali qui si parla, sono di fatto rimaste piuttosto marginali in termini di reale influenza sulle pratiche della luce. I primi tre capitoli del libro si riferiscono ad esperienze relative al periodo che va dall'ultimo decennio dell'Ottocento fino alla fine degli anni Venti del Novecento. Periodo nel quale mi pare si siano sostanzialmente delineate gran parte delle questioni più importanti riguardanti la luce come poesia, azione, dramma. Una fase cruciale è stata in particolare quella a cavallo tra i due secoli, per la spinta prodotta dall'avvento dell'elettricità. Fu in quegli anni che la luce conquistò qualità nuove, che le permisero un'ampia gamma di possibilità, anche di segno opposto: possibilità, da un lato, di condensazione, che la rendevano, come mai in precedenza, materia plasmabile; dall'altro, di smaterializzazione, connesse alla regolazione delle intensità, alla determinazione delle incidenze, all'uso delle proiezioni. Si rese inoltre realmente possibile, per la prima volta, lo spegnimento totale, e quindi il buio effettivo; e, per altro verso, l'amplificazione della potenza e la moltiplicazione e arricchimento delle riflessioni, delle trasmissioni; condizioni di grande rilievo ai fini della creazione drammatica attraverso la luce. In rapporto a questi sviluppi, la luce acquisì potenzialità totalmente nuove di plasmare lo spazio ed il tempo; di divenire "musica", materia ineffabile, sostanza cosmologica; di materializzarsi negli oggetti e nel corpo; di costituirsi come azione. Di farsi impianto e linguaggio teatrale. Solo in anni molto successivi, in particolare nella seconda metà del secolo, si sono verificate condizioni di maturità tali da permettere una reale saldatura delle istanze espressive con le effettive possibilità di realizzazione, come nelle esperienze estremamente importanti di artisti come Josef Svoboda, Alwin Nikolais, Robert Wilson, ai quali è dedicato un capitolo. La musica cromatica fu in tal senso un punto di riferimento per diversi artisti (Kandinskij, Hirschfeld-Mack e molti altri) impegnati nella ricerca di possibili drammaturgie della luce e di sue relazioni strutturali, in particolare, con il suono, la forma, il movimento. La luce - per sua stessa essenza - reclama di svolgere in teatro un ruolo poetico, drammatico, costruttivo al pari di altri elementi, come il testo, l'attore, il suono. Ma questo può corrispondere tanto a soluzioni incentrate sull'uso di una strumentazione complessa, quanto a soluzioni che richiedano l'impiego di pochi apparecchi. La questione non è legata alla quantità dei mezzi impiegati, al loro livello tecnologico o a forme di protagonismo della luce, ma al modo in cui quest'ultima viene usata; alla qualità delle relazioni che essa stabilisce con le altre componenti del lavoro, e con l'arte che le sottende. Fuori da ogni tecnicismo. LUCE-OGGETTO. LUCE-CORPO (pp. 17-22) Lo spettacolo elettrico Nel 1883 il Teatro alla Scala di Milano inaugurava il primo impianto integrale di illuminazione elettrica di un teatro. In pochi anni il nuovo sistema di illuminazione - che era stato preceduto, nel processo di modernizzazione degli edifici teatrali, dagli impianti a gas, attivi per oltre un cinquantennio - si diffondeva capillarmente. Iniziava un periodo cruciale per la ridefinizione dei mezzi, delle tecniche e della stessa concezione dell'illuminazione scenica. Le vicende della luce in teatro entravano in una fase del tutto nuova. Le pratiche della luce teatrale alla fine dell'Ottocento ereditavano dai periodi precedenti problematiche di diverso tipo. Per quanto riguarda gli strumenti, era usuale l'impiego come fonti-base delle luci di ribalta. Prima dell’avvento del gas, la scarsa potenza delle sorgenti disponibili (prevalentemente candele e lumi ad olio) non permetteva infatti di far buon uso delle luci disposte in alto e ai lati della scena. Le fonti sospese, come candelabri o barre di lumi in serie, non davano risultati soddisfacenti. Soprattutto nei grandi teatri, dove tali fonti erano collocate molto in alto, la luce da esse emessa tendeva a dissolversi al centro del palco, lasciandolo sottoilluminato. Le sorgenti disposte sul retro delle quinte erano impiegate – insieme a quelle collocate ai piedi dei fondali - per illuminare la scenografia e, solo in via indiretta (e con scarsa intensità), l'azione. L'illuminazione degli attori era quindi affidata prevalentemente alle luci allineate in proscenio, nonostante che a molti fossero chiari i limiti di questa soluzione. Il tipo di illuminazione maggiormente utilizzata privilegiava dunque la parte anteriore del palcoscenico, lasciando per il resto "un canale di penombra che dalla ribalta si estendeva sino al fondale". I difetti legati all'uso delle luci di ribalta erano dovuti soprattutto a fattori come: 1) la posizione bassa delle fonti, assolutamente contraddittoria rispetto alla provenienza dall'alto della luce in natura: cosa particolarmente inopportuna lì dove - com'era regola diffusa nell'Ottocento - si voleva realismo; 2) la loro frontalità, che tendeva a produrre un appiattimento visivo dell'azione e della scena; 3) la creazione di ombre innaturali e sgradevoli sugli attori (con effetti spettrali sui visi) e sulle scenografie, allora prevalentemente pittoriche. L'impiego delle "ribalte" comportava dunque forti incongruenze: poteva accadere molto facilmente, ad esempio, che l'ombra di un attore o di un oggetto andasse a posarsi sul cielo o la montagna di un fondale dipinto, con drastica caduta dell'illusione e totale compromissione dell'intento imitativo-naturalistico. Altri importanti limiti dell'illuminotecnica, prima dell'elettricità, erano legati al fatto che le fonti impiegate non permettevano - se non in misura assai limitata - di concentrare la luce e, quindi, di differenziare l'illuminazione nelle diverse aree della scena, così come di isolare visivamente attori ed oggetti nello spazio, mettere in rilievo i dettagli, creare modulazioni, macchie di luce e chiaroscuri . A questi limiti relativi all'articolazione spaziale dell'illuminazione, si aggiungevano quelli riguardanti la sua organizzazione temporale. Non esistevano ancora dispositivi efficienti e centralizzati per l'accensione- spegnimento e per il dosaggio e la dinamica delle intensità luminose. Prima dell'avvento del gas, la regolazione dell'intensità poteva essere effettuata dove ve ne erano gli strumenti - attraverso l'uso di sistemi di oscuramento manovrabili meccanicamente, come piccoli schermi di fronte alle luci di ribalta, cilindri metallici attorno ai lumi sospesi, tavole girevoli davanti alle batterie illuminanti per i fondali. Con tutti i difetti connessi a questi mezzi: scarsa modulazione, impossibilità di ottenere un buio effettivo, complicazioni (consistente numero di macchinisti e delle loro postazioni, problemi di sintonizzazione, ecc.) legate, appunto, alla mancanza di centralizzazione. I sistemi a gas portarono progressi notevoli. Significarono soprattutto disponibilità di una luce più intensa e brillante. E questo comportò la possibilità di usare fonti collocate in alto (quali furono le prime ‘bilance’: batterie di luci diffuse disposte in linea nelle zone alte della scena), con recupero di un tipo di luce tendenzialmente più vicino, per provenienza, alla luce naturale; mentre, per il resto, le collocazioni degli apparecchi rimasero quelle maggiormente in uso al tempo dei lumi ad olio e delle candele: in ribalta, dietro le quinte e ai piedi dei fondali. Fatto di grande rilievo fu poi l'introduzione di sistemi centralizzati di regolazione. La prima console era costituita da un piano di marmo con un sistema di rubinetti che permettevano di calibrare l'afflusso di gas nei tubi di distribuzione, e quindi le intensità delle fiamme negli apparecchi: il cosiddetto jeu d'orgue. Il gas segnò dunque un notevole passo avanti in termini di maggiore intensità dell'irradiazione, di migliore distribuzione delle fonti e di nuove possibilità di comando a distanza. Ma i limiti erano ancora molti. L'emissione di luce continuava ad essere piuttosto disomogenea ed instabile. L'avvento dell'elettricità comportò ulteriori, importanti progressi. Significò innanzitutto possibilità di disporre di una luce più stabile e intensa e di emissioni concentrate, orientabili, capaci di isolare le parti illuminate all'interno della scena, di modellare lo spazio, di dar corpo ai volumi. E, per altro verso, significò conquista del buio. Con l'introduzione nei teatri degli impianti elettrici integrali, le fonti elettriche divennero sistema. E in tale sistema per la prima volta assunsero ruolo di rilievo la luce direzionale (contraltare della luce diffusa fino ad allora prevalente) e la centralizzazione dei comandi. Inoltre, il dosaggio delle intensità, realizzato con i potenziometri, introdotti con la corrente alternata, acquisiva una qualità di gran lunga maggiore che in passato, in termini di fluidità delle variazioni, di capillarità distributiva, di regolazione separata delle singole luci. Agli apparecchi di dotazione su postazioni fisse (come bilance, ribalte, illuminatori da fondale), si aggiunsero apparecchi collocabili in posizioni specifiche, secondo le esigenze dei singoli spettacoli. Crebbero enormemente le possibilità di disegno e composizione. Si crearono le condizioni per il "progetto luci" vero e proprio. I nuovi strumenti offrirono finalmente l'opportunità di pensare la luce come mezzo fluido, capace di modellare lo spazio ed il tempo. Condizione importante per questo cambiamento, come accennato, fu la possibilità – che si presentò per la prima volta – di spegnimento totale. Di ottenere un buio effettivo. Cosa che permise di realizzare, da un lato, l’oscuramento della sala e quindi l’idea - propugnata con forza da Richard Wagner della scena come "scatola luminosa", fruibile da un pubblico immerso nella penombra; dall'altro, di creare sul palcoscenico una condizione sorgiva e una base funzionale per l'apparire delle immagini, la costruzione delle sequenze, la determinazione degli stacchi di buio e del ritmo. In definitiva, per un possibile ruolo drammaturgico della luce. Con l'elettricità entrò in teatro un tipo di dialettica luce-buio che nei secoli precedenti aveva avuto possibilità molto limitate; e, con essa, una nuova possibile condizione creatrice di spazio e di tempo. Venne introdotto – con qualche elemento di continuità rispetto ad esperienze pre-elettriche esterne alla scena teatrale, come la camera oscura, la lanterna magica e le varie forme di spettacoli ottici affermatisi a partire dal Cinquecento - pure un altro tipo di luce: una luce-immagine; principalmente sotto forma di proiezioni e di argomenti centrali nelle riflessioni di Appia. "La luce - scrisse - possiede una versatilità quasi miracolosa. Ha in sé tutti i valori della luminosità, le infinite possibilità dei colori come una tavolozza, una straordinaria mobilità; essa può creare le ombre, può riempire lo spazio con l'armonia delle proprie vibrazioni esattamente come la musica". Negli elaborati wagneriani dell'artista c'è una concezione dello spazio scenico come unità vivente plastico-luministica concepita per cooperare con la musica ad una comune finalità evocativa. C'è inoltre - coerentemente con la soppressione delle "forme chiuse" operata da Wagner sul piano musicale - l'esigenza di eliminare la scenografia pittorica inanimata. È c'è infine un'idea della luce come elemento fluido e vivo, in sintonia col continuum sonoro della "melodia infinita" wagneriana. Le soluzioni dell'artista rivelano una notevole coscienza delle questioni visive e dei loro aspetti tecnici. Rivelano la consapevolezza delle grandi potenzialità di trasformazione insite nei cambiamenti di luce. E delle possibilità legate all'uso dell'illuminazione dall'alto, dello sfondo smaterializzato, delle proiezioni. Sulla base di tale consapevolezza, Appia indicò anche un suo schema di uso e disposizione delle sorgenti di luce in teatro. "Le luci di ribalta – scrisse nelle note di regia per L'Anello del Nibelungo - vanno definitivamente soppresse, mentre le fonti diffuse mobili dovranno essere posizionate in alto al solo fine di creare artificialmente la luce diffusa diurna (...). La luce propriamente detta sarà data da apparecchi mobili, in due differenti modi, corrispondenti al plein air e ai luoghi chiusi; per il plein air, salvo eccezioni, la luce cadrà dall'alto e in una sola direzione, avendo come inclinazione massima l'altezza dei personaggi; per i luoghi chiusi, giungerà molto viva dalle aperture (mai orizzontalmente), assecondata sobriamente, dalle luci di ribalta o dai diffusori (…). Le proiezioni, dalle quali possiamo aspettarci meraviglie, ma che sinora abbiamo usato solo isolatamente per effetti speciali (fuoco, nuvole, acqua, ecc.), sono dispositivi dalle grandi potenzialità. Elementi di unione tra luce e scenografia, esse rendono le cose immateriali. La loro duttilità è in sviluppo. Per questo non dobbiamo accontentarci di una qualche lanterna magica più o meno perfezionata. Bisognerebbe usare numerosi apparecchi da proiezione, sistemati - come le altre fonti – su supporti mobili, precisi nei movimenti, con una scelta di vetrini sufficiente a soddisfare le esigenze delle diverse opere, ed eseguiti da artisti di prim'ordine. Così preparate, le proiezioni possono assumere in teatro un ruolo attivo, tanto da poter soppiantare quello dei personaggi, come nel cielo del terzo atto de La Walchiria". I bozzetti de La Walchiria citati da Appia sono esemplari di una visione nella quale la scena, la luce, le proiezioni, gli attori e i costumi costituiscono un organismo scenico unitario e poeticamente coerente . Le note di regia di Appia relative alle opere wagneriane sono estremamente minuziose. Sono vere e proprie partiture nelle quali i gesti degli attori e i loro movimenti sulla scena, l'incidenza, la qualità e il colore dell'illuminazione, le ombre delle persone e della scenografia, la presenza e l'uso degli oggetti sotto la luce, sono pensati momento per momento, nei minimi particolari, in rapporto ai contenuti e alla musica. Le indicazioni e i disegni del primo atto del Sigfrido (quasi uno story-board relativo alla scena della grotta di Mime) sono estremamente significativi della sua precisione nel definire la qualità della luce e delle ombre, in ogni zona e in ogni istante, le differenze tra la luce del giorno e la luce della fucina; i dispositivi per rendere credibili i riflessi del fuoco e le ombre da esso create sulle pareti della caverna; l'incidenza della luce sui dettagli, come quando Sigfrido è totalmente in ombra e solo il viso è in luce, e poco dopo è in luce solo la sua spada. Appia affermò la necessità di liberare l'attore dallo stato di mortificante separazione rispetto alla scenografia nel quale era stato relegato. I mezzi da lui individuati per colmare tale separazione erano la musica, portatrice del Tempo, che l'azione attoriale poteva raccordare allo spazio; la ‘praticabilità’, intesa come interazione e confronto vivi tra corpo in movimento e volumi scenici; e la luce vivente, alla quale affidava anche il compito di unificare davanti all'occhio dello spettatore quelle diverse espressioni: una luce intesa come elemento propriamente drammaturgico; e concepita come linguaggio coerente. Non più divisa, in maniera contraddittoria, tra "chiarore" per far vedere da un lato, ed effetti spettacolari dall'altro. Una luce energetica. Creatrice di forme, di tempo, di spazio. Cosima Wagner, che dopo la morte del marito esercitò il proprio controllo sulle messinscene wagneriane a Bayreuth, rifiutò sdegnosamente le proposte dell'artista svizzero , che la sua visione conservatrice non le permetteva di apprezzare. Appia ebbe la possibilità di mettere in scena un'opera di Wagner solo nel 1923: il Tristano e Isotta alla Scala di Milano; spettacolo nel quale riprese sostanzialmente le soluzioni studiate ventisette anni prima, e la cui realizzazione fu contrassegnata da grandi difficoltà; dovute, in particolare, ai contrasti dell’artista col personale del teatro. Lo spettacolo venne poco apprezzato dal pubblico e da gran parte della critica a causa delle soluzioni sceniche, incentrate sulla forza simbolica di pochi elementi essenziali, per nulla consone alle aspettative dell'epoca. Alla base di questi insuccessi (che, come si sa, causarono la crisi definitiva dell'artista e la sua morte qualche anno dopo per alcolismo), vi furono anche le difficoltà tecniche - pure per quanto riguarda la luce - nel mettere in atto idee così avanzate. La prima esperienza teatrale concreta Appia l'aveva realizzata molti anni prima, nel 1903, quando era già quarantenne. In condizioni ben diverse e con altri risultati. Si trattò di un breve spettacolo sperimentale, comprendente due scene da opere diverse: l'"evocazione di Astarte" dal Manfred di Schumann e la scena degli zingari dal secondo atto della Carmen di Bizet. L'esito fu soddisfacente ed incisivo, grazie anche alle favorevoli condizioni create dalla contessa di Béarn, che ne sostenne la realizzazione nel piccolo teatro del suo palazzo parigino. Le scenografie dovevano essere piuttosto semplici. L'esito visivo basato soprattutto sul rapporto tra i movimenti attoriali e i fasci direzionati di luce nella scena buia. Un'ulteriore fase della ricerca di Appia si svolse a contatto con Émile Jaques-Dalcroze, l'inventore della ‘ginnastica ritmica’, importante tentativo di codificazione della danza libera attraverso un sistema di diretta traduzione della musica in movimento. L'artista considerava il lavoro di Jaques-Dalcroze un'efficace modalità per ristabilire il contatto profondo tra corpo e suono. E quando, a partire dal 1911, questi avviò l'attività nel suo nuovo Istituto di Hellerau, vicino Dresda, vi collaborò. Per Jaques- Dalcroze, Appia elaborò i suoi famosi "spazi ritmici", bozzetti nei quali la scena era pensata come eco spaziale del ‘movimento corporeo della musica’. Vi sono rappresentate architetture immaginarie, pure, metafisiche. Fatte di scale, ripiani, pilastri. Concepite, per lo più, indipendentemente dalla messinscena di opere determinate. In questi disegni, la luce e l'ombra svolgono - insieme alla scena - una funzione essenzialmente ritmica e di modulazione dello spazio. Le architetture sono improntate alla massima semplicità. L'ombra possiede - come sempre in Appia - forma, presenza, importanza compositiva e drammatica. Non è elemento di risulta o semplice "assenza" di luce. L’artista prese posizioni chiare contro la mancanza di consapevolezza, in teatro, delle questioni dell'ombra; contro la consueta casualità con la quale si lasciava che le ombre si creassero in scena; contro l'uso acritico di fonti multiple per illuminare lo stesso soggetto da più lati, creando ombre sovrapposte e incontrollate. A favore, invece, dell'uso dell'ombra come elemento visivo e drammatico sostanziale. Il famoso bozzetto L'ombra del cipresso è emblematico in tal senso. Appia scrisse di aver "pensato dapprima ad un viale di cipressi. Poi, a poco a poco, (...) eliminato gli alberi, conservando solo le ombre. Da ultimo questa sola ombra era rimasta, perché sufficiente ad evocare l'intero paesaggio". Procedimento di sintesi esemplare, ed anche indicativo di quanto per l'artista l'ombra potesse costituire parte caratterizzante della creazione. Fino ad arrivare, come in questo caso, a configurarsi come fulcro compositivo e simbolico della scena. In un altro Spazio ritmico , il ruolo centrale che nel bozzetto del cipresso è affidato all'ombra dell'albero, è invece svolto dalla luce che passa attraverso un'apertura; la quale viene modellata non da un particolare proiettore (quale potrebbe essere oggi un sagomatore), ma dalla stessa architettura scenica. Questa soluzione è indicativa del ruolo fondamentale che Appia conferiva all'azione modellante della scena nei confronti della luce e non solo - più usualmente - di quest'ultima rispetto alla scena. La solidità plastico-architettonica, nei bozzetti dell'artista svizzero, non nega l'immaterialità. Lo sfondo è quasi sempre evanescente, luminoso o scuro che sia. Assieme alla concreta presenza delle costruzioni, è contemplata l'idea dello sfondo impalpabile, data in opposti modi dal fondale chiaro illuminato e dal fondale nero. Non c'è più la tela dipinta, figurativa e immobile, ma uno sfondo percettivamente "spaziale", smaterializzato e mosso dalla luce, o perso in un'oscurità imponderabile. I bozzetti di Appia hanno sempre l'orizzonte piuttosto alto. Non si tratta di una scelta puramente compositiva. Essa corrisponde ad una precisa idea dell'edificio teatrale e del rapporto spaziale e visivo tra il pubblico e la scena. Indica infatti una posizione elevata degli spettatori, che, nel “teatro dell'avvenire”, l'artista pensava disposti in una sala inclinata a gradoni, come era a Bayreuth. E all’istituto di Hellerau. E come era soprattutto nel teatro greco, modello di riferimento costante per Appia. Questo comporta anche l’idea di un pubblico compatto, e non diviso – in maniera irrazionale e discriminante – tra la sala e le diverse quote dei palchi, come nel teatro all’italiana. La luce di Appia ha profonde affinità con il plen air del teatro classico. E, in generale, con la luce naturale. Con le sue molteplici sfumature. Non in senso imitativo, come detto. Ma in termini simbolici, energetici. E di qualità atmosferica. Luce-dramma, luce-mondo: Edward Gordon Craig (pp. 41-49) Le idee sulla luce di Edward Gordon Craig sono per molti versi avvicinabili a quelle di Appia . Con il quale l'artista inglese condivise l'avversione nei confronti del naturalismo e della scenografia dipinta, e la propensione verso una scena astratta, simbolica, organizzata plasticamente. In particolare, Craig intese la scena non come "ambientazione" del dramma, ma come "dramma" essa stessa. Una scena di linee essenziali, con una sua interna potenza, suggestiva di stati d'animo, memorie, miti. Come Appia, Craig sostenne l'esigenza di una luce mobile, modellante, espressiva. Fu chiaro anche a lui come per ottenere queste qualità occorresse ridimensionare il ruolo delle sorgenti installate nei teatri in modo fisso - in particolare, delle fonti di ribalta - e adottare invece soluzioni luministiche e posizioni degli apparecchi appositamente pensate per ogni singolo spettacolo; e come fosse necessario privilegiare l'illuminazione dall'alto. Insieme a questo sentì anche il bisogno di evitare la violenza e la crudezza dei proiettori, di lavorare sulle sfumature, mettendo in azione le infinite nuances permesse dalla regolazione delle intensità e dall'illuminazione indiretta. Utilizzando le capacità di evocare spazi "infiniti" del fondale luminoso e, in altro modo, del fondo nero. Come Appia intese la luce quale sostanza energetica e cromatica da mettere in stretta relazione con l'attore e con i volumi scenici : una luce differenziata e chiaroscurata. Ma, diversamente dall'artista ginevrino, non pensò la scenografia come impianto fisicamente fermo, animato dall'illuminazione, quanto piuttosto come organismo in movimento. Puntando sulle relazioni dinamiche tra scena e luce. In questa prospettiva, Craig concepì, a partire dal 1907, i suoi famosi screens: unità scenografiche costituite da pannelli o parallelepipedi mobili, combinabili nello spazio: "le mille scene in una" o the scene with a changing face, come l'artista usava dire. Figlio d'arte con una carriera d'attore iniziata a sei anni, Craig aveva maturato una grande avversione per le pratiche teatrali del suo tempo; per la casualità e incoerenza delle scelte nei differenti settori della messinscena, dovute alla mancanza di una visione artistica unitaria. Ed aveva pensato ad una figura nuova che potesse svolgere il ruolo di far convergere le diverse espressioni del teatro in un unico processo creativo, riconducendo la pratica teatrale ad una sfera d'arte: lo stage director, prototipo del moderno regista. Contro i pregiudizi degli attori rispetto ad ogni impiego dell'illuminazione non di mero servizio, sostenne l'importanza della luce quale sostegno, invece, all'azione attoriale. Già nelle prime regie, adottò soluzioni illuminotecniche innovative, coerenti con le sue concezioni. Per Dido and Aeneas al Conservatorio di Musica di Hampstead (1900), ad esempio, fece costruire in proscenio un vero e proprio ponte-luci, e collocare due proiettori in posizione elevata in fondo alla sala, sostituendo così, con luci frontali dall’alto, le vecchie fonti di ribalta. Fece inoltre montare, a due metri dal fondale blu, uno schermo grigio di garza per ottenere un effetto di profondità. In quello spettacolo Craig tentò di conseguire un senso di essenzialità tragica fondendo scene, costumi e luci in un insieme visivamente coerente, giocato sulle sfumature tonali e i cambiamenti sensibili dell'illuminazione. Lo svolgimento dinamico, cromatico ed espressivo della luce era studiato in rapporto alla partitura musicale . Le luci e le tinte vi erano impiegate con grande sensibilità pittorica; e l’uso del colore finalizzato non ad una ‘sensazione di varietà, bensì di unità’, secondo un modo che fu costante in Craig, il quale avversò sempre la casualità e i miscugli incontrollati del colore. Come detto, appartenne alla sua pratica anche l'uso di sfondi evanescenti per produrre la sensazione di spazi infiniti. Ad essi a volte associò proiezioni su fondali neutri e dispositivi ottici per effetti. In Acis and Galatea (1902) usò una duplice illuminazione del fondale, dal fronte e dal retro. Nella retroproiezione impiegò mascherini mobili (dischi perforati rotanti) per ottenere l'effetto dell'acqua in movimento. L’illuminazione, nei suoi rapporti con l'architettura scenica, fu per Craig soprattutto un mezzo per infondere allo spettacolo un senso di assoluto. Per il Rosmersholm di Ibsen, realizzato nel 1906 su invito di Eleonora Duse, concepì una scena monumentale, quasi un tempio, con un soffitto altissimo e pareti che si perdevano in prospettiva. L'artista eseguì parte delle sue sperimentazioni su un modellino, completo di scene, luci e sagome di attori in miniatura. Pochi mesi dopo l'inizio dei suoi esperimenti con gli screens, Craig venne chiamato da Stanislavskij a mettere in scena l'Amleto al Teatro d'Arte di Mosca. In quell'occasione, l'artista inglese pensò di applicare all'opera shakespeariana i risultati delle sue ricerche sullo spazio e la luce, adoperando, insieme agli screens, altri tipi di volumi geometrici e scale; ed una illuminazione incentrata sull'uso di fasci concentrati e radenti, adatta a modellare la scena e ad illuminare singolarmente gli attori. Stanislavskij raccontò di soluzioni fortemente chiaroscurate, con luci di taglio, ombre dei personaggi delineate sulla scenografia, fasci spioventi e obliqui, raggi lunari. Osservò come la concezione della luce fosse estremamente raffinata. Riferendosi all'uso di tessuti dorati per rappresentare il potere, osservò: "questo mare d'oro non brilla di un luccichio teatrale di cattivo gusto, poiché Craig lo mostra in una luce smorzata, sotto la luce radente dei proiettori, per cui il manto dorato brilla soltanto di sprazzi terribili e sinistri. Immaginatevi l'oro coperto di un velo nero". Durante la preparazione dello spettacolo si crearono notevoli difficoltà, sia per la difficile compatibilità della poetica craighiana con l'impostazione naturalistica del maestro russo, che per il divario tra le concezioni sceniche di Craig, sperimentate sul modellino, e le possibilità tecniche del tempo. Gli screens avrebbero dovuto muoversi fluidamente, definendo un proprio ruolo drammaturgico: avanzare, indietreggiare, ruotare, dispiegarsi, ritirarsi, in rapporto alle azioni e alla luce, evocando di volta in volta situazioni diverse. Ma i macchinisti del Teatro d'Arte non furono in grado di risolvere i loro movimenti a vista, e fu necessario ("per scongiurare una catastrofe" disse Stanislavskij) l'uso del sipario, con cambi a scena chiusa che influirono negativamente sul ritmo dello spettacolo. Anche i progetti relativi alla luce subirono notevoli riduzioni per problemi tecnici. Nonostante la realizzazione carente, il risultato fu comunque di notevole levatura, e il successo clamoroso, tanto che lo spettacolo venne replicato circa quattrocento volte. L'idea degli screens ebbe peraltro un certo, immediato seguito. Già qualche mese prima che l'Amleto andasse in scena, Craig ne aveva concesso l'uso all'Abbey Theatre di Dublino. Un quadro delle concezioni della luce di Craig si ricava, forse ancor più che dai suoi scritti e dalle testimonianze sugli spettacoli, dalla lettura dei suoi disegni, che costituiscono un insieme di elaborati di grande coerenza poetica. Nella serie di bozzetti contenuti in Towards a New Theatre vi sono idee assolutamente innovative - contemporanee e per molti versi affini a quelle di Appia - sulla scena-luce intesa come unico corpo plastico-dinamico. Una cosa importante che si evince chiaramente da questi disegni è il ruolo della luce come componente autonoma della composizione visiva e scomparire, riapparire; o, ancora, essere attraversati dagli attori, in modo da far passare l’azione dalla dimensione reale a quella registrata e viceversa, senza soluzioni di continuità. Con tendenziale fusione tra attore, "scena" e ‘schermo’. In Intolleranza (1960), regia di Václav Kaslik e musiche di Luigi Nono, l'intera scena veniva investita da proiezioni di diapositive e film. Essa era costituita da un insieme di elementi-schermo di diverso tipo: piatti o sferici, fissi o mobili. Svoboda contribuì ad abbattere in maniera definitiva anche un altro pregiudizio: quello che lo schermo debba essere necessariamente bianco. Chiarì come il nero e il grigio-violetto siano i colori più adatti ad eliminare i riflessi indesiderati, la "luce parassita". Chiarì come le tinte scure, in combinazione con un'intensità opportunamente calibrata delle altre luci, permettano un maggior controllo dell'immagine e una migliore dissimulazione della materialità dello schermo; e come gli schermi grigio-violetti siano quelli che rendono più fedelmente i colori. Pose costante attenzione al grado di assorbimento e di riflessione degli elementi scenici anche in relazione alle loro posizioni sul palco e alle loro inclinazioni. E all'adeguatezza dei materiali; dov'era necessario, inventandone di nuovi. La considerazione che "a teatro il suolo è più illuminato dello sfondo" e che l'illuminazione diffusa, specialmente se usata ad alta intensità, può generare luci ‘parassite’, lo portò a ricercare i materiali di rivestimento più adatti ad "inghiottire" la luce (in particolare il controluce) incidente sul palco, e a sperimentare, a questo scopo, tessuti speciali e materie plastiche micro- sagomate. Come accennato, Svoboda fece a lungo esperimenti con gli specchi, impiegando materiali come plexiglas su superficie nera o argentata, metallo lucidato, plastiche leggere. Fu il primo a utilizzare in scena superfici specchianti di grandi dimensioni (come quelle in plexiglas metallizzato del Flauto Magico di Praga del 1961); mise a punto speciali specchi semitrasparenti e super-leggeri (i cosiddetti "specchi-piuma"). Gli specchi, nelle sue scenografie, erano di volta in volta impiegati allo scopo di far vedere azioni esterne all'area scenica (come il coro sui lati del palco ne Il cerchio del diavolo, 1955); di rendere una particolare atmosfera (come nel citato Flauto Magico del 1961) o effetti di moltiplicazione spaziale e prospettica (La vita degli insetti, 1965); di creare suggestioni spettrali (Amleto di Praga, 1959) o giochi illusori, come apparizioni o sovrapposizioni di immagini (come ne Il matrimonio di Gombrowicz, 1968). Venivano utilizzati non solo come moltiplicatori della luce, ma anche come "moltiplicatori" del buio. All'uso degli specchi si lega una soluzione geniale come quella della Traviata allo Sferisterio di Macerata (1992), nella quale un grande fondale, largo 22 metri e alto 12, costituito da un mosaico di specchi leggeri realizzati con materiali prodotti dall'industria aerospaziale, montati su una struttura inclinabile, rifletteva verso il pubblico le scene dipinte su "tappeti" disposti sul palco. I cambiamenti avvenivano con lo scorrimento orizzontale e la sostituzione dei tappeti stessi, e con il variare dell'inclinazione del fondale-specchio. Svoboda usava spesso fumi e aerosol per rendere visibili i fasci di luce e produrre esiti architettonici o atmosferici, e suggestioni di nebbia, umidità, polvere . A proposito della messinscena de Il Gabbiano (Praga, 1960), raccontò: "La scena era illuminata da trecento fari di automobile; il soffitto era fatto di rami e di foglie, che riflettevano bene la luce e la lasciavano filtrare, creando, grazie al naturale pulviscolo del palcoscenico, l'effetto desiderato: una specie di caligine lattiginosa (...). Sette anni più tardi, nel 1967, adottai un principio simile per la messinscena del Tristano e Isotta di Wagner a Wiesbaden (...), ma a sei giorni dalla prima dovetti scoprire che in quest'opera il mio principio non funzionava (...); in Germania usavano già allora il lattice al posto della colla, e quindi sul palcoscenico c'era meno polvere. Non potevo creare il pulviscolo perché avrebbe danneggiato gli attori, oltre a essere contrario alle norme di sicurezza, per cui tentai di produrre la densità dell'atmosfera con apparecchi di aerosol. Funzionò solo per un po', poi si formò una nebbia fumosa che invase il palcoscenico e si prosciugò con il calore dei riflettori . Provammo con gli strumenti che venivano utilizzati nelle fabbriche per eliminare la polvere e per spingere la nebbia umida all'esterno. Ma anche questo esperimento fallì (...). Per fortuna trovai un ingegnere che aveva compreso le mie intenzioni, il quale mi aiutò con una tecnica insolita: imprimere alle gocce della nebbia una carica aerostatica, in modo che si disponessero su tutto lo spazio. Negli anni Sessanta, l'artista ceco diede un importante contributo all'introduzione in teatro dell'immagine elettronica e delle videoproiezioni. Insieme al francese Polierl fu un grande anticipatore in questo campo, dove impiegò anche circuiti chiusi di riprese e proiezioni in tempo reale. Nel Prometeo del 1968, ad esempio, utilizzò videoproiezioni live per rafforzare l'azione dell'attore che impersonava Prometeo con un suo imponente primo piano. L'utilizzazione delle immagini in real time fu uno dei modi da lui impiegati per integrare il tempo del video con quello delle azioni nello spazio. Un altro modo fu, come abbiamo visto, quello di legare azione reale e azione registrata nel continuum scena-schermo. Svoboda espresse una combinazione, ad altissimo livello, di grande artigianato, costante aggiornamento tecnologico e inventività artistica, messe al servizio della scenografia e del progetto-luci intesi come strumenti tendenzialmente fusi in un’unica azione. L’espressione più radicale, in prospettiva, di tale fusione fu per lui l’olografia. Era chiaro all'artista come l'olografia possa portare alle estreme conseguenze la fusione tra scena e luce, prospettando addirittura la loro identificazione. Robert Wilson e il teatro-immagine (pp. 158-166) Statunitense è anche un altro artista di grandissimo rilievo tra quanti lavorano sulla luce come elemento "costruttivo": il regista e scenografo Robert Wilson, nel cui lavoro la luce svolge usualmente una funzione strutturante non solo nei confronti dell'immagine, ma anche dello spazio, del tempo, della drammaturgia, della regia. Architetto di formazione e assertore di un teatro visionario, l'artista texano è stato un esponente di spicco della ricerca teatrale newyorkese degli anni Settanta e alfiere del cosiddetto ‘teatro-immagine’. Per certi versi egli è uno degli eredi più originali della visione cosmologica dei grandi riformatori della scena negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, alla quale ha aggiunto il portato di una ricerca sugli aspetti visivo-percettivi della scena, che è il risultato della maturazione di questioni poste dalla ‘civiltà delle immagini’, tradotta con una sensibilità che si potrebbe definire post-cinematografica. Tale tipo di sensibilità è evidente nei suoi criteri di montaggio, nel suo uso degli stacchi di buio, dei tagli di sequenza, delle dissolvenze, dei "primi piani" ottenuti ritagliando e ponendo in rilievo con la luce il viso di un attore o un oggetto. Più in generale, è evidente nel suo impiego della sfera immateriale; nel suo modo di distribuire i personaggi e le cose nello spazio, che sembra non risentire della forza di gravità e della presenza del palcoscenico come piano d’appoggio; nel suo contraddire le relazioni dimensionali ‘naturali’ tra le presenze sceniche, accostando tra loro figure ed elementi di diversa scala. I lavori di Wilson non hanno generalmente uno svolgimento temporale lineare. In particolare i suoi primi spettacoli ponevano lo spettatore in una condizione simile a quella di chi osserva uno scenario naturale, mettendolo in grado di attivare la propria disposizione meditativa e - come usa dire Wilson - il proprio "schermo interiore". In questo l'artista è dichiaratamente debitore nei confronti della teoria di Gertrude Stein del "dramma paesaggio". Il tempo costituisce per lui un "materiale" svincolato da ordini predeterminati, tantomeno narrativi; un materiale da plasmare secondo relazioni poetiche. Wilson attua anche un recupero delle dimensioni della lentezza (con uso frequente delle azioni rallentate), della stasi, del silenzio; e un impiego, in qualche caso, di idee temporali e di movimento derivate dalla tecnologia (ad esempio il rewind) applicate all'azione. La luce è per Wilson uno strumento per modellare lo spazio e il tempo, e per creare forma . Con essa costruisce immagini di grande nitidezza, la cui rigorosa composizione risulta dalla combinazione di estese campiture cromatiche (con frequente impiego del ciclorama, illuminato in senso atmosferico e spaziale), con un’illuminazione di tipo pittorico-architettonico degli elementi scenici, ed ‘estrazione’ di particolari attraverso puntamenti di estrema precisione sugli oggetti e gli attori. E’ assolutamente matura e calibrata nel suo lavoro la convivenza tra luce ‘per far vedere’ e luce come oggetto di visione. E i due tipi di luce sono parti in equilibrio di una costruzione alla quale contribuiscono in maniera paritaria anche rispetto agli altri elementi della creazione teatrale: testo, parola, musica, movimento. Wilson considera quindi tre tipi di luce indipendenti: quella per il fondale, quella per il palcoscenico e quella per gli attori e gli oggetti; e la luce destinata a questi ultimi non deve colpire il palco, o non deve colpirlo se non in maniera calibrata e composta. Considera il pavimento come un luogo delle relazioni tra luce e ombra. Per questo usa, per attori e oggetti, luci di taglio che non colpiscano il suolo, oppure luci spioventi che lo colpiscano in maniera calcolata, creando forme precise (ad esempio, quadrati o rettangoli, ottenuti con i sagomatori), per dare presenza e forma al piano orizzontale e inserire attori ed oggetti nella composizione visiva. Per quanto riguarda il fondale, tende a preferire la luce che viene dal basso. Vuole che i volti siano ben in luce e, a volte, che le diverse parti del corpo siano differentemente illuminate; ad esempio, una mano più illuminata del resto. Wilson affronta con grande chiarezza anche altre due questioni cruciali: quella dell’ombra e quella del colore. Sostiene la necessità di evitare ombre fortuite, non calcolate; ed è assolutamente cosciente della superiorità espressiva dell'ombra singola; questioni poste a loro tempo da Appia e Craig, i quali erano ben consapevoli che la produzione di ombre multiple e/o sovrapposte, dovuta all'uso di diverse fonti, puntate in maniera non calibrata sullo stesso soggetto, può generare dispersione e perdita di potenza; e che, per farsi presenza e figura; per assumere forza simbolica e drammatica, l'ombra (di un personaggio, di un oggetto, di un elemento scenico) deve essere distinta. Allo scopo di produrre ombre singole, Wilson ha scelto a volte di far provenire persino la luce destinata a illuminare la totalità del palco da un'unica fonte, cercando un esito, in tal senso, simile a quello della luce del sole; utilizzando apparecchi di grande potenza, capaci di illuminare grandi superfici in maniera omogenea. Per lo stesso ordine di necessità (nitidezza d'immagine, produzione di forma e di forza simbolica e costruttiva), Wilson è assolutamente contro la "varietà" fine a se stessa del colore e le sue miscele incontrollate. Non distribuisce mai in maniera fortuita le tinte sul palcoscenico. Evita di creare macchie e differenziazioni cromatiche che non corrispondano a criteri precisi. Usa la luce colorata con grande equilibrio ed oculatezza, in senso pittorico. Attribuendola principalmente al fondale o usandola per produrre forme di luce astratte e circoscritte, come quelle che si possono ottenere con le proiezioni, con i sagomatori, con il laser. Per illuminare il palco e i personaggi preferisce usare i diversi gradi della luce bianca, valorizzando i colori propri degli elementi scenici, degli attori, dei trucchi, dei costumi. Tende ad usare le proiezioni in maniera integrata con la scena e le luci; spesso mandandole direttamente sugli oggetti e le architetture sceniche. Utilizzandole comunque secondo precise necessità compositive e poetiche, e con grande attenzione agli aspetti percettivi. Fa anche frequente uso di oggetti luminosi (come i bastoni di luce di Death, Destruction and Detroit del 1979, o le pietre blu di The Black Rider del 1990), ai quali affida precise funzioni compositive e simboliche; così come usa (lo ha fatto specialmente nei primi lavori) fumo, fuoco, dispositivi pirotecnici. Gli apparecchi illuminanti e gli elementi luminosi sviluppano spesso, nel suo lavoro, una presenza temporale costante o ricorrente, fatta di ritorni e variazioni, che li rende quasi personaggi dello spettacolo. Al lavoro iniziale di Wilson è stato spesso associato il cosiddetto ‘teatro- immagine’ italiano degli anni Settanta, per l’importanza da quest’ultimo attribuita agli aspetti visivi e, più in generale, per le sue modalità di costruzione dello spettacolo, attuate attraverso la ‘scrittura scenica’ e non – tradizionalmente – per trasposizione nello spazio di un testo dato. Sulla spinta di queste esperienze, in anni successivi la ricerca teatrale italiana (con etichette come "postavanguardia" o "nuova spettacolarità", o fuori dalle etichette) ha espresso, pur nella diversità delle poetiche dei singoli artisti e gruppi, notevoli sensibilità alle questioni della visione e della luce: a Roma, tra gli altri, Simone Carella, Marcello Sambati, Leo de Berardinis e Perla Peragallo, Remondi & Caporossi, La Gaia Scienza; in altre città, gruppi come Falso Movimento a Napoli e il Carrozzone (poi Magazzini Criminali) a Firenze. Anche questi artisti e queste compagnie hanno affermato un'idea della luce non come strumento che entra in gioco nella "messa a punto" del lavoro, ma quale fattore sostanziale e costitutivo del processo di creazione dello spettacolo, oltre che come elemento caratterizzante la sua estetica. Essi hanno anche contribuito a mettere in dubbio l'idea che - per quanto riguarda la luce - l'esito artistico sia necessariamente correlato al livello tecnologico. E in questo sta un loro elemento di differenza rispetto a Wilson. Spesso, negli spettacoli di questi gruppi, immagini molto efficaci derivavano dall'impiego di poche fonti luminose di usuale dotazione. Anche nei casi in cui vi era un impianto spiccatamente visivo, la strumentazione era generalmente piuttosto povera. Un altro aspetto interessante di questo ambito della ricerca italiana è stato l'uso frequente di fonti di luce non teatrali, anch'esse spesso a bassa tecnologia. A questa obbligata ma fertile povertà di mezzi, nel corso degli anni Ottanta venne subentrando in parte - anche nel campo della ricerca teatrale italiana - l'alta tecnologia, in connessione con l'idea montante di spettacolo elettronico o multimediale. È il caso del gruppo fiorentino Krypton, che in quel periodo aveva nell'uso del laser il suo tratto distintivo . Mentre, negli stessi anni, gruppi come - per fare qualche nome - il Teatro Laboratorio Settimo di Torino, i romagnoli Societas Raffaello Sanzio, Teatro Valdoca, Giardini Pensili, Le Albe (con l'importante collaborazione per le luci di Vincent Longuemare) e, a Roma, la compagnia di Giorgio Barberio Corsetti - continuavano anch'esse, ognuna all'interno di un proprio peculiare percorso artistico, in un uso della luce intesa come elemento poetico e drammaturgico. Tornando a Robert Wilson, un aspetto importante del suo lavoro - e del suo lavoro con la luce in particolare - è costituito dalle installazioni, dagli oggetti e dai video. Nuove tecnologie, nuove questioni (pp. 166-171) Le nuove tecnologie pongono oggi al teatro nuove questioni. L'immagine elettronica e quella digitale, e le possibilità connesse al loro uso - come la multimedialità o l'interattività - costituiscono fatti di grande rilevanza con i quali il teatro si misura a partire almeno dagli anni Sessanta del Novecento. Questi sviluppi hanno implicazioni molto vaste, che vanno ovviamente ben oltre l'ambito della luce. Riguardano la natura stessa dell'opera teatrale, il suo linguaggio, la sua sfera simbolica. Le nuove tecnologie riflettono un mondo divenuto ormai a due facce, una reale ed una virtuale, contraddistinto da un continuo scambio tra le due dimensioni e, in linea generale, da una certa instabilità tecnica, legata a quella dualità; ma anche dalla mobilitazione di nuove sensibilità e dalla moltiplicazione delle occasioni di ricerca. Tali trasformazioni generali non sono certo senza influenza sulla sensibilità e sull'operato degli artisti di teatro. Non solo per quanto riguarda le concezioni della tecnica, della luce e dell'immagine, ma anche dello spazio-tempo, della drammaturgia, dei linguaggi. Si potrebbe dire che l’influenza di queste trasformazioni sul teatro sia stata, innanzitutto, di tipo linguistico. L’impatto culturale, ad esempio, dello schermo, dell'immagine-luce del video, della bidimensionalità e immaterialità proprie della TV e del computer, ha in molti casi influito sul linguaggio del teatro ancor prima che sulle sue tecniche. È quanto è avvenuto nell'ambito delle neoavanguardie, dove, a fronte di una qualità poetica degli spettacoli generalmente significativa di trasformazioni come quelle cui abbiamo accennato, normalmente le tecnologie a disposizione non erano di tipo avanzato. Vengono in mente alcuni spettacoli della ricerca teatrale italiana degli anni Ottanta. Crollo nervoso (1980) dei Magazzini Criminali, ad esempio, riduceva la scena ad una scatola luminosa di tipo nuovo; quasi un monitor dove tutto sembrava perdere peso e dove gli attori, condotti attraverso la luce ad uno stato immateriale, sembravano mossi da stimoli artificiali. Punto di rottura (1978), precedente lavoro dello stesso gruppo, esprimeva lo stesso tipo di sensibilità. In ambedue gli spettacoli
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