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Riassunto M. Papini, ARTE ROMANA, Schemi e mappe concettuali di Archeologia

Riassunto dei capitoli di M. PAPINI, Arte romana, Mondadori Università, Milano, 2016 richiesti per l'esame di Archeologia classica con il professor Furio Sacchi per il corso di Economia e Gestione dei Beni Culturali e dello Spettacolo

Tipologia: Schemi e mappe concettuali

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Scarica Riassunto M. Papini, ARTE ROMANA e più Schemi e mappe concettuali in PDF di Archeologia solo su Docsity! ARTE ROMANA 1 4 da matrici, raffigurano processioni di carri a carattere trionfale, corse di cavalieri armati, banchetti ed esaltano la mentalità eroico-cerimoniale dei gruppi dirigenti anche mediante l’inclusione di temi mitici ed elementi rinvianti alla sfera ultraterrena. Architettura domestica. Casa “ad atrio”: le più antiche tracce di edilizia abitativa a Roma risalgono ai secoli IX- VIII a.C., in cui si usavano edifici lignei, e la prima struttura in muratura nell’Urbe è stata identificata come una casa con corte nell’area di santuario di Vesta. L’architettura in pietra in ambito domestico si diffuse in Etruria meridionale e nel Lazio dalla seconda metà dell’VII secolo a.C, con edifici a tipo palaziale o case greche a pastàs. Un nuovo modello residenziale signorile pare comparire a Roma dalla fine del VI secolo a.C., ricostruendo un’abitazione alle pendici del Palatino, con una serie di ambienti disposti secondo un asse principale longitudinale (fauces, corte centrale affiancata da ali, tre sale sul fondo con quella centrale aperta sulla corte di cui costituisce il prolungamento). Siccome tale forma è definita canonica, è attestata anche in Etruria nello stesso periodo e altrove nel periodo tardorepubblicano. Di recente si è sostenuto con un nuovo vigore come l’invenzione di una siffatta disposizione assiale sia da attribuire all’ambito etrusco, anche tramite il confronto specie con te pombe di Caere, che denotano legami con la sfera domestica sin dal 600 a.C.. Se la forma canonica tende a scomparire dopo l’età augustea, dell’atrio, uno dei loca pubblica delle case per l’incontro e il dominus e simbolo di identità romana, i Greci non facevano uso. Arrivano gli stranieri: le più antiche menzioni di artigiani riguardano stranieri giunti in Italia centrale nella cornice del commercio aristocratico, a partire da tre modellatori: Euchino (dalla buona mano), Diopo (colui che traguarda) ed Eugrammo (dalla buona pittura) e da Ecfanto, un pittore, i quali verso la metà del VII secolo a.C. accompagnarono un ricco mercante. Costui, memnro della stirpe dei Bacchiadi, esule da Corinto, si stabilì in Tarquinia, dove sposò una nobile del luogo. Il figlio, Lucumone, futuro re Tarquinio Prisco, erede dei suoi beni ed educato alla maniera greca, si spostò a Roma. Nella fase finale del regno di Tarquinio Prisco venne chiamato Vulca per la grande statua di culto del tempio di Giove Capitolino, che nei giorni di festa veniva cosparsa di un colorante: egli, unico artista etrusco noto per via letteraria, plasmò un Ercole in terracotta. Non stupisce il riscorso ad uno che veniva da Veio, visto che la città era vicina ed aveva instaurato rapporti culturali con l’Urbe tanto da aver accolto il culto di Enea come eroe fondatore. Si tratta di creazioni imbevute di cultura figurativa greca, sulle quali è tangibile il susseguirsi dei vari apporti tematici, iconografici e stilistici della ionia insulare e specialmente asiatica, favoriti dall’arrivo di artigiani in parte integrati nelle comunità come meteci, ed evidenti anche nella pittura vascolare e su tavole, nella pittura funeraria a Tarquinia e nella produzione di bronzetti. Artefici (forse) dalla Magna Grecia: poco dopo a Roma, i modellatori e pittori Damofilo e Gorgaso decorarono il tempio della triade plebea sull’Aventino, Cerere, Libero e Libera, edificio del 493 a.C. legato a un culto officiato secondo il rito greco; se ne è ipotizzata la provenienza da Reggio al tempo della tirannide di Anassilao, il quale fece occupare con produghi messeni Messina, 5 fondando lo Stato dello Stretto. Con Damofilo e Gorgaso sono stati messi in relazione i frammenti fittili provenienti da un terreno di riporto nella zona più tardi occupata dagli horti di Mecenate. Per inciso, a riprova dell’ellenizzazione del Lazio arcaico, alla fine del VI secolo a.C. nelle iscrizioni latine la scrittura cambiò direzione per divenire destrorsa, parallelamente a quanto verificatosi in tutto il mondo greco, mutamento tanto più significativo giacché in quelle etrusche si usava la sinistrorsa. Presenze fenicie: Non solo Greci: nel 509-508 a.C. il trattato di amicizia con Cartagine segnò il riconoscimento internazionale del controllo di Roma sulla costa tirrenica dalla foce del Tevere a Terracina, nello stesso momento in cui il culto straniero della dea fenicia Astarte faceva il suo ingresso nel santuario Pyrgi grazie al re. Rapporti confermati dalla presenza nel VI secolo a.C. di mercanti fenicio-punici in Etruria e a Roma, come suggerito dalle placchette in avorio rinvenute a Murlo con registrazione del nome di un forestiero e dell’ospite- patrono. Lupa Capitolina: sempre alla fase iniziale della Repubblica risale un monumento molto probabilmente pubblico a celebrazione della saga delle origini. Malgrado la proposta di una datazione medioevale, ne sono state rimarcate le tangenze iconografiche e stilistiche con l’arte persiana, filtrate sempre dalla cultura figurativa ionica. Una terza possibilità è che l’opera sia una copia dei secoli XII-XIII riprodotta attraverso calchi di un originale etrusco-italico. Un secolo di crisi? Dal secondo quarto del secolo V a.C., dopo la disfatta navale della flotta etrusca a Cuma contro Ierone di Siracusa (474 a.C.) e nello stesso momento del rilancio della Grecia dopo le guerre persiane, in Etruria iniziò un secolo di crisi, che provocò un restringimento delle possibilità rappresentative e dell’esibizione di ricchezza. La cultura figurativa sino alla metà del IV secolo a.C: accolse le coeve conquiste greche in modo non sistematico, senza sapere o voler abbandonare le soluzioni del passato, per cui la coesistenza di tante esperienze non facilita la definizione di chiare sequenze cronologiche. La critica si è perciò avvalsa della nozione di attardamento per descrivere la relazione tra il centro, il luogo delle innovazioni (la Grecia) e perideria, il luogo del ritardo (Italia). Tuttavia, le esperienze classiche furono recepite anche con tempestività. E’ possibile che l’apparente attardamento adombri talora resistenze o elaborazioni alternative. Infine, il linguaggio formale classico fu una manifestazione attica e ateniese che, con motivazioni ideologiche altrove non esportabili di peso, non poté estendersi contemporaneamente all’intero mondo greco. Tuttavia, uno dei fattori che nell’Italia centrale del secolo V a.C. determinò un assorbimento a singhiozzo delle novità fu anche l’infiacchimento delle committenze pubbliche, fenomeno che impedì alle officine di aggiornarsi, di confrontarsi a vicenda e mediante la concorrenza di spostare sempre più in avanti i loro traguardi, come possibile solo in progetti molto impegnativi. Neppure Roma nel secolo V a.C. poté vantare un Partenone perché non si costruirono templi tra il 484 a.C. e il 431 a.C. Risvegli: le cose cambiarono con la ripresa dell’opulenza aristocratica, alla fine del V secolo e la prima metà del VI secolo a.C. specie nella Valle del Tevere. Da Orvieto provengono testimonianze fra le più vistose del classicismo nella coroplastica. Si sviluppò la Bronzistica, e in particolar modo la Chimera di Arezzo, opera volitiva di matrice attica, è stata accostata ad un’opera dell’officina di Fidia. Per Roma, la scarsa documentazione è compensata dalla grande scultura fittile conosciuta soprattutto grazie alla stipe. 6 ARTIGIANATO E MONUMENTI ONORARI A ROMA E IN ITALIA CENTRALE NEI SECOLI IV-III a.C. A poco prima della metà del IV secolo a.C. risale la “cista Ficoroni” scoperta a Praestene e alta più di 70 cm. La cista, un contenitore di forma cilindrica destinato a custodire il corredo femminile, ha un’iscrizione che, quasi quale certificazione di maggiore qualità, la dice eseguita a Roma da un certo Novios Plautios, il proprietario dell’officina, su una precisa ordinazione di una dama, Dindia Macolnia, la quale donò l’oggetto alla figlia. Il tipo di cista la qualifica come proveniente da una città culturalmente e geograficamente vicina a Roma e Novios Plautios in base al nome potrebbe essere stato cliente campano di una gens tiburtina entrata in senato nel 358 a.C. La decorazione di grande qualità ricalca poi i motivi della grande pittura greca a cui rivia anche il soggetto (la saga degli Argonauti) e forse della ceramica italiota che svolse un ruolo intermediario: nessuna sorpresa giacché oltre ad importare bronzi lavorati tarantini, dovette fungere da tramite per la diffusione lungo la valle tiberina di modelli italioti. Le statuette di Libero e dei satiri sul coperchio, oltre che rivelare la popolarità di soggetti bacchici in Italia centrale furono in passato attribuite ad un’officina etrusca. Dalla prima metà del IV secolo a.C. la bronzistica converse verso la produzione dell’Etruria settentrionale fiorentino- fiesolano; da quel periodo i prestiti poterono correre sia dall’etruria verso il Lazio, sia in senso inverso. Ma furono sempre più le officine laziali a diffondere le nuove tendenze dei secolo IV-III a.C. alla loro attività si aprirono nuovi orizzonti, per cui l’espansionismo agì pure da fattore unificante della penisola sul piano culturale e figurativo. La cista Ficoroni, adatta d illustrare l’inadeguatezza di etichette troppo nette non risulta meno romana. Grandi conquiste. A Roma dalla seconda metà del IV secolo a.C. si registrano grandi novità qualitative e quantitative nei monumenti ufficiali e nell’artigianato a causa della trasformazione degli assetti politici e socio-economici: con la conquista della Sabina del 290 a.C. i Romani conobbero la ricchezza per la prima volta, impensata. Le conseguenze furono la crescita economica e demografica, processi produttivi volti al profitto con protagonisti i ceti abbienti, apparizione della moneta, afflusso di manodopera schiavistica. Quelli furono gli anni di espansione dell’Urbe, con le vittorie sugli Etruschi, Latini e Sanniti; conquiste militari che le consentirono di entrare in contatto con varie aree geografiche del sud e quindi con altrettante versioni culturali di grecità. In tali frangenti i comandanti poterono accrescere la conoscenza di sé e del proprio apporto alle fortune della patria anche tramite il voto e la dedica ai templi e i monumenti onorari. Furono gli anni in cui Roma diventata padrona d’Italia, cominciò a dotarsi di più consone infrastrutture, riorganizzando gli spazi, specialmente nell’area del Comizio. Più dignità per il foro Romano: Il foro romano, elevato a luogo di rappresentanza civile e politica sul modello dell’agorà greca, guadagnò in dignitas grazie alla sostituzione delle botteghe dei macellai con le taberne dei banchieri, dignitas poi destinata ad accrescersi dalla fine del III secolo a.C., anche grazie alla costruzione di basiliche funzionali allo svolgimento di attività giudiziarie, finanziarie o amministrative atte ad ospitare banchieri e commercianti. Tuttavia, i Greci, abituati alla sontuosità degli impianti delle capitali dei regni ellenistici, a lungo avrebbero giudicato l’aspetto di Roma non conforme alla sua potenza, in considerazione di un tessuto urbano confuso e disadorno, che secondo un topos gratificante della letteratura latina, sarebbe stato il risultato della rapidità con cui avvenne la ricostruzione dopo la devastazione causata dai Galli nel 390 a.C. 9 esuberanze barocche. Questo orientamento, sebbene in un quadro pur molto articolato dove officine greco-asiatiche operavano contagiandosi a vicenda e influenzando quelle locali, risulta afferrabile nella cloroplastica dei templi oppure nei frammenti delle opere di culto. Meno analizzata è la ritrattistica per la rarità dei casi urbani. Eccetto un membri della famiglia degli Scipioni con corona d’alloro, tre effigi ci trovano discordi persino nella determinazione dell’identità greca o romana in assenza di chiari indizi: se il volto e la chioma non aiutano a distinguere l’etnia, al massimo può farlo l’assenza del diadema dei monarchi ellenistici. Sono sintomatici i problemi riguardanti il Principe delle terme, dal nudo possente con la lancia nella mano sinistra ma senza diadema regale, identificato, tra gli altri candidati come Tito Quinzio Flamino. Innocenti terrecotte: tra le tante statue in marmo, bronzo, avorio dalla Grecia e dall’Oriente che effetto doveva fare la visione delle più antiche terrecotte? Le opere siracusane vengono definite calamitose. Il fascino dei materiali più nobili era fisiologico, tanto più che alcune opere più vetuste per i tanti anni di esposizione stavano sparendo, come il Giove Capitolino, in cui una delle quadrighe in terracotta era stata sostituita con il bronzo. Plinio il Vecchio sottolinea l’esistenza a Roma di principi di ornamenti fittili sulla sommità dei templi ammirabili per la rifinitura, l’arte e la solidità, più venerati che se fossero stati d’oro, e più innocenti. Architetti greci a Roma: Sin dall’inizio del II secolo a.C. in Italia le dimore signorili conobbero l’introduzione del peristilio, un’area scoperta circondata da un quadriportico perimetrale, tipologia di ascendenza greca, già nota dalla metà del V secolo a.C. ma adottata soprattutto nei palazzi dei regni ellenistici. Negli spazi pubblici di Roma intanto stavano sorgendo quadriportici, nel circolo Flamino ispirati ai grandi porticati ellenistici e perfetti per la presentazione delle prede belliche. Roma si stava dotando di strutture da capitale ellenistica, comprese quelle portuali e commerciali, banchine lungo il Tevere. Intanto stavano mutando volto anche i templi. All’interno del Porticus Metelli, quello di Giove Statore, periptero 6x11 colonne, fu il primo interamente di marmo, eseguito da un architetto greco, Ermodoro di Salamina, al quale si assegna anche quello di Marte in circo. Nel linguaggio architettonico, si diffusero i medesimi schemi tipologici e ritmi di un’ampia koiné culturale in grado di abbracciare l’intero bacino mediterraneo, ma le tante scelte progettuali non furono del tutto sovrapponibili in ambiente greco e romano, visto il bisogno di adattamenti dettati anche dalle locali tradizioni religiose e/o scelte culturali dei committenti. Questo è il caso della scala di accesso inserita in un edificio circolare sopraelevato su un podio: una tholos in marmo interamente alla greca fu inserita su una crepidine a tre gradini, nell’area sacra di Largo Argentina. Architetti romani in Grecia e architetture ellenistiche in Italia: tuttavia, il quadro era molto articolato a quei tempi perché anche architetti romani potevano essere chiamati presso le corti ellenistiche. Nei secoli II I a.C. in Italia centrale, nacquero santuari terrazzati con paralleli nel mondo ellenistico. Queste soluzioni a loro volta intrattenevano assonanze con l’architettura delle ville d’otium con sontuosa pars urbana, del secolo II a.C.. Talora medesime maestranze furono impiegate per le decorazioni: alla fine del II secolo a.C. la stessa officina di mosaici alessandrini fu impegnata a Praeneste e nella Casa del Fauno a Pompei. Inoltre, l’edilizia tardorepubblicana adottò l’opera cementizia, costituita da un nucleo di materiale incoerente legato da malta tra due paramenti lapidei, sostituendosi per lo più all’opera quadrata, questa permise strutture voltate senza limiti di dimensione, in modo rapido ed economico, con conseguenze anche sull’organizzazione della forza lavoro con effetti socio-economici. 10 Capitolo 6 LA CLASSICITÀ AUGUSTEA In età ellenistica si erano imposte teorie estetiche che giudicavano inarrivabile il livello raggiunto dai grandi artisti del V e IV secolo a.C. e ne valutavano l’operato secondo la loro capacità di realizzare opere rispondenti a temi specifici: Calamide e Mirone avrebbero raggiunto l’eccellenza nella rappresentazione degli animali, Policleto quella dei giovani atleti, Fidia e Alcamene nella rappresentazione degli dei. Si vennero a sviluppare, in tal modo, canoni di artisti giudicati non più esclusivamente con il metro tecnico e formale ma in quanto ineguagliati nella rappresentazione di determinati soggetti: il giudizio formale sottostava, almeno in parte, alla scelta del tema dell’opera d’arte. È stato breve il passo seguente verso un giudizio sulla capacità degli artisti di esprimere nei loro lavori qualità morali, forse sotto la spinta di una concezione estetica sviluppata nella scuola stoica del secolo II a.C. a opera di Panezio e del suo allievo Posidonio, o Cicerone. Tali teorie da un lato scompaginavano definitivamente la tradizionale lettura dell’arte greca secondo una logica evolutiva, basata sulle innovazioni delle tecniche e sulle maggiori capacità di avvicinarsi al vero secondo natura, impostata da Senocrate di Atene, allievo di Lisippo, ma ponevano nello stesso tempo le premesse per una revisione dell’arte arcaica e severa sotto il profilo formale giudicata ancora primitiva rispetto al vero secondo natura. È probabile perciò che già nella Grecia tardo- classica si fosse sviluppata una corrente artistica rivolta a modelli di età arcaica per la decorazione di manufatti a carattere religioso o funerario, come candelabri o piccoli altari, poi replicati a livello decorativo dagli scultori della corrente neoattica, verso la fine del II secolo a.C. e per il periodo tardorepubblicano e protoimperiale. Nel tumulo di Anfipoli, ad esempio, due grandi cariatidi arcaistiche in marmo con copricapo cilindrico di sostegno proteggevano l’ingresso della camera funeraria. Il culmine del classico: nacque in questa fase il mito di Fidia quale vertice assoluto dell’arte greca, il solo capace di rappresentare gli dei come erano realmente nella loro suprema auctoritas e di Policleto, al contrario, oltremodo abile nel rappresentare gli uomini con una dignità oltre il vero, sebbene alle sue opere mancasse solennità. Classicismo: la cultura artistica augustea ha ereditato questo sistema. La corrente classicistica, inevitabile risultato delle concezioni estetiche dell’epoca, ne era una delle principali componenti. Sviluppatosi ad Atene, centro politico di primaria importanza, aveva saputo costruirsi un’identità culturale basata sul glorioso passato, capace di attirare nella città, divenuta centro delle arti e dell’educazione, i rampolli delle aristocrazie dominanti nel Mediterraneo, il gusto per forme artistiche dipendenti da modelli classici raggiunse ben presto Roma stessa dove già nei primi decenni del I secolo a.C. sono diffuse opere di produzione neoattica. Quanto è classicista l’arte augustea? C’è stato in passato una sorta di rifiuto nei confronti della componente classicista dell’arte augustea, perché sembrava un’algida emanazione di una volontà politica capace di congelare nelle sue maglie le autentiche e originali forme artistiche di tradizione ellenistica e italica. Augusto, impostando le sue regole in base a un codice morale, avrebbe precluso la strada verso più originali e innovative correnti artistiche. Siamo sicuri che l’arte augustea però sia classicista? Questa è stata fin ora l’interpretazione dei principali monumenti augustei, a partire dai rilievi dell’Ara Pacis. Il monumento decretato dal senato il 13 a.C., in occasione del ritorno di Augusto dal viaggio nelle province occidentali e dedicato il 9 a.C., consta di un recinto perimetrale che racchiude l’altare su cui i magistrati, i sacerdoti e le vergini Vestali sacrificavano ogni anno. All’interno, nella parte inferiore, si individua la raffigurazione del tavolato logneo a delimitazione dello spazio inaugurato templa minora così come creati dagli auguri; il registro superiore con festoni e bucrani intervallati da patere e coppe rimanda alla decorazione posta sopra la recinzione lignea; all’esterno, il recinto è separato da una fascia svastica. Nel registro superiore le scene 11 prevedono da nord a sud un corteo di personaggi storici: sacerdoti, assistenti al culto, magistrati, membri della famiglia di Augusto, che rappresenta un’unica processione. Figurazioni mitiche si trovano poi ai lati delle porte a est (Roma vittoriosa seduta su armi e Tellus che rimanda alla fecondità e alla felicità dell’epoca) e a ovest (sacrificio di Enea a Lavinio alla presenza dei Penati, allattamento di Romolo e Remo nel Lupercale sotto lo sguardo di Marte e del pastore Faustolo). I rilievi figurativi: è stato a lungo luogo comune considerare i rilievi figurati della fascia superiore dipendenti da modelli classici, a partire dalla grande processione, nella quale si sono voluti vedere rapporti con il fregio del Partenone. A fronte:Eppure, si dovrebbero prendere in considerazione in primo luogo i precedenti etruschi, quale il corteo magistratuale sugli affreschi, purtroppo danneggiati della tomba del Convegno a Tarquinia. La differenza sta nel fatto che il messaggio che trasmettono non è greco, e forse non è casuale che non ci siano in Grecia raffigurazioni di processioni pubbliche di magistrati. Nel caso dell’Ara Pacis ci sono differenti sfumature tra il grande fregio con processione, il piccolo fregio con pompa sacrificale sulle sponde dell’altare, nel quale si sono visti elementi di arte popolare romana, e i pannelli simbolico-mitologici che, nella loro ambientazione idillico-sacrale, derivano dalla tradizione ellenistica. Ogni soggetto è diversamente impostato secondo schemi figurativi tratti dall’ampio repertorio dell’arte greca, e non esclusivamente da quello classico: ma il risultato ottenuto non ha confronti nell’arte greca. Le immagini sono pacate, serene, ma lo stile che amalgama in un sistema unitario tanti differenti spunti di lettura, è una costruzione nuova, non classicista nel vero senso della parola, e di certo non nella logica imitativa di parte della produzione neoattica tardorepubblicana, ma che suggerisce la formazione di un nuovo linguaggio classico consono ai temi della comunicazione augustea. Il fregio a girali d’acanto. Il nuovo linguaggio si avverte in particolare nei pannelli simbolico- mitologici e nel grande fregio a girali d’acanto della fascia inferiore del recinto. Mai nei monumenti ellenistici, l’ambientazione era stata impostata con tanta dovizia di dettagli e con un tale effetto di gradazione del rilievo: dall’altorilievo delle immagini in primo piano al bassissimo sfumato nel fondo. Ma si trova poi quella capacità descrittiva degli elementi vegetali (acanto e altre piante  forza generatrice della natura sotto il principe perfetto) così adeguata al vero, malgrado i girali siano stati irreggimentati entro un severo schema geometrico. Questa nuova visione, aperta alle voci della natura benché incapace di costruire un unitario ambiente naturale nella logica della prospettiva lineare è direttamente 14 Laocoonte di Agesandro, Atanodoro e Polidoro. Più o meno nello stesso periodo dovettero iniziare i lavori per l’ampliamento della villa appartenente a sua madre, vicino ad una grande grotta affacciata sul mare. Qui Tiberio provvide ad assegnare ad artisti rodi la realizzazione di un congruo numero di gruppi statuari con scen mitiche aventi per principale protagonista Ulisse, a cui lavorarono i tre artisti. La componente ellenistica nella decorazione di ninfei non venne meno in età claudia. Artisti o copisti? Il riconoscimento di compomnenti ellenistiche nella cultura fgurativa augustea e il collegamento possibile di Agesandro, Atanodoro e Polidoro con Tiberio rendono poco convincente il tentativo di costringere questi artisti entro i limiti cronologici del medio ellenismo sulla base dei dati formali. L’errore è voler interpretare la loro opera nella logica o dell’imitazione di modelli ellenistici o nella creazione di opere originali: in poche parole, artisti o copisti? La distinzione ha poco senso nel mondo greco-romano dove l’arte sfuma nell’artigianato e viceversa. In età augustea l’eco della grande tradizione microartistica non era affatto spenta, ma viveva e si irradiava. RILIEVI STATALI A ROMA DALLA DINASTIA CLAUDIA ALLA DINASTIA FLAVIA Un altro altare monumentale. Nei pochi rilievi attribuibili a monumenti pubblici degli imperatori della gens Claudia, il linguaggio figurativo augusteo sembra aver subito alcune variazioni formali, come nel caso di quelli pertinenti a un grande altare monumentale e all’arco dedicati all’imperatore Claudio. Come sull’ara Pacis, la processione sul fregio principale del recinto dell’altare rappresentava il ritorno di Claudio a Roma nel 43 a.C., dopo la trionfale campagna bellica in Britannia. L’imperatore è ricevuto dai principali esponenti del senato, delle gerarchie sacerdotali e della sua famiglia che lo conducono, attraverso un percorso tra i monumenti sacri del Palatino e del foro Romano, rappresentati sul fondo in maniera schematica ma precisa, come le decorazioni frontonali, fino al tempio di Marte Ultore nel foro di Augusto, dove si svolge la cerimonia del sacrificio di un toro. Uno dei pannelli di facciata raffigura Iside su un carro insieme con Trittolemo che sparge le sementi sula terra, simbolo del ritorno all’età dell’oro a Roma con l’arrivo dell’imperatore. Il confronto con l’ara Pacis permette di riconoscere l’evoluzione del linguaggio formale verso una maggiore vivacità d’impostazione delle figure su più piani e verso un loro inserimento entro un contesto ambientale più articolato e non più su fondo neuto. Le figure, alte quanto il rilievo, sono pari se non superiori di misura ai templi sul fondo e l’ambiente è costruito in chiave più simbolica che naturale. C’è comunque un maggior respiro atmosferico. L’arco di Nerone. I frammenti di rilievi attribuiti all’arco dedicato a Nerone sul Campidoglio in occasione delle vittorie del generale Corbulone sui Parti (58-63 a.C.) proseguivano lungo il medesimo percorso. La testa barbuta di un uomo partico era pertinente ad un pannello con la rappresentazione di un trofeo al quale erano affiancati gli sconfitti che alzavano in maniera patetica i volti. In età flavia le officine abituate a lavorare sui monumenti pubblici secondo la tradizione giulioclaudia, continuarono a svolgere la loro attività. 15 L’arco di Tito: di tutt’altro stile sono i pannelli dell’arco sul versante settentrionale del Palatino, lungo l’asse che unisce foro-valle del Colosseo, eretto probabilmente tra l’82 e il 90 d.C.: un monumento di consecratio e non trionfale. In ambedue i pannelli del fornice raffigurano il trionfo giudaico senza la presa di Vespasiano. Le figure si protendono dal fondo del rilievo con maggiore autonomia e con volumi più corposi superando anche lo schema comune della distribuzione secondo file regolari e con una scansione uniforme. La grande novità rispetto al passato è che i personaggi, ad esclusone di Tito sulla quadriga, non coprono l’intero campo dei rilievo, ma poco più della metà, sì che circa un terzo dello spazio superiore è vuoto o coperto da fasci o dal bottino di guerra trasportato in trionfo. La porta Trionfale è raffigurata in uno dei rilievi a scorcio come se la processione la stesse attraversando non secondo una linea parallela allo spettatore ma piegando verso il fondo. Tutto ciò crea un effetto di maggiore profondità rispetto ai rilievi giulio-claudi e un respiro atmosferico che sembra preludere a un rinnovamento della concezione spaziale del rilievo. LA RITRATTISTICA IMPERIALE I tipi di augusto in successione. Quando Ottaviano giunse a Roma deciso ad accettare l’eredità lasciatagli da Cesare, un’enorme ricchezza oltre che l’impegnativo nome Caius Iulius Caesar, le sue prime forme di comunicazione in campo artistico si mossero nell’ambito della tradizione consolidata dagli ottimati romani, fortemente influenzati da modelli patetici di derivazione greco-ellenistica. I primi ritratti, realizzati negli anni immediatamente successivi al suo arrivo a Roma da Apollonia in Epiro, dove era andato per studio, mostrano un viso magro e ossuto, occhi piccoli e infossati, collo piegato di lato verso l’alto e capigliatura agitata con ciocche a fiammelle disposte in ordine apparentemente disordinato, uno schema di derivazione diretta da Alessandro Magno e dai sovrani che seguirono. Anche il terzo tipo ritrattistico, il più diffuso tra i ritratti giovanili, realizzato negli anni della vittoria su Pompeo (36 d.C.) noto come Alcudia, presenta caratteristiche analoghe sebbene si noti una maggiore distensione dei tratti facciali. Pur non avendo una statua intera di Ottaviano, ci si può fare un’idea delle formule iconografiche adottate attraverso la monetazione. I modelli sono sempre e comunque le immagini tradizionali in toga, proprie del magistrati, quelle in nudità, quelle loricate e quelle equestri. Alcuni di codesti tipi statutari avevano già una storia locale alle spalle, con tracce nella cloroplastica volitiva centro-italica del III secolo a.C. A Roma l’accentuazione delle forme realistiche dei volti, la cui caratterizzazione in Grecia è più attenuata, crea un effetto stridente. Ciò dipende anche dalla qualità delle officine, ma è probabile che a Roma i ritratti avessero volutamente una maggiore caratterizzazione, a danno della migliore fusione formale delle teste con corpi giovanili atletici. 16 Dopo Azio: la battaglia di Azio, e la conquista di alessandria, segnano come uno spartiacque nei modi di rappresentazione di Ottaviano. Si impone contemporaneamente un uso che sarebbe divenuto costante nella ritrattitica imperiale, ovvero procedere a variazioni iconografiche dell’immagine del principe non tanto come segno del passaggio del tempo, ma come memoria di eventi di particolare significato: la celebrazione del trionfo, del ritorno a Roma, dopo anni di viaggio, dei dieci o dei vent’anni di principato, di festività non consuete e così via. La forte tensione che caratterizzava i ritratti precedenti è assai ridotta. Il ritratto Louvre MA 1280 è stato attribuito agli anni 31-29 d.C., proprio per questo: la particolare acconciatura dei capelli, che diventa di moda nel decennio tra il 30 e il 20 a.C. e la corona di alloro gemmata, posta sul capo di una delle repliche più importanti dei musei capitolini, iducono a ritenere che questo vada inserito immediatamente dopo il tipo Alcudia. Il tipo “Prima Porta” e il rapporto con il Doriforo: l’ultimo ritratto, creato quando Ottaviano assunse il cognomen Augustus, mostra un fondamentale viraggio. Il volto ridiventa giovanile, ma perde i tratti fisionomici più dissonanti, attutiti e come piegati nelle maglie di una visione ammorbidita e regolarizzata. La capigliatura, più vivace di quella del tipo Louvre è assai meno agitata rispetto ai tipi ritrattistici precedenti e rigidamente sottomessa ad uno schema preciso, con il gioco dei ciuffi che si dispongono con andamento a forbice sulla fronte. Si è spesso voluto vedere un tentativo di adeguamento dell’immagine del principe a quella del Doriforo di Policleto. Ha contribuito a questa ipotesi la più bella delle statue intere conservate, l’Augusto dalla Villa di Livia a Prima Porta in marmo pario, che mostra il principe loricato in atto di sollevare il braccio. Sulla corazza anatomica compare la raffigurazione della riconsegna ai Romani, personificati dal dio garante dell’Impero, Marte, dei vessilli perduti da Crasso durante la battaglia di Carre contro i Parti, con varie figure di contorno. Ponderazione e proporzioni del corpo sembrano derivare dal Doriforo, ma non certo i tratti caratterizzanti del volto né il tipo di capigliatura. È difficile date una risposta al quesito: bisogna ricordare però che il Doriforo e altre sculture policlee sono stati il modello con il quale si è confrontata la statua maschile nuda anche in età ellenistica. La testa presenta significative consonanza nella resa della capigliatura e nella complessiva conformazione del volto, a esclusione, evidente, del tono patetico, con alcuni tipi di terrecotte volitive centro-italiche. Tra i tanti ritratti Prima Porta, a parità di schema iconografico ci sono tante variazioni formali, anche sensibili, perciò la possibile derivazione resta un problema aperto. Il tipo ritrattistico rientra in ogni caso perfettamente nell’orbita del nuovo linguaggio classico imposto da Augusto. Ritratti assimilati: la tendenza a realizzare ritratti dipendenti da quello dell’imperatore vivente divenne consueta da Augusto in poi e non solo in ambito privato, ma anche entro la famiglia imperiale, sì che talvolta ci sono stati autentici fraintendimenti che hanno condotto all’assegnazione ad Augusto di tipi ritrattistici raffiguranti suoi nipoti. Ritrattistica privata: persiste nella ritrattistica privata dal I secolo d.C., la tradizione realistica tardorepubblicana, ma con forme più ammorbidite. I tratti distintivi dei volti sono descritti con fine sensibilità, né si coglie in essi, tranne forse che nei rilievi funerari dei cittadini più onorari opere di maestranze meno colte, il sistema di dettagli individuali giustapposti e non organicamente connessi. I summi viri nel foro di Augusto: purtroppo non si conoscono bene i modi di raffigurazione dei summi viri dei sovrani di Alba Longa nel foro di Augusto. Tra gli schemi iconografici, sulla base dei 19 ripropongono partizioni a carattere architettonico, ma in questo caso le architetture hanno carattere bidimensionale, con fragili edicole e torri a piani sovrapporti, con una raffinata serie di elementi decorativi, entro i quali si innestano figure mitologiche. Laddove l’effetto illusorio da quinta teatrale, perfettamente organizzata con la presenza di uno pseudo-palcoscenico, sul quale compaiono personaggi del mito o della tragedia greca, è più accentuato, quelle strutture non hanno solidità ma sembrano friabili come castelli di carte. Nella casa dei vetti di Pompei lo schema della parete è memore delle ultime fasi del III stile, ma ai lati dell’edicola centrale, le due torri laterali sono diventati un gioco di spazi aperti e chiusi. Una città dipinta: altrettanto significativi sono gli affreschi rinvenuti in un settore del colle Oppio, nel quale sono distribuiti edifici di non chiara identificazione ma comunque a carattere monumentale. Di estrema importanza è la veduta ad affresco di una città spopolata della quale si scorgono le mura, il porto con una darsena laterale, un’acropoli affacciata sul mare, un teatro con un tempio di Apollo, quartieri di abitazioni. È uno dei rari esempi di pittura corografica, che nel rappresentare brevi porzioni di territorio, con una precisa adesione alla realità, a funzione più geografica che artistica, adopera la tecnica della topographia. Pochi documenti dell’arte antica danno un’immagine così precisa e chiara di una città romana con dettagli preziosi. Capitolo 7: Il secolo II d.C. e i buoni imperatori INTRODUZIONE Beata età: Se si volesse chiedere in quale periodo della storia dell’uomo la condizione della razza umana fu più felice e prospera, si risponderebbe, senza esitazione alcuna, quella che andò dalla morte di Domiziano all’ascesa al trono di Commodo. L’enorme estensione dell’Impero fu governata da un potere assoluto sotto la guida di virtù e saggezza. Già nel II secolo d.C. si ebbe coscienza di vivere nella miglior epoca mai esistita, tempo di pace, prosperità, crescita economica, grazie ai buoni imperatori, Traiano, Antonino Pio, Marco Aurelio. Un secolo di atti di munificenza sotto il patrocinio imperiale e da parte dei notabili locali alla ricerca di visibilità nel corpo civico con conseguenze sull’intensa attività edilizia e sugli ornamenti urbani, a vantaggio di una popolazione in aumento almeno fino al 165 d.C. Un secolo di ordine interno e generosità, con programmi di assistenza sociale, sussidi alimentari, ideali filosofico-politici, dedizione alla cultura con una condivisione di pensiero con i sofisti e con gli intellettuali. L’elogio di Roma: tra gli autori greci che riflettono sull’importanza della struttura politico- amministrativa dell’Impero spicca Elio Aristide, retore dell’Asia Minore, che in visita all’urbe nel 144 a. C. pronunciò un elogio della vocazione naturale al governo dei Romani e dei benefici materiali della pace. Il consenso ecumenico era assicurato da un Impero superiore a quelli del passato, da un unico sistema di governo sotto un imperatore simbolo terreno della regalità cosmica e dai migliori uomini, cittadini romani. Roma aveva una missione civilizzatrice ed era il luogo dove tutto convergeva: commerci, navigazione, agricoltura, metalli lavorati e tutte quante le arti. Roma era un’ecumene che aveva deposto le armi per rivolgersi a tutte le forme di diletto e alle feste: ovunque sorgevano ginnasi, fontane, atri, templi, laboratori artigianali, scuole. Insomma, un secolo anche di grande fioritura architettonica e figurativa, in cui nell’Urbe si elevarono due monumenti emblematici: il tempio di Venere a Roma, il più grande mai realizzato, del 135 d.C., e la decorazione dell’Hadrianeum, dedicato da Antonino Pio in Campo Marzio per i divi Adriano e Sabina. TRAIANO E IL “MAESTRO DELLA COLONNA TRAIANA” Un maniaco delle costruzioni: Traiano per avere apposto il proprio nome su ogni edificio, fu malignamente soprannominato “erba parietale”. Dentro e fuori Roma si concentrò su molti progetti di natura infrastrutturale e di pubblica utilità: ampliamento del circo Massimo, potenziamento della 20 rete stradale e dei porti, intensificazione quindi dei traffici. Certo, egli aveva fama di risparmiatore scrupoloso del denaro pubblico, tanto da rendere pubbliche, tramite un editto, le spese del suo viaggio. Un principe-soldato: Traiano fu anche un imperatore-soldato che avviò una politica imperialistica aggressiva. Due guerre daciche (101-102, 105-106), le grandi conquiste sul fronte danubiano. Al ritorno dalla spedizione in Dacia, egli riportò un bottino di cinque milioni di libbre d’oro e il doppio in argento, senza contare le coppe e le suppellettili di inestimabile valore, gli armamenti, le armi, 500000 nemici. Proprio grazie a questo favoloso bottino fu costruito il foro omonimo, con la colonna al suo interno, eretta per decisione del senato e del popolo, anche se fu l’imperatore a sollecitare l’iniziativa: composta da 29 rocchi monolitici in marmo di Luni, il suo basamento si sviluppava per 6m circa e presentava l’altezza straordinaria, con toro e capitello dorico, di 29 m circa. Colonna traiana: inaugurata il 12 maggio 113 d.C. e attorniata da due costruzioni, la colonna è chiamata coclide (chiocchiola) per la presenza di una scala ellittica all’interno e per lo sviluppo del fregio che la decorava. L’opera monumentale ebbe diverse valenze: fu un momento volto a mostrare quanto fosse alto il monte smantellato per opere così grandi. La colonna, su una modanatura a toro ornata da foglie di alloro, attributo del trionfatore si inscriveva nella tradizione repubblicana della colonna onoraria, qui coronata dalla statua loricata in bronzo di Traiano. Fu un monumento celebrativo dell’imperatore: sul fregio ricorre quasi sessanta volte, quasi sempre di profilo e a piedi per lo più in lorica, in plurimi ruoli, religioso, civile, militare. I rilievi, disposti a nastro costruirono un equivalente visivo dei Commentarii de bello Dacico redatti dall’imperatore in persona. Dopo la morte dell’imperatore in Cilicia nel 117 d.C. Fu un monumento funerario interno per le sue ceneri, contenute dentro ad un’urna d’oro in una piccola camera ricavata nel basamento. Fatto storico e ideologia: l’ornamento della colonna, prodigiosa per dimensioni ma invisibile fuori dal foro, perché circondata da edifici di altezza pari o superiore, fu frutto di una decisione eccezionale e senza precedenti, in grado di generare una tradizione visiva sino al secolo IV d.C. Sul fregio a ventitre spire, di altezza diseguale, i rilievi, con 155 scene per 200 m circa, narrano dal basso verso l’alto in ordine cronologico e con un’illusione di continuità lo svolgimento delle campagne militari in Dacia, con 2570 figure. Una cronaca equivalente non a una riproduzione fotografica degli eventi ma a una rielaborazione dei dati storici attraverso filtri figurativi e del ricorso a temi topici visivamente e concettualmente efficaci per la celebrazione di slogan ideologici, valori etici, virtù cardinali della politica imperiale: discorsi ufficiali, sacrifici, disboscamenti e costruzione di accampamenti e navi. (Il)leggibilità dei rilievi: nella composizione risaltano alcune corrispondenze verticali, come quella che unisce la scena con un presagio della vittoria, con la figura della Vittoria alata a separazione della prima e della seconda campagna e il suicidio del re dei Daci, Decebalo. Da tempo si discute intorno alla leggibilità dei rilievi dei quali solo le prime sei spire erano ben percepibili: nessun fruitore antico poté mai ben seguirli visivamente, il che vale però per tante altre opere. È ormai luogo comune il confronto con il fregio nella cella del Partenone, per l’elevata altezza e la penombra. Qualche critico vi ha intravisto la liberà di un artista che lavorò solo per se stesso, pago delle proprie forme e conscio del fatto che nessuno le avrebbe mai viste in modo adeguato; altri 21 vi hanno letto una rappresentazione che non informava, ma esprimeva il fasto e la gloria del principe; viceversa, si è anche provato a mostrarne l’effettiva visibilità e la possibilità di lettura quasi totale. Ma questo è un problema solo per noi; non lo era per un fruitore antico, attento o distratto che fosse. Ai suoi occhi si trattava di un monumento spettacolare e che con un enorme sforzo architettonico e scultoreo intendeva informare in modo effettivo o potenziale. Un monumento leggibile per segmenti grazie anche alla ricorrenza e ridondanza di immagini, e che mirava ad impressionare mediante la rappresentazione meticolosa di grandi imprese pietrificate senza imporre al frequentatore di girarci ventritre volte intorno. Progetto e ideazione: per il progetto è stato chiamato in causa l’ingegnere militare e architetto del foro Apollodoro di Damasco (aveva costruito anche il primo impianto termale a Roma). Bianchi Bandinelli lo ritiene una personalità responsabile dell’inizio dell’arte romana più tipica e vera. Maestro è un termine condizionato non solo dalla qualità dell’ideazione, ma anche dall’esecuzione da parte di scalpellini abili, dalla cura nel dettagli, dalla resa dei rapporti spaziali su più piani. Pietà per i vinti? Si è generato l’equivoco di una compassione per le figure dei vinti da parte di un artista provinciale a conoscenza della miseria della soggezione a Roma, Tuttavia la scena delle fughe disordinate e del suicidio collettivo dei Daci, al pari di quello di Decebalo, si armonizza con la corrente figurativa che sin dall’età ellenistica privilegiava l’espressione tragica dei sentimenti per suscitare impressioni forti, visualizzando il topos del furore eccessivo, della disperazione e del panico dei barbari di contro alla violenza dei romani. Di fronte alla superiorità dei vincitori non poteva esserci pietà per i vinti. Indi, inconcepibile che i Romani potessero commuoversi di fronti a immagini simili, perché non si trattava di guerre civili, politiche o domestiche. ARRIVA IL GRAECULUS: ADRIANO Un fatale bisticcio: con Apollodoro ebbe contrasti il successore Adriano, già prima di diventare imperatore. Quando Traiano lo stava consultando intorno a qualche questione, il futuro imperatore intervenne ma fu interrotto da Apollodoro che gli intimò di tornare a disegnare le sue zucche, rinfacciandogli di non capire tali questioni. Adriano però, avido di primeggiare in ogni campo, appena eletto lo esiliò. I contrasti si acuirono in relazione alla domus Aurea. Il santuario a due celle, addossate e separate da un muro, aveva una pianta diptera di aspetto ellenizzante e si erfeva su una piattaforma a sette gradini, senza la consueta gradinata assiale e il podio. Adriano inviò all’architetto una pianta del tempio, per mostrargli come una grande opera potesse essere realizzata senza il suo aiuto, pur chiedendone il parere. Apollodoro, preoccupato del rapporto dell’edificio con lo spazio circostante e della sua funzionalità, suggerì di elevarlo di un piano rialzato affinché dominasse la Sacra Via, in modo da occultare le macchine teatrali vicino al Colosseo nell’ambiente circostante. Adriano si arrabbiò moltissimo per l’errore irreparabile, e mandò a morte Apollodoro. Questo ci dice qualcosa sulle sue capacità grafiche e progettuali. Un finto modesto: Adriano fece costruire innumerevoli opere, con un’organizzazione maniacale di tutti i mestieri legati all’edilizia, senza mai far iscrivere il proprio nome: restaurò il Pantheon danneggiato. All’interno un sacco di marmi preziosi e colorati porfido dall’egitto, giallo dalla Numidia, serpentino dal Peloponneso, e marmo bianco per le cornici. Ad Apollodoro è attribuita la concezione della cella circolare dal diametro pari all’altezza della cupola perfettamente emisferica, nella calotta interna. Le colonne monolitiche vennero fatte in granito. Adriano ripristinò poi la Basilica di Nettuno, molti templi del Foro di 24 da un recinto e da una balaustra: monumenti privi di una complessa decorazione figurata ma indicanti quasi di sicuro il punto in cui furono cremati i membri della famiglia imperiale ed eretti dopo la combustione delle loro spoglie Le pire innalzate per il rituale dell’apoteosi erano spettacolari apparati effimeri da ardere dentro e fuori, adorni di drappi intessuti di fili d’oro. Sempre in Campo Marzio, una colonna monolitica in granito egiziana dedicata ad Antonino Pio dai figli adottivi Marco Aurelio e Lucio Vero si ergeva su una base di rilievi. Le guerre si avvicinano: nel 144 d.C. si poteva dire che i Romani ascoltavano il racconto delle guerre come se si trattasse di un mito. Antonino Pio, amante della pace, aveva sì condotto diverse campagne militari, ma tramite i suoi legati. L’eco delle guerre stava per farsi sentire in Italia. I Marcomanni nel 169-170 d.C. riuscirono ad oltrepassare il confine dell’Italia assediando Aquileia; evento tanto traumatico che Marco Aurelio dovette chiamare degli indovini per compiere riti sacri e purificare Roma. La riscossa romana non si fece attendere, con un contrattacco in territorio nemico tra il 171 e il 175 d.C; la guerra riprese poi nel 178-179 d.C. fino al 180 d.C. anno della morte dell’imperatore-filosofo. Colonna Aureliana: le imprese belliche furono celebrate sulla colonna in Campo Marzio, eretta in un più vasto spazio rispetto a quella traiana, ma non perciò meglio leggibile e su una piattaforma dominante di 3 m verso l’odierna via del Corso: di conseguenza la sua parte più importante è a est anche per la presenza di scene molto significative sull’asse verticale in questo lato. La nuova colonna è definita centenaria (100 piedi = 29.62 metri); 100 è un numero perfetto e ricorrente nelle lunghezze e nei diametri di vari edifici, imperiali e sepolcrali. Stavolta nessuna camera sepolcrale nel basamento, ma il nesso funerario era suggerito dalla prossimità degli ustrina. Il fregio a spirale è diviso in due metà dalla figura di Vittoria tra trofei al centro del lato est per separare le due spedizioni germaniche. Non è da escludere che la lavorazione della colonna fosse iniziata nel 176 d.C. per concludersi con la morte di Marco Aurelio, nel 180 d.C. L’ideatore del progetto concepì un’opera che, come la colonna Traiana, combinava scene topiche con altre dai più precisi riferimenti a episodi storici, a stento riconoscibili anche per il pessimo stato delle testimonianze scritte sul periodo. Tra i pochi identificati, è presente il miracolo della pioggia, forse del 172 d.C. che salvò i Romani circondati dai Quadi decisi a catturarli approfittando del caldo e della sete; a intervenire fu Hermes, dio dell’aria. Con lo stesso marmo (lunense) e l’identico numero di roc chi (17) del fusto, pur in un’area ad un livello più basso, si cercò di superare il prototipo tramite una statua di coronamento più grande e con un basamento in origine di altezza quasi doppia. Venti sono le spire; le composizioni sono meno fitte, le scene di combattimento sono non di massa, ma ridotte a duelli, rare le note paesaggistiche e architettoniche, diminuite le scene, 116. Più profondo il rilievo, 10 cm contro i 4 e minore l’attenzione per la differenziazione dei dettagli. Per l’imperatore, presente 58 volte, si è dedotta un’enfasi visiva sulla sua divina maestà e prefigurazione di soluzioni tardoantiche. La scelta poté mirare a renderne più chiara e simbolica la presentazione, ma senza interpellare il piano divino. A fronte della minore regolarità delle scene cerimoniali e l’assenza 25 dell’esaltazione dei fondamenti tecnici della vittoria (costruzione ponti, disboscamento) si moltiplicano i quadri di guerriglia, sterminio, esecuzioni, devastazioni di villaggi e maltrattamenti di donne con i loro piccoli. Furono guerre violente contro nemici selvaggi da punire brutalmente per aver messo a nudo la vulnerabilità dell’Imero raffigurati per lo più morenti, sconfitti o in disperata fuga, i segni del dolore e del terrore quasi ne deformano i visi. Mutamento stilistico tardoantoniniano: all’intensificazione degli effetti patetici corrisponde uno stile più nervoso, sommario ed espressivo: un pittoricismo chiaroscurale con profonde linee scavate dal trapano che investe ogni dettagli. Questo stile, infrangendo le forme organiche dell’esperienza classica, è stato qualificato come “espressionismo barocco”, un cambiamento di stile. Se ne sono cerate spiegazioni varie: l’emergere a livello ufficiale di tendenze rappresentative romane di nuovo tono popolare, l’effetto di un cambio di mentalità o un nuovo clima psicologico anche alla luce delle tragedie del tempo; il coinvolgimento di più scalpelli in una più corrente produzione. Plurimi fattori possono aver concorso in azione reciproca: la formazione delle maestranze, i tempi e i costi di rappresentazione, la minore compostezza richiesta da immagini storiche di taglio non monumentale e di contenuto più patetico. Analoghi stilemi si ripetono sui sarcofagi dell’epoca con temi parimenti drammatici. L’imperatore erculeo: lo stesso vale per chiome e barbe sui ritratti di imperatori e di privati un po’ in tutto l’Impero, specie a partire da Marco Aurelio. Celebre è un busto di Commodo dove i ricci finemente cesellati contrastano con la levigatezza della porcellana del viso. Dalla fine del 191 d.C. tra le varie manifestazioni di quel commodismo volto a costruire un principato sempre più autocratico supportato dal favore divino, l’imperatore si fece chiamare Ercole figlio di Giove: depose il costume degli imperatori per portare una pelle di leone e trasformarsi, con una clava, in Hercules Romanus. L’assimilazione estrema fu innescata dal fatto che egli aveva ucciso bestie selvagge nell’anfiteatro Lavinium, il luogo dove era nato e sede di un antico culto di Ercole, semidio che costituiva un paradigma per i regnanti sin da Alessandro Magno. La svolta consistette però nel proclamarsi ufficialmente quale nuova superlativa incarnazione di Ercole, un eccesso ai limiti del tollerabile nell’Urbe, almeno agli occhi dei Senatori. Anche nel busto ai Musei Capitolini, poggiato su una pelta, scudo delle Amazzoni, decorata con gorgoneion e con le estremità conformate a testa d’aquila, Commodo ha pelle di leone, clava e pomi delle Esperidi. Tempi bui: le lunghe guerre avevano dissanguano l’erario pubblico. Marco Aurelio nel foro Traiano organizzò per due mesi un’asta pubblica degli oggetti di valore appartenenti alla famiglia imperiale. Inoltre, a parte diverse carestie, un’epidemia di peste si propagò dal 165 d.C. al seguito degli eserciti che avevano combattuto contro i Parti in Oriente, sotto Lucio Vero, per durare fino al 175-180 d.C., riprendere nel 187-188 d.C. L’impatto del morbo poté avere gravi conseguenze sull’evoluzione economica e sociale dell’Impero; la pestilenza fu così grande che i cadaveri furono trasportati in veicoli e carri. Allora si sancirono leggi molto rigorose sui sepolcri e sulle sepolture, nelle quali si proibiva di costruire dove si volesse. E la peste consunse molte migliaia di uomini. Il secolo si chiuse poi con un grande incendio, che nel 192 d.C. devastò l’area tra il foro Romano e Palatino: andarono a fuoco il templum Pacis e il tempio di Vesta. 26 Capitolo 8: Il secolo III d.C. e la crisi dell’Impero INTRODUZIONE Quale crisi? Dopo la morte di Marco la storia passò da un Impero d’oro a uno di ferro arrugginito. La storiografia antica e moderna ha finito con il considerare il III secolo d.C. l’età della crisi e della decadenza, dell’angoscia; alternativa più neutra è quella di età di transizione. Indubbiamente, plurime cause misero in crisi un sistema che aveva saputo resistere a lungo; crisi innanzitutto istituzionale ma anche politica (barbari al confine), religiosa (boom del cristianesimo) e demografica (pestilenza e carestie per mutazioni climatiche). In breve, il III secolo d.C. è ritenuto responsabile dello sgretolarsi del più imponente impero della storia occidentale. Ma quanto c’è di vero in questa visione? Più recenti revisioni critiche hanno consentito di calibrare meglio i vari fattori, mettendo anche l’accento su alcuni aspetti di continuità e di innovazione. Il dibattito, aperto ancora oggi, divide gli assertori di una fase di rottura e declino dopo i Severi e i sostenitori di una tesi continuistica, di transazione, caratterizzata da processi di trasformazione che preludono a varie caratteristiche del Tardoantico. Di certo il III secolo a.C. fu un secolo non uniforme, con molti tempi, e dalle molte varianti regionali. Fu un secolo in cui iniziarono a cadere le frontiere dell’impero, di pesanti sconfitte e importanti vittorie. Fu il secolo della perdita della centralità di Roma e delle molte sedi imperiali. Fu infine un secolo aperto e chiuso da molteplici punti di vista: la riforma di Caracalla del 212 d.C. concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini nati liberi dell’Impero e ne equiparava i diritti legali: fu nella realtà dei fatti la nascita dell’Impero universale, con l’introduzione del principio di uguaglianza tra gli uomini mettendo fine ad una struttura di dominio basata su stati e nazioni vinte. Nel 285 d.C. sarà la volta delle riforme amministrative, governative e fiscali di Diocleziano, con la suddivisione dell’Impero in 4 parti che, rette da Augusti e Cesari (tetrarchia), ne costituirono l’ossatura. Il III secolo è perciò impossibile da ricondurre a unità. Conviene perciò suddividerlo in tre periodi: ➢ 192-235 d.C.: i tempi della dinastia fondata da Settimio Severo, si presentano per molti aspetti in forte continuità con il secolo precedente, l’Impero degli Antonini. ➢ 235-284 d.C.: Interruzione “anarchia militare”  capovolgimenti di fronte portarono alla guida dell’Impero una serie di imperatori-soldati, militari dalla provata esperienza, elevati al soglio imperiale per volere delle loro legioni. ➢ 285-305 d.C.: tetrarchia. Dal chiaroscuro plastico alla geometrizzazione: Bianchi Bandinelli ci dice che in questo secolo abbiamo un mutamento formale che si presenta con perdita di plasticità, disfacimento della struttura anatomica e della coesione organica delle forme, passaggio a volumi geometrici e a superfici levigate ed astratte, forme segnate da pesanti linee di contorno e chiaroscuri fortemente contrastati: novità che colpiscono la produzione plastica e le superfici pittoriche. Il processo giunse a compimento alla fine del secolo. Le officine del periodo non sono affatto meno capaci di quelle adrianee o antoniniane, ma ne rigettano o rielaborano le forme classiche per sperimentarne altre. Nel 1901 Riegl formula l’idea di volontà artistica, sottolineando il passaggio da una concezione tattile a una ottica. La risposta la abbiamo da Bianchi Bandinelli che nel 1970 afferma che furono i vari fattori di crisi della società del III secolo d.C. a portare all’abbandono delle forme classiche a favore di nuovi linguaggi ad anticipazione dell’arte bizantina. Il fenomeno non si coglie ovunque con la stessa intensità e non fu uniforme: molto dipese dalle tradizioni locali e dal livello degli artigiani. 29 rapporti tra l’imperatore e il senato cui spettava deliberare la cerimonia: nel 202 d.C. il suo ritorno fu festeggiato a Roma in un clima non meno trionfale, cui si addice la costruzione dell’arco. Altre costruzioni: fu festeggiata con gran fasto la ricorrenza di Ludi Saeculares, sul modello di quella augustea del 17 a.C. una festa fondata sull’ideologia del tempo ciclico e del rinnovamento periodico a garanzia dell’aeternitas di Roma: un’occasione per avviare un’intensa attività edilizia. In occasione dei ludi secolari avviò un’intensa attività edilizia: sul Palatino fu ampliata l’area palaziale che dava sul Circo Massimo, fu costruita una quinta scenografica con giochi d’acque e fontane e fu costruito il Sessorium. Banchieri e commercianti di bovini votarono poi la costruzione di un monumento al nume Settimio Severo e famiglia, l’arco degli Argentari. Su ciascuna faccia dell’arco una serie di rilievi raffigurava: Settimio velato capite mentre svolgeva un sacrificio, la moglie, Geta (eraso) e Caracalla. L’inquadratura era fortemente frontale con gli occhi dei personaggi rivolti allo spettatore. Inquadrature frontali sull’arco degli Argentari: Tra il 203 e il 204 d.C. banchieri e commercianti di capi bovini votarono l’erezione di un monumento al numen di Settimio Severo e della sua famiglia. L’arco degli argentari è un piccolo fornice architravato. La vocazione commerciale dell’aria prescelta, l’arco Boario, nei pressi del vicus Tuscus, arteria di collegamento tra il foro e l’area portuale, assicuravano al monumento buona visibilità. Su ciascuna faccia interna dei piloni si trovano diversi rilievi. Sul pannello orientale più grandi sono raffigurati Settimio Severo a capo velato in atto di offrire una libagione all’altarino e Giulia Domna con la mano destra alzata in preghiera e con il caduceo nella sinistra; sul pannello occidentale Caracalla doveva essere accompagnato forse dalla moglie Plautilia e dal suocero Plauziano anch’essi cancellati. Non è eccelsa la fattura: si vede la sproporzione fra le membra delle figure tozze con teste, piedi e mani enormi, schiacciate contro il palmo di fondo del rilievo. Dal punto di vista compositivo, nei pannelli con i membri della famiglia si esaspera l’inquadratura rigidamente frontale; gli occhi sono distolti dall’azione che le mani compiono, fissi sullo spettatore che entra in campo divenendo figura di dialogo. L’adozione della frontalità finisce con il trasformare i personaggi in perfette incarnazioni della maestà imperiale, e i gesti compiuti divengono meri simboli. Sono invece differenti le figurazioni nei restanti riquadri: scene a carattere militare e soprattutto di sacrificio di un bue con personaggi disposti prevalentemente di profilo. Infine, i piccoli fregi con strumenti sacrificali ribadiscono la volontà di sottolineare la pietas dei sovrani verso gli dei. Gli eredi: barbe e capelli corti: La prematura morte di Settimio Severo portò alla guida dell’impero i figli Geta e Caracalla. Le raffigurazioni dei due sono volutamente indistinguibili, come a segnare la concordia (fittizia) fra fratelli. I loro volti inaugurano una nuova moda, seguita per tutto il secolo dagli imperatori soldati: barba e capelli molto corti, un enorme distacco dalla tradizione antoniniana. I capelli e la barba corta conferivano all’uomo un’aria austera. Una volta eliminato Geta, Caracalla operò un deciso cambio di immagine: il suo ritratto divenne più energico e simile ad Alessandro Magno. Gigantismo architettonico: Caracalla intraprese opere di restauro al Colosseo e fece costruire le Terme Antoniniane, il complesso più grande mai eretto a Roma, inaugurato nel 216 d.C. ma completato nel 235 d.C., che comportò la conduzione di un nuovo ramo appositamente distaccato 30 dall’acquedotto e di una nuova strada di accesso. Sul Quirinale fu eletto un nuovo tempio per Serapide. Un dio siriano sul Palatino: Dopo il breve impero di Macrino le potentissime donne della dinastia fecero acclamare imperatore dalle legioni stanziate in Siria, un giovane cugino di Caracalla, spacciato come suo figlio naturale, Elagabalo, il dio siriano venerato in forme aniconiche di cui era alto sacerdote. Appena entrato a Roma il principe fece dipingere una sua immagine, molto grande, che lo ritraeva mentre esercitava in pubblico le funzioni sacerdotali, esponendola in mezzo alla curia, così in alto da sovrastare la statua di Vittoria. L’ultimo dei Severi: Successore di Elagabalo fu Severo Alessandro che si distinse per opere di pubblica utilità: l’intento demagogico si nota con la volontà di restaurare edifici da spettacolo di notevole capienza, il Colosseo, teatro di Pompeo, e nel rifacimento del complesso templare Neroniano in Campo Marzio. Eccellenti officine: le officine continuavano a fabbricare opere di alto livello e anche la produzione di sarcofagi proseguiva con qualche novità. Non eroi, ma uomini sui sarcofagi: la produzione di sarcofagi presenta qualche novità: le decorazioni a miti greci dell’età antoniniana non sparirono del tutto, ma subirono una battuta d’arresto o divennero elemento di contorno; i temi consolatori o truci immagini di dolore e morte, cominciarono ad essere sostituiti da immagini dei defunti in persona, calati anche nelle storie mitiche oppure nei panni di magistrati, filosofi o intellettuali. Il vero protagonista diventa l’individuo. Sarcofago Mattei: il più antico esemplare con scena di caccia al leone; l’officina di elevato livello predilige figure monumentali di altezza pari allo sviluppo della cassa; simil cacce subentrarono a quelle mitiche. Il personaggio principale è a cavallo che con la lancia caccia la belva, accompagnato dalla Virtus, che ne sottolinea il coraggio fuori dall’ordinario. Le altre figure non partecipano veramente all’azione. Pittura in “stile lineare”: cambiamenti di altro genere interessano anche media figurativi come la pittura e le raffigurazioni parietali: pareti di case e tombe si svuotarono. Le caratteristiche del IV stile si prosciugano, rimane lo schema di base dell’edicola centrale e aperture minori ai lati e la tavolozza di colori si restringe a bianco, rosso, verde, celeste, azzurro, marrone, ocra. Il risultato è un complesso asciutto ed elegante, non privo di fantasia: le figure sembrano come galleggiare su uno sfondo uniforme decorando i riquadri centrali. GLI ANNI DELL’ANARCHIA MILITARE Gli imperatori-soldati: L’assassinio di Severo Alessandro sul fronte renano, insieme alla madre e alle truppe nel 235 d.C., portò all’anarchia militare, un cinquantennio in cui l’esercito elesse una moltitudine di imperatori: senza contare i Cesari 11. Fu proprio l’esercito insieme alla potentissima guardia pretoriana a deciderne di fatto l’ascesa al trono, e spesso anche l’eliminazione e la morte. In questo periodo l’esercito romano subì pesantissime sconfitte sia a nord che ad est, l’Impero iniziò a veder cadere una ad una le proprie frontiere e molti imperatori non riuscirono nemmeno a mettere piede a Roma. Molto difficili furono i rapporti con il senato, istituzione che l’ascesa al soglio imperiale dei generali stava svuotando di ogni potere. Con un’importante riforma di Gallieno il senato iniziò ad essere escluso dal comando militare. Naturalmente il potere centrale fu indebolito da una forza del genere nelle mani dell’esercito. 31 Visi angosciati? Per quanto riguarda la ritrattistica cominciarono a comparire busti di imperatori dai tratti irregolari, visi realistici, con chioma a penna, ossatura troppo accentuata, orbite affossate e un generale senso di incertezza ansiosa e instabilità. Es: ritratto di Massimino il Trace. Uomini di cultura: nel III secolo, specie dal 230-240, divengono popolari le stilizzazioni dei defunti come filosofi e/o uomini di cultura sulle casse dei sarcofagi, intenti alla lettura e all’insegnamento, accompagnati da spose, filosofi stessi e addirittura dalle Muse. Tale repertorio non era esclusivo di intellettuali o professionisti della cultura, anzi. Sarcofago di Acilla: un grandioso esemplare a tinozza (forma tipica dei sarcofagi bacchici) è quello di Acilia, tra Roma e Ostia, scolpito nel marmo e decorato con nove figure togate maschili barbate e non, e da sei figure femminili che affiancano gli sposi, di cui si riconosce la figura maschile, mentre quella femminile non è particolarmente visibile. Le figure si stagliano ad altissimo rilievo su tutta l’altezza della tinozza, quasi a dimensioni naturali. L’unico ritratto ben conservato è quello di un giovane in cui sarebbe stato identificato Giordano III, spingerebbe a riconoscere nel padre Giulio Balbo, e nella sua sposa i primi committenti della vasca: al momento della sepoltura con Giordano III uno dei volti sarebbe stato lavorato con le sue fattezze. Sarcofago detto di Balbino: Un linguaggio classicistico, dovuto anche alla monumentalità delle figure, caratterizza il Sarcofago di Balbino, l’imperatore, un sarcofago kline, dove i due sposi sono raffigurati sia sul coperchio che sulla fronte. L’uomo offre un sacrificio su un altare portatile incoronato dalla Vittoria e affiancato da Marte, è raffigurato in compagnia della moglie con la spallina della tunica che scivola dalla spalla sinistra, motivo che ne esalta la bellezza femminile. Lo schema iconografico di base, tradizionale, è innovato dalla raffigurazione della lorica squamata con sopra il paludamentum, poco adatta alla gestualità sacra, a visualizzare virtus e pietas in un’immagine astratta che comprime in una sola vignetta tanti va lori cardinali. Sul lato destro ritornano i due sposi in un quadretto di nozze con la donna avvolta in un mantello e l’uomo togato mentre si stringe le mani: un’espressione di concordia, rappresentata anch’essa come personificazione in atto di abbracciarli. Sarcofago dell’annona: spicca il sarcofago dell’annona o della via Latina, unicum realizzato in un’officina urbana su committenza di rango equestre, identificabile con il praefectus annonae, del 270-280 a.C, con la consorte, della dextrarum iunctio, ed è un esempio di rappresentazione di cariche ricoperte in vita dal defunto. L’uomo è unito alla consorte e affiancato da quattro personificazioni poco riconoscibili. 34 Un nuovo arco, vecchi rilievi: per la decorazione dell’arcus nous, furono riadoperati i frammenti di monumenti claudi, con minimi adattamenti miranti soprattutto alla trasformazione dei ritratti dei tetrarchi per mezzo della rilavorazione di barba e capelli e l’aggiunta di un’iscrizione. L’ultima grande persecuzione: il 24 febbraio del 303 d.C. Diocleziano emanò un editto da Nicomedia che scatenò l’ultima grande persecuzione contro i cristiani, considerati privi di onore e dignità e quindi sottoponibili a tortura e a qualsiasi altro tipo di azione legale. Era un atto volto a rafforzare i culti tradizionali e a sradicare il cristianesimo dall’apparato statale. La persecuzione ebbe violenza differente nelle province orientali e in quelle occidentali, meno cristianizzate, dell’Impero. Come sede di ritiro dopo l’abdicazione, Diocleziano scelse Spalato in Dalmazia: fu qui eretto un palazzo dalle enormi dimensioni costruito a imitazione di un castrum. Il complesso presenta una netta distinzione tra quartieri residenziali, affacciati sul mare, aree di servizio, e zona intermedia. Ma l’esperimento della prima tetrarchia che per un ventennio aveva cerecato di disegnare un mondo indisturbato non era destinato a durare. La morte di Cloro nel 306 d.C. aprì il problema della successione, che Costantino e Massenzio, figli di Cloro e Erculio, vollero reimpostare su base dinastica. Dopo 20 anni di guerre civili, solo nel 324 con la definitiva vittoria di Costantino a Licino e la proclamazione come unico imperatore si avviò un’altra epoca. Capitolo 9: L'età di Costantino (e dei suoi successori): monumenti pubblici e privati. L'arco di Costantino: costruito nel 315 d.C e dedicato a Roma dal senato e dal popolo romano nei pressi del Colosseo, in asse con il Colosso neroniano, l'arco di Costantino è uno dei monumenti chiave di Roma e della romanità. Costruito in occasione dei decennali dell'imperatore e in memoria della vittoria conseguita su Massenzio nel 312 d.C., esso presenta 3 fornici di cui il centrale più ampio, e con colonne libere sulla fronte. L'iscrizione su di esso è riferita a Massenzio che non viene nominato, ma è indicato semplicemente come il “tiranno” e chiama in causa una generica suprema divinità o la forza divina immanente di Costantino. Il monumento voluto da un senato allora ancora per lo più “pagano” ne enfatizza il legame con Sole, raffigurato su un lato breve; del resto, già nel 310 d.C. in un santuario gallo-romano Costantino ebbe una visione: accompagnato dalla Vittoria, Apollo, assimilato a Sol invictus, gli offrì corone d'alloro come presagio di trent'anni di regno – ma presto subentrò il vero dio a guidarlo. L'arco ricorse sistematicamente al riutilizzo di materiali di spoglio da monumenti di imperatori precedenti di fama unanimamente riconosciuta: i “buoni” imperatori del secolo II d.C., Traiano, Adriano e Marco Aurelio. Oltre che su parte della decorazione architettonica, il reimpiego è testimoniato dalle otto statue traianee di Daci sulla sommità delle colonne; dai quattro rilievi pertinenti al “grande fregio” traianeo sistemati sui lati corti dell'attico e all'interno del passaggio del fornice centrale; dagli otto tondi adrianei con scene di caccia posti a due a due al di sopra dei fornici minori; dagli otto rilievi aureliani visibili a due a due sull'attico ai lati dell'iscrizione, le teste degli imperatori del fregio traianeo e dei tondi furono rilavorate nelle sembianze di Costantino e del padre Costanzo Cloro o Licinio. A un'officina costantiniana sono invece da ascrivere i tondi sui lati est e ovest con il Sole e la Luna sul carro; i bassorilievi dei plinti delle colonne; le chiavi degli archi con divinità; le divinità fluviali sui fornici laterali nonché i putti stagionali e le Vittorie con trofei sul fornice centrale; i busti loricati di imperatori (tra cui quasi certamente lo stesso Costantino) e di divinità (tra cui di sicuro Sole) nei passaggi dei fornici minori. Infine, su questi ultimi e sui lati dell'arco, il lungo fregio a mezz'altezza offre eventi in sequenza: sul lato ovest dell'arco l'imperatore parte da Milano; sulla facciata rivolta all'esterno (la pars militaris dell'arco) assedia Verona e affronta vittorioso l'esercito di Massenzio a Ponte Milvio; a est fa il suo ingresso a Roma (adventus) seduto su una cathedra sopra un carro 35 privo di ogni caratteristica trionfale; sulla facciata volta all'interno (pars civilis) in clamide egli tiene il discorso al popolo dai rostra nel foro Romano e in toga cura la distribuzione del congiario (distribuzione di denaro al popolo), rinnovando il patto politico con l'aristocrazia senatoria. La composizione privilegia l'immediatezza espressiva e comunicativa, rendendo anche più agevole una lettura dal basso e sfruttando convenzioni formali spesso presenti nei fregi minori sui monumenti imperiali, qui con uso ancora più insistito del trapano: abbandono della concezione naturalistica a profitto di una simbolica e della prospettiva naturalistica a vantaggio di una ribaltata (come nei rilievi del discorso e del congiario); volti espressivi e sovradimensionati; tendenza alla rigida frontalità e assunzione di proporzioni gerarchiche delle figure a seconda dell'importanza. Viceversa, malgrado l'uso comunque massiccio del trapano, una generale impostazione più “classicistica”, d'obbligo visti i modelli iconografici alle spalle, si rileva nelle figurazioni allegoriche, nelle Vittorie sui plinti delle colonne e nelle divinità fluviali. Monumenti insigni si elevano in spazi carichi di riferimenti a pratiche religiose, a tradizioni, a procedure amministrative e giuridiche; ciò vale particolarmente per gli archi onorari e/o trionfali e il loro apparato figurativo; perciò, nel caso specifico occorre valutare gli eventuali significati di reimpiego dei marmi per committenti e destinatari. Lo spoglio di edifici più antichi a fini pratici, una prassi regolata amministrativamente e comunque non nuova, dalla seconda metà III d.C. e sempre più nel Tardoantico fu sistematicamente diffuso un po' ovunque nell'architettura urbana, anche cristiana, non solo quale frutto di una volontà di risparmio sui costi quanto poi forse anche per una mutata estetica (nel secolo V d.C. quasi nessun materiale edile fu prodotto ex novo); tuttavia, talora la selezione degli spolia da magazzini o da edifici defunzionalizzati e in rovina potè essere una scelta mirata e ricca di implicazioni per il nuovo edificio. Per l'arco non si può escludere che , almeno al momento della costruzione, i senatori ben conoscessero la provenienza dei rilievi, in grado di fare coltivare almeno l'augurio di un imperatore in linea con i “buoni” predecessori; del resto, sul fregio costantiniano l'imperatore compare in atto di parlare al popolo, inquadrato dalle due statue proprio di Adriano e Marco Aurelio, mentre le cinque colonne con le sculture dei geni dei tetrarchi e di Giove fanno da sfondo. Perciò pare meno convincente la lettura degli spolia quali ornamenti sull'arco di Costantino avanzata da qualche studioso come “reimpiego senza ideologia”. 36 PROVENIENZA DEI MATERIALI L'arco si trovava al centro di Roma, lungo la via percorsa dai cortei trionfali: l'iscrizione di dedica nominava sì Costantino “insigne per trionfi”, ma non si trattò di un vero e proprio trionfo. Infatti si trattò di una vittoria riportata in una guerra civile; perciò in modo non fortuito, l'apparato figurativo non era di tipo trionfale, neanche nei rilievi aureliani reimpiegati nell'attico, in cui la sequenza delle gesta di Marco Aurelio era distinta in più momenti cerimoniali. Questa serie condivide identità e dimensioni e coerenzacon altri tre rilievi oggi al Palazzo dei Conservatori, già murati nelle pareti della vecchia chiesa di S.Martina nel foro (secolo VII d.C.), con soggetti invece trionfali (clemenza di Marco Aurelio con sottomissione dei Germani; Marco Aurelio in atto di passare con il carro attraverso la porta Trionfale; Marco Aurelio in atto di celebrare sul Campidoglio il sacrificio conclusivo del trionfo. Al di là delle differenze stilistiche (la serie al Palazzo dei Conservatori è più “classicistica”) che hanno indotto alcuni studiosi a una separazione cronologica, per quanto lieve, tra i due gruppi di rilievi e alla loro attribuzione a distinti monumenti, non è da escludere che gli uni e gli altri appartenessero a un solo arco nel foro Romano, forse un tetraplio, presso l'atrium Minervae (edificio in un unità monumentale con la curia Iulia rivitalizzato in età tardoantica); di questo, denominato nelle fonti medievali arcus Panis Aurei (probabilmente a ricordo del collegamento con la tradizione delle largitiones imperiali in quel luogo e forse eretto per il trionfo di Marco Aurelio nel 176 d.C.), due piloni inseriti nella facciata della chiesa di S.Martina sarebbero stati distrutti tra 1594 e 1595. Proprio da tale arco, forse non completamente distrutto sino al secolo IX d.C., il senato, in accordo con Constantino, potè trarre gli otto rilievi poi rimontati su quello presso il Colosseo, lasciando ancora in opera i restanti con tematica trionfale. È probabile che il restauro dell'arco aureliano dopo il terribile incendio di Carino nel 283 d.C. abbia indotto a reimpiegare materiali di spoglio da un monumento traianeo, vale a dire alcuni frammenti del “grande fregio” di Traiano pure documentati nella stessa chiesa, mentre gran parte del medesimo fregio fu riutilizzata nell'arco più famoso; questi rilievi sono stati attribuiti in origine al lato meridionale del cortile della colonna di Traiano, ipotesi però discutibile in considerazione delle condizioni ottime di preservazione del suo foro ancora nel secolo IV d.C. SARCOFAGI CRISTIANI Le officine dei rilievi dell'arco sono con ogni probabilità le autrici dell'ingente produzione di sarcofagi urbani in età costantiniana. Si diffuse una tipologia di casse decorate a fregio continuo, come sul sarcofago di uno degli uomini più insigni (clarissimi), L.Marco Claudiano, che accanto a un'orante, mostra i miracoli di Cristo ed episodi dalla vita di Pietro, la cui unione figura la nascita della Chiesa e la funzione salvifica della fede: la resa delle figure allungate, rigide, prive di sensibilità plastica e i panneggi segnati da profondi solchi di trapano intrattengono affinità lampanti con il fregio costantiniano dell'arco. Lo svolgimento stilistico fu poi tutt'altro che lineare nel 39 che gli imperatori manipolassero queste raffigurazioni. Il contenuto celebrativo, ripetitivo e convenzionale di tali immagini ha reso scettici anche gli studiosi moderni che hanno ripetutamente negato il valore di cronaca di alcuni documenti, risultati troppo simbolici ed encomiastici di volta in volta introdotti nei monumenti di Stato fino al punto di diventare l’oggetto principale della rappresentazione. Tuttavia l'uso dell'aggettivo storico per questa categoria di immagini sembra giustificato dal fatto che gli uomini dell'epoca le consideravano tali; bisogna comunque essere consapevoli dei filtri iconografici e ideologici che venivano applicati agli eventi prima di analizzarli, e del fatto che ogni evento era sottoposto alla presenza di veri e propri generi diversi di rappresentazione, talora tanto vicini all’encomio. IL RAPPORTO CON I MODELLI GRECI La narrazione storica: A partire dalla fine del XIX secolo, alcuni studiosi moderni, come Wickhoff e Riegl, hanno individuato in questa narrazione storica una delle qualità più originali dell'arte romana rispetto a quella greca. I due studiosi sottovalutarono in parte le radici elleniche del fenomeno. Siccome le pitture alle quali le fonti documentarie si riferiscono sono in gran parte andate perse, e ci rimangono solo fonti iconografiche in altri media, come rilievi decoranti i monumenti di stato, spesso decoratisi, che riappaiono poi in monete, cammei, argenterie, produzioni fittili, sembra più opportuno parlare in generale di rappresentazioni storiche accomunate dalla rappresentazione di guerre, vittorie, istituzioni, cerimonie e riti. Si poteva seguire un modello greco, ma il messaggio era romano. Il repertorio dell’ellenistica: anche in oriente e nel mondo greco la presenza di soggetti storici nei luoghi pubblici era consistente. Oggi si fa una certa fatica a ricostruire il peso effettivo della narrazione storica nell’arte greca, in quanto spesso affrontata dalla pittura, andata perlopiù perduta. Tuttavia, la presenza di personaggi storici all’interno di luoghi pubblici doveva essere consistente. A partire dal V secolo a.C. furono commissionate dalle poleis per essere collocate in templi e monumenti pubblici importanti; ad esempio Atene aveva chiesto due grandi raffigurazioni delle battaglie di Maratona e di Enoe, numerosi erano i fregi raffiguranti la guerra tra Greci e Persiani. Le conquiste di Alessandro magno fecero nascere la tradizione iconografica a cui appartengono il famoso sarcofago di Alessandro da Sidone, modello pittorico della battaglia di Alessandro, riprodotto poi nella casa del fauno a Pompei. I sovrani ellenistici furono ritratti anche in processione, a banchetto, a caccia, insieme a trofei e figure allegoriche. L’arte greca aveva già elaborato un proprio repertorio iconografico, a cui mancarono la coerenza e l’universalità dell’età imperiale, di un solo sovrano e di un solo centro di elaborazione. Non si trattava soltanto di eventi storici ma anche di modelli ideologici, compositivi e iconografici che vennero adottati dai romani adeguandoli alle mutate condizioni politiche. Un rilievo romano in Grecia: Il pilastro di cui Lucio Emilio Paolo si appropriò a Delfi nel tempio di Apollo dopo la battaglia di Pidna (168 a.C.) può essere definito un monumento di raccordo tra l'arte greca romana. Destinato in origine a Perseo (re macedone) divenne simbolo dell'egemonia romana in Grecia: sosteneva infatti la statua equestre dorata del generale (L.E. Paolo nell’iscrizione) e sulla sommità era completato da un fregio raffigurante una battaglia tra romani 40 macedoni (Pidna). Il fregio è caratterizzato dall'estrema cura nel riprodurre le armi ed armature, tipica delle rappresentazioni storiche ellenistiche. Lo sfondo neutro invece insieme alla suddivisione delle scene in piccole mischie era influenzato dalla tradizione attica. Il fregio raccontava l’esito della battaglia, ma non ne raccontava lo svolgimento reale. L’empietà gallica: Al tempo di Pidna la tradizione ellenistica delle scene di battaglia era già nota anche in Italia grazie al tramite delle città italiote e siceliote. In particolare, nei secoli II e III a.C. la galatomachia era entrata nel repertorio delle urne e dei sarcofagi etrusci per alludere ai nemici gallici. Ciò si allaccia alle tradizioni delle immagini greche. Rappresentazioni storiche in ambito privato: questi fregi non erano solamente utilizzati nei monumenti pubblici ma anche in contesti domestici, ornavano anche gli atrii e i tablini di alcune ricche domus private, sempre ispirandosi alla tradizione ellenistica per la cura di costumi ed armi. L’inserimento in ambito domestico di immagini simili non deve stupire in considerazione della fluidità degli spazi evidente in epoca tardorepubblicana. TRIONFO E CERIMONIE DI STATO IN ETÀ REPUBBLICANA Pittura trionfale: All’influenza dei modelli greci nel mondo romano si aggiunse un elemento nuovo, che spiega il peso ideologico maggiore della rappresentazione storica nella cultura figurativa repubblicana: essa soddisfaceva l'esigenza della nobiltà di documentare le proprie imprese sulle quali si basava il conseguimento del trionfo e la memoria nel tempo delle res gestae in ogni possibile contesto: pubblico, domestico e funerario. Alla base della commemorazione storica si trova la pittura trionfale: quadri su tavole raffiguranti le vicende belliche ed esposti in pubblico durante e dopo i trionfi. Essi dovevano descrivere accuratamente i luoghi, le battaglie e le gesta, per dare evidenza concreta e integrare i resoconti scritti, a scopo informativo. Non abbiamo testimonianze concrete di pitture trionfali, sappiamo però che esse influenzarono i rilievi storici dei grandi monumenti. L'unico documento superstite È un frammento di una pittura ad affresco proveniente da una delle sette tombe scoperte nella necropoli dell'Esquilino che rappresenta gli episodi di una guerra sannitica, in cui lo scopo didascalico documentario sono decisamente esigenze romane, anche se la costruzione a narrazione continua deriva dalla tradizione ellenistica. Altre scene cerimoniali: Insieme alla pittura trionfale che raccontava delle campagne militari si affermò anche una tradizione che mostrava rango e doveri dei protagonisti. I monumenti funerari dovevano rappresentare l’intera carriera e i meriti pubblici del defunto; essi illustravano, oltre alle scene belliche, anche processioni funebri e pubbliche, cortei trionfali, sacrifici, immagini dei banchetti o dei ludi. Questi tipi di rappresentazioni, che servivano servivano a celebrare i ruoli civico e religioso del defunto, diventarono un filone autonomo, tanto che la rappresentazione di una cerimonia poteva anche diventare fulcro del programma decorativo dell’edificio, allo scopo di glorificare un personaggio (es. chi aveva costruito un certo tempio veniva raffigurato insieme alle divinità dello stesso). Un esempio è l’ara di Cn. Domizio Enobarbo, basamento delle statue di culto per un tempio nel campo Marzio. Il monumento di forma rettangolare è decorato su ogni lato da un rilievo inquadrato da pilastrini: tre lastre in marmo illustrano un tema itolofico, il corteo nuziale di Poseidone e Anfitrite, mentre la quarta rappresenta lo svolgimento di una 41 cerimonia e del sacrificio a Marte: il magistrato è al centro, presso l'altare di Marte, pronto a compiere il sacrificio per il sangue che sarebbe stato versato nelle future campagne militari. L'iconografia riproduce in maniera scrupolosa procedure e costumi e si ispira alla tradizione ellenistica per le proporzioni delle figure (Marte è molto alto, a sx di Enobarbo). Storia e cerimonia: il rilievo intendeva rendere immediatamente riconoscibile il rito, ma possiamo definirlo come una rappresentazione storica? In questo caso l’immagine è volta a celebrare il censore (probabile committente del monumento), non a mostrare il funzionamento della cerimonia pubblica, in odo da comunicare che l’edificio, o una parte di esso, era stato da lui realizzato mentre era in carica. L’immagine stereotipata non era quindi priva di un riferimento concreto, perché voleva raffigurare proprio il census e il lustrus celebrati dal committente, al culmine della sua carriera. Memorie gentilizie: Nel quasi generale naufragio della celebrazione storica repubblicana, risulta preziosa anche la testimonianza dell’attività dei triumviri monetali: infatti, nel caso dei triumviri essi nel primo secolo a.C. scesero spesso di celebrare le loro vicende sulle monete da loro coniate. Essi decidevano di celebrare loro stessi o la propria gens con scene di battaglia, di fondazione e di culto di modo da costruire un racconto continuo, per citare gli schemi figurativi più utilizzati. Immagini per l’èlite: i monumenti di Stato augustei sopravvissuti sono pochi ma in alcuni casi i loro contenuti si possono ricostruire a partire dalle scene storiche rappresentiate in altri media di differente circolazione all’interno della corte e in ambito privato: Due tazze d'argento ritrovate a Boscoreale riproducono iconografie del repertorio ufficiale: nella prima il trionfo di Tiberio mentre nella seconda il protagonista Augusto viene raffigurato in due situazioni. Una volta sul campo mentre accorda la grazia ai figli dei barbari, l'altra mentre Venere al cospetto di Marte E delle rappresentazioni delle province (personificate) gli porge una statua di vittoria. La prima scena si riferisce probabilmente ad un evento concreto, la seconda non intende riprodurre un evento ma solo rappresentare un’ideologia. Narrazione versus astrazione: proprio questa possibilità di una doppia lettura, in cui il riferimento ad uno specifico evento storico era ben noto a committenti e fruitori si traduceva in un’immagine adatta a comunicare un più ampio e astratto messaggio di vittoria, serve a ricordare che ogni rappresentazione storica romana è possibile riconoscere la coesistenza di due componenti: una narrativa, che alludeva ad eventi specifici, collocandoli spesso in un contesto ben riconoscibile, e l’altra allegorico/simbolica, mirante a descrivere una qualità o una funzione esemplare attribuita all’imperatore e perciò eternamente valide e svincolabili dal riferimento all’occasione specifica. La prima componente prevale nel filone delle storie belliche, mentre la seconda è più presente nelle rappresentazioni encomiastico-cerimoniali, anche se sono intrecciate tra di loro di norma. Nel passaggio dall’evento concreto alla sua rappresentazione, il necessario ricorso ad iconografie convenzionali, per consentire allo spettatore di orientarsi meglio in un monumento faceva sì che ne mettessero in evidenza gli aspetti più generali, inserendo nell’immagini un sistema di valori astratti indipendente dalla circostanza raffigurata. 44 intrecciati indissolubilmente. Importante inoltre era la leggibilità del fregio, che poteva essere messo in relazione pressione con il racconto continua della spirale o letto in asse verticalmente, ancora letto individualmente. Una questione di prospettiva: Un aspetto formale da sottolineare è costituito dalla profondità di campo delle scene, ottenuta con la prospettiva a volo di uccello, la rappresentazione simbolica dello spazio per la quale ciò che in un rilievo si trova più lontano dallo spettatore è spostato verso il margine superiore, non in secondo piano, dando l’impressione di essere visto dall’alto. Questa composizione permetteva di fornire molte più informazioni sullo svolgimento di ogni azione. Nella colonna questa tecnica compare tre volte, all'inizio di ciascuno degli anni di guerra: dista insieme in sequenza le tre scene mostrano l'avanzamento progressivo di una processione intorno gli accampamenti. Storia e panegirico: All’estensione del tempo e dello spazio rappresentati nella spirale della colonna si oppone la sinossi del “grande fregio” di Traiano, rilievo monumentale reimpiegato in parte nell’arco di Costantino. Dai frammenti possiamo ricostruire una sequenza centrare sulla carica di cavalieri guidata da Traiano dopo la dacia e poi il suo ingresso a Roma. Rispetto alla colonna, in cui Traiano era il bravo generale che guidava l’esercito, lo motiva e lo premia, qui viene paragonato per la sua virtus ad Alessandro Magno. Il carattere più encomiastico che storico di questa immagine si evince dalla costruzione stessa della scena in cui non solo non c’è alcuna resistenza dei barbari, già in fuga, ma un guerriero dace è supplice prima ancora che l’assalto si concluda. Rispetto al fregio la colonna è più informativa (anche se non priva di elementi simbolici), entrambi i monumenti convivevano e rappresentavano quindi due generi differenti, paragonabili l’uno ai commentarii (colonna, narrativa) e uno ai panegirici (fregio, decorativo). Entrambi però evocavano lo stesso accadimento storico, ovvero la conquista della Dacia. Il trofeo: Un terzo importante monumento era stato realizzato in Mesia e dedicato a Marte nel 109 d.C.. La guerra era rappresentata in una serie di 54 metope del fregio dorico dell’edificio. Le metope celebravano sempre la vittoria sui daci, in modo semplificato e influenzato dalla tradizione locale, ma ci sono alcune somiglianze e differenze rispetto alla colonna e al fregio (urbani), in particolare, il rapporto di Tradiano e i suoi ufficiali, la molteplicità dei ruoli e il nesso tra daci e l’ambiente boscoso si trovano in entrambi i monumenti, mentre l’annientamento del nemico nel trofeo è rappresentato in modo più crudo in Mesia, per effetto della volontà di commemorare in loco anche i legionari caduti al tempo di Domiziano e anche dalla scelta di ridurre ogni scena a un duello in cui il romano risulta subito vincitore 45 Benefici pubblici: dai plutei di Traiano all’arco di Benevento: I monumenti di stato dell’età di Traiano celebrano le sue vittorie, ma anche dei suoi meriti civici: egli era molto generoso verso i sudditi e si impegnò con un programma di aiuti sociali per Roma e per tutta l’Italia. Fu commemorato nei rilievi ufficiali tra i quali ricordiamo i “plutei”, due rilievi nell’area della Curia del foro romano che celebrano due azioni dell’imperatore, una distribuzione di cibo e una cancellazione dei debiti. Nei lati posteriori dei due rilievi sono decorati con tre grandi animali destinati al sacrificio. Il primo provvedimento è annunciato dai rostra antistanti il tempio del divo Giulio davanti all’imperatore. Entrambe le scene si svolgono avendo come sfondo diversi edifici i quali servivano sia a collocare nel foro gli eventi rappresentati, sia a mostrare che si trattava di decisioni prese in favore del popolo romano. Gli edifici sullo sfondo delle rappresentazioni indicano che sono provvedimenti presi per il popolo; ci sono anche l’albero del fico (che simboleggiava l’eternità di Roma) e la statua del sileno Marsia che era la statua presso la quale si risolvevano le liti e gli affari. Il più ampio programma assistenziale di Traiano è quello commemorato nell’arco di Benevento, fatto costruire nel 313 d.C. dopo l’inaugurazione della via Appia Traiana. In una serie di rilievi, ciascuno con una scena conclusa in sé e riferita al principe, questo grande monumento voleva illustrare la politica assistenziale dell’imperatore dall’inizio del suo regno, sfruttando abilmente la visione complessiva e il linguaggio allegorico. Sono raffigurate l’istitutio alimentaria (distribuiva cibo) e l’inaugurazione della via Appia Traiana (109 d.C.) mentre le imprese belliche avevano spazi ridotti. In questo caso, solo un piccolo fregio rappresentava il trionfo di Traiano sui Daci e alcuni pannelli ricordavano le campagne in Germania e Dacia. CONTINUITÀ E DIFFERENZE DA ADRIANO A MARCO AURELIO L’età traianea coincise con la piena maturità della rappresentazione storica romana: il repertorio iconografico si era arricchito nel corso del I secolo d.C. e anche le forme di narrazione e composizione delle scene offrivano un ampio ventaglio di possibilità. Il legame con il trionfo restava comunque centrale, come mostrato dalla diminuzione di rilievi urbani in età adrianea e antoniniana, quando mancò l’occasione di realizzare nuovi grandiosi monumenti di Stato. Nuovi temi: i I rilievi urbani si concentrarono su nuovi soggetti: i tondi adrianei raccontavano un tema inedito per l’arte ufficiale, come quello venatorio, pertinente al mondo dell’otium, ma adottato da Adriano quale esempio della sua virtus e del suo amore per la caccia. La cronaca di caccia multipla con protafonista l’imperaore e forse Antinoo si dispiegava in rililievi alternanti 46 scene venatorie a scene di sacrificio, collegate tra loro dalla rappresentazione della stessa preda, prima cacciata e poi offerta. Altro tema: apoteosi degli imperatori defunti. Vittoria e apoteosi a Efeso: Il “monumento partico” di Efeso, una sorta di risposta a distanza di secoli all’altare di zeus di Pergamo, prova che le singole città dell’Impero continuavano a dimostrare la propria lealtà alla famiglia imperiale, celebrandone le imprese mediante rappresentazioni storiche; è presentata una sequenza tematica con l’adozione di Lucio Vero e Marco Aurelio da parte di Antonino Pio in presenza di Adriano, scena di battaglia “eroica”, una serie di personificazioni e l’ apoteosi di un imperatore loricato pronto a salire in cielo su una quadriga insieme al Sole e a Selene sui rispettivi carri. La partecipazione dell’imperatore sul carro dimostra che il monumento monumento ebbe carattere celebrativo più che narrativo, simile alla concezione del “grande fregio” di Traiano. Il tema della vittoria militare accompagnava quello della celebrazione della dinastia degli Antonini. Narrare per escene esemplari: durante il secolo II d.C.: si sviluppa una forma di racconto suddivisa in una serie di rilievi, ciascuno dedicato a un momento esemplare della narrazione e most5ra la prevalenza della componente allegorica più che narrativa. Nell’ Arco eretto per Marco Aurelio nei pressi della Curia Iulia troviamo dodici di questi rilievi: 8 raffiguravano la campagna militare in Germania nel 173. La narrazione continua è stata destrutturata e suddivisa in una serie di scene per il loro carattere esemplare e con iconografie standard: partenza da Roma, sacrificio, adlocutio dell’impratore alle truppe, cattura dei nemici, clemenza dell’imperatore pr i sottomessi, designazione di un nuovo re vassallo, ritorno a Roma e distribuzione dei novativi al popolo per festeggiare la vittoria. I rilievi, soffermandosi sulle cerimonie e sulle virtù personali di Marco (devozione, eloquenza, clemenza, liberalità), inscenavano una campagna militare ideale, con tappeprestabilite e in assenza di ogni riferimento a episodi bellici specifici, come se la ripetizione di determinate azioni fosse diventata più importante del singolo e risolutivo evento militare. La crudeltà della guerra: Il peso maggiore della componente allegorico-simbolica si coglie anche nella colonna Aureliana (180 d.C.). Qui le guerre danubiane combattute da Marco Aurelio sono narrate in forma continua, ma alcune scene esemplari e cerimoniali (sacrificio, marcia, sottomissione e adlocutio) sembrano inserite per illustrare ruolo e virtù dell’imperatore, con minore attenzione allo sviluppo lineare del racconto, privo dei nessi interni caratteristici della colonna Traiana. La novità potrebbe essere data dal fatto che non vi siano state grandi battaglie, ma che sia stata una guerra di imboscate e incursioni, ma altri elementi compositivi, come il maggior uso della frontalità o la scarsa cura per il paesaggio, suggeriscono un peso minore della componente narrativa. Unici elementi risolutivi riconoscibili: scene dei “miracoli”; la vittoria si traduce nell’annientamento brutale del nemico, donne e bambini compresi. 49 Capitolo 11 I CORPI DEI RITRATTI E I TIPI STATUTARI Le statue erano distanti dalle individuali caratteristiche dei corpi ma si attenevano a un ristretto ma flessibile vocabolario di vestiari, schemi iconografici e gesti, che assieme agli attributi contribuivano a visualizzare rango e ruoli degli effigiati. Esempi: Lucio Accio e Augusto, di bassa statura ma con statue imponenti. La toga, appropriata per le immagini negli spazi civili, diventò costume nazionale e segno dello stato di cittadino romano, indossata sopra la tunica, un indumento non marcato usato in modo esclusivo da schiavi e dal “popolino”. Il mantello fu simbolo di grecità e di paideìa in senso largo, accettata nel II secolo d.C. a Roma, ma gli imperatori nelle statue portavano sempre la toga. Gens togata: La toga, appropriata per le immagini negli spazi civili, in particolare i fori, assurse a costume nazionale e a segno dello stato di cittadino romano, indossata sopra la tunica, un indumento non marcato usato in modo esclusivo dagli schiavi e dal popolino: il mantello fu simbolo di grecità e paideia, accettata anche a Roma. Le toghe erano dotate di complementi cromatici per segnalare il livello sociale degli onorati: una magistratura era indicata dai clavi, strisce color porpora: i laticlavi per i senatori, gli angusticlavi per i cavalieri. In età imperiale la toga prevede quali componenti caratterizzanti balteus, umbo, sinus e lacinia. Se le statue togate in varie funzioni (trionfale, consolare, augurale) raggiunsero massima popolarità nel periodo giulioclaudio, dai secoli II-III d.C. conobbero modifiche nella parte superiore, con una fascia rigida che attraversa il petto orizzontalmente formando la “toga contabulata”, la quale non sostituì completamente la più tradizionale forma di età proto- e medioimperiale. Statue loricate: La lorica era una corta tunica e paludamentum affibbiato (mantello del generale). La statua loricata era consona alla rappresentazione di individui dotati di comando militare, imperatori e membri della famiglia imperiale e della più alta élite; la lorica, nei tipi a corazza anatomica e a corsetto cilindrico, dal I secolo d.C. potè trasformarmi in medium figurativo per ricevere sino all’epoca antoniniana una ricca decorazione a rilievo. Statue equestri: le statue equestri, mutuate dal mondo greco, erano un massimo onore e nell’Urbe soprattutto per gli imperatori. Esempi: statua equestre colossale di Domiziano in posizione dominante nel foro Romano con una delle zampe anteriori a calpestare i capelli della personificazione del fiume Reno; Traiano ne fece erigere un’altra al centro del suo foro su un basamento decorato con una catasta di armi, in cui vestiva tunica e paludamentum; la colossale statua di Marco Aurelio, con un gesto di pacificazione/clemenza, ha un ritratto dell’imperatore nel suo terzo tipo, in un rapporto di libera copia, ha un ritratto dell’imperatore del terzo tipo. La statua equestre era concessa nei municipi e nelle colonie a personaggi di rango equestre (il livello minimo) o senatorio. Statue nude: Plinio il Vecchio sottolinea l’uso romano e militare della corazza, contrariamente al mondo greco che non prevedeva alcuna copertura per il corpo, ma anche le statue nude, “achillee”, sul modello degli efebi nei ginnasi tenenti la lancia, furono apprezzate dai Romani. Le immagini maschili in nudità integrale o parziale, a differenza della toga, non possedevano un equivalente nella quotidianità pubblica dei cittadini romani. Le statue maschili nude miravano a enfatizzare il carisma fuori dall’ordinario degli effigiati nei santuari, negli spazi civili e nei contesti funerari. Le statue nude furono utilizzate dai gruppi di potere di Romani e Italici sin dal II secolo a.C. in Italia centrale così come in Oriente greco, e da imperatori e privati; solo i tipi in posa seduta e mantello 50 intorno alle gambe, nell’habitus di Giove, servirono per qualificare gli imperatori nel ruolo di dominatori del mondo al pari del dio supremo. Corpi eroici e divini: i corpi nudi o seminudi degli uomini potevano riprendere gli schemi dei tipi statuari greci di divinità o eroi giovanili con l’aggiunta di mantelli militari e armi; i più eccessivi amavano travestirsi da dei e nei casi più estremi persino diffondere immagini assimilate a dei o semidei. “Diomede Cuma-Monaco di Baviera”, V secolo a.C., raffigura l’eroe greco in atto di sottrarre il Palladio da Troia; molte statue di imperatori e privati, in particolare dall’età augustea, ne riprendono lo schema, eliminando Palladio a favore di una spada e combinandolo con un mantello affibbiato di norma sulla spalla sinistra. La ripresa di questo tipo di scultura potè essere favorita dal fatto che la formula dinamica della testa volta di lato si prestava assieme al corpo nudo a mettere in massimo rilievo il valore e il vigore degli effigiati. La ripresa dell’eroe omerico poté essere favorita dal fatto che la formula dinamica della testa energicamente volta di lato si prestava, insieme alla bellezza del corpo nudo, a mettere in massimo rilievo il valore e il vigore degli effigiati. L’associazione con attribui divini non presupponeva una divinizzazione o un’eroizzazione, ma aveva il vantaggio a livello visivo di potenziare al massimo l’elogio commemorativo delle qualità degli effigiati tramite paragoni mitologici. Statute femminili: le donne, senza possibilità di carriera nel cursus honorum e con ruoli limitati nella vita pubblica, non avevano costumi indicativi del rango, a parte la stola per le matrone romane, equivalente della toga ma meno diffusa (sparita verso la fine del I secolo d.C.). Le loro immagini esprimevano le qualità paradigmatiche di spose e madri quali fecunditas, castitas, pulchritudo, pietas, gravitas e modestia. Anch’esse potevano sfruttare i tipi statuari greci con chitone e mantello dell’età ellenistica, in origine raffiguranti divinità o già concepiti come statue ritratto; altrimenti, oltre a essere raffigurate nude a guisa di Venere, potevano rielaborare gli spunti attinti all’enorme repertorio iconografico e formale greco, creando a loro volta tipi. “Grande” e “Piccola Ercolanese” furono sentite come idonee per l’abbinamento con ritratti in più contesti e raggiunsero massima popolarità nel II secolo d.C.; il successo delle “Ercolanesi” fu dovuto al fatto che le due statue in principio rappresentavano mortali. IL RAPPORTO DELLE IMMAGINI CON GLI EFFIGIATI Le immagini meritavano rispetto, perché il legame con il referente era fortissimo, tanto da manifestarsi anche sotto forma di solidarietà. Tra tutti gli imperatori, Tiberio fu il primo a preoccuparsene maggiormente: portare l’effigie di Augusto su una moneta o un anello in luoghi impuri (latrina, postribolo) o criticare le sue parole o azioni, prevedeva una punizione straordinaria; era vietato sostituire la testa di Augusto con un’altra, pena la tortura; guai a percuotere uno schiavo e cambiare abito di fronte a una sua statua. Le statue erano nelle intenzioni destinate a durare per 51 l’eternità, ma entrate nel flusso delle cose potevano essere riusate, rilavorate, rimosse, rubate, danneggiate o abbattute e mutilate. Il colosso di Nerone: Emblematiche le traversie della statua bronzea alta 30 m senza base, che in origine nel vestibolo della domus Aurea pare avesse effigiato Nerone. Il colosso fu collocato sulla Sacra via; Adriano lo aveva fatto trasferire per fare spazio al tempio di Venere e Roma, tenendolo sollevato da terra in posizione eretta grazie a 24 elefanti; lo aveva consacrato al Sole, deciso ad affiancargli la Luna, ma il progetto non si concretizzò. Fu Commodo a togliere la testa e a sostituirla con la propria, nonché a dare alla statua, così trasformata in Ercole, una clava e un leone bronzeo ai piedi. Dopo la sua morte gli attributi furono tolti. Riciclare i ritratti e cancellare la memoria: in età imperiale divenne più intenso l’uso del riciclo e della rilavorazione di vecchi ritratti e basi, fenomeno controllato dalle autorità civiche e riguardante anche i materiali architettonici, cui nell’Urbe si ricorse in modo sistematico, specialmente verso la fine del III secolo d.C. Le ragioni del reimpiego risiedevano in considerazioni d’ordine economico, perché con un intervento minimo si poteva fare fronte all’ormai calante domanda di nuovi monumenti con quanto già disponibile. Diversa la procedura della damnatio memoriae degli imperatori caduti in disgrazia (tra gli altri, Caligola, Nerone, Domiziano e Elagabalo); l’azione violenta si limitò ai volti di sculture e figure a rilievo o sulle monete e all’eliminazione del nome da iscrizioni o papiri, capitato a Commodo (chiesa di S. Martina) e a Geta (arco di Settimio Severo al foro Romano, “arco degli Argentari” e arco della Leptis Magna). Domizia Longina, desiderosa di lasciare un ricordo della brutale violenza con venne ucciso suo marito Domiziano, ne raccolse i brandelli e li dispose in modo che combaciassero, ordinando agli scultori di riprodurre quello scempio in una statua bronzea. I volti dei “cattivi” imperatori talvolta sfuggivano alla distruzione; se messi da parte e immagazzinati, potevano essere trasformati, come capitò a Nerone: oltre 40 teste che lo raffiguravano furono rilavorate nei volti di Augusto o dei suoi successori (Vespasiano, Tito, Domiziano) con una riduzione del volume del marmo. Capitolo 15 GEMME E CAMMEI Con le conquiste romane in Oriente arrivarono a Roma intere “collezioni” di pietre preziose, intagliate in materiali rari provenienti dalla penisola arabica, dall’India e dall’Egitto. Il primo ad avere a Roma una collezione di gemme (chiamata “dattilioteca”) fu M. Emilio Scauro (edile nel 58 a.C. e pretore nel 56 a.C.); la celebre raccolta di Mitridate VI re del Ponto fu offerta a Pompeo (61 a. C.); fu Cesare a consacrare 6 dattilioteche nel suo foto e poi Marcello, figlio di Ottavia, a dedicarne una nel tempio di Apollo Palatino. L’introduzione della moda delle perle e delle pietre preziose restò legata al nome di Pompeo. Glittica: arte di intagliare le pietre in negativo, nelle gemme (dal greco glýpho= incidere) o a rilievo, nei cammei; Pompeo si avvalse delle maestranze specializzate giunte a Roma dall’Asia Minore e dall’Egitto al seguito dei conquistatori. Dall’età augustea le rotte marittime tra l’Egitto e l’India si fecero più intense così da garantire un più facile approvvigionamento di materie prime. Per Plinio il Vecchio il lusso aveva introdotto molte variazioni, applicando agli anelli gemme di raffinato fulgore, caricando le dita di pingui fortune. Le gemme venivano incise con varie immagini di modo che a costruire il pregio fu ora l’arte, ora il materiale. Il valore più alto era dato ai diamanti, alle perle dell’India e dell’Arabia, agli smeraldi, agli opali e alle sardoniche. 54 giorni, lasciando il campo alla pittura da parete, una produzione artigianale legata al contesto architettonico e affidata a esecutori anonimi, operanti in squadra con varie specializzazioni secondo una gerarchia: tector (preparazione) e pictores. Quadri dipinti su pareti: l’apprezzamento per le tabulae traspare dalla realizzazione a parte nella tecnica dell’affresco di quadri figurati applicati in un secondo momento nel campo della parete entro telai di legno: ma è evident4e anche entro la stessa pittura parietale, nell’uso, sin dalla metà del I secolo a.C. di dipingere piccoli quadri chiusi in sportelli o di più grande formato con elaborate cornici, come nella Villa della Farnesina. Una galleria immaginaria: l’alta valutazione delle tabulae trova conferma più tardi nella raccolta di due libri delle Imagines di Filostrato di Lemno, retore greco (visita ai quadri esposti in una villa a Napoli): sotto forma di un dialogo tra l’autore e alcuni giovani allievi, il testo offre la descrizione di 64 quadri di numerosi pittori, esposti nel portico di una villa a Napoli, di soggetto mitologico, nei quali le iconografie s’intrecciano con una materia retorico-letteraria in grado di sollecitare il potenziale immaginativo di un pubblico erudito. Descrizione di opere immaginarie o di pitture realmente esistite? Critica odierna: elaborazione a tavolino dei quadri. I dati archeologici: i quattro stili pompeiani: Le conoscenza sulla pittura parietale sono legate principalmente alla scoperta, con le grandi campagne di scavo del Settecento e Ottocento sotto le ceneri del Vesuvio, il quale ha garantito la conservazione di interi apparati decorativi di ambito pubblico e privato delle città di Ercolano e Pompei. Nel1882 abbiamo la pubblicazione del primo studio sistematico della pittura parietale di August Mau, che riconobbe “quattro stili” tra il II secolo a.C. e la data dell’eruzione (79 d.C.); la suddivisione di Mau, più volte screditata e riabilitata, è da considerare ancora valida nelle linee principali. PITTURA ITALICA: DALL’ETÀ REGIA ALL’ETÀ MEDIOREPUBBLICANA Pittura italica: Pitture ritenute “anteriori alla fondazione di Roma” esistevano ed erano apprezzate anche al tempo di Plinio il Vecchio che ricorda come Caligola, innamoratosi di un dipinto con Atalanta ed Elena nude, l’avrebbe volentieri distaccato e portato con sé se non fosse stato ostacolato dalla natura dell’intonaco. Le nostre conoscenze relative alla pittura italica antecedente alla “romanizzazione” si basano principalmente su testimonianze di ambito funerario di area etrusca, campana e apula, che denotano una stretta connessione con la tradizione figurativa greca . Nell’Urbe è recente il rinvenimento di un grande bacile dipinto presso le pendici nord-orientali del Palatino, del 480-460 a.C.; è visibile un volto maschile, forse un atleta. Altre informazioni sulla produzione di ambito urbano riguardano le tavole dipinte a soggetto storico-trionfale, che dalla fine del IV secolo a.C. fondano una tradizione persistente fino al III secolo d.C. Alla fine del III secolo d.C. iniziano a prevalere documenti pittorici da contesti pubblici e domestici. In molte tombe sugli elementi figurati s’impose un nuovo gusto per l’illusionismo architettonico. TRA LA TARDA ETÀ REPUBBLICANA E IL PRINCIPATO DI AUGUSTO: DALL’IMITAZIONE STRUTTURALE ALL’ILLUSIONISMO ARCHITETTONICO Seconda metà del II secolo a.C.: il “I STILE” strutturale e mediterraneo: il più antico schema decorativo individuato da Mau sulle pareti degli edifici campani e da lui stesso definito “I stile” riproponeva una moda diffusa: riprodurre i preziosi rivestimenti litici che ornavano templi ed edifici pubblici attraverso l’articolazione di modanature tridimensionali in stucco o schemi geometrici a 55 linee incise. La pittura aveva la funzione di ricoprire le superfici stuccate con motivi che imitavano l’aspetto di crustae marmoree e di svariati tipi di pietre, spesso creando assetti cromatici fantasiosi. Per caratteristiche compositive tale tipologia decorativa è stata variamente definita: “strutturale”, “a incrostazione”, “masonry style”. L’esistenza di decorazioni parietali simili già dalla fine del V secolo a.C. in Grecia e Asia Minore, Egitto e Russia, ne testimonia le origini greco-orientali, mentre l’acquisizione in Italia centrale rientra nel fenomeno dell’”ellenizzazione” (II secolo a.C.). La concentrazione di attestazioni (Pompei, Ercolano, Populonia…) può essere messa in relazione con l’accresciuto apporto di manodopera greca fortemente specializzata. L’incontro con gli ambienti locali determinò la formazione di caratteri peculiari, con differenze riscontrabili anche tra una località e l’altra della penisola. Sono principalmente proporzioni e rapporti dimensionali a cambiare: all’originario basso plinto sormontato da fregio, strutturale o figurato, il gusto italico preferisce uno zoccolo più alto che giunge fino ad un terzo della parete, dividendola in 3 registri orizzontali. Compaiono con maggiore frequenza elementi verticali (colonne, pilastri, lesene), che rompono l’assetto orizzontale tipico del gusto greco. Concezione complessiva diversa: uno spazio unitario nel mondo italico, un insieme di unità a sé stanti nel mondo greco. La gamma cromatica, che predilige colori saturi come giallo, nero, verde, rosso e viola, è maggiormente variata e distribuita in accostamenti spregiudicati e casuali in ogni parte della decorazione, a differenza della colorazione “a zone” del mondo greco-orientale. Motivi decorativi e figurativi: Non mancano motivi decorativi e figurati come cubi prospettivi, drappi o elementi vegetali (tralci, ghirlande). Sono presenti anche figure umane o antropomorfe in forma libera. Limite dell’uso: il limite cronologico d’uso dello “stile strutturale” si può collocare al’inizio del I secolo a.C. II secolo a.C.: il “II STILE” o lo stile architettonico: Ai decenni iniziali del I secolo a.C. risalgono le decorazioni del Capitolium di Brescia e della Casa dei Grifi sul Palatino, i più antichi esempi di “II stile” o “stile architettonico”. Pur replicando l’organizzazione tripartita e gli elementi diffusi negli schemi “strutturali”, attestano un importante cambiamento: mezzi esclusivamente pittorici subentrano ad aggetti e solcature in stucco nella suddivisione della parete. Le potenzialità offerte dalla nuova tecnica si accompagnano a novità negli schemi decorativi: (Casa dei Grifi) gli elementi verticali contribuiscono a creare un effetto trompe-l’æil, simulando l’esistenza di più piani spaziali. Crescenti bisogni di rappresentazione: La rapidità del mjutamento si spiega con una specifica esigenza delle committenze di alto livello, cui si lega anche la riorganizzazione spaziale della domus, caratterizzata da un dispiego di simboli politici e ostentazione del. La necessaria differenzazione degli ambienti servì per accogliere da un lato i pari del dominus (duttili mezzi pittorici) e dall’altro i subalterni (composizioni conservatrici). La dialettica tra sperimentazione e tradizione connota le scelte decorative tardorepubblicane e imperiali, con un costante adeguamento delle decorazioni alle funzioni degli spazi. Verso l’apertura della parete: se nei casi appena trattati l’illusione architettonica si limita alla sovrapposizione di tre piani spaziali, il più arretrato dei quali è costituito da una superficie di fondo 56 che chiude la visuale dell’osservatore, nel cubicolo 16 della Villa dei Misteri di Pompei, lo sguardo può spingersi ben oltre il confine dell’ambiente mediante l’apertura, per ora limitata alla zona superiore della parete, di vedute su uno spazio esterno. Gli elementi architettonici riprodotti, non privi di motivi ornamentali, sono solidi e illusionistici. Volume e tridimensionalità sono esaltati dall’utilizzo dell’ombreggiatura. La gamma cromatica si orienta ancora su giallo, viola, cinabro, con forti contrasti con la lucidatura “a specchio” delle superfici. Elaborate architetture e ampie vedute di città smaterializzano del tutto la parete in aperture e prospettive senza precedenti nella produzione pittorica greca e italica. La gamma cromatica si arricchisce, con più largo uso di colori come cinabro e blu. È da escludere che tali pitture riproducessero vedute effettivamente esistenti. L’aspetto illusionistico è ben delimitato entro la cornice della parete, introdotta da elementi che segnano la discontinuità con l’ambiente. Le prospettive architettoniche inoltre non adottano un unico punto di fuga, ma fanno riferimento a molteplici assi visivi. In simili contesti potevano inserirsi anche soggetti figurati. Le avventure di Ulisse e le megalografie: In simili composizioni potevano inserirsi, a partire dal decenni centrali del I secolo a.C. anche soggetti figuranti: un prezioso e caro esempio è la Domus dei Bucrani a Ostia. Su un piano ben differente si pongono i dipinti con scene dell’Odissea nella Domus di via Graziosa sull’Esquilino: grandi dipinti con scene dall’Odissea, scenario continuo dei vagabondaggi di Ulisse per luoghi fiabeschi. Le notazioni paesistiche, ripetitive ma mai uguali, tendono a sovrastare le figure dalle snelle proporzioni, tanto che il pannello in cui Ulisse naviga verso la casa di Circe presenta una pittura senza nessuna scena determinata, ma con uno stretto di mare e da una spieggia da cui risalgono le alture. Forti affinità della composizione si colgono con i paesaggi di fantasia del I secolo a.C., animati da vivaci figurine e detti “idillico-sacrali”. Vitruvio distingue la menzione delle peregrinazioni di Ulisse e delle pugne troiane da quella subito antecedente delle megalographiae, ossia pitture a grandi figure adornanti alcuni luoghi con immagini di divinità (simulacra deorum) e con le narrazioni in serie di racconti mitici (fabulae). La Villa dei Misteri e il dionisismo domestico: nel genere delle megalografie vengono fatte rientrare le pitture di ambientazione macedone nella Villa di “P. Fannio Sinistore” e la “sacra rappresentazione” mescolante la sfera umana e divina nella Villa dei Misteri, in una posizione accessibile solo a una cerchia ristretta; quest’ultima è caratterizzata da una presenza femminile molto forte; qui eccezionalmente le immagini si approssimano alla sfera rituale, le atmosfere legate a Bacco resteranno una costante all’interno delle dimore romane: sulla parete nord troviamo una lettura rituale, un sileno liricine, una donna atterrita in corsa e un’atmosfera pastorale; su quella di fondo un sileno porge una brocca ad un giovane satiro mentre un giovane Bacco ebbro tra le braccia di una figura femminile. Sono stati molti i tentativi di spiegare l’insieme delle raffigurazioni per lo più in chiave iniziatica, nel senso di solenni riti misterici bacchici a partecipazione femminile,; una presenza femminile tanto forte da aver fatto pensare che a scegliere la decorazione abbia concorso la proprietaria della dimora. Verso la chiusura della parete: L'illusionismo architettonico conosce una battuta d'arresto, poiché ad esempio il podio di sostegno delle colonne diventa ora una superficie da decorare, mentre la zona mediana della parete, con aperture limitate agli spazi laterali o superiori, si struttura attorno a grandi quadri centrali con paesaggi “idilliaco-sacrali” o temi mitologici, che assumono un ruolo preponderante nella composizione. Così facendo, inizia a prevalere una tendenza a chiudere di nuovo la superficie della parete accentuandone man a mano l'aspetto ornamentale. È il caso della 59 vedute prospettiche e arricchita da pannelli appesi a mo' di drappi o appiattirsi in sequenze lineari e paratattiche di campi con decorazione centrale, sia essa una figurina sospesa, una vignetta o un quadretto. Nella zona superiore, alle architetture, talvolta organizzate come prolungamento dalla parte mediana, si alternano motivi “a carta da parati” che richiamano decorazioni di soffitti e volte. Importanti sono inoltre le raffigurazioni “scenografiche” abbondantemente documentate nella domus Aurea, che rompono la tradizionale tripartizione della parete evocando delle vere e proprio scaenarum frontes gremiti di personaggi. Sulla composizione illusionistica prevale nuovamente, in età flavia, l'aspetto ornamentale della decorazione, con un conseguente appiattimento bidimensionale della parete. L'effetto pittorico prevale sul disegno: I forti contrasti tra i toni caldi di giallo, rosso, nero e oro sanciscono il predominio dell'effetto pittorico su quello disegnativo, soprattutto nei soggetti figurati. Sia nelle “nature morte” e nei paesaggi sia nei più complessi quadri a tema mitologico, rapidi colpi di pennello, concepiti per una visione da lontano, esaltano gli effetti luministici delineando forme e volumi in maniera “compendiaria”(o, ai giorni nostri “a macchia” o “impressionistici”). Questo modo di pittura era già stato sperimentato sin dai grandi pittori alla fine del secolo IV a.C. e, prontamente recepita in Italia centrale, si esasperò in epoca neroniana. Decorazioni di volte e soffitti: Articolate e variabili sono anche le decorazioni di volte e soffitti, dove “grottesche”, bordi di tappeto e motivi vegetali di andamento curvilineo (tralci,volute,ghirlande) disegnando schemi “centralizzati” a incastri concentrici attorno a un elemento mediano, talvolta enfatizzati da altri diagonali, come appunto nella sala di Achille e Sciro, strutturata mediante lacunari di stucco con vignette e personaggi attorno al quadro centrale. Ancora un discreto successo trovano le decorazioni “ a reticolo”, ben adattabili a qualunque superficie prospettiva e dimensione strutturale . “Schemi liberi” pitture “popolari”: Più eterogenee le pitture “popolari” con soggetti peculiari e con un linguaggio figurativo senza particolari finezze, ma di chiarezza espressiva, che si serve di formule come la proporzione gerarchica e la prospettiva ribaltata. Questa pitture, di esecuzione ora sommaria e affrettata ora più accurata, possono decorare ambienti interni o facciate esterne di domus, tabernae, lupanari e sepolcri, e illustrano momenti di vita quotidiana spaziando da temi religiosi (bacchetti, processioni e riti come quelli isiaci) ai ludi, passando per episodi di cronaca, mestieri e scene erotiche. INTERLUDIO: DOPO POMPEI Tra l'età flavia e antoniniana l'Italia centrale vede esaurirsi il suo predominio quale centro di produzione e di irradiazione culturale ed importa dalle province marmi colorati, che tendono a sostituire la pittura nei contesti di prestigio delle classi egemoni. Le innovazioni pittoriche si riscontrano non tanto nella decorazione delle pareti quanto in quella dei soffitti e delle volte. In alcuni casi la pittura parietale viene relegata negli ambienti secondari e di servizio, anche se continuia la prassi di adeguare la decorazione alla funzione dei vani. I consueti tre strati sovrapposti diventano due e si usano materiali più economici. Durante il medio e tardo periodo imperiale continua la forte richiesta di pittori, appartenenti agli artigiani meglio retribuiti e dunque con una situazione economica accettabile. Il secolo II d.C. la semplificazione del “IV stile” L'eruzione che seppellisce Pompei non significa la fine dell'ultimo degli “stili”pompeiani, il “IV stile” rimase in uso fino alla fine del secolo I d.C. o all'età adrianea. Gli elementi del “IV stile” continuano con un sistema che prevede una zona mediana sottolineata da colonne e dall'inserimento, sempre meno frequente, di “quadri” di grandi dimensioni al centro e nelle parti laterali: permane anche la tripartizione della parete in uno zoccolo inferiore, una fascia mediana principale ed una superiore. Durante il II secolo d.C. gradualmente scompaiono le megalografie, e si fa più evidente la semplificazione delle architetture. In questo periodo continuano ad apparire scorci architettonici 60 combinati con pannelli, ma scade l'impostazione illusionistica, e le stesse vedute non di rado sono collocate su fondi uniformi nella cui neutralità si esaurisce la suggestione prospettica. L'edilizia intensiva di Ostia: All'inizio del secolo II d.C. Ostia vede un'intensa attività edilizia e una profonda trasformazione dell'assetto urbano all'indomani dell'apertura del nuovo porto traianeo. Struttura e ideologia della casa di tradizione repubblicana subiscono importanti modifiche, infatti a Ostia si afferma un'edilizia intensiva con fabbricati a più piani. Questi fabbricati, chiamati “insulae” nascono per soddisfare le esigenze di una popolazione in continuo aumento, infatti sono progettati come un insieme di appartamenti da affittare, spesso con ingressi indipendenti gli uni dagli altri. Temi marini: Dall'area del porto fluviale di S.Paolo a Roma provengono affreschi databili alla metà del secolo II d.C., con una decorazione ispirata a temi marini. Su una parete correva un fregio con un paesaggio caratterizzato da una vivace e fitta fauna ittica e da due imbarcazioni, ospitanti a bordo personaggi nudi, separate tra loro da un erote o Portuno, cavalcante un delfino. Le barche assomigliano a battelli fluviali più che a barche marittime, ma non è l'unica incongruenza, infatti, l'affresco presenta anche una totale assenza di coerenti proporzioni tra i vari pesci e tra questi e le barche. La semplificazione dei motivi architettonici: Le case ostiensi citate precedentemente offrono un confronto per le testimonianze pittoriche di un quartiere abitativo sotto piazza dei Cinquecento a Roma. Si tratta di un complesso che comprende tanto edifici a carattere intensivo quanto una ricca domus e un impianto termale ed esemplifica le decorazioni in pittura e mosaico dall'età tardoadrianea alla fine del secolo II d.C. Nella domus si riscontra una decorazione parietale che testimonia una varietà di schemi decorativi: prospettive architettoniche e padiglioni animano le pareti a fondo bianco, con riquadrature di colore rosso delimitanti campi in cui si dispongono liberamente elementi figurati e ornamentali. La decorazione pittorica severiana delle sale termali è formata da: una rivestimento in lastre di marmo, megalografie che mettono in scena la vita all'interno delle terme con raffigurazioni di toeletta e cura del corpo di bagnanti in abiti succinti, assistiti da ancelle e inservienti entro prospettive architettoniche o in uno schema paratattico di pannelli a fondo bianco. Raffigurazioni paesistiche: L'età tardoantoniniana e severiana segna la ripresa delle scene di paesaggio inserite all'interno di edicole nelle fasi finale del “II stile”. Nel complesso urbano noto con il nome di “Villa Grande”, si denotano in serie: una fascia mediana in pannelli a fondo bianco separati da lasene gialle con tripodi, nei quali all'interno si alternano edicole con figure, vedute architettoniche e paesaggi. Tra questi ultimi spicca quello a soggetto marino della parete orientale dove: in primo piano si svolge un banchetto, a destra campeggia un monumento onorario sormontato da una biga con Vittoria alata, mentre, al centro del quadro, da una torre circolare dietro cui si staglia una colonna con statua si diparte un molo a pilastri in direzione del fondo, ove s'intravede la costa con edifici e portici immersa in un pulviscolo caliginoso. La scansione architettonica delle decorazioni, quindi, persiste, ma gli esiti si risolvono in uno scadimento di effetti prospettici e tridimensionali e nella perdita di rigore nell'impostazione dello schema parietale, con una ricerca piuttosto di accesi contrasti cromatici. La pittura in Italia e nelle province.: Questi processi non sono, ovviamente, un fenomeno prettamente urbano, ma trovano anzi conferma in numerosi contesti italici e provinciali.Citiamo, ad esempio, la ricchezza degli interni della domus dei Coiedii a Suasa, nell'entroterra di Senigallia, era data dalle decorazioni pavimentali e parietali appartenenti alla ristrutturazione degli inizi del secolo II d.C.: gli affreschi sono eseguiti ancora nella tradizione delle scenografie teatrali del “IV stile”, mentre altri sistemi di rivestimento attribuiti alla fine dello stesso secolo presentano pannelli monocromi separati da semplici elementi di inquadramento con quadri o figure al centro. Un altro esempio è un sito di frontiera di nome Dura Europos, in Siria, sulla riva destra dell'Eufrate, che ha restituito un cospicuo insieme di pitture parietali nel “tempio di Bel”, riferibili in gran parte al tardo 61 secolo II d.C. La più famosa raffigura una scena di sacrificio non cruento cui partecipa, su due registri, tutta la famiglia del personaggio con turbante indicato come Konon davanti a uno sfondo architettonico: risaltano la frontalità, la composizione paratattica, le proporzioni simboliche e gerarchiche delle figure, l'uso di una prospettiva ribaltata nonché la forma lineare prevalente su quella plastica. La pittura funeraria: La progressiva diffusione del rituale dell'inumazione nel corso del secolo II d.C. comporta una diversa organizzazione degli spazi sepolcrali, compresi quelli destinati ad essere dipinti. La pittura e i rilievi in stucco giocano un ruolo significativo nelle volte e nelle lunette, recuperando quell'abbinamento tra i due generi diffuso nelle case dell'ultimo periodo di vita di Pompei. La tomba dei “Pancrazi”: Un esempio straordinario di pittura funeraria è costituito dalla tomba dei “Pancrazi” al III miglio della via Latina, nel suburbio meridionale di Roma. Questo sito presenta: una grande volta a crociera della seconda ipogea e le lunette da essa generate sono decorate da affreschi su fondo bianco e da stucchi bianchi su fondo bianco o policromo. Al centro della volta è visibile un ovale con Giove e un'aquila, mentre i vari pannelli presentano figure isolate, vignette “nature morte” e paesaggi “idillico-sacrali”; ai quattro maggiori riquadri con scene mitologiche, veri e propri “tappeti” sospesi in aria, corrispondono altre figure mitiche nelle edicole centrali delle lunette, il tutto con particolare enfasi su temi di ispirazione troiana ed eroica. Il secolo III d.C. : “stile lineare” (e non solo): A Roma, il triclinio di una dimora dell'inizio del secolo III d.C., ospitante il collegio degli araldi e detta “domus Praeconum”, raffigura uno sfondo architettonico scenografico, davanti al quale si affollano personaggi a grandezza naturale, che l'abbigliamento connota come inservienti addetti al servizio dei banchetti, intenti a portare ghirlande, cassette, drappi: è una pittura che bada agli effetti d'insieme e non alla finezza dei dettagli, tanto che le figure appaiono sgraziate. In questo periodo si afferma prepotentemente lo “stile lineare” (rosso e verde), un sistema decorativo che si caratterizza come un'estrema semplificazione dei più complessi schemi tradizionali: le sue origini risalgono agli ambienti secondari delle casse pompeiane ed ercolanesi di “IV stile” caratterizzati da pannelli a fondo bianco senza ricerca di profondità, di rapida esecuzione e a basso costo. Durante le fasi più mature dell'età antoniniana e severiana tali sistemi diventano più comuni. Uno dei contesti più notevoli di “ stile lineare” è costituito dalla “Villa Piccola”, probabile sede di un'associazione funeraria, nella necropoli sotto la basilica di S.Sebastiano sulla via Appia, datata entro la prima metà del secolo III d.C. In questo sito si notano linee sottili su fondo bianco, di colore rosso quelle principali e verdi quelle secondarie che formano una rete uniforme che si adatta alle pareti e alla foggia architettonica della volta, definendo spazi piatti decorati da figure volanti, per lo più eroti, teste antropomorfe nel tipo della Medusa, animali di ogni sorta e vasi colmi di fiori e di frutta. Le pareti come la volta appaiono animate da elementi innvativi, come triangoli, angoli acuti, incroci a forma di “T” quasi sempre verdi. Lo “stile lineare”è protagonista anche nella decorazione dell'ipogeo degli Aurelii (vedi img10) e nelle catacombe cristiane, in particolare nelle volte in cui si organizza generalmente attorno a un medaglione centrale: tra le più note quelle nella cripta di Lucina nella catacomba di S.Callisto sulla via Appia e nel cubicolo del Buon Pastore nella catacomba di Domitilla sulla via Ardeatina. Le province: il successo “Wallpaper Pattern” Mentre a Roma e a Ostia predomina lo “stile lineare”, nelle province occidentali e orientali riscuote grande successo anche la decorazione a motivi ripetitivi, che evoca la carta dipinta o la tappezzeria (“Wallpaper Pattern”), 64 il loro eventuale significato in chiave funeraria nella recezione da parte degli antichi fruitori. Influenza ha avuto un dibattito tra due esperti di storia, Cumont e Nock. Il primo proponeva un’analisi incentrata sulla lettura allegorica dei motivi figurativi delle casse dei sarcofagi influenzata da correnti filosofiche e sulla credenza che ciascun soggetto contenesse un rimando simbolico alla vita ultraterrena. Ma nel 1964 Nock replicò dichiarandosi scettico sulla possibilità che il loro repertorio figuativo potesse rispondere così capillarmente a un tale sistema escatologico e sulle interpretazioni delle scene mitiche, preferendo pensare a contenuti di più semplice decodifica nella cornice di un classicismo culturale. Tendenze attuali degli studi: le generazioni seguenti hanno spostato l’attenzione prima sul versante iconografico e tipologico, poi sui vari messaggi veicolati dalle immagini e indirizzati ora ai morti in chiave beneaugurante ora ai congiunti ancora in vita, come la consolazione per la perdita e l’invito a godere dei piaceri finché si è in tempo. Grande attenzione è stata riservata ai contesti originari: il loro recupero costituisce l’unico mezzo per considerare le immagini delle casse in rapporto all’intero ambiente e alle eventuali relazioni visive con altri sarcofagi nello stesso luogo, per dedurne la cronologia. Quali temi? Scene mitiche e ritratti: naturalmente, a seconda dei periodi, si registrano novità e abbandoni nella selezione dei soggetti. Nelle prime casse del 130-140 d.C. predominano le ghirlande, al di sopra delle quali si possono succedere vignette con scene mitiche. In seguito prevalgono le scene mitologiche, suscettibili di una lettura antologica, atta a trasformare le vecchie storie mitiche in exempla mortalitis: così volendo esprimere la dedizione coniugale era perfetto il ricorso alla storia di Admeto e Alcesti.Su un sarcofago del 200 d.C. circa scene biografiche con un generale loricato in atto di compiere un sacrificio e con lo stesso che stringe la mano alla consorte in segno di concordia coniugale, si giustappongono al riquadro Adone morente in una battuta di caccia. Eppure, già in epoca antoniniana e particolarmente nella prima metà del III secolo d.C. divenne sempre più frequente la sostituzione del volto dell’eroe mitico con il ritratto dei defunti e dei congiunti: un chiaro espediente per innestare su di loro le virtù eroiche, stabilendo un legame ancora più diretto con miti per lo più centrati sulla morte e l’amore. Volti non finiti: un numero non alto di sarcofagi dalla fine del II secolo fino al IV d.C., talora anche su esemplari di elevata qualità, mostra i ritratti dei defunti non ultimati, in scene mitiche e non. Le superfici si presentano o del tutto piatte e lisciato o a uno stadio intermedio di lavorazione, con i volti ancora da rifinire nei dettagli. E’ verosimile che, malgrado la molteplicità dei fattori invocabili, nella maggior parte delle attestazioni tali esemplari attendessero immagazzinati la scelta e l’acquisto al dettaglio del committente. Il tramonto dei miti: dall’inizio del III secolo d.C., specie dal 220-230 d.C., si registrava un graduale abbandono dei soggetti itologici e delle loro qualità narrative. Anzitutto, spazio sempre maggiore fu lasciato alle Stagioni, che simboleggiano abbondanza, crescita e il ciclo periodico del tempo, nonché a scene bucoliche che prospettano al defunto un’esistenza idilliaca. Anche le 65 raffigurazioni degli individuui concorsero all’erosione del mito, perciò furono popolari i temi di vita humana. La decorazione mitologica si risvegliò in età tetrarchica, all’inizio dell’era costantiniana. Decorazioni a confronto: sarcofagi e altri media: la selezione dei soggetti per gli affreschi o per gli stucchi su parete e soffitti è solo in minima parte sovrapponibile al ventaglio di quelli per le casse dei sarcofagi, più personalizzati. In pittura prevalgono oggetti tipici del rituale funerario: rose, ghirlande, corone; soggetti allegorici: la Fortuna, i geni, le Grazie, le Stagioni; figure mitiche estrapolate da sequenze narrative (Menadi, satiri, amore e psiche): le pareti sembrano privilegiare singole figure anziché storie srotolate su fregi continui; sono poco attestati temi della vita humana e anche la coincidenza dei miti. Marmi e artefici stranieri in città: Il passaggio della proprietà delle principali cave al fisco imperiale determinò la nascita di un’organizzazione centralizzata per lo sfruttamento e il trasporto dei marmi e in parallelo l’inizio delle esportazioni di prodotti semilavorati, completati una volta a destinazione da maestranze itineranti al loro seguito. Le lavorazioni avvenivano così a tappe: la sbozzatura vicino alla cava, la rifinitura nei depositi, in Grecia o Asia Minore e i ritocchi nel luogo di collocazione finale. Sarcofagi attici: una delle manifatture più eleganti e costose fu quella attica. Già dal 130-140 d.C. e fino all’epoca gallienica sarcofagi monumetali furono scolpiti ad Atene in marmo pentelico ed esportati in tutto il bacino del Mediterraneo. Concepiti per essere decorati sui quattro lati con miti vari, tavolta fianchi e retro non furono mai completati: segno che, una volta a destinazione, i sarcofagi furono utilizzati senza fare ricorso al personale specializzato. L’esplosione delle importazioni portò in breve tempo, nella seconda metà del II secolo d.C., al fiorire di officine che, in diverse parti dell’Impero, produssero in loco esemplari di gusto attico; vere e proprie filiali, intente a imitazioni parziali o integrali di sarcofagi prodotti in madrepatria, sono state individuate a Roma, in Italia Settentrionale e in Campania. Così non stupisce trovare sulla medesima cassa componenti di derivazione attica (grifi), microasiatica (ghirlande) o di gusto urbano e italico (tabella epigrafica centrale). Un sontuoso sarcofago attico: intorno alla metà del III secolo d.C. un sarcofago attico fu decorato su quattro lati con scene della vita di Achille; le figure, dal linguaggio formale classicistico, per modellazione e superfici levigate, sono tanto fitte da fare quasi scomparire il fondo del rilievo: sul coperchio, gli sposi sono sdraiati su klìne; la cassa fu forse lavorata ad Atene. Di norma si ritiene che le teste-ritratto dei sarcofagi attici fossero lasciate sbozzate per ricevere l’ultimo tocco appena giunti a destinazione: siccome sull’esemplare in questione è palese il carattere attico del ritratto maschile, è stato ipotizzato che la testa sia stata rifinita da un artigiano di formazione ateniese. 66 Un unicum con tante immagini: attorno al 150 d.C., fu scolpito il sarcofago di Velletri sostanzialmente estreaneo alla tradizione delle ufficine urbane. Eccezionali sono sia l’impiego di tre blocchi unici di marmo differenti, sia la selezione di più miti offerti sulle quattro facce e lefati alla morte, all’aldilà e alle speranze di salvezza dei defunti, sia la stessa disposizione delle figure: i due registri, con partizione architettonica a imitazione delle scene teatrali, si affollano di personaggi (oltre 180 figure umane e divine, cariatidi e telamoni, esseri fantastici, busti, animali). L’opera combina elementi di tradizione attica (cariatidi, telamoni, colonnine con capitelli ionici, palmette) con altri elaborati ad hoc per l’occasione. Un ibrido eccezionale ma (quasi) non figurato: il sarcofago detto di Cecilia Metella si configura a vasca con strigilature continue interrotte da una protome equina e da un’altra canica, petinenti alla sfera della caccia; il coperchio è decorato con un fregio a meandro e uno vegetale da cui emergono animali tra quattro volute contrapposte. Il sarcofago denota una mescolanza di rimandi ad ambiente attico, al repertorio microasiatico e alla tradizione urbana. Sarcofagi asiatici: dalla prima metà del II secolo d.C. prese avvio anche la produzione dei sarcofagi asiatici di grandi dimensioni. A parte alcune produzioni regionali, il tipo principale, prodotto in Frigia in marmo bianco a cristalli fini ha spesso un’articolazione architettonica con cinque nicchie sui lati lunghi (la centrale con frontone, laterali ad arco e senza coronamento), scandite da colonnine corinzie tortili ospitanti per lo più figure mitologiche negli intercolumni; il coperchio è dapprima a doppio spiovente, in seguito a klìne. Differente fu il bacino di diffusione e più modesta la produzione. Lastre come sarcofagi: tra l’età antoniniana e la prima metà del III secolo d.C, si avviò la prouzione di lastre marmoree per la chiusura di loculi nelle necropoli di Roma, Ostia e Porto che, imitando la fronte dei sarcofagi, ne costituivano una versione più economica sfruttata da personaggi di origine libertina. Le plurime possibilità di collocazione (a parete o direttamente sul piano di calpestio) ne condizionarono la morfologia. Quanto ai motivi figurativi è evidente la derivazione dai sarcofagi. Novità nel III secolo d.C.: dalla prima età severiana ricomparvero monumenti singoli che si affacciavano lungo le principali vie consolari; come il tumulodi Monte del Granpo sulla via Latina. A Roma e nei dintorni si affermò allora la tipologia dei sarcofagi monumentali all’aperto e innalzati su basamenti o podi: scelta che enfatizzava la sepoltura rispetto all’area circostante. Uno degli esemplari più noti è la tomba di Nerone. Fine dei sarcofagi: Per tutto il IV secolo d.C. andò avanti la produzione di sarcofagi, benché si eclissarono i miti. Tuttavia, continuarono le immagini profane come le scene bucoliche, di caccia e di rappresentanza. Sui sarcofagi cristiani la professione di identità non è più nei termini di stato sociale ma di fede. La produzione dei sarcofagi si interruppe dopo il primo terzo del V secolo d.C. E’ un dato che non può dipendere dalla casualità dei ritrovamenti: cosa ne determina l’arresto? Fattori quali la conversione al cristianesimo dei senatori furono certo decisivi per il crollo della
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