Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Stato unitario italiano: problemi e storia, Sintesi del corso di Storia dell'Italia

Storia politica d'ItaliaStoria Economica d'ItaliaStoria Moderna d'Italia

La formazione dello Stato unitario d'Italia e i problemi che ne derivarono, dalla prima legislatura del 1861 fino ai primi anni del XX secolo. Vengono trattati temi come la relazione tra Stato e Chiesa, il risanamento del bilancio statale, la nascita dei partiti politici e la crisi della Prima repubblica. una panoramica dettagliata della storia italiana, con particolare attenzione ai problemi economici e politici che hanno caratterizzato il percorso verso l'unità nazionale.

Cosa imparerai

  • Quali furono i principali problemi economici che affrontò lo Stato unitario d'Italia?
  • Che eventi hanno caratterizzato la formazione dello Stato unitario d'Italia?
  • Come la relazione tra Stato e Chiesa si è evoluta durante la prima unità d'Italia?
  • Come si svilupparono i partiti politici in Italia durante la prima unità d'Italia?
  • Come si risolsero le crisi politiche e economiche durante la Prima repubblica?

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 11/06/2022

piermilizia
piermilizia 🇮🇹

4.3

(9)

11 documenti

1 / 17

Toggle sidebar

Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Stato unitario italiano: problemi e storia e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'Italia solo su Docsity! STORIA DELL’ITALIA CONTEMPORANEA Storia d’Italia dall’Unità a oggi – Aurelio Lepre, Claudia Petraccone 1. L’organizzazione dello Stato unitario e i suoi problemi Il 18 febbraio 1861 venne inaugurata la prima legislatura del nuovo regno che, formatosi sotto la chiara egemonia sabauda, ne adottò la carta costituzionale -lo Statuto albertino- per cui il sovrano era riconosciuto come capo dello Stato, di “tutte le forze di terra e di mare” (da cui lo strettissimo legame tra Savoia e forze armate) e di fatto anche del governo, grazie alla facoltà di nominare ministri e promulgare leggi, nonché responsabile della politica estera, delle nomine di tutte le cariche dello Stato. Questa scelta unita alla continuità istituzionale col vecchio Regno di Sardegna incontrò l’opposizione della Sinistra e di quanti, provenienti da agli Stati preunitari, avvertivano ciò come sintomo di una pretesa di piemontizzare l’Italia. L’opzione federale venne rapidamente scartata ma lo stesso non accade per il decentramento (gran parte dei moderati, tra cui lo stesso Cavour guardavano con favore al self-government inglese), ufficialmente proposto in quattro disegni di legge dal ministro dell’Interno Marco Minghetti nel marzo 1861; il clima favorevole mutò improvvisamente con le preoccupazioni per l’inaspettata “varietà” dell’Italia e la proposta venne ritirata dal ministro stesso. L’Italia venne divisa in 59 province ognuna retta da un prefetto di nomina regia. Venne esteso al resto del Paese anche il sistema elettorale, un maggioritario a due turni fondato su collegi uninominali aperto ai cittadini maschi alfabetizzati sopra i 25 anni e che pagassero un’imposta annua di 40 lire (l’1,9% della popolazione) mentre il Senato, camera dalla funzione effettiva assai scarsa, era di nomina regia: si costituiva in tal modo un parlamento che non era però emanazione di una borghesia nazionale, ma di più borghesie regionali, complice la scarsa fiducia nelle possibilità dello sviluppo economico di fare da fattore di unificazione -solo a questo punto Cavour provvede all’eliminazione delle dogane interne e dell’introduzione di una moneta unica, la lira piemontese (1862). L’accelerato processo di unificazione amministrativa avvenne però senza tenere da conto delle necessità di autonomia del Mezzogiorno (nel 1864 D’Azeglio accusò il governo di non conoscere l’Italia), puntualmente ignorate e degenerate nella grave crisi di ordine pubblico del brigantaggio. Il fenomeno venne fomentato dallo sconfitto Francesco II di Borbone per riconquistare il proprio regno e venne ulteriormente aggravato dall’incapacità del governo di dare risposta a problemi secolari come l’usurpazione delle terre demaniali. Incapace di una soluzione lungimirante -quale fu quella proposta nella relazione di Giuseppe Massari- il governo optò per la repressione violenta ponendo sotto regime militare quasi metà nazione, sotto il controllo di 50mila soldati a capo di Enrico Cialdini. Nel 1862 la situazione venne sfruttata da Urbano Rattazzi per infliggere un duro colpo ai democratici e a Garibaldi, intenzionato a liberare Roma, mentre l’anno successivo venne approvata la legge Pica, una serie di durissimi provvedimenti in materia di ordine pubblico capaci di infliggere colpi mortali al brigantaggio. Altra crisi irrisolta riguardava invece lo Stato pontificio che, retto da papa Pio IX, rifiutava con forza il dialogo “col progresso e col liberalismo” rendendo particolarmente complesso il dialogo fra Stato e Chiesa circa il quale vi fu un primo disgelo con la Convenzione di settembre fra Italia e Francia (1864), per cui la prima rinunciava alle rivendicazioni su Roma (pur restando forte l’anticlericalismo tra liberali laici, democratici o moderati che fossero) e Napoleone III si impegnava nel progressivo ritiro delle proprie truppe dal Lazio. L’accordo prevedeva inoltre il trasferimento della capitale da Torino ad un’altra città e la scelta ricadde su Firenze, tra divisioni e contrasti ma permettendo il completamento dell’unificazione amministrativa e legislativa, che riguardò le leggi comunale, provinciale, di pubblica sicurezza, sulla sanità, sulle opere pubbliche e sull’istituzione del Consiglio di Stato. 2. Il completamento dell’Unità Messa da parte la questione romana restava vivissima quella del Veneto, per la soluzione della quale l’Italia si inserì nel confronto fra Austria e Prussia rivelando in tal modo la propria subordinazione in fatto di politica estera. Malgrado tentativi di negoziato, infatti, già nell’aprile del 1866 venne firmato un trattato militare con Bismarck accettando un’eventuale guerra contro Vienna in cambio del Veneto e della provincia di Mantova. Il conflitto scoppiò a metà giugno e per l’Italia, malgrado i successi di Garibaldi nel Trentino, fu una disfatta come testimoniano le gravose sconfitte di Custoza e Lissa ma grazie alla Prussia fu comunque al tavolo dei vincitori il 10 agosto, ottenendo quanto richiesto. La debacle aprì, a partire dall’articolo di Pasquale Villari Di chi è la colpa?, il grande tema del bisogno di un battesimo di sangue per “fare gli italiani”. In questa fase mancava ancora una lingua unitaria, rimanendo i dialetti prevalenti e l’analfabetismo intorno all’80% della popolazione -contribuirono a migliorare la situazione la burocrazia e l’esercito. Gravi anche i problemi finanziari, peggiorati dalla guerra, causati da un notevole debito pubblico, dalla durezza del sistema fiscale (era stato esteso a tutto il Paese quello piemontese) e dal persistente disavanzo che implicò l’ingresso del pareggio di bilancio tra i capisaldi del programma economico della Destra. Tentò di porvi rimedio Quintino Sella secondo cui per le spese ordinarie si dovesse far ricorso alle imposte e per quelle straordinarie al credito e all’alienazione dei beni dello Stato, fallendo a tal punto che l’Italia era considerata dagli investitori esteri sull’orlo della bancarotta. Proliferarono gli interventi straordinari come l’assegnazione al demanio statale dei beni delle congregazioni religiose (1866) e la tassa sul macinato (1868). Si provvide alla creazione di un mercato nazionale costituendo un sistema di vie di comunicazione imperniato sulla diffusa rete ferroviaria (circa la quale scoppiò il primo scandalo politico-affaristico, quello del banchiere Petro Bastogi) che venne però mortificato dall’adozione della tariffa doganale piemontese, particolarmente liberoscambista e dunque nocivo per la nascente industria. Al 1867 risale invece un nuovo tentativo di Garibaldi, stavolta col tacito assenso di Rattazzi, di prendere Roma, fallito per l’indifferenza dei romani ma che già nel 1870 venne coronato con l’improvviso crollo dell’Impero Francese dopo la sconfitta a Sedan: Raffaele Cadorna ricevette l’ordine di entrare a Roma e così fu già il 20 settembre, al quale Pio IX avrebbe reagito proclamandosi i cattività e scomunicando i responsabili. Malgrado il parlamento provvide già a maggio alla garanzia delle guarentigie nel settembre 1874 il papa rispose col non expedit, sulla cui scorta ebbe origine il movimento dei cattolici intransigenti, oppositori radicali dello Stato liberale e propugnatori di un’intensa attività assistenziale e caritativa espanse addirittura alla promozione di forme di credito. 3. La ricerca di nuovi equilibri Agli inizi degli anni Settanta il risanamento del bilancio statale era il maggior problema dell’Italia, ormai ridottasi a paese del deficit, al quale si fece fronte con una politica rigorista che danneggiò soprattutto il Mezzogiorno impedendo la realizzazione delle infrastrutture necessarie e che comunque ebbe vita breve con la fine della Destra al governo. Salì al governo dunque la Sinistra capeggiata da Agostino Depretis che, per fronteggiare la grave crisi, cercò una vasta maggioranza realizzatasi nel “trasformismo” al fine di realizzare un importante programma di riforme per la cui realizzazione era necessaria una compattezza impossibile per il diversificato elettorato della Sinistra, reinterpretando il proprio come ruolo di mediatore tra diverse realtà ed anime. 4. La Sinistra al potere: trasformismo, protezionismo e colonialismo Nel 1878 morirono sia papa Pio IX che Vittorio Emanuele II, ai cui funerali si distinse Francesco Crispi, e l’Italia ebbe un importante riconoscimento accedendo al Congresso di Berlino dedicato alla questione balcanica. In tale frangente scoppiarono imponenti manifestazioni irredentiste contro la politica delle “mani nette” del governo Cairoli alle quali si sarebbero aggiunte quelle organizzate da repubblicani e internazionalisti, creando un clima di tensione (v. attentato fallito a Umberto I) che pose fine alla linea garantista dell’esecutivo e segnando dunque il fallimento nel costituire uno Stato sinceramente liberale. Tornato al potere Depretis riuscì ad ampliare il diritto di voto al 7% della popolazione che per le sue caratteristiche implicò un ulteriore distacco tra città e campagne, nonché tra Nord e Sud -favorendo la Sinistra, cui elettorato stava nella piccola e media borghesia del Centro-Nord e in quella agraria e urbana del Sud. Depretis vinse infatti anche le elezioni del 1882 (importanti il raddoppio di seggi dell’Estrema e l’elezione di Andrea Costa, primo deputato socialista) che costituì nuovamente una maggioranza indifferenziata, cui spregiudicatezza portò alla scissione di importanti figure della Sinistra (Zanardelli, Baccarini, Cairoli, Crispi e Nicotera) che andarono a costituire la “Pentarchia”. Depretis fu comunque in grado di tentare una modernizzazione del Paese con la costruzione di uno “Stato amministrativo”, rivelatosi debole alla prova dei fatti. La Destra, cui successo nel conseguimento del pareggio di bilancio nel 1875 aveva accolto timidissime reazioni, con Sonnino e Franchetti decise di puntare dunque su un programma bettole e per le donne le parrocchie, mentre i ricchi iniziavano a dedicarsi alle attività sportive (per cui la ginnastica diffusissima nel XIX secolo venne soppiantata) e alla villeggiatura (da metà Ottocento anche al mare). Gli sport erano attività prevalentemente borghesi, in questi anni che videro l’inizio del campionato di calcio (1898) e la diffusione della bicicletta (e quindi delle gite). Segno di grandissima ricchezza era l’automobile mentre acquisirono sempre maggiore popolarità gli spettacoli cinematografici tanto tra borghesi quanto fra il popolo, sicché l’industria cinematografica crebbe a grande velocità fino ad assumere primissimo livello internazionale (v. Quo vadis?) e forgiare l’immaginario popolare (v. Maciste di Cabiria). 8. La guerra di Libia e la Grande guerra Nel marzo 1911, quando venne celebrato il cinquantenario del Regno d’Italia, repubblicani, cattolici e socialisti disertarono le celebrazioni a testimonianza della profonda divisione interna al Paese. Colsero l’occasione per attaccare il modello liberale i nazionalisti, tra cui Enrico Corradini, i quali avevano una forte coscienza di élite e per quanto pochi riuscivano a risultare rumorosi ma non determinanti. L’impresa di Libia del 1911 non va attribuita a loro, quanto a scelte di Realpolitik prese in conseguenza alla crisi marocchina tra Francia e Germania tant’è che prima dell’opzione militare Giolitti e il ministro degli esteri San Giuliano tentarono la via diplomatica consci che il conflitto non avesse motivazioni economiche. Le ostilità iniziarono a fine settembre e proseguirono fino al maggio del 1912 e vennero giustificate da Giolitti come impresa civilizzatrice, riprendendo il tema della “missione dell’uomo bianco” -senza che questo impedisse la formazione di un clima bellicistico segnato dall’odio per il nemico, rafforzato dal contenuto costo in vite umane-, e come creazione di uno sbocco per l’emigrazione (tesi rifiutata dai socialisti sul piano sia etico che economico. Malgrado il diffuso bellicismo, Giolitti sarebbe uscito vincitore anche dalle elezioni del 1913 -le prime a suffragio universale- anche grazie all’appoggio dei cattolici conseguito col “patto Gentiloni” conseguendo dunque una maggioranza di oltre 300 deputati. In ogni caso, nel marzo 1914 Giolitti si dimise e Vittorio Emanuele III affidò il governo al liberal-conservatore Antonio Salandra che, allo scoppio della Grande guerra, decise di tenersene fuori in coscienza dell’impreparazione dell’esercito optando per quella che Giolitti avrebbe definito “neutralità armata e vigile”. Il fronte neutralista, composto da giolittiani, cattolici e socialisti, patì la sua inorganicità e già a fine anno si diffuse tra le classi dirigenti la convinzione che convenisse scendere in campo con l’Intesa approfittando dell’apparentemente imminente collasso dell’Impero ottomano. Il 7 maggio fu comunicato all’intero governo il raggiungimento di un accordo con l’Intesa per un intervento dell’Italia entro il 26, rafforzato dalla minaccia di abdicazione del re e dal respingimento delle dimissioni di Salandra. Il Psi, sconvolto, optò per la linea del “né aderire né sabotare” e contraria al conflitto fu anche la maggior parte della borghesia a testimonianza dell’impreparazione anche mentale dell’Italia. Salandra chiese alla Camera i pieni poteri e istituì la censura, il Paese entrò in guerra il 24 maggio. Sul piano strategico il conflitto si aprì all’insegna dell’offensivismo -a testimonianza di quanto poco il comando italiano avesse capito la guerra in corso- e così il 23 giugno ebbe inizio la prima offensiva dell’Isonzo che, con le successive cinque, sarebbe costata la perdita di mezzo milione di uomini. La situazione era tanto grave che già a settembre lo stesso Salandra prospettò la possibilità di un ritiro dell’Italia dal conflitto. Il 14 maggio 1916 ebbe inizio invece la controffensiva austriaca, la Strafexpedition, arrestatasi in giugno e causa delle dimissioni di Salandra, alla quale seguì la conquista italiana di Gorizia nel corso della sesta offensiva dell’Isonzo, un risultato strategicamente minore ma mentalmente ottimo. A dicembre gli Imperi centrali proposero all’Italia di iniziare trattative di pace incontrando il rifiuto di Sonnino finché nell’aprile 1917 la guerra non divenne mondiale con l’ingresso degli Stati Uniti, privo di implicazioni dirette sull’Italia che vide primi segni di cedimento interno; a questi andava aggiunto una serie di gravi errori del comando supremo che lasciò partire in licenza 120mila soldati malgrado la notizia di un attacco imminente. Il 24 ottobre 1917, infatti, gli austro-tedeschi attaccarono concentrando il fuoco delle artiglierie, a massima intensità, in pochissime ore e sfondando le linee italiane a Caporetto. Le truppe ripiegarono disordinatamente perdendo 300mila uomini. Vennero accusati della disfatta i socialisti, in vero incapaci di influire a tal punto sulle truppe, e si dimise il governo soppiantato da uno di unità nazionale a capo di Vittorio Emanuele Orlando. Per tutta la guerra vi fu un forte conflitto tra ufficiali e soldati nelle trincee, dettato non da antagonismo di classe ma dal fallimento di nazionalizzazione delle masse, da cui la totale mancanza di rispetto verso i soldato, considerati poco più che bruti pur dimostrando essi anche disperati gesti di volontà autonoma. Sul piano letterario l’immagine della guerra-festa, cara a futuristi, rimase limitata nei circoli intellettuali mentre grande diffusione anche grazie alla propaganda ebbe quella della guerra bagno di sangue rigeneratore e purificatore per la nazione. L’offensiva austriaca venne fermata sul Piave il 10 ottobre 1917 e proprio da qui, un anno dopo, partì la controffensiva finale ritardata da una piena del fiume al 29 ottobre, un giorno dopo che Vienna ebbe chiesto l’armistizio agli Alleati, rendendo quella di Vittorio Veneto una vittoria ai danni di un esercito in sfacelo. L’immagine della patria assunse fisicità per quanto in forma luttuosa: ai caduti in guerra andavano infatti aggiunto un numero pari di vittime dell’influenza spagnola (≈600.000 morti), una strage cui entità venne puntualmente nascosta dal governo. 9. Il «biennio rosso» A conflitto terminato preoccupazione della classe dirigente fu che l’abitudine alla guerra non si trasformasse in desiderio di rivoluzione, il che spiega gli esagerati timori del cosiddetto “biennio rosso” che fu tale solo nelle paure della borghesia e nei sogni dei socialisti massimalisti. Per le elezioni del 1919 venne adottato un sistema proporzionale a sancire l’ingresso delle masse nella politica per via pacifica, rifiutata però dai socialisti ormai improntati nell’opposizione totale al sistema e dalla nuova destra della “trincerocrazia” (della quale fu apripista Gabriele D’Annunzio, il 12 settembre capace di occupare Fiume e proclamarne l’annessione all’Italia in un’avventura disordinata nella quale cercò rapporti anche con la sinistra, v. Alceste De Ambris). A complicare lo scenario si era poi inserito il Partito popolare italiano, fondato in quello stesso anno e antitetico ai liberali circa l’idea stessa di Stato etico liberale. Venne adottato un sistema uninominale in proporzionale volto a limitare il peso dei partiti, mentre il Psi adottava una linea radicale che vedeva il parlamento come banco di propaganda e mirava alla fondazione di nuovi organi dei lavoratori alternativi, per poi aderire alla Terza Internazionale di Lenin. Era diffusa la microconflittualità su vari livelli e preoccupava la partecipazione degli anarchici ai cortei socialisti per quanto mancasse qualsivoglia strategia comune, ma lo stato preinsurrezionale era perlopiù immaginato dato che la lotta per la sopravvivenza restava la prima preoccupazione della maggior parte degli italiani. Alle elezioni del 16 novembre i socialisti ottennero 156 seggi e i popolari 100 ma la maggioranza rimase ai liberali con 167 deputati, in quella che restava una chiara sconfitta. Seguirono mesi di tensione, specie a Torino (v. gruppo dell’Ordine Nuovo) da cui partì un vasto sciopero estesosi nell’occupazione delle fabbriche del Nord-Ovest risolto dalla Cgl che, puntando a obiettivi sindacali, ottenne aumenti salariali proclamandone la fine pacifica, deludendo le minoranze antagonistiche ma senza far scemare la paura della borghesia. Il 23 marzo 1919 a Milano Benito Mussolini aveva fondato i Fasci italiani di combattimento, movimento di azione diretta sulla scia di Sorel attento a tenere separati i due elementi, sociale e nazionale; la nuova formazione, pur anticapitalista e repubblicana, non poteva sfondare a sinistra per i trascorsi interventisti di Mussolini e per la forma personalistica dell’organizzazione, sicché all’inizio ebbe scarso peso politico divenendo una vera forza solo grazie allo squadrismo, diffusosi soprattutto nella pianura padana e progressivamente autonomizzatosi rispetto al fascismo cittadino nucleo di una destra nuova e moderna. Nel frattempi divenne insanabile la frattura nei socialisti con la scissione della componente comunista guidata da Amadeo Bordiga nel corso del congresso di Livorno (gennaio 1921) da cui nacque il Partito comunista d’Italia, sezione italiana di un partito internazionale pronta ad assumere la guida della imminente rivoluzione ma buono soltanto ad indebolire la sinistra. È difficile trovare un momento di nascita dell’antifascismo, complici le difficoltà nella creazione di un fronte unico: se il PcdI procedette allo sviluppo di un antifascismo di classe che contrapponesse la violenza alla violenza nella soppressione della legalità, il Psi si rivelò diviso e Giolitti colse l’occasione per andare ad elezioni, promuovendo un centro-destra nel quale venne coinvolto anche il fascismo in un primo tentativo di normalizzazione del movimento. I social-comunisti persero consensi e Mussolini, per riprendere controllo dello squadrismo padano, straformò i Fasci in Partito Nazionale Fascista. 10. Il regime monarchico-fascista Al congresso del Pnf Mussolini lanciò un programma liberale e liberista al cui cuore stava la costituzione di uno “Stato manchesteriano” cui intervento nell’economia fosse minimo (tra i punti: privatizzazione ferrovie e telegrafi, abolizione sussidi, cessione industrie statali, riduzione sovvenzioni, privilegio tassazione indiretta) incassando l’appoggio di Luigi Einaudi. Mussolini vedeva lo Stato come un “guardiano notturno” e infatti il suo primo referente era la media borghesia produttiva e il corporativismo sarebbe dovuto servire solo ad attenuare i conflitti sociali, mettendo da parte la concezione organicistica, espansionista ed anti- individualista cara, tra gli altri, ad Alfredo Rocco. Il colpo di Stato prese dunque la forma di rivolta dell’economia contro la politica, promettendo liberismo agli imprenditori e il mito di Roma ai piccolo borghesi; questo prese la forma di rivoluzione gradualmente irradiatasi dal centro alla periferia, evitando di prolungare il disordine del triennio precedente. La marcia su Roma fu inoltre un modo per prevenire che divenisse chiara a tutti la sua inconsistenza politica, risultando prova di forza ai danni dei liberali più che delle sinistre, ancora più divise con la cacciata dei riformisti dal Partito e la rottura tra questo e la Cgl. Mussolini, in settembre, aveva anche rinunciato alla pregiudiziale repubblicana e questo potrebbe aver facilitato le cose a Vittorio Emanuele III quando rifiutò di proclamare lo stato d’assedio all’ingresso in città delle camicie nere, una decisione dalle motivazioni non ancora chiarite (forse relative alla capacità di Mussolini di creare l’alternativa fra sé e il socialismo). Il re era inoltre convinto che costituendo un governo a guida fascista ma con la partecipazione di altri partiti fosse possibile evitare la guerra civile. Dopo la marcia su Roma i rapporti tra fascismo e monarchia non vennero definiti in modo netto e d’altronde Mussolini comprese che la conquista del governo non implicasse quella dello Stato, in cui restava molto forte la monarchia, ragion per cui il periodo tra il 1922 e il 1925, nel quale il presidente del consiglio operò per ovviare tale situazione, può essere definito come una diarchia di fatto monarchico-fascista con la prima in posizione prevalente. I rapporti si complicarono con la fondazione della Milizia (dicembre 1922), parte di un processo di trasformazione del Pnf in partito di governo. Venne approvata una nuova legge elettorale con premio di maggioranza. La collaborazione fra fascisti e popolari ebbe fine già nel 1923 e servì a Mussolini soprattutto per procacciarsi l’appoggio del Vaticano, ricercato anche nell’introduzione con la riforma Gentile (1923) dell’ora di religione cattolica, mentre vennero assorbiti i nazionalisti e si cercava l’accordo col potere economico. Alle elezioni del 1924 il Listone prese quasi il 65% e si aprirono due strade -se continuare a spostarsi a destra (Maffeo Pantaleoni) o allargarsi a sinistra (Rocca e Bottai)- entrambi perseguimenti della via autoritaria che ebbe un’apparente battuta d’arresto il 10 giugno con la scomparsa di Giacomo Matteotti: la stampa attaccò Mussolini ma questi non perdette il sostegno parlamentare recuperando anche quello della borghesia quando il 12 novembre un operaio assassinò un deputato fascista. In un discorso alla Camera il 3 gennaio 1925 Mussolini si assunse la responsabilità politica dell’omicidio e il giorno stesso vennero proclamati decaduti i deputati che il 27 giugno 1924 si erano ritirati dai lavori e i comunisti, anche su forti pressioni del re. 11. Il regime fascista-monarchico Il 3 gennaio segnò una profonda trasformazione per il regime, senza diventare né totalitario né esclusivamente fascista. Pur senza modifiche allo Statuto Mussolini istituì una nuova forma di Stato riunendo nelle sue mani poteri maggiori di quelli di Vittorio Emanuele III, per il quale era necessario rafforzare lo Stato per rendere possibile un regime totalitario e rendere il governo centro effettivo delle decisioni. Nel 1929 descrisse lo Stato come “fatto spirituale e morale” e in tal senso entrò in conflitto con la Chiesa per il campo dell’educazione dei giovani, risolto coi Patti Lateranensi (11 febbraio 1929). Nel 1930 nacque l’Ovra, la polizia segreta retta da una fittissima rete di informatori con compiti di repressione e controllo ma anche di sondaggio dell’opinione pubblica. Vennero disposti anche la censura epistolare e le intercettazioni telefoniche che colpirono anche le alte sfere del fascismo (Farinacci, Balbo…) a conferma delle dure lotte interne, nel cosiddetto “parlamentarismo nero”. La repressione dell’antifascismo fu molto dura (15.806 deferiti al Tribunale speciale per la difesa dello Stato) e anche per questo non si costituì un fronte unico fino al 1943; malgrado ciò esistette sempre un antifascismo tollerato a testimonianza di come una componente essenziale del regime avesse matrice monarchica (v. Benedetto Croce). Il regime si reggeva anche sul consenso, fondato sull’accentuata corporativizzazione della società favorendo la conservazione come la nascita di interi settori socio-economici. L’immagine del duce era multiforme perché molti erano i suoi volti e i giornali vennero piegati a tale scopo, creando un mito nazional-popolare di Mussolini. Contribuirono gli intellettuali e anche la scuola, che dopo la riforma Gentile del 1923 venne fascistizzata (spurgata di elementi liberali) da Bottai nel 1936 penalizzando la cultura umanistica mentre più difficile fu la penetrazione nelle università. Sul piano economico, il ministro De Stefani (1922-25) mirò a risanare il bilancio ma anche a salvare alcune imprese mentre un maggior interventismo arrivò con Giuseppe Volpi che decise per la rivalutazione della lira, per quanto nei fatti tutta la politica economica fascista restasse dipendente dallo mentre Rodolfo Graziani falliva anche sul piano militare (endemiche erano casi di diserzione e renitenza alla leva). L’inflazione venne tenuta sotto controllo nei prezzi ufficiali ma esplose nella borsa nera, la piccola borghesia si proletarizzava. Il 25 aprile l’insurrezione partigiana accompagnò e talvolta prevenne l’arrivo delle truppe anglo-americane e tre giorni dopo un gruppo partigiano catturò e fucilò Mussolini presso Dongo, cui corpo venne poi pubblicamente esposto in piazzale Loreto a Milano. 15. La nascita della repubblica Nel giugno 1945 salì al governo Ferruccio Parri, tra i fondatori nel 1942 del Partito d’Azione, col supporto di tutti i partiti del Cln tra cui i socialcomunisti che accettarono un ruolo subalterno consci che gli angloamericani non avrebbero approvato un governo spostato troppo a sinistra. In ogni caso il governo di Parri cadde proprio per la proposta del ministro delle finanze, il comunista Scoccimarro, di cambiare moneta e tassare i patrimoni causando la fuoriuscita dei liberali, venendo rimpiazzato dal segretario della Democrazia cristiana Alcide De Gasperi, in un contesto in cui comunque la Cgil ottenne la parità salariale per le donne e la scala mobile accettando lo scioglimento dei “consigli di gestione”. Vasto era il dibattito su quale sarebbe stato il modello democratico da adottare: le sinistre premevano per una “democrazia popolare” o “progressiva”, gli azionisti per una “sostanziale” mentre i democristiani accettavano il modello anglosassone ma in un’ottica organicistica e corporativistica della società di derivazione cattolica. Sia la Dc che il Pci avevano ereditato dal fascismo una concezione etica del partito dando grande centralità alla militanza, mentre per affermarsi godettero anche di appoggio esterno rispettivamente da Vaticano e Unione Sovietica -complice la perdita di prestigio dell’idea di nazione come conseguenza del nazionalismo fascista. Si andava delineando, sempre in conseguenza del fascismo, un sistema che rendeva necessario il partito creando l’idea di un ceto politico separato e con interessi propri, da cui la precocissima avversione alla partitocrazia confluita nel Fronte dell’Uomo qualunque di Guglielmo Giannini, movimento effimero per la sua stessa forma. Ebbe carattere puramente interno il referendum del 2 giugno 1946 sulla forma istituzionale che avrebbe dovuto adottare la nuova Italia: prevalse la repubblica con due milioni di voti in più, una vittoria delle sinistre ma anche di De Gasperi che fu in grado di prevenire la spaccatura della Dc e la contrapposizione territoriale rivelata dai risultati. I vincitori non vollero stravincere e entrambi i primi due presidenti della repubblica (Enrico De Nicola e Luigi Einaudi) furono monarchici, mentre le elezioni per la Costituente videro prevalere la Dc, seguita con ampio margine da Psi e Pci mentre uscì con le ossa rotte l’Unione democratica nazionale, erede del movimento liberale prefascista, a testimoniare l’imposizione dei partiti di massa sui movimenti d’opinione. Sul piano economico non era assolutamente in discussione il modello capitalistico e il dibattito poteva limitarsi al grado di interventismo dello Stato in economia, in particolare relativamente ai due grandi temi (la sopravvivenza dei ceti più poveri e la ricostruzione del Paese). Venne decisamente respinta l’opzione liberistica e si scelse per un “controllo democratico” sulla produzione e non sul mercato, che anzi fu liberalizzato portando Togliatti a parlare di un compromesso fra economia conservatrice e politica democratizzata. Il nuovo scenario vedeva la Dc più forte del Ppi avendo attirato a sé anche l’elettorato di destra, mentre i socialcomunisti riuscirono ad espandersi in modo importante grazie ad una fortissima diffusione nel territorio pari solo a quella dello Stato; tutti e tre i partiti proponevano una visione organicistica dello Stato e non una individualista, avendo come quadro di riferimento rispettivamente la Chiesa e la classe. 16. La guerra civile fredda In un discorso del 12 marzo 1947 Harry Truman riconobbe “nella miseria e nel bisogno” terreno fertile per “i semi del totalitarismo”, da cui la proposta del segretario di Stato George Marshall di un ruolo attivo degli Stati Uniti nel risollevamento economico dell’Europa; l’idea era chiaramente una sfida all’Unione Sovietica che rispose lanciando una nuova organizzazione di coordinamento di tutti i partiti comunisti. Lo stesso anno, a fine maggio, in Italia prese forma un nuovo governo De Gasperi con l’appoggio dei liberali e senza la partecipazione di Psi e Pci forse anche su pressione americana o per la gravissima situazione economica: l’inflazione, già galoppante nel “regno del Sud” tra il 1943 e il ’45 si era infatti estesa al Nord con la fine della guerra, distruggendo il risparmio e abbattendo gli stipendi reali. A ciò si aggiunse da aprile lo scontro sul prezzo politico del pane che De Gasperi affrontò annunciando la necessaria collaborazione di “tutti gli organi naturali della vita economica”, dagli industriali alla Cgil. Il 1° maggio il bandito Salvatore Giuliano sparò sui lavoratori in manifestazione presso Portella della Ginestra in quella che risulta la prima strage politico-criminale in Italia, un fatto non isolato che il governo democristiano -nella persona di Mario Scelba- attribuì vagamente al fenomeno mafioso mentre l’ambasciatore americano rifiutava di fornire aiuti all’Italia finché non avesse messo “ordine in casa propria” e l’8 giugno George Marshall espose il piano di aiuti al continente europeo. In Italia era difficile sopperire ai bisogni più elementari (mancavano grano e carbone). Seguì un nuovo governo De Gasperi formato da soli democristiani e liberali, condannando definitivamente il Pci all’opposizione parlamentare. Il partito, parte del Cominform, venne accusato di “cretinismo parlamentare” per aver sostenuto l’impossibilità di governare senza la Dc (mentre i comunisti greci avevano iniziato una vera e propria guerra civile rivoluzionaria) e venne adottata la linea di “sentinelle della democrazia” -una tattica generica riconfermata dallo stesso Stalin che approvò il costituirsi del Pci come partito di massa a patto che rafforzasse il lavoro ideologico. La possibilità di prendere le armi venne limitata alla difesa e la rivoluzione venne archiviata. Alle elezioni del 18 aprile la Dc riportò un successo schiacciante (48,5%) grazie al confluire del voto di destra, dando forma al blocco sociale di grande, piccola e media borghesia a sostegno del partito; Togliatti, già in crisi per il fallimento del Fronte democratico popolare - fermo al 31%- vide la situazione peggiorare prima con l’allontanamento dal blocco socialista dello jugoslavo Tito (fatto che mise in crisi le “vie nazionali al socialismo”) e poi quando fu vittima di un attentato (14 luglio). Si verificarono scioperi spontanei e la stessa Cgil ne proclamò uno generale e per qualche ora il clima sembrò insurrezionale (16 morti e 206 feriti) in quello che di fatto fu un sommovimento prettamente difensivo abilmente gestito dalle direzioni di Pci e Cgil. All’interno del sindacato si consumò inoltre la frattura con le componenti cattoliche (definitivamente fuoriuscite nel maggio del ’49 per poi costituire la Cisl nel 1950) a cui seguì quella della sinistra non marxista, confluita nella Uil. L’attentato a Togliatti segnò l’inizio della fase più dura della “guerra civile fredda” mentre la secessione jugoslava implicava una mutata collocazione internazionale dell’Italia, non più prima linea, mentre i comunisti si adeguarono pienamente alle direttive del Cominform e a marzo l’Italia aderì al Patto atlantico, rinunciando a svolgere una politica estera completamente autonoma. Il Vaticano intanto proseguiva la sua lotta anticomunista comminando la scomunica per i comunisti (12 luglio), spaventato non solo dalle premesse ideologiche ma anche dal diffondersi di un laicismo di massa. Nello stesso anno iniziarono le lotte dei contadini del Mezzogiorno, con l’occupazione delle terre incolte a capo dei comunisti suscitando la dura reazione del governo che non riuscì a impedire le occupazioni durassero fino al 1950, fermandosi solo per la “legge Sila” e la “legge stralcio” con le quali venne ottenuta una parziale distribuzione delle terre. 17. La costruzione della democrazia Gli anni ’50 furono epoca di profonde trasformazioni: nel 1952 l’agricoltura era ancora il settore economico principale, ma l’industria iniziò la sua cavalcata che un decennio dopo ne avrebbe fatto il settore dominante. Nel 1951n venne deliberata un’inchiesta sulla miseria che riconobbe come misere l’11,8% delle famiglie e disagiato un altro 11,6%. Drammatica era la questione abitativa e la disoccupazione rappresentava una tragedia collettiva. Cuori della vita sociale restavano, soprattutto nelle aree non industrializzate, le reti di parentela e le parrocchie a testimonianza del fallimento del fascismo nell’espansione dello Stato. Forze coerentemente democratiche avevano scarso peso, paghe del proprio ruolo di influenza culturale e limitandosi dunque ad essere gruppi di intellettuali sostanzialmente chiusi. Al contrario, i partiti di massa assumevano la dimensione etica che il fascismo aveva provato a dare allo Stato raccogliendo in sé gruppi cui coesione non stava solo nella comune appartenenza al partito ma a realtà sociali e locali nettamente connotate. Tale dimensione locale non indeboliva l’internazionalismo del Pci che, coi socialisti, continuava ad esprimere supporto per tutti i movimenti autodefinitisi rivoluzionari in giro per il mondo, fossero socialisti o nazionalisti (v. Mossadeq, Nasser…), mentre nella Dc maturava la scelta europeista connotata da prima in senso cristiano-cattolico come contrapposizione all’ateismo comunista da Adenauer e Schuman e poi sul tema della libertà, da non intendere come sinonimo di liberalismo. L’Europa nacque però come entità prettamente economica, in forma di Comunità europea del carbone e dell’acciaio (1951) col tempo evolutasi in Comunità economica europea (1957) fallendo nel costituire un blocco ideologico autonomo -un progetto osteggiato dal Pci che vi vedeva un rischio di rafforzamento del campo capitalistico e ambiguamente interpretato dal Psi. La progressiva erosione del consenso della Dc e il fallimento nel costituire un’alleanza con la destra spinsero De Gasperi a promulgare una nuova legge elettorale maggioritaria che avrebbe assegnato il 64,5% dei seggi al primo partito a prescindere dal suo vantaggio, duramente osteggiata dalle opposizioni (ne parlarono come “legge truffa”) e dunque priva di seguito. Non vittoriosa alle elezioni del 1953, la Dc subì bene il colpo mentre ebbe più problemi a gestire due scandali, fortemente pompati dalla stampa, circa l’assassinio della giovane Wilma Montesi e l’avvelenamento in carcere di Gaspare Pisciotta, luogotenente di Giuliano, creando un clima che favorì più la corrente di Amintore Fanfani che non le sinistre. Ad agosto morì De Gasperi e la Dc si interrogò sul suo futuro, se proseguire col centrismo o cercare nuove vie. Nel 1953 il fatto più importante fu però la presentazione da parte della Fiat di un progetto di utilitaria, la Seicento, dando inizio alla motorizzazione di massa. Il periodo era quello del “miracolo economico”, un periodo tra 1951 e 1963 nel quale il Pil italiano crebbe del 97%. La Fiat aveva fatto propria la lezione di Henry Ford di trasformare i propri operai da produttori a compratori e questo nonostante la motorizzazione cominciò comunque con il motoscooter.Era l’affermazione della motorizzazione individuale, alla quale iL blocco sovietico contrapponeva quella collettiva. Il comunismo si proponeva di disciplinare anche il tempo libero, inglobandolo nelle organizzazioni di partito, ma con l’aumentare del benessere l’individuo riconquistò anche questo campo. A segnare la fine della fruizione collettiva del tempo libero fu però la televisione, cui spettacoli semplici si adattavano ad un consumo di massa. La televisione delle origini deteneva un compito duplice, informare e svolgere un’attività culturale instaurando con i telespettatori un rapporto quasi pedagogico perso con l’affermazione del presentatore Mike Bongiorno cui trasmissione Lascia o raddoppia è considerata l’inizio dell’homo ludens. Nel maggio del 1955 venne approvata una legge che diede inizio alla costruzione di una fitta rete autostradale e l’anno dopo ebbero inizio i lavori dell’Autostrada del Sole. Il costo più alto pagato dagli italiani per lo sviluppo sarebbe stato l’emigrazione interna che d’altra parte sostituì quella esterna. Forte accelerazione ebbe l’americanizzazione della società, complice l’invasione di prodotti hollywoodiani frutto anche di un’operazione politico-propagandistica forgiando l’immaginario degli italiani sia rispetto il mondo occidentale sia circa il proprio ruolo nella Seconda Guerra mondiale; fallimentare fu il tentativo dei critici cinematografici di sinistra di espandere film sovietici “neorealistici” e retorici che avrebbero dovuto coinvolgere il popolo che da parte sua preferiva sognare. Questa ostinazione non fece che confermare come la Dc avesse meglio inteso le aspirazioni degli italiani, giungendo per l’attenzione alla famiglia, ad avviare un vasto programma edilizio che già nel 1949 portò alla nascita della Gestione Ina-Casa (Gescal) col compito di realizzare un programma pluriennale di edilizia popolare cui beneficiari divennero base elettorale fedele a Fanfani. Nel 1953 con la morte di Stalin ebbe inizio il “disgelo” e due anni dopo iniziò anche un “disgelo italiano” grazie all’esclusione dell’intransigente Pietro Secchia dalla dirigenza del Pci e alla sconfitta, a vantaggio della Cisl, della Fiom- Cgil alle elezioni per le commissioni interne della Fiat. Sia il segretario sindacale Giuseppe Di Vittorio che la dirigenza comunista accettarono la necessità di un ripensamento tattico-strategico, anticipazione di quello ideologico causato dalla denuncia dei crimini di Stalin ad opera di Chruščev al XX congresso del Partito comunista dell’Unione Sovietica. Aggravò la situazione la rivoluzione ungherese del 1956 che mise in serio pericolo la leadership di Togliatti (per quanto la base del partito vi fosse più vicina) e portò alla rottura con i socialisti di Nenni, con la trasformazione del patto d’unità d’azione del 1934 in uno di consultazione. I dirigenti comunisti fecero ricorso alla mobilitazione di piazza nel 1960, giovandosi della contrapposizione fascismo-antifascismo: in febbraio, infatti, cadde il governo di Antonio Segni rimpiazzato da Fernando Tambroni che instaurò un monocolore democristiano con l’appoggio del Movimento sociale italiano. A sinistra si temeva l’instaurazione di un regime presidenziale ma la situazione esplose quando il Msi organizzò il proprio congresso a Genova suscitando un vasto movimento di protesta di sinistra cui successo si dovette anche al sostegno di una parte della Dc, timorosa di restare isolata e comunque antifascista. La piazza sembrò vittoriosa ma Togliatti non si fece illusioni comprendendone le cause contingenti. Il Movimento restava in ogni caso politicamente marginale e limitato ma non del tutto inefficace anche grazie all’alleanza coi monarchici, prova che a destra la nostalgia avesse più forza della coerenza. 18. Benessere economico e tensioni politiche Col “miracolo economico” la contrapposizione tra ricchi e poveri perdeva la connotazione che aveva acquisito fra anni Quaranta e Cinquanta e lo scontro politico si concentrò sul tema delle nazionalizzazioni, comunisti. Pochi giorni dopo le Brigate rosse rapirono Aldo Moro e il 9 maggio ne fecero trovare il cadavere, aprendo ad un confronto tra il “partito della fermezza” contrario ad ogni trattativa coi rapitori (Pci e parte della Dc) e uno disposto al dialogo (Psi e Moro stesso). Morto il maggior fautore della partecipazione dei comunisti al governo questi lasciarono la maggioranza (gennaio 1979), il tutto nel pieno di una durissima lotta tra gruppi di potere politico-economico che vide come prime vittime quanti tentarono di imporre la legalità. A fine anno il Psi di Craxi tentò il reingresso dei comunisti al governo e in tal senso può essere intesa la dura reazione del Pci all’invasione sovietica dell’Afghanistan che costarono la fine dei finanziamenti da Mosca ma la situazione restava tesissima, tra l’omicidio di Walter Tobagi, la bomba alla stazione di Bologna e la nuova lotta alla Fiat, tra cortei all’interno dei reparti, lo sciopero ad oltranza e il dichiarato supporto di Berlinguer ad una possibile occupazione. La situazione scemò il 14 ottobre quando 40mila persone rappresentanti i quadri della Fiat marciarono chiedendo la fine dello sciopero, dell’egualitarismo nelle fabbriche e del punto unico di contingenza -un evento che idealmente chiuse il ciclo di lotte sindacali apertosi nel 1968. La protesta popolare non era però sconfitta e riesplose in novembre quando un terremoto devastò Campania e Basilicata ma i soccorsi tardarono, spingendo Berlinguer a rivendicare il diritto di formare un governo di cui il Pci sarebbe stato il perno, ottenendo più che altro una alternanza tra le forze di maggioranza sicché a maggio 1981 Giovanni Spadolini del Partito repubblicano fu il primo capo di governo della storia repubblicana esterno alla Dc. In ogni caso a dicembre, durante una Tribuna politica, Berlinguer annunciò la rottura con l’Unione Sovietica senza procedere ad un vero e proprio ripensamento del marxismo quanto adottando un’ideologia difficilmente definibile, caratterizzata da un intreccio di egualitarismo, terzomondismo, sessantottismo e radicalismo cattolico -tutti accomunati dall’anticapitalismo. Alle elezioni del 1983, invece, fu per la prima volta osservabile un nuovo atteggiamento che vedeva i programmi prevalere sui princìpi e in agosto Bettino Craxi formò il suo primo governo indicando come propri obiettivi il risanamento della finanza pubblica e una riforma delle istituzioni. L’avvenimento economico più importante fu il calo dell’inflazione (in costante aumento nel ventennio precedente a finanziare la crescita della spesa pubblica, raddoppiata tra il 1960 e il 1983) iniziato con Spadolini ma di cui Craxi rivendicò il merito, in parte a ragione per la decurtazione del 15% del punto di contingenza e la predeterminazione della scala mobile. Il tenore di vita degli italiani continuava a migliorare ma la vita politica ebbe un duro colpo l’11 giugno 1984 con l’improvvisa morte di Berlinguer seguita pichi giorni dopo dalle elezioni europee che videro il Pci primo partito. Il buon risultato fu in realtà indicatore soprattutto del momento difficile della Dc, tanto che da qui in poi i comunisti entrarono in un lento ma inesorabile declino anche a causa dell’indeterminato programma economico e della scarsa incidenza delle posizioni ideali della linea berlingueriana, un internazionalismo terzomondista, antiamericanista e antisovietico unito ad una certa dose di moralismo. Tale idealismo fu molto lontano dalle linee adottate in politica estera da Bettino Craxi, arrivato allo scontro frontale con gli Stati Uniti nella crisi di Sigonella e promuovendo una linea filoaraba e filopalestinese abbandonata giungendo alle strette con Gheddafi. Nel 1986 un’esplosione nella centrale nucleare di Černobyl’ sprigionò una nube radioattiva arrivata anche in Italia aprendo ad un turbamento generale da cui il referendum del 1987 che bloccò la costruzione di nuovi centrali. Nello stesso anno divenne presidente della repubblica Francesco Cossiga, il primo dopo il settennato fortemente interventista di Pertini, e il governo tornò ai democristiani con le dimissioni di Craxi. Alle elezioni Dc e Psi furono stabili, perse molti voti il Pci e fecero la loro comparsa una lista Verde e la Lega Lombarda, nel 1991 trasformatasi in Lega Nord. Il nuovo partito, sotto la guida di Umberto Bossi, faceva riferimento alla Padania un termine già usato negli anni ’70 dal comunista Guido Fanti ma all’ora privo di seguito. Il 6 agosto 1990 fu approvata la legge proposta da Oscar Mammì che disciplinava il sistema radiotelevisivo, ufficialmente a tutela del pluralismo e dell’imparzialità dell’informazione ma aprendo più che altro al successo dell’influenza di Silvio Berlusconi e al proliferare delle trasmissioni trash. Intanto il Pci affrontava il proprio passato e, a poco più di un anno dal crollo del Muro di Berlino, il segretario Achille Occhetto propose la trasformazione del partito in Partito democratico della sinistra suscitando l’opposizione di Pietro Ingrao -cui tesi erano in pinea linea con le posizioni berlingueriane e in anticipo rispetto al movimento “no global” di fine secolo. Il Partito comunista italiano si scisse dunque in una fazione velleitariamente riformista, confluita nel Pds, e una confusamente rivoluzionaria che diede vita al Partito della rifondazione comunista. Nel 1990 l’Italia era un Paese che aveva conquistato un notevole benessere a prezzo di durissimi sacrifici e il comunismo tornò nel regno delle utopie pur restando nel discorso politico, tra chi voleva rifondarlo e chi usarlo come spauracchio. La crisi dei vecchi partiti fu il frutto di un’implosione e non di una dura sconfitta elettorale (pur paventata da cali nei consensi a vantaggio di formazioni come la Lega Nord) favorita dall’inchiesta dei giudici milanesi nota come “Mani pulite” apertasi con l’arresto di un rappresentante minore del Psi che avrebbe aperto una breccia sulla profonda corruzione, la cosiddetta “Tangentopoli”, necessaria per tenere in vita le gigantesche burocrazie costruitesi nei partiti. A ciò si doveva aggiungere la caduta dell’Urss (dannosa anche per la Dc), le dimissioni di Cossiga, la proclamazione di indipendenza del Nord ad opera di Bossi e gli assassinii mafiosi dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, inizio di una lunga serie proseguita fino al 1993 e chiusasi per intrecci poco chiari con la politica. I partiti trovarono un minimo di unità per l’elezione di Oscar Luigi Scalfaro alla presidenza della repubblica, rifiutata solo da Msi e Rifondazione. Il 7 febbraio 1992 l’Italia aderì al trattato di Maastricht ma la situazione finanziaria degenerò rapidamente a causa di cause di lungo corso legate alla forte crescita nella spesa pubblica a cui contribuì l’aumento degli interessi passivi e causa dell’indebolimento dell’Italia sui mercati internazionali. La spesa era finanziata attraverso debiti contratti coi cittadini che acquistavano debito pubblico, finendo per erodere la ricchezza delle famiglie. Il governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, richiese al governo una manovra da 30mila miliardi per compensare la riduzione delle riserve valutarie da 56 a 34 miliardi di dollari, necessaria per difendere la lira dagli speculatori. Bisognava tagliare tutte le spese e il governo Amato intrudesse anche una tassa del 6‰ su tutti i depositi bancari, salvando l’Italia dalla bancarotta ma senza risolvere una situazione che restava gravissima sicché si svalutò la lira del 7%, venne abbandonato il Sistema monetario europeo e approvata una finanziaria da 93mila miliardi con nuove imposizioni e tagli. Venne elaborato da Amato e Barucci un progetto che prevedeva entrate per 150mila miliardi e fortunatamente l’asta dei bot fu un successo e l’anno dopo fu possibile fare un’asta con tassi all’8%. Se la bancarotta era stata evitata non si era però posta soluzione ai problemi di fondo che l’avevano quasi causata, primo fra tutti il debito pubblico nel 1994 schizzato al 115,6% dovuto alla costruzione di un welfare state sopra le possibilità dell’Italia. Peggiorò la crisi dei partiti, venne approvata una legge elettorale per il Senato che assegnava il 75% dei seggi col maggioritario e il restante 25% col proporzionale. In marzo venne richiesta l’autorizzazione a procedere contro Giulio Andreotti con l’accusa di aver intrattenuto rapporti con ambienti mafiosi e il governo Amato dovette dimettersi portando alla nascita del primo governo “tecnico”, a guida di Ciampi e fautore di una finanziaria che piuttosto che sull’aumento delle entrate puntò sulla riduzione delle uscite. Una possibile via d’uscita dal basso alla crisi politica sembrò arrivare con l’elezione diretta dei sindaci ma così non fu. Con la fine dell’esperienza al governo di Ciampi la Dc si trasformò in Partito popolare italiano, mentre altre correnti si costituirono nel Centro Cristiano democratico a capo di Pierferdinando Casini e nei Cristiani democratici uniti di Rocco Buttiglione. Silvio Berlusconi annunciò l’ingresso in politica e Gianfranco Fini mutò il Msi in Alleanza nazionale. Malgrado la tendenza sembrasse favorevole alla sinistra fu Berlusconi a uscire vincitore alla elezioni del 1994, grazie alla capacità di Forza Italia di intercettare tutti i voti liberati dalla crisi della Dc riuscendo anche a dare risposte più concrete alla galassia delle piccole e medie imprese; il movimento era un vero e proprio partito-azienda, modello vincente alla sconfitta del partito etico, e vedeva una forte personalizzazione del leader che appariva come personificazione dell’antipolitica. Forza Italia si era alleata con la Lega Nord nel Polo della libertà e con Alleanza nazionale nel Polo per il buon governo ma l’esperienza governativa non durò che pochi mesi per l’uscita dalla maggioranza di Bossi, testimone della fragilità del blocco sociale base della maggioranza che teneva faticosamente insieme il “popolo delle partite Iva” con i lavoratori dipendenti -allo stesso modo neanche l’opposizione formava un blocco coeso, risultando unita dalla sola lotta a Berlusconi creando il cosiddetto “bipolarismo imperfetto”. Caduto Berlusconi tornò al potere un “tecnico”, Lamberto Dini, che ottenne un importante accordo di lunga durata coi sindacati sulla riforma del sistema pensionistico. Alle elezioni del 1996 si impose L’Ulivo, la coalizione di centrosinistra guidata da Romano Prodi che fu in grado, al costo di duri sacrifici e secondo una coerente politica europeista, di ridurre il debito pubblico italiana tanto che a novembre la lira poté rientrare nello Sme ma che per governare ebbe bisogno dei voti di Rc che poi avrebbe fatto cadere il governo, secondo una linea del leader Fausto Bertinotti. Seguì il governo di Massimo D’Alema, segretario del Pds, che attraverso una commissione bicamerale tentò una riforma istituzionale priva però di ampia base sociale e dunque destinata al fallimento mentre grande legittimazione arrivò dalla politica estera. Obiettivo portante di questi governi di centrosinistra e del successivo governo Amato fu portare l’Italia in Europa e ci riuscirono, mentre Bertinotti individuava nuovi soggetti rivoluzionari nei movimenti contro la globalizzazione ritrovandosi coinvolto in un singolare avvicinamento alla Chiesa di papa Giovanni Paolo II ponendo ambedue come riferimenti le società fondamentalmente precapitalistiche di Africa e Sudamerica. Stava diventando una questione sempre più urgente l’immigrazione trattata perlopiù in termini irrealistici, in un periodo in cui l’Italia viveva una progressiva compenetrazione di culture diverse. I primi anni del XXI secolo vennero segnati dal macigno del debito pubblico e dalla diffusa mal sopportazione per la “guerra civile recitata”; nel 2001 le elezioni vennero vinte dalla Casa delle libertà e Berlusconi fu in grado di diminuire le tasse e accrescere l’occupazione ma contingenze impedirono che i risultati fossero chiari a tutti. Differentemente rispetto al resto d’Europa, il centro-destra italiano non incrementò le liberalizzazioni, sia per ragioni ideologiche (v. Udc e An) sia per calcolo politico-elettorale come nel caso di Forza Italia cui politica di riduzione delle tasse significò una ripresa della crescita del debito pubblico. Nel 2006 uscì vincitrice alle urne l’Unione, coalizione che raccoglieva i Democratici di sinistra, la Margherita e Rifondazione comunista grazie all’abilità di Prodi di accontentare ora i moderati ora i radicali riuscendo altresì a portare avanti un miglioramento dei conti pubblici senza operare però un risanamento strutturale dell’economia italiana -anzi, nel 2007 venne modificata la legge Dini sulle pensioni. A gennaio 2008, per una manciata di voti al Senato, il governo cadde.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved