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Riassunto "Manuale di Storia medievale" di Andrea Zorzi, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto del manuale di Storia medievale di Andrea Zorzi.

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019
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Caricato il 08/11/2019

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Scarica Riassunto "Manuale di Storia medievale" di Andrea Zorzi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! La trasformazione del mondo romano La crisi dell’impero romano (III-V secoli) Fino all’inizio del II secolo l’impero romano aveva assicurato sviluppo economico e stabilità politica su un’area vastissima gravitante sul Mediterraneo. Ai popoli che erano entrati a farne parte, la pax romana aveva garantito il mantenimento delle proprie istituzioni e religioni, in cambio della fedeltà a Roma. L’estensione della cittadinanza romana a tutti gli uomini liberi dell’impero nel 212 copriva enormi differenze tra le diverse regioni: aree popolate da città ed altre più rurali, province orientali dove si parlava il greco e province romane in cui si parlava latino. A tenere insieme questo organismo che giunse a contare 50 milioni di abitanti, concorrevano non solo il sistema statale di comunicazioni stradali, marittime e postali, e lo sviluppo di apparati burocratici e militari, ma l’unità dei gruppi dirigenti dell’impero: un’aristocrazia culturalmente omogenea, urbana ma dotata di grandi patrimoni fondiari, alfabetizzata e raccolta nel senato. La fine delle conquiste romane determinò un rapido calo della manodopera schiavistica. I costi per il mantenimento degli apparati statali determinarono un inasprimento del prelievo fiscale. Si creò uno squilibrio tra risorse e necessità: la spesa pubblica superò l’ammontare delle entrate e la coniazione di una moneta di sempre minore valore fece crescere l’inflazione. Il divario tra ricchi e poveri si accentuò: moltissimi artigiani e piccoli proprietari terrieri furono costretti a vendere i propri beni e cercare lavoro come braccianti nei latifondi dei senatori. Si moltiplicarono fenomeni come il brigantaggio sulle strade e la pirateria nei mari. I traffici mercantili subirono una forte contrazione. Nel corso del III secolo l’elezione degli imperatori dipese sempre più dall’esercito, composto da soldati di mestiere reclutati tra le popolazioni barbariche. Le legioni finirono con l’acclamare imperatori i propri comandanti: tra 235 e 284 ne succedettero ventotto. Fu Diocleziano, imperatore dal 284 al 305, ad avviare un periodo di riforme: per rilanciare l’autorità imperiale egli associò al trono Massimiano, cui affidò il governo delle regioni sul Reno mente si prese cura diretta di quelle danubiane e orientali, spostando la sua residenza da Roma a Nicomedia, in Asia Minore ( e la capitale da Roma a Milano nel 286). Il governo fu trasformato in <<tetrarchia>> nel 293, quando ai due <<augusti>> furono associati due <<cesari>> (Galerio, che ebbe l’Illirico, e Costanzo Cloro la Gallia e la Britannia), allo scopo di sottrarre la nomina dei successori al controllo dell’esercito. Per rendere più efficace l’amministrazione del territorio, nel 297 le province furono rese più piccole, sottoposte ad un doppio comando, civile e militare, e riunite in 12 grandi diocesi inquadrate in 4 prefetture. L’esercito fu diviso tra truppe stanziali sui confini e legioni da combattimento al seguito dell’imperatore. L’aristocrazia senatoria fu estromessa dai comandi, mentre vennero promossi di grado militari di carriera provenienti da ceti meno elevati. Il numero dei soldati arrivò a contare 500mila uomini, raddoppiando i costi di mantenimento, che si sommavano alle spese per mantenere l’apparato burocratico. Per sostenere l’espansione della spesa furono adottate diverse misure: una più razionale amministrazione del fisco, attraverso un più equo sistema di esazione della tassa fondiaria fondato sul catasto (lista dei beni immobili redatta per accertarne la proprietà). Per i coltivatori le tasse giunsero a superare il costo degli affitti: per frenare la fuga dalle terre i coloni (contadini che coltivano la terra altrui) furono obbligati a risiedervi. Nel 301 Diocleziano cercò di arginare l’inflazione fissando i prezzi massimi dei beni di consumo e delle prestazioni d’opera, ma ciò non produsse gli effetti sperati. Dopo una lunga serie di conflitti che l’opposero, tra 306 e 324, agli altri pretendenti, il figlio di Costanzo Cloro, Costantino, rimase l’unico imperatore fino alla morte nel 337. Sul piano amministrativo, egli proseguì nel solco delle riforme promosse da Diocleziano, rafforzando gli uffici ministeriali, separando le carriere civili da quelle militari, diminuendo le truppe di confine e incrementando l’esercito mobile. Sul piano economico legò il sistema monetario all’oro, coniando il solidus. Egli prese atto che il baricentro politico, economico e culturale dell’impero era andato progressivamente spostandosi verso Oriente: per questo trasformò l’antica città di Bisanzio (attuale Istanbul), in una <<nuova Roma>>, che da lui prese il nome di Costantinopoli nel 330. Il trasferimento della capitale evidenziò la divaricazione tra l’Occidente e l’Oriente dell’impero, causata da differenze ambientali, economiche e sociali, che si accentuarono nel corso del IV e V secolo. Le città decaddero in occidente mentre in Oriente mantennero un ruolo centrale nei commerci e nelle produzioni. Le ricchezze tesero quindi a confluire verso Oriente, dove le differenze tra ricchi e poveri erano meno accentuate. Salvaguardata l’unità dello Stato dopo le prime gravi migrazioni barbariche, Teodosio, imperatore dal 379 al 395, dispose la suddivisione dell’impero alla sua morte tra i suoi due figli, affidando ad Arcadio l’Oriente e a Onorio l’Occidente (ove nel 402 fu spostata la capitale a Ravenna). Da allora i destini dei due imperi avrebbero seguito percorsi diversi: mentre in Oriente lo sviluppo dell’ordinamento pubblico continuò ad essere sostenuto dalla crescita economica, in Occidente la crisi ampliò le disparità sociali e accentuò la disgregazione delle istituzioni. Romani e barbari: integrazioni e conflitti Alla trasformazione del mondo romano contribuì in maniera determinante l’incontro tra le popolazioni barbariche e quelle romane. A lungo gli storici hanno ritenuto che la fine dell’impero romano in Occidente fosse stata dovuta alle <<invasioni>> barbariche e alle distruzioni da esse perpetrate. Ma le migrazioni dei germani non avevano dato luogo a una contrapposizione di civiltà, bensì a un più complesso processo di acculturazione reciproca. Ciò che avvenne fu un contatto prolungato e diretto fra culture diverse, tale da modificarne i modelli di riferimento: il mondo barbarico era seminomade, rurale, tribale e pagano; quello romano stanziale, urbano, socialmente organizzato e progressivamente cristianizzato. Il contatto tra culture così diverse produsse inevitabili conflitti e violenze, ma anche integrazioni e convivenze. Sia il mondo romano sia quello barbarico erano molto eterogenei al loro interno: molte province dell’impero, per quanto romanizzate, avevano mantenuto forti identità locali; i popoli barbarici, a loro volta, erano costituiti da tribù di identità etnica molto fluida. Ciò spiega anche perché l’incontro tra le popolazioni diede vita a configurazioni assai diverse a seconda delle regioni. L’irruzione e lo stanziamento delle tribù germaniche all’interno dei confini dell’impero romano occidentale non lo sconvolsero all’improvviso, ma si diluirono nel tempo, dalle prime incursioni nel II secolo alle ultime migrazioni del VI secolo. Inoltre, i nuovi venuti non erano numerosi a fronte delle popolazioni residenti, e dunque il loro impatto fu graduale. Nondimeno, le violenze e le distruzioni furono numerose e i loro effetti contribuirono a segnare le discontinuità economiche, politiche e culturali tra il mondo romano e quello medievale. Prevalsero gli elementi di integrazione, cui diede un contributo fondamentale anche il processo di conversione al cristianesimo da parte delle popolazioni barbariche. L’influenza dei romani sui germani era stata intesa sin dal I secolo e aveva determinato cambiamenti nelle tribù ben prima che fossero attratte dalle più fertili e miti regioni mediterranee e dalle ricchezze delle province imperiali. L’afflusso di beni romani accentuò le stratificazioni sociali ed economiche all’interno delle tribù e acuì le differenze di rango tra i vari capi. L’arruolamento di guerrieri germanici nell’esercito romano favorì la creazione di forti nuclei di potere all’interno delle genti barbariche, interlocutori privilegiati di Roma. Le strategie di integrazione attuate con la foederatio e l’hospitalitas contribuirono ad attenuare i conflitti e a promuovere occasioni di incontro. Nel complesso il processo di acculturazione vide prevalere i modelli romani, nonostante che le popolazioni latine fossero quasi sempre escluse dal potere militare e politico nei regni post imperiali. Ciò spiega perché i germani contrastarono spesso ungherese) che diede avvio a un colossale processo di spostamenti a catena, che portarono alla disgregazione dell’ordinamento politico imperiale. <<Barbari>> erano, per i greci dapprima e poi per i romani, quei popoli che non parlavano il greco o il latino ma delle lingue incomprensibili (da qui l’espressione <<bar-bar>>) e che non condividevano i loro costumi. Per estensione, il termine, che mantenne sempre una connotazione negativa, designava tutte le popolazioni stanziate al di là del limes, cioè del confine dell’impero. A loro volta, i termini <<germano>> e <<barbaro>> non vanno intesi come sinonimi, dal momento che quella germanica fu solo una delle molte componenti della galassia di popolazioni barbariche composta da genti nomadi e seminomadi provenienti dalle pianure dell’Europa orientale e dalle steppe asiatiche. Le popolazioni barbariche si formarono in un clima di forte contaminazione: in origine le varie tribù non avevano un’identità etnica o culturale precisa, ma erano gruppi eterogenei in continua ridefinizione che vennero formandosi come popoli proprio attraverso l’esperienza delle migrazioni. L’incontro tra i barbari e i romani era cominciato ben prima delle invasioni. L’impero aveva rinunciato alla conquista della Germania già al tempo di Tiberio (14-37), pur avendo spinto le proprie truppe fino all’Elba. Si preferì consolidare il limes in corrispondenza dei due grandi fiumi europei, Reno e Danubio, provvedendo a dotarlo di un sistema di fortificazioni. Le popolazioni barbariche confinanti cominciarono così a entrare nell’orbita del sistema imperiale, costituendone una sorta di periferia. I capi ebbero frequenti contatti con la corte imperiale, i guerrieri furono arruolati nell’esercito romano, gruppi di uomini liberi si insediarono come coloni in varie regioni, rapporti commerciali fecero affluire verso nord oggetti di lusso, armi, alimenti, e anche influssi culturali e artistici, in cambio di prodotti naturali come pellicce e schiavi. Il volume degli scambi raggiunse il suo massimo tra il II e III secolo. Incursioni sempre più frequenti si susseguirono dal III secolo, ma fu lo spostamento dei visigoti alla ricerca di uno stanziamento definitivo l’elemento che destabilizzò l’equilibrio politico dell’impero tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. Aggrediti dagli unni, erano stati accolti in Tracia nel 375, ma la loro presenza si risolse in saccheggi e rapine fino allo scontro con l’esercito romano, che fu clamorosamente sconfitto presso Adrianopoli nel 378 dove trovò la morte l’imperatore Valente. Da lì i visigoti condussero scorrerie in Grecia, in Macedonia, nell’Illirico e nella pianura padana, dove nel 401 saccheggiarono Aquileia e minacciarono Milano, prima di essere respinti dall’esercito guidato dal generale di origine vandala Stilicone. Guidati da Alarico, essi tornarono in Italia puntando direttamente su Roma, che saccheggiarono nel 410. Risalita la penisola ottennero di potersi stanziare nella Gallia meridionale, dove, combattendo come alleati con altre popolazioni, misero sotto controllo l’intera Aquitania, costruendo di fatto nel 418 il primo regno barbarico all’interno del territorio imperiale. Dopo il fallimento del tentativo di stanziare i visigoti all’interno dei confini e la bruciante sconfitta di Adrianopoli, l’impero d’Oriente evitò eccessive contaminazioni con i barbari. Fu soprattutto la loro presenza nell’esercito a essere oggetto di sentimenti d’ostilità a sfondo xenofobo. La tenuta delle istituzioni, sostenute da un’economia solida, da una compagine sociale compatta e da un forte consenso intorno all’imperatore portarono all’estromissione violenta degli ufficiali di origine germanica dalle altre cariche militari, con il massacro nel 400 del generale goto Gainas di migliaia di suoi connazionali. Da quel momento si badò a preservare il territorio da ogni infiltrazione barbarica, cercando anche di deviarne le incursioni verso Occidente, e in tutto l’impero si cominciò a guardare a Costantinopoli come all’unico baluardo contro i pericoli esterni. In Occidente sentimenti di chiusura si alternarono a tentativi di integrare le popolazioni barbariche che vi affluivano. Soluzioni pragmatiche furono tentate attraverso le formule della foederatio e dell’hospitalitas. Con la prima, truppe barbare sottoposte al comando dei capi tribali vennero inquadrate in veste di alleate, ricevendo un compenso: la soluzione si rivelò efficace con i franchi, che combatterono a lungo a difesa della Gallia settentrionale. La seconda prevedeva la concessione di un terzo delle tasse sulle terre di una determinata regione a gruppi etnici di rilevanti dimensioni che dichiaravano fedeltà all’impero e si impegnavano a fornire un appoggio militare pur rimanendo indipendenti. Il sistema era appetito dalle popolazioni: la sua mancata concessione indusse i visigoti al saccheggio di Roma nel 410. All’inizio del V secolo cedettero le frontiere dell’impero. Per affrontare i visigoti, il grosso dell’esercito era stato spostato in Italia, sguarnendo i confini settentrionali. La Britannia fu abbandonata nel 406 esponendola alle incursioni dei pitti e degli scoti., provenienti dall’odierna Scozia e dall’Irlanda. Per fronteggiarle fu favorito l’insediamento come federati degli angli e dei sassoni provenienti dalle coste continentali settentrionali, che crearono dei regni che indussero le popolazioni britanniche a ritirarsi nell’attuale Galles e, oltre la Manica, nella regione che da loro prese il nome di Bretagna. Il limes del Reno fu attraversato nell’inverno del 406-407 da diversi gruppi, soprattutto alani, burgundi, suebi e vandali, che dilagarono nella Gallia incontrando la sola opposizione dei federati franchi, che nel 409 li spinsero a stanziarsi oltre i Pirenei nella penisola iberica. Su incarico dell’impero, tra 415 e 418 i visigoti vi dispersero gli alani, stringendo i vandali nell’estremo sud, che prese il nome di Vandalusia (odierna Andalusia). Sotto Valentiniano III (425-455) l’impero seppe reagire in Gallia attraverso azioni militari decise che rivelarono la debole coerenza delle etnie barbariche. Il generale Ezio ebbe un ruolo decisivo alla guida di un esercito innervato da contingenti barbarici: contenne le pressioni dei visigoti a sud e dei franchi sul Reno, stanziò i burgundi nella Sapaudia; e in alleanza con franchi e visigoti, respinse l’invasione degli unni guidati da Attila, sconfitti in battaglia nel 451 e ritiratisi anche dall’Italia nel 452. Per intrighi di palazzo Ezio fu fatto uccidere dall’imperatore nel 454. Nel Mediterraneo, invece i vandali si erano spostati nell’Africa del nord dove invano l’impero cercò di federarli. Sotto la guida di Genserico (428-477) essi occuparono Cartagine nel 439, da dove esercitarono una continua azione di pirateria nel Mediterraneo e invasero le isole: la Sicilia dal 440, le Baleari, la Corsica e la Sardegna dal 455. Sempre via mare, saccheggiarono Roma nel 455. Quando le migrazioni sembrarono cessate, i rinnovati contrati ai vertici dello stato, ove si succedettero una serie di imperatori privi di reale potere, ne indebolirono le capacità di controllo, ormai limitate all’Italia e a una parte della Gallia. Qui il generale romano Siagrio rese dal 464 al 486 un dominio personale tra la Loira e la Senna che costituì l’ultimo avamposto gallo-romano in un contesto ormai generalizzato. In Italia invece, nel 476 il generale sciro Odoacre depose il giovane Romolo Augustolo e restituì le insegne imperiali, dando vita a un dominio personale che non fu però riconosciuto dall’imperatore d’Oriente Zenone. Anche per allontanarne la minaccia immediata, Zenone affidò invece l’amministrazione della prefettura dell’Italia a Teoderico, che nel 488 aveva guidato gli ostrogoti al saccheggio di Costantinopoli. Sconfitto Odoacre nel 493, Teoderico diede vita a un regno che avrebbe governato la penisola fino al 553. L’Occidente post-imperiale I regni romano barbarici Lo stanziamento dei barbari entro i confini dell’impero d’Occidente promosse la formazione di una serie di regni nel corso del V secolo. Ciò non significò la fine dell’impero romano, perché esso continuò ad esistere nella parte orientale. Gli stessi regni riconobbero l’autorità imperiale, cui tributarono formali atti di sottomissione. Per questo la deposizione di Romolo Augustolo nel 476 passò quasi inosservata al confronto dell’eco che ebbero invece il cedimento della frontiera sul Reno nel 407 o i saccheggi di Roma nel 410 e 455. Per i romani si trattò di elaborare nuove forme di convivenza con i barbari sotto l’autorità dei lor sovrani. Non a caso i regni vengono chiamati romano-barbarici proprio a sottolinearne la natura mista sul piano etnico e istituzionale. In essi si sperimentò l’incontro delle tradizioni e dei modelli ideologici e religiosi della romanità. Là dove l’integrazione tra le due componenti fu più accentuata i regni si rivelarono più stabili. La società romana mantenne infatti forme di coesione, nonostante l’accentuazione di fenomeni di crisi che si erano manifestati già dal III secolo, come la diminuzione della popolazione, la divaricazione delle condizioni sociali e l’inaridirsi di attività economiche. Al crescente abbandono delle città corrispose la sempre maggiore importanza del mondo rurale, dove le grandi proprietà fondiarie divennero il luogo primario dell’organizzazione economica e sociale. I latifondi rimasero saldamente in mano all’aristocrazia senatoria (un gruppo sociale che è stato calcolato ammontasse a circa 3-4mila famiglie), che mantenne l’autorità e il prestigio, esercitando la propria influenza su schiere sempre più ampie di clienti, contadini, coloni e schiavi. La conversione al cristianesimo dell’aristocrazia romana si accentuò per effetto della diffusa sensazione di angosciosa fine di un’epoca. Personaggi eminenti per cultura e censo, appartenenti a famiglie senatorie furono nominati vescovi. Nel progressivo venire meno delle strutture imperiali, furono le istituzioni ecclesiastiche a garantire l’inquadramento delle popolazioni latine e la continuità con il passato. Nelle campagne, i monasteri si offrirono come nuclei importanti di coesione sociale e culturale. Nelle città abbandonate dai funzionari imperiali, i vescovi si fecero carico dell’assistenza degli abitanti, svolgendo compiti amministrativi e giudiziari, provvedendo alla difesa e al rifornimento alimentare. Furono loro a trattare con i barbari, contrastandoli anche militarmente, più spesso patteggiando il loro insediamento. I barbari dovettero misurarsi con questa realtà, ancora saldamente radicata nelle proprie tradizioni sociali e civili. Essi furono ovunque una netta minoranza rispetto alle popolazioni di origine romana, che raggiunsero i 18-20 milioni in Occidente e in Africa alla metà del V secolo. Il loro stanziamento si concentrò in territori ristretti, intorno ai centri politici e ai luoghi di difesa strategica. In molte aree, rurali ma anche urbane, l’insediamento fu invece del tutto assente. Il possesso di terre produsse anche una differenziazione sociale fra semplici guerrieri e i capi militari dotati di proprietà più estese. Ad entrambi i livelli si produsse, nel tempo, anche un’uniformazione con la componente romana che diede corpo a una vera e propria aristocrazia di grandi possessori, e dall’altro un ceto di piccoli proprietari. I re erano capi militari, eletti dagli uomini armati riuniti in assemblea. Nel corso del tempo la loro funzione dovette tramutarsi dalla semplice abilità di comandare sugli uomini alla più complessa capacità di governare un territorio. I loro poteri erano ampi per il diritto di punire e confiscare ricchezze, di comandare su tutti gli abitanti, sia barbari sia romani, e di disporre come patrimonio di tutto il territorio che non avesse un padrone. Crollata con l’impero la capacità di imporre le tasse, le risorse di cui i re potevano disporre provenivano dal fisco, vale a dire dal patrimonio della loro stirpe, spesso straordinariamente esteso, ma insufficiente per assicurare gli uomini e i mezzi necessari al governo del regno. L’amministrazione centrale si limitava a poche persone, spesso appartenenti alla popolazione romana, l’unica ancora alfabetizzata. Nel territorio l’apparato dei rappresentanti del re (conti, gastaldi) rimase sempre rudimentale. Mentre i romani continuarono a vivere secondo le regole del diritto romano, talora raccolte per iniziativa degli stessi sovrani barbarici, i barbari conservarono le proprie consuetudini giuridiche, che privilegiavano la personalità del diritto, ed erano prive di elementi di diritto pubblico. Solo quando i regni cominciarono a stabilizzarsi, le popolazioni si preoccuparono di redigere le consuetudini per iscritto. Queste compilazioni, redatte in lingua latina, erano il segno del processo di acculturazione che era in atto tra le popolazioni barbariche. Le leggi barbariche subirono l’influsso del diritto romano e di quello canonico, e con l’andare del tempo finirono con l’assumere una validità tendenzialmente territoriale, estesa a tutti i sudditi del regno. Le raccolte normative promosse nei regni romano-barbarici si rivolsero della sua popolazione. Alla morte di Clodoveo, nel 511, la concezione patrimoniale del potere portò alla spartizione del regno tra gli eredi. Quello dei franchi fu in realtà un insieme di regni tra loro conflittuali, benché non fosse mai venuta meno l’idea di un organismo politico comune: ogni re si intitolava <<re dei franchi>>. Né la frammentazione impedì ulteriori espansioni tra 531 e 536: l’annessione della Provenza (che garantì l’accesso al Mediterraneo), la sottomissione dei burgundi, l’assoggettamento dei turingi e degli alamanni tra il Reno e l’Elba. Nella grande potenza territoriale che venne così formandosi si distinguevano alcune regioni: l’Andalusia (la <<terra dell’est>>), che restò sempre la regione più fortemente germanizzata; la Neustria (la <<nuova terra dell’ovest>>), dove più profonda era stata la compenetrazione tra civiltà latina e germanica; la Burgundia, l’antico regno dei Burgundi, che conservò tenacemente la sua individualità politica e culturale; e l’Aquitania, che non costituì mai un regno a sé, dove assai scarsa era la presenza dei franchi e più radicate le tradizioni gallo-romane. I regni riuscirono a superare i conflitti e a trovare una certa unità solo sotto i re Clotario II (613-629) e Dagoberto (629-639). Essi dovettero però concedere ampie prerogative di governo locale all’aristocrazia. Questa fondeva ormai l’elemento germanico con quello romano: non solo si celebravano sempre più di frequente matrimoni misti, ma vi era ormai la convergenza fra gli stili di vita. L’aristocrazia gallo-romana avviava i propri figli alle carriere militari, perseguendo i modelli di preminenza sociale fondati sul prestigio delle armi; quella germanica puntava alle carriere ecclesiastiche, constatando il prestigio sociale e il peso politico dei vescovi. Dalle famiglie aristocratiche locali erano reclutati anche gli ufficiali pubblici: i conti (comites), che perlopiù risiedevano nelle città con compiti giudiziari e militari, e i duchi, a capo di più ampie circoscrizioni territoriali. Approfittando della debolezza dei re nel corso del VII secolo l’amministrazione dei vari regni fu sempre più controllata dai maestri di palazzo, i massimi funzionari di corte, che usarono il patrimonio regio per crearsi delle clientele militari attraverso la distribuzione di terre. Una grande famiglia dell’aristocrazia austrasiana, quella dei Pipinidi, riuscì a rendere ereditaria tale carica e, con Pipino II di Herstal, a riunire nelle sue mani nel 687 i ruoli di maggiordomo dei regni di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio Carlo detto Martello (cioè piccolo Marte) avviò una forte espansione contro alamanni, bavari, turingi e sassoni, e nel 732 condusse l’esercito franco nella vittoria di Poitiers contro una spedizione islamica, arrestandone l’avanzata verso nord. La vittoria fu di preludio alla deposizione del re Childerico III ad opera del figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, che fu acclamato re dai grandi del regno nel 751. L’affermazione dei Pipinidi fu legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma: Pipino si fece ungere con il sacro crisma nel 754, dal papa Stefano II, che consacrò anche i figli Carlomanno e Carlo, il futuro re Carlo Magno. L’Italia fra longobardi e bizantini Le lotte per la successione al re ostrogoto Teoderico offrirono l’occasione all’imperatore Giustiniano per inviare truppe in Italia nel 535. Dopo un lungo conflitto protrattosi fino al 553, che prostrò duramente la società italica, colpita nei patrimoni fondiari e afflitta da carestie e pestilenze che produssero un drammatico regresso demografico ed economico, e che segnò la vera fine della civiltà antica nella penisola, Giustiniano ristabilì il dominio imperiale sull’Italia. Con la Prammatica sanzione del 554 egli estese la legislazione bizantina all’Italia, riorganizzò le circoscrizioni territoriali e mantenne divisa l’amministrazione civile da quella militare. Ma il paese era ormai allo stremo: ne fu prova la nulla resistenza opposta all’invasione dei longobardi. I longobardi si erano trasferiti dalle foci dell’Elba in Pannonia alla fine del V secolo. Da lì, pressati da altri popoli (gepidi ed avari), essi emigrarono in Italia attraverso il Friuli nel 569 guidati dal re Alboino, e si insediarono in modo disomogeneo in tre aree principali: la pianura padana, la Toscana i territori intorno a Spoleto e Benevento. Le coste rimasero invece in mano ai bizantini, insieme con l’Istria, Ravenna e il suo entroterra, la Pentapoli (una fascia di territorio comprendente cinque città tra Rimini e Ancona), il territorio di Roma, collegato a nord da una serie di castelli appenninici, Napoli e il suo entroterra, la Puglia, la Calabria e le isole maggiori. L’Italia si trovò così divisa sotto due dominazioni profondamente diverse per tradizioni, istituzioni, costumi e lingua: una frattura che avrebbe segnato a lungo la storia politica della penisola e che si sarebbe ricomposta solo nel XIX secolo. L’insediamento dei longobardi, una popolazione germanica che le fonti dell’epoca descrivono come ferocemente estranea alla cultura romana, ebbe un impatto violento sulla società italica e comportò la dispersione dell’antica aristocrazia senatoria. Le terre furono confiscate e distribuite tra i membri dell’esercito longobardo, i quali si trasformarono in proprietari fondiari, pur mantenendo la caratteristica di uomini in armi (arimanni), distinti giuridicamente dai servi, cui erano affidati i lavori agricoli, e dai semiliberi (aldii). I longobardi si distribuirono sul territorio in raggruppamenti familiari con funzioni militari (fare), sottoposti all’autorità dei capi guerrieri, i duchi, che li avevano guidati in Italia. Questi erano cristiani di fede ariana, mentre la gran parte del popolo seguiva ancora i culti religiosi di tradizione germanica. I primi decenni dello stanziamento longobardo furono caratterizzati da una forte conflittualità interna tra i re e i duchi (complessivamente una trentina) che agivano in sostanziale autonomia. Dopo un decennio (574-584) di divisione politica senza alcun re, dapprima Autari (584-590) e poi Agilulfo (590-616) si diedero a un’opera di rafforzamento dell’autorità regia emarginando i duchi più riottosi e costituendo un vasto patrimonio fiscale, grazie alla concessione al sovrano da parte dei duchi della metà delle terre dell’antico fisco imperiale. Un graduale superamento della contrapposizione fra i longobardi ariani e i romani cattolici fu avviato, grazie alla mediazione della regina Teodolinda, con papa Gregorio Magno (590-604) preoccupato di salvare Roma. I sovrani, convertiti al cattolicesimo, patrocinarono una serie di fondazioni monastiche tra le quali, nel 612, Bobbio per opera del monaco Colombiano. Nel 653 re Ariperto abolì ufficialmente l’arianesimo, benché molti duchi restassero fedeli a tale dottrina anche per dissensi politici con il sovrano. Costruita stabilmente a Pavia nel 626 la corte (palatium), fu soprattutto con Rotari (636-652) che fu rafforzato il potere del re, sviluppato un apparato di governo e organizzato il territorio in distretti più ordinati. I duchi furono progressivamente trasformati in ufficiali regi, a capo di circoscrizioni incentrate intorno a città strategicamente importanti, e affiancati da funzionari minori come gli sculdasci (capi-villaggio). Le grandi aziende agrarie regie, che costituivano la base economica del sovrano, erano affidate alla gestione di gastaldi, cui furono progressivamente conferite funzioni di governo anche nei territori soggetti ai duchi. L’affermazione dell’autorità del sovrano fu sancita dalla promulgazione, nel 643, di un editto che raccolse in forma scritta le norme relative alla vita civile, ai rapporti patrimoniali, alla disciplina militare. Per la debolezza dei bizantini, impegnati dall’avanzata degli arabi, il dominio longobardo fu esteso alla Liguria e all’entroterra veneto. L’insieme dei territori rimasti sotto il controllo bizantino era stato riorganizzato alla fine del VI secolo e affidato a un funzionario, l’esarca, che risiedeva a Ravenna e riuniva le funzioni civili e militari. Anche gli ufficiali locali, i duchi, erano responsabili della difesa a livello regionale. Lo stato di guerra costante e le difficoltà di collegamento tra le diverse aree resero indipendenti i vari ducati, sui quali l’autorità imperiale finì con l’essere spesso solo nominale: sol la Sicilia era governata direttamente da Bisanzio. Quel che restava dell’aristocrazia senatoria fu costretta a concentrare le proprietà fondiarie. Crebbero anche i patrimoni ecclesiastici, a cominciare da quelli dei vescovi a Ravenna e di Roma. Al primo l’imperatore concesse nel 666 l’<<autocefalia>>, cioè l’indipendenza disciplinare dal vescovo di Roma. Ampia autonomia vennero acquistando anche le comunità formate nelle isole delle lagune venete dai rifugiati dell’entroterra, e nucleo della futura Venezia. Passata la fase della conquista e dell’occupazione delle terre, le condizioni della popolazione italica migliorarono. All’inizio dell’VIII secolo possessori di stirpe romana entrarono a far parte dell’esercito, mentre tra i vescovi e i monaci erano ormai numerosi gli appartenenti alla stirpe longobarda. La società ormai etnicamente mista trovò ulteriore consolidamento durante il reno di Liutprando (712-744), che si fregiò del titolo di christianus et catholicus princeps con l’intento di fare delle istituzioni ecclesiastiche un elemento di sostegno alla monarchia. Approfittando dell’indebolimento dell’autorità bizantina, dilaniata dalla crisi iconoclastica e oggetto di una vasta sollevazione delle popolazioni italiche nel 727, Liutprando puntò alla conquista dell’esarcato e dei territori bizantini sino al ducato di Roma. Il progetto suscitò la reazione del papato che sollecitò una vasta mobilitazione internazionale contro i longobardi. I re Astolfo (749-756) e Desiderio (756-774), che occuparono ripetutamente Ravenna, subirono le spedizioni dei franchi sollecitate dai papi, che culminarono nella conquista del regno nel 774 da parte di Carlo Magno. Carlo unì al titolo di <<re dei franchi>> quello di <<re dei longobardi>>. Il regno longobardo mantenne cioè la propria identità anche dopo la conquista franca. La tradizione longobarda rimase viva nella toponomastica del vocabolario, come anche nella memoria, grazie alla stesura alla fine dell’VIII secolo della Historia Langobardorum da parte di Paolo Diacono, appartenente alla stirpe dei duchi del Friuli. Caduto il regno, i duchi di Benevento assunsero il titolo i principes, dando continuità al regno nel meridione d’Italia. Il principato riuscì a evitare la conquista franca e a mantenere a lungo la propria indipendenza, nonostante le divisioni interne e la frammentazione politica dell’area, complicata nel corso del IX secolo dalla conquista della Sicilia da parte degli arabi, che posero anche un emirato a Bari nell’842. Solo i normanni nella seconda metà dell’IX secolo misero fine all’autonomia politica longobarda: Salerno fu l’ultima città a cadere nel 1076. Nell’eclissi del potere bizantino, il papato aveva assunto sempre maggiori funzioni di governo su Roma e sul suo ducato sostituendovi progressivamente una propria amministrazione e puntando a tutelare gli immensi patrimoni fondiari che la Chiesa aveva accumulato. I rapporti con l’impero si interruppero quando il papa non seguì gli orientamenti iconoclastici sostenuti da Leone III nel 726, che per rappresaglia staccò da Roma le diocesi dell’Italia meridionale e ne confiscò i patrimoni. Minacciati dai longobardi, i papi decisero di rivolgersi alla nuova, potente e cattolica, dinastia franca dei Pipinidi, che nel 756 donò <<ai beati apostoli Pietro e Paolo>> numerosi territori ripresi ai longobardi compresi tra Ravenna e la Pentanopoli. Essi andarono ad aggiungersi a vari castelli laziali, tra i quali quelli di Sutri, già donato alla Chiesa di Roma da Liutprando nel 728. Intorno a questi nuclei prese corpo nel cuore della penisola il dominio territoriale del papato, destinato a durare per oltre un millennio. Le origini della Lombardia e della Romagna L’origine dei nomi delle regioni italiane Lombardia e Romagna risale al periodo successivo alla migrazione dei longobardi. Essi si insediarono in larga parte nella pianura padana facendo di Pavia la capitale del loro regno. L’unica area che rimase controllata dall’impero romano fu quella intorno a Ravenna: da qui il termine <<Romanìa>> con cui essa fu da allora indicata, fino all’odierna dizione di Romagna. L’estesa area controllata dai longobardi fu invece chiamata <<Langobardia>> e non a caso per tutto il medioevo il termine indicò una regione più vasta dell’attuale Lombardia, comprendente una parte degli attuali Piemonte, Emilia e Veneto. Bisanzio La tradizione dell’impero militari: la sconfitta patita a Mantzikert (in Armenia) nel 1071 avviò l’erosione territoriale dell’impero da parte dei turchi selgiuchidi. Nel 1054 si era prodotto anche lo scisma tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli. Pur avviandosi al declino, la civiltà bizantina mantenne vive le proprie caratteristiche: tradizioni imperiali (i sudditi continuarono sempre a definirsi <<romei>>, cioè romani), il predominio dell’elemento greco (nella lingua ufficiale e nelle espressioni artistiche) e la connotazione ortodossa del cristianesimo. Il Corpus iuris civilis: Tra il 528 e il 534 una commissione guidata dal giurista Triboniano selezionò e riordinò l’ingente massa di norme e di pareri giuridici che si erano accumulate nei secoli, spesso in modo ripetitivo e contraddittorio. La nuova sistemazione coerente del corpo del diritto imperiale fu articolata in quattro collezioni. Codex Iustinianus: Raccolta, redatta in latino, in 12 libri delle leges dei predecessori di Giustiniano dal tempo di Adriano Digesta o Pandectae: Raccolta, redatta in latino, in 50 libri degli iura, cioè dei pareri e delle interpretazioni dei giuristi Novellae constitutiones: Raccolta, redatta in greco, delle leggi emanate da Giustiniano dal 534 alla sua morte nel 565 Quest’opera imponente avrebbe influenzato la cultura giuridica dell’Oriente e dell’Occidente medievale per molti secoli, e costituisce tutt’oggi la base per la conoscenza del diritto romano. Islam La civiltà in espansione Il vasto territorio della penisola arabica era sempre rimasto ai margini degli imperi bizantino e persiano. In gran parte desertica e priva di città, l’Arabia era abitata da tribù di beduini che praticavano l’allevamento e il commercio lungo le grandi piste carovaniere che collegavano le oasi e che assicuravano la circolazione delle merci dalla fertile regione meridionale (detta Arabia felix) verso i mercati dell’Egitto, della Siria e della Mesopotamia. Il nomadismo della popolazione dava vita a confederazioni di tribù politicamente instabili. L’unico elemento di coesione era costituito dal pellegrinaggio al santuario della Ka’ba in occasione della fiera annuale che si teneva nella città della Mecca (luogo di culto nella città della Mecca in cui si conserva un frammento di meteorite. In origine accoglieva i culti più vari, da quelli animistici a quelli giudaici e cristiani. Dopo l’affermazione dell’Islam, che lo indicò come tempio fondato dai profeti Abramo e Ismaele, fu riservato ai soli musulmani.) Il pellegrinaggio, aperto a tutti i culti, era occasione per una tregua, durante la quale si concludevano affari, si saldavano debiti e si componevano conflitti. A garantire il culto a tutte le fedi e a organizzare la fiera era il potente clan dei Qurayshiti. Nato a Mecca intorno al 570 da un ramo del clan dominante, Maometto crebbe nel mondo delle carovane ed entrò così in contatto con le religioni più diffuse, dall’animismo politeista al monoteismo ebraico e cristiano. Ritiratosi in meditazione spirituale ebbe nel 610 la rivelazione fondamentale: l’angelo Gabriele gli ordinò di diffondere la parola di Dio (Corano). La predicazione di un monoteismo rigoroso che richiedeva la sottomissione assoluta (islam) del fedele alla volontà di Dio (Allah), pose Maometto in contrasto con le grandi famiglie meccane, che fondavano il proprio potere sul rispetto delle varie religioni, base della fortuna economica della città. Il profeta fu costretto a riparare con i seguaci nell’oasi di Medina nel 622, data della cosiddetta migrazione (égira) da cui ha inizio il calendario islamico. La comunità raccolta intorno a Maometto i organizzò in forme nuove, non più sulla base dei vincoli tribali bensì sulla condivisione della stessa fede, ce sottoponeva tutti i musulmani alla suprema autorità del profeta: sin dall’inizio l’islam propose un modello politico in cui la sfera spirituale era indistinguibile da quella temporale. L’espansione si arrestò solo di fronte alla reazione dei franchi, che si opposero agli arabi a Poitiers nel 732, e dei bizantini, che sconfissero l’esercito islamico in Anatolia nel 740. La rapidità e il successo dell’espansione furono dovuti all’organizzazione dell’esercito, alla debolezza degli imperi confinanti (quello persiano si sfaldò sotto l’avanzata araba) e ai conflitti etnici e religiosi che laceravano le regioni periferiche bizantine. Inizialmente gli arabi costituirono un élite militare cui era impedito possedere terre e che si mantenne separata dalle popolazioni locali, che poterono conservare tradizioni, culti e sistemi amministrativi: ebrei e cristiani potevano vivere in una condizione di <<protetti>> (dhimmi) pagando un tributo che li poneva al riparo da persecuzioni. Quando l’impero finì con l’inquadrare una varietà di popolazioni si moltiplicarono le conversioni all’islam, che consentivano di entrare nell’élite dominante e di godere dell’esenzione fiscale. Si avviò così un processo di integrazione sancito dal califfo Omar II (717-720) con l’abolizione dello status separato degli arabi e la creazione di un sistema politico fondato sull’uguaglianza di tutti i musulmani. La riforma di Omar II cercò di fronteggiare le tensioni tra le diverse componenti etniche e religiose di un impero ormai vastissimo. Sostenuto dalle élites non arabe convertite all’islam (mawali) un discendente di Maometto, Abdul Abbas, rovesciò gli Omayyadi nel 750, dando il via alla dinastia califfale degli Abbasidi. Muovendo la capitale da Damasco a Baghdad il baricentro dell’impero si spostò dal Mediterraneo verso l’Asia. Il potere centrale imitò i modelli imperiali persiani, con un apparato burocratico distinto in te rami (cancelleria, esattoria fiscale e amministrazione militare) e posto sotto il controllo del visir, potentissimo funzionario di corte. Il territorio fu suddiviso in province rette da governatori locali, gli emiri, dotati di estese prerogative. La lingua ufficiale rimase l’arabo, ma il gruppo dirigente fu largamente aperto alle altre etnie presenti ormai nell’impero. Sul piano religioso l’interpretazione sunnita della fede islamica si impose definitivamente sulle altre. Lo spostamento verso Oriente dell’impero frenò ulteriori espansioni in Occidente e lasciò spazio alla ripresa navale bizantina nel Mediterraneo. Nell’età degli Abbasidi l’impero conobbe un considerevole sviluppo economico. Nell’agricoltura il miglioramento delle tecniche (rotazione dei coltivi, sistemi di irrigazione) favorì la bonifica di vaste aree e l’introduzione di nuove colture (come il cotone e la canna da zucchero). Lo sviluppo delle città, alcune delle quali raggiunsero le centinaia di migliaia di abitanti (oltre alle capitali, anche Cordova, Fez, Tunisi, Il Cairo, Aleppo, Bassora, Bukhara, Samarcanda e Kabul) creò una domanda crescente di prodotti di consumo e diede impulso alle produzioni artigianali. La circolazione di denaro, in monete d’oro (dinar) e d’argento (dirham), fu cospicua e stimolò il perfezionamento delle tecniche di credito e di cambio. La ricchezza si fondò soprattutto sul gigantesco bacino commerciale costituito dall’immenso ambito geografico dell’impero, ben integrato da una rete fittissima di vie di traffico marittime e terrestri, e in rapporto con i mercanti dell’Occidente, di Bisanzio e dell’estremo Oriente (mercanti arabi furono attivi in Cina, in Malesia, nel Baltico e in Russia). L’enorme estensione raggiunta dall’impero, che spaziava dall’oceano Atlantico a quello Indiano, acuì, già nella seconda metà del IX secolo, le spinte secessionistiche delle regioni periferiche. L’unità politica dell’islam cominciò a disgregarsi quando gli emirati cominciarono a promuovere politiche autonome. Si affermarono così dinastie locali che si sottrassero progressivamente al potere centrale degli Abbasidi: i Rustamidi nel Maghreb (777-909), gli Idrisidi in Marocco (788-926), gli Aghlabiti in Tunisia (800-909), i Tulunidi in Egitto (868-905), e, nell’Asia centrale, i Tahiridi (821-873), i Saffaridi (867-911) e i Samanidi (875-1005). Un ramo degli Omayyadi ridiede vita a un emirato (dal 929 califfato) in Spagna (756-1031), e si fregiarono del titolo di califfi anche i Fatimidi che regnarono in Egitto e poi anche in Siria dal 969 al 1171. A Baghdad, nel 945, la dinastia persiana dei Buwayhidi ebbe la delega del governo dagli Abbasidi, che conservarono solo nominalmente il titolo califfale. Ai persiani si sostituì nel 1058 la dinastia turca dei Selgiuchidi che assunse la guida dell’islam, conducendolo nel 1071 alla conquista dell’Anatolia bizantina. Il sentimento di comune appartenenza a una civiltà fondata sulla condivisione della fede musulmana e dell’arabo quale lingua letteraria non venne meno a fronte della frantumazione politica. Eccezionali furono in particolare le esperienze dell’islam europeo, nell’ <<al-Andalus>> iberico governato dagli Omayyadi e nella Sicilia conquistata dagli emiri aghlabiti tra 827 e 902. In Spagna una straordinaria miscela etnica (arabi, ispano-romani e visigoti) e religiosa (musulmani, cristiani ed ebrei) fece del califfato, e in particolare della capitale Cordova, un luogo di convivenza civile e di eccellenza intellettuale e artistica, che filtrò in Occidente l’antica cultura ellenistica e artistica, che filtrò in Occidente l’antica cultura ellenistica grazie a filosofi, medici e matematici come Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198). Tra IX e X secolo, Palermo e la Sicilia divennero una delle aree più fiorenti dal punto di vista economico e culturale, poste com’erano al centro di tutte le rotte del Mediterraneo. Più in generale, la civiltà islamica si pose all’avanguardia sul piano culturale, come mostra la raccolta di novelle de Le Mille e una notte, in cui vennero rielaborate le tradizioni letterarie indiana, persiana e siriaca, intorno alla figura del califfo abbaside Harun al Rashid (766-809). La fede musulmana Maometto guidò personalmente le razzie contro i vari clan, costringendoli a sottomettersi. Dopo anni di conflitti anche Mecca cedette nel 630 e fu eletta a luogo sacro dell’Islam. La predicazione di Maometto riuscì a dare un’identità unitaria a una moltitudine di irrequiete tribù: da allora il mondo arabo si trovò a godere di un’eccezionale compattezza religiosa e politica e a essere identificato con il mondo musulmano. Alla morte di Maometto nel 632 il problema della successione nella guida della vita pubblica fu risolto con la creazione della figura del califfo, incaricato di tenere unita la comunità e di far rispettare la legge divina (sharia) contenuta nella rivelazione e negli insegnamenti del profeta. I primi quattro califfi, tutti parenti di Maometto, guidarono anche sistematiche campagne di guerra contro i più ricchi e fertili territori bizantini e persiani che confinavano con le regioni desertiche dell’Arabia. Nel giro di pochi decenni caddero in mano agli arabi l’Egitto, la Palestina, la Siria, la Mesopotamia e la Persia. Con l’elezione di Alì nel 656 esplose il conflitto tra quanti (gli sciiti, cioè seguaci di Alì) pretendevano che il califfo dovesse appartenere alla famiglia di Maometto (nella quale si supponeva sopravvivere lo spirito del profeta) e quanti (i kharigiti) sostenevano il principio che potesse essere eletto qualsiasi fedele. Nel 661 questi ultimi ebbero la meglio sui partigiani di Alì, che fu ucciso. Lo scontro aprì anche una frattura dottrinale tra musulmani sciiti e musulmani sunniti, che perdura tutt’oggi. Il nuovo califfo Mu’awiya, del clan degli Omayyadi, introdusse un modello imperiale sull’esempio bizantino e persiano, con una capitale amministrativa posta a Damasco a capo di una salda rete di funzionari provinciali, e affermò il principio ereditario del califfato. Sotto la dinastia omayyade l’impero raggiunse la sua massima estensione: penetrò nel cuore del continente asiatico fino all’Indo (711-713), completò la conquista del nord Africa fino all’Atlantico (670-709) e occupò la Spagna visigota (711-716). La conquista di Cipro, Creta e Rodi diede alla flotta araba il predominio sul mare, che sancì la proventi anche dall’esazione delle pene e dei pedaggi. Dopo un’eclissi nella produzione di monete, fu reintrodotto il sistema monetario basato sull’argento, che si adeguava alle esigenze di un economia di tipo locale, fondata sul sistema curtense, di cui contribuì ad avviare la ripresa dei traffici su scala regionale. Monete d’oro cominciavano ad essere coniate solo da Bisanzio e dagli stati islamici, per servire economie commerciali molto più ricche e articolate (soprattutto quella musulmana), rispetto ai modesti scambi praticati nell’Europa carolingia. Espugnata Pavia e catturato re Desiderio, Carlo Magno aveva messo fine nel 774 all’esperienza politica longobarda in Italia. Il regno fu incorporato al dominio dei franchi ma mantenne la sua autonomia: Carlo e poi il figlio Pipino si fregiarono del titolo di re dei longobardi. Pavia ne rimase la capitale, i duchi e i funzionari longobardi furono quasi tutti riconfermati, l’aristocrazia fondiaria ebbe salve le sue proprietà, e anche le leggi del regno rimasero in vigore. L’immissione di ufficiali e di vescovi franchi, ma anche di aristocrazie di altre regioni dell’impero (Alamannia, Baviera, Burgudia), fu graduale e l’élite longobarda non fu radicalmente esclusa, bensì assimilata. La dominazione carolingia non rappresentò una discontinuità. Si mantennero anzi molte caratteristiche specifiche, come i gruppi di arimanni che continuarono a servire militarmente il re. Né l’importazione dei legami franchi di natura vassallatico-beneficiaria o delle forme di gestione curtense delle proprietà fondiarie alterò gli ordinamenti economici e sociali preesistenti. Fedele alla tradizione, Carlo Magno dispose nell’806 la suddivisione patrimoniale dell’imperio tra i figli. Unico sopravvissuto, Ludovico ne ereditò il potere alla morte nel 814, favorendo un profondo ricambio degli uomini di corte, rafforzando il ruolo pubblico dei vescovi e accentuando i caratteri sacrali dell’ideologia imperiale (meritandosi l’appellativo di Pio): nell’824, con la Constitutio romana, vincolò la consacrazione papale a un preventivo giuramento di fedeltà all’imperatore. La successione, disposta sin dall’ 817, aprì invece lotte violente tra gli eredi ben prima della sua morte nell’840. L’accordo siglato a Verdun nell’843 riconobbe a Ludovico i territori a est del Reno, a Carlo il Calvo quelli più a Occidente, e a Lotario quelli compresi nella fascia intermedia dal nord al regno d’Italia, al quale fu abbinato, da quel momento, il titolo imperiale. La morte senza eredi di Ludovico II nell’875 avviò il tracollo della dinastia carolingia che si estinse nell’887 con la deposizione del malato e incapace Carlo il Grosso per mano dei grandi del regno. Le lotte dinastiche infatti avevano finito col rafforzare il potere delle aristocrazie locali, che inglobarono progressivamente nel proprio patrimonio le cariche pubbliche di conte, duca e marchese. Le funzioni pubbliche Con l’espressione <<funzioni pubbliche>> gli storici usano indicare il complesso dei compiti amministrativi che le persone incaricate di un pubblico ufficio (funzionari, ufficiali, ecc.) svolgono in nome del governo. Durante l’età di Carlo Magno e in quella successiva, le funzioni pubbliche rispondevano principalmente ai seguenti ambiti. Fiscalità (riscuotere le imposte dirette, curare l’esazione delle tasse dirette); giustizia (risolvere i conflitti, giudicare le controversie, punire i rei); guerra (arruolare gli uomini atti alle armi, guidare l’esercito in guerra); ordine (prevenire i disordini, reprimere le violenze, assicurare la pace); economia (gestire i beni pubblici come terre, mulini, ponti, porti, ecc.). La riforma monetaria di Carlo Magno Nel 794 Carlo Magno portò a termine la riforma monetaria già avviata da Pipino il Breve, puntando a riservare al re il diritto di coniazione, centralizzandolo sulle zecche regie. Egli fissò a circa 1,7 grammi il peso del <<denaro>>, facendo tagliare 240 pari denari per ogni libbra d’argento (corrispondente a circa 400 grammi). Il sistema monetario era articolato nella seguente maniera: soldo=12 denari; lira=20 soldi. In pratica l’unica moneta palpabile era il denaro, mentre il soldo e la lira erano solo per la contabilità, per calcolare grandi cifre. Ogni moneta doveva avere impresso il nome e il monogramma del sovrano. Abbandonato l’uso dell’oro, il sistema monetario fondato sull’argento si diffuse nel vasto territorio dell’impero e rimase in vigore fino all’XI secolo. Economia, società e politica Fattori di crisi demografica Nuovi sviluppi economici Dal III secolo la popolazione dell’area europea calò progressivamente fino a toccare il punto più basso nel VI secolo. Al declino demografico contribuirono soprattutto guerre, carestie ed epidemie. Ondate di peste si susseguirono tra il 541 (quando il contagio compare in Italia durante la guerra greco-gotica) e la fine del VII secolo. Pesanti erano i tassi di mortalità e le speranze di vita: solo un neonato su due superava il primo anno di vita, e moltissime erano le donne che morivano di parto. Gli uomini non raggiungevano i 40 anni e le donne i 30. I casi di longevità erano eccezionali e legati a condizioni sociali di agiatezza, come per esempio quello di Carlo Magno, che morì a 71 anni. Le invasioni barbariche e le ondate epidemiche si attenuarono nel corso del VII secolo. La popolazione dell’Occidente europeo cominciò ad assestarsi sia nelle campagne sia nelle città, iniziando una lenta crescita, che era effetto anche della raggiunta integrazione tra i popoli barbarici e le popolazioni locali. Intorno all’anno 1000 il numero degli abitanti tornò a essere superiore rispetto a quella di mezzo millennio prima. Accanto al declino demografico, la società europea conobbe un forte impoverimento materiale e una diminuzione complessiva di ricchezza. Dal VII secolo non c’è più traccia di edilizia monumentale né della presenza di un commercio attivo tra le sponde del Mediterraneo. A determinare la crisi economica non furono le invasioni barbariche o l’espansione dell’islam, quanto piuttosto la fine dell’economia statale romana. Per secoli l’impero aveva incentivato le attività produttive e garantito le infrastrutture per le attività commerciali grazie a un efficiente sistema fiscale. Esso gravitava sulle tasse fondiarie e sul ruolo economico delle città, che erano centri di riscossione delle imposte, luoghi di consumo e sedi di attività artigianali. La fine dell’impero significò la scomparsa del ciclo di prelievo fiscale e di ridistribuzione della ricchezza. Il venir meno della fiscalità pubblica un po’ in tutti i regni romano-barbarici nel corso del VI secolo segnò la fine di alcuni meccanismi economici. Innanzitutto si contrassero gli scambi in moneta. Le città dove si era estinta la burocrazia statale, persero la loro centralità di luoghi di consumo e di ridistribuzione della ricchezza. Gli stessi proprietari fondiari, svaniti i mercati urbani in cui smerciare le eccedenze agricole, furono meno incentivati a sviluppare le proprie aziende agrarie. La scomparsa delle imposte statali rimise però in circolazione, sul lungo periodo, una maggiore quantità di ricchezza. Tra il VII e l’VIII secolo essa contribuì a far nascere una domanda economica nuova, proveniente ora dalle aristocrazie locali, dai grandi e medi proprietari fondiari, laici ed ecclesiastici. La coniazione di monete d’argento promossa in età carolingia fu sintomo di tale ripresa economica. I sovrani carolingi protessero e incentivarono i nuovi mercati portuali (emporia) che vennero sviluppandosi sulle coste del Mare del Nord, dove si commerciavano merci di lusso e beni di largo consumo. La fine dell’impero romano in Occidente non comportò la fine della schiavitù impiegata nei lavori domestici e soprattutto agricoli nelle grandi proprietà. La schiavitù persistette per fino al X secolo nelle campagne europee. Fra III e IV secolo anche i liberi coltivatori (coloni) furono costretti dalle leggi imperiali a risiedere sulla terra presa in affitto per non sfuggire al pagamento delle tasse. In tal modo la condizione dei coloni e quella degli schiavi che lavoravano una terra dotata di una casa (servi casati), tesero ad assimilarsi: entrambi non potevano allontanarsi, entrambi godevano di una certa autonomia potendo coltivare la terra anche per sé. L’affermazione del cristianesimo contribuì a porre un limite al diritto incontrastato di vita e di morte di cui il padrone aveva goduto in età antica. Ciò contribuì a fare del servus un uomo dalla condizione giuridica precisa, al punto che alcuni storici preferiscono parlare di condizione servile, più che di schiavitù nell’alto medioevo. Solo dopo il Mille la servitù cominciò progressivamente a sparire, per il diffondersi di <<affrancamenti>> individuali e collettivi. La caratteristica di fondo della trasformazione dell’Occidente europeo fu la profonda ruralizzazione della società, conseguente alla crisi della città. Al fiorente mondo urbano che aveva caratterizzato la civiltà mediterranea antica subentrò un’Europa meno popolosa, più povera e rurale. La società si raccolse intorno a grandi proprietà fondiarie, dette villae o curtes, entro cui si svilupparono nuove forme di organizzazione del lavoro agricolo. La trasformazione ebbe effetti positivi sulle condizioni di vita dei contadini. La scomparsa della fiscalità pubblica consentì di ricavare una quota maggiore si reddito del lavoro agricolo, capace spesso di garantire livelli di vita non di mera sussistenza. Anche l’alimentazione ne beneficiò, caratterizzandosi, rispetto ad altri periodi, per un notevole consumo di carne, grazie all’allevamento di animali nei boschi. Il paesaggio europeo subì a sua volta una profonda trasformazione per effetto del contrarsi degli insediamenti e dell’abbandono delle terre coltivate. Allo scarso numero degli uomini fece riscontro un ambiente più difficile da vivere. Nelle regioni mediterranee esso fu caratterizzato da gravi fenomeni di abbandono, degrado ed erosione, con la scomparsa e la riduzione dei centri abitati. Nell’Europa continentale, dove l’ambiente era ancora selvaggio,, predominavano steppe, isole di capanne e coltivi circondate da vaste distese di boschi, terre incolte e paludi, mal collegate le une alle altre da una rete viaria disastrata. La dilatazione dei boschi accrebbe l’importanza dell’economia forestale: nei boschi si praticava l’allevamento dei maiali, si cacciavano gli animali selvatici, si raccoglievano frutti spontanei, si ricavava la legna per il riscaldamento e la fabbricazione di case e attrezzi. Anche la pesca fu intensamente praticata lungo i litorali marini e nelle acque interne. Le città Le città avevano costituito l’ossatura dell’ordinamento civile e politico dell’impero romano. La sua scomparsa determinò trasformazioni profonde nella struttura dei centri urbani d’Occidente, che persero molte delle loro funzioni di coordinamento del territorio. Rilevante fu anche la ristrutturazione del tessuto urbano: gli spazi abitati si ridussero, quasi tutte le città subirono un profonda ruralizzazione. Già alla fine del IV secolo, le città lungo la via Emilia apparvero al vescovo di Milano Ambrogio come <<cadaveri di città semidistrutte>>. L’impianto di età romana – fondato sulla piazza principale, sulla quale si affacciavano gli edifici pubblici all’incrocio dei due assi viari principali – fu sostituito da nuovi poli aggregativi intorno alle istituzioni ecclesiastiche: la cattedrale, il battistero, il cimitero, il palazzo del vescovo. Questi edifici sorsero accanto alle porte della nuova cinta muraria che sostituì l’antica, all’interno di un perimetro urbano assai ridotto. Molti erano infatti gli spazi vuoti, invasi da campi, con poche rovine rimaste in piedi. Venuti meno gli organi dell’amministrazione municipale romana (le curie), i poteri pubblici delle città furono quasi ovunque suppliti dalle gerarchie ecclesiastiche raccolte intorno ai vescovi. Per tal via, le città non persero mai del tutto le antiche funzioni amministrative, politiche, religiose e culturali. Nell’Italia bizantina in città continuarono a risiedere i grandi proprietari fondiari e ad avere sede le autorità pubbliche e amministrative. In alcuni regni romano-barbarici, come per esempio quello longobardo, le città persero la propria centralità politica: a essere posti a capo di circoscrizioni territoriali furono dei semplici villaggi. Con l’impero carolingio, le città tornarono ad essere valorizzate nelle loro funzioni giurisdizionali: furono sede delle nuove circoscrizioni consuetudine carolingia dell’incoronazione da parte del pontefice. Per questo, quando il re di Germania Ottone I fu sollecitato dal papato a intervenire contro Berengario II ricevette, oltre a quella di re d’Italia nel 961, anche la corona imperiale nel 962. Da quel momento si saldò il nesso tra le corone, e i re di Germania cominciarono a scendere periodicamente in Italia per poter cingere le altre corone. Nel regno dei franchi orientali, l’elezione di Arnolfo di Carinzia (887-899) nipote di Ludovico il Germanico, ritardò di qualche tempo la crisi dell’autorità regia, che anche in Germania dovette fronteggiare la presenza di ampi ducati regionali di origine etnica (Baviera, Sassonia, Svevia) o di derivazione carolingia (Lotaringia e Franconia). Il re, eletto dai grandi del regno, appartenne sempre a queste stirpi ducali, ed ebbe soprattutto un ruolo simbolico, di giudice supremo e di guida militare. Enrico di Sassonia (919-936) acquistò prestigio proprio organizzando l’esercito che si oppose vittoriosamente agli ungari nel 933. Alla sua morte il figlio Ottone I riuscì ad essere eletto re, ad Aquisgrana, con un solenne rituale di tradizione carolingia. Nel suo lungo regno (936-973), Ottone rafforzò l’autorità regia. Privo di una rete di ufficiali, egli integrò nella gestione del potere vescovi e abati di grandi monasteri, di cui si assicurò la nomina. Respinse le invasioni ungare, vinte nel 955 a Lechfeld, e avviò l’espansione verso l’Oriente slavo inglobando il ducato di Boemia e creando nuove sedi vescovili, come quella di Magdeburgo. L’incoronazione a Roma nel 962 di Ottone I restaurò l’autorità imperiale su nuove basi. Rispetto all’età carolingia, essa era ormai fortemente centrata sull’area tedesca, e da allora i re di Germania divennero i naturali candidati alla dignità imperiale. Non potendo contare su un apparato burocratico, gli imperatori della dinastia sassone rinunciarono a emanare leggi e a esercitare la giustizia, puntando a concedere privilegi ai propri interlocutori locali attraverso diplomi. (documento scritto ufficiale emanato da un’autorità sovrana per concedere un privilegio o sancire l’esistenza di un diritto. Non si trattava né di una norma né di un atto di governo valido per tutti i sudditi, bensì un provvedimento con un destinatario unico. Per assicurarne la durata, il diploma era scritto su una pergamena; per garantirne l’autenticità era munito di sigilli e di fregi.) Il rilancio del ruolo sacrale dell’imperatore ribadì la sua funzione di protettore della cristianità: con il privilegium del 962, Ottone riconobbe le donazioni carolinge alla Chiesa, ma stabilì che il papa, una volta eletto, dovesse prestare giuramento all’imperatore. L’attivazione di relazioni diplomatiche e matrimoniali con gli imperatori bizantini consentì ad Ottone di accreditare la sua autorità ad Oriente. Fu soprattutto il nipote Ottone III (996-1001) a vagheggiare una renovatio imperii carica di elementi simbolici di tradizione romana ed elaborata dagli intellettuali di corte, come il teologo Gerberto d’Aurillac, che fece eleggere papa nel 999. Il suo progetto ideologico <<universale>> si scontrò con la realtà dei forti poteri locali e, alla sua morte, l’impero sopravvisse come impero <<teutonico>>. La dinastia degli imperatori sassoni Enrico I: Nato nell’876e morto nel 936. Re di Germania dal 919. Figlio di Ottone l’Illustre, duca di Sassonia, inflisse la prima sconfitta agli ungari nel 933. Non fu mai incoronato imperatore. Ottone I: Nato nel 912 e morto nel 973. Re di Germania dal 936, sconfisse gli ungari a Lechfeld il 10 agosto 955; sconfitto Berengario II, Ottone I si fece incoronare re di Italia nel 961, e poi, nel febbraio 962, imperatore, unendo la corona tedesca a quella imperiale. Ottone II: Nato nel 955 e morto nel 983. Associato dal padre al trono di Germania a sei anni, nel 961, e alla corona imperiale nel 967, sposò la principessa Teofano nel 972, nipote dell’imperatore bizantino Giovanni I Zimisce, che avrebbe dovuto portargli in dote i territori bizantini dell’Italia meridionale; fu però sconfitto in Calabria dagli arabi di Sicilia nel 982. Ottone III: Nato nel 980 e morto nel 1002. Re di Germania dal 983 e imperatore dal 996, dapprima sotto la reggenza della madre Teofano (fino al 991) e poi dalla nonna Adelaide di Borgogna (fino al 995), elesse a sede imperiale Roma dal 998. Enrico II: Nato nel 973 e morto nel 1024. Re di Germania dal 1002 al 1024 e re d’Italia dal 1004 al 1024, fu incoronato imperatore solo nel 1014. Duca di Baviera, imparentato con Ottone III. Con lui si estinse la dinastia imperiale di Sassonia. Le nuove invasioni La perdita di autorevolezza degli ultimi imperatori carolingi fu determinata in parte anche dall’incapacità di garantire la sicurezza del territorio dell’impero dalle incursioni che dal IX secolo furono condotte da alcune popolazioni ad esso estranee. A differenza delle grandi migrazioni delle stirpi barbariche, i nuovi aggressori non miravano ad insediarsi stabilmente, ma a razziare bottino. Le prime a manifestarsi furono le incursioni dei saraceni dalle sponde del Mediterraneo. Dopo che l’espansione militare dell’islam era stata bloccata nel corso dell’VIII secolo, le incursioni via mare erano iniziativa di autonomi gruppi di predoni, che utilizzarono per esempio gli emirati italiani di Taranto e Bari (tra l’840 e l’871) come basi per attacchi mirati soprattutto verso le grandi abbazie. Il saccheggio più celebre fu quello della basilica vaticana a Roma nell’846. I saraceni costruirono anche insediamenti fortificati dai quali muovere per ulteriori razzie. L’avamposto più importante fu Frassineto in Provenza, da dove, dall’890 circa al 973, essi compirono saccheggi nella regione, in Liguria e nel Piemonte occidentale. Solo con la fine del X secolo le scorrerie saracene andarono esaurendosi. Dalla fine del IX secolo cominciarono a compiere periodiche spedizioni di saccheggio in vaste regioni dell’Europa centrale e in Italia anche gli ungari, una popolazione di nomadi allevatori e cavalieri proveniente dalle steppe attorno agli Urali settentrionali e insediatosi nell’antica Pannonia, la regione che da loro prese il nome di Ungheria. In Italia compirono la prima incursione nell’899, saccheggiarono Pavia nel 924 e si spinsero fino alle ricchezze delle grandi abbazie campane nel 937. Bene organizzati militarmente, i cavalieri ungari seminavano un vero terrore con le loro rapide depredazioni, e furono presto utilizzati come mercenari nei conflitti interni alla cristianità. Le loro spedizioni furono contrastate efficacemente solo quando in Occidente cominciò a diffondersi la cavalleria leggera. Furono i re di Germania della dinastia sassone a imporre loro delle disastrose sconfitte tra il 933 e il 955. Da quel momento gli ungari si stabilizzarono nel proprio territorio, dedicandosi all’agricoltura, e si convertirono al cristianesimo cattolico sotto il re Stefano I (1001-1038). Con la denominazione di nortmann (<<uomini del nord>> in lingua franca) apparvero sulle coste dell’Europa del nord dalla metà del IX secolo gruppi di pirati provenienti dalla penisola scandinava, capaci di risalire con le navi il corso dei fiumi e così depredare città e abbazie. L’espansione scandinava si propagò lungo diverse direttrici. Dalla Norvegia mossero verso la Scozia, l’Irlanda, l’Islanda e la Groenlandia i cosiddetti <<vichinghi>>. Dalla Svezia, risalirono i grandi fiumi dell’Europa orientale, fino a spingersi verso Bisanzio, i cosiddetti <<vareghi>> o <<rus>>, che diedero poi vita al primo embrione della Russia incentrato su Kiev. Dalla Danimarca si spinsero verso l’Inghilterra e la Francia i <<normanni>>. Nel X secolo le iniziali incursioni si trasformarono in vere e proprie conquiste territoriali. Particolarmente rilevante fu la creazione di un ducato nella Francia settentrionale, che da loro prese il nome di Normandia, a opera del capo Rollone, cui nel 911 il re Carlo il Semplice assegnò il titolo di conte (e poi duca) ottenendone in cambio il giuramento di vassallaggio. I poteri locali L’organizzazione economica: il sistema curtense In età carolingia le grandi proprietà fondiarie organizzarono l’attività agricola intorno ad aziende (dette curtes in Italia e villae nell’Europa del nord) caratterizzate da una bipartizione funzionale. Nella riserva patronale, o <<domìnico>>, il proprietario faceva condurre i lavori direttamente dai propri schiavi (servi prebendari), che vi risiedevano a totale carico, alloggio e vitto (prebenda), del padrone. Nella parte a conduzione indiretta, o <<massarìcio>>, i lavori erano portati avanti da famiglie di coltivatori liberi o servi cui erano affidati dagli appezzamenti (mansi, sortes, case massaricie) con patti a lunghissimo termine. Va tenuto presente che quasi sempre le aziende erano disperse in terre non contigue, inframmezzate a quelle di altri proprietari e distribuite tra più villaggi. Lo stretto legame tra le due parti era rappresentato dall’obbligo per i contadini del massarìcio di prestare corvées sulle terre del dominico, a integrazione del lavoro degli schiavi. Questo modello di organizzazione economica, detto <<sistema curtense>>, prese corpo nell’VIII secolo nelle aziende agrarie regie e abbaziali situate tra la Loira e il Reno e si diffuse in Italia solo dopo la conquista franca. Il sistema curtense perseguì sempre un obiettivo di autosufficienza, per soddisfare i bisogni immediati, ma poiché non tutte le aziende producevano tutte le merci di cui avevano bisogno venne intensificandosi lo scambio delle eccedenze. Il surplus agricolo fu commercializzato, insieme con gli strumenti di lavoro e gli altri manufatti artigianali prodotti nei laboratori presenti nel dominico, in centri di scambio rurale (stationes), nei mercati delle città vicine o negli emporia sul Mare del Nord per gli scambi a lunga distanza. Il sistema curtense fu redditizio e permise notevoli accumulazioni di ricchezza che i proprietari investirono nella costruzione di mulini ad acqua o di fabbriche di birra, ricavandone ulteriori profitti. La progressiva riduzione del dominico a vantaggio del massaricio, che si osserva ovunque tra il IX e l’XI secolo, non fu resa solo necessaria dall’aumento della popolazione, ma indicò la volontà di ottimizzare la rendita delle aziende ricavando più ricchezza dalla gestione indiretta, affidata all’intraprendenza delle famiglie contadine. La frammentazione della proprietà fondiaria, distribuita tra centinaia di appezzamenti, favorì l’emersione di una piccola e media proprietà di contadini indipendenti. Accanto ai lavoratori del massariccio, liberi o servi, che, oltre ai lavori stagionali, erano tenuti a corrispondere al padrone un canone, in natura o in denaro, nei villaggi convivevano proprietari di varia estrazione sociale: piccoli contadini proprietari dei loro fondi, e medi proprietari che non coltivavano direttamente le proprie terre (e che possedevano qualche schiavo), e che costituivano le élites dei villaggi. La crescita di ricchezza dei grandi proprietari, quasi sempre accompagnata dalla loro affermazione come signori locali, avvenne a spese dei contadini indipendenti. Dal IX secolo tutti coloro che lavoravano la terra con le proprie mani, fossero servi casati, liberi affittuari o piccoli proprietari, si ritrovarono sottomessi allo stesso modo al potere signorile. Episodi come la rivolta contadina di Stellinga, in Sassonia, nell’841, furono il sintomo dell’affermazione di un dominio aristocratico sempre più oppressivo. Il potere politico: l’ordinamento signorile Protagonisti della frammentazione dei poteri locali non furono solo le grandi famiglie di ufficiali pubblici, conti e marchesi, ma anche famiglie ed enti ecclesiastici che incrementarono i propri possessi fondiari tramite donazioni, acquisti e usurpatori di terre. Alla metà del IX secolo i beni fondiari della Chiesa ammontavano ormai a un terzo di tutta la terra disponibile: gli abati e i vescovi più potenti controllavano territori pari a quelli dei proprietari laici e svilupparono la loro egemonia in modi simili. Nell’età postcarolingia venne così affermandosi un sistema sociale orientato in senso aristocratico che si fondava anche sugli arricchimenti resi possibili dal sistema curtense. La necessità di mantenere uniti e di trasmettere tali patrimoni determinò, tra X e XI secolo, un importante cambiamento nelle strutture familiari aristocratiche. Ai vasti gruppi costituiti secolo indusse molti grandi proprietari fondiari a consolidare i propri mezzi d’azione acquisendo anche i poteri di costrizione e dominio. In genere solo una piccola parte delle terre signorili erano in origine benefici scaturiti dal rapporti vassallatici. Se poteva darsi la possibilità che un grande possessore fondiario (padrone) fosse anche un signore (dominus) e il capo di una clientela armata di vassalli (senior), le tre condizioni erano tra loro indipendenti. Infatti i contadini che coltivavano le terre di un padrone potevano dipendere anche da un altro signore con il quale non avevano alcun rapporto di carattere economico: soprattutto, i contadini non erano vassalli dei loro padroni, ma semplici coltivatori. Violenze e conflitti: l’incastellamento A partire dalla seconda metà del IX e lungo tutto il X secolo nelle campagne dell’Occidente europeo fu edificata una fitta rete di nuovi castelli. Le ragioni del fenomeno, che proseguì in molte regioni fino all’XII secolo, furono molteplici. Certamente ebbe un peso la necessità di difendersi dalle incursioni saracene, ungare e vichinghe. Ma rispetto alle epoche precedenti, in cui la fortificazione del territorio era stata promossa dall’autorità pubblica, l’iniziativa di erigere castelli rispose ora all’esigenza dei signori di garantirsi una base dalla quale esercitare la propria egemonia sul territorio. I grandi proprietari fondiari, laici ed ecclesiastici, e le famiglie che avevano dinastizzato le cariche pubbliche, utilizzarono il clima diffuso dell’insicurezza per consolidare il proprio potere sugli uomini. Erigere un castello divenne un mezzo per estendere l’autorità dei signori su tutti i residenti delle aree limitrofe: in cambio della difesa, essi potevano pretendere di esercitare le prerogative di natura pubblica, il districtus o <<banno>>. La moltiplicazione dei castelli, che gli storici usano chiamare <<incastellamento>>, fu un fenomeno complesso, che assunse caratteristiche specifiche nelle diverse regioni. Nella Francia centro-settentrionale furono i sovrani, i principi e i conti a dare vita a pochi castelli di grandi dimensioni, dotati di territori estesi e popolati. Nelle regioni meridionali, in Spagna e in Italia si formò invece un reticolo di insediamenti medio-piccoli, perlopiù costituiti dalla fortificazione di villaggi preesistenti, per iniziativa dei grandi proprietari ecclesiastici e dell’aristocrazia signorile. In queste aree l’incastellamento produsse una rivoluzione nell’habitat: la popolazione, prima dispersa nei villaggi e in fattorie isolate, si concentrò ora nei nuovi abitati fortificati. Ovunque i castelli rafforzarono la fisionomia locale del potere, e furono presupposto e conseguenza, a un tempo, del rafforzamento della signoria territoriale. Il castello attirava abitanti e si proponeva sovente anche come sede di mercato e di attività artigianali oltre che di servizi amministrativi. La diffusione delle signorie incentrate sui castelli favorì la formazione di specialisti della guerra che aiutavano i potenti nell’esercizio del loro dominio e ne difendevano i beni. In una prima fase fu il servizio militare più che l’origine sociale a determinare la loro fortuna: non solo figli cadetti di famiglie aristocratiche, ma anche contadini agiati che possedevano armi e cavalli e tempo a disposizione per imparare a usarli, e talora servi fedeli cui il signore donava tali risorse (come i cosiddetti <<ministeriali>> in area tedesca). Affrancati dagli oneri signorili, questi guerrieri furono chiamati <<cavalieri>> (milites) perché in un mondo di contadini disarmati che andavano a piedi, erano i soli, accanto ai signori, a spostarsi e a combattere a cavallo formando un gruppo ben distinto dalla maggioranza della popolazione. I cavalieri furono protagonisti dei conflitti dell’epoca, spesso compiendo violenze, rapine e saccheggi ai danni dei più deboli. Per disciplinarne il comportamento, su iniziativa di alcuni vescovi della Francia meridionale si diffuse dalla fine del X secolo il movimento delle <<paci o tregue di Dio>>, che mirava a imporre la sospensione delle violenze in certi periodi dell’anno, e a vietarle contro ecclesiastici e contadini. Le esperienze cristiane nel primo millennio Le chiese locali e l’età dei concili La diffusione del cristianesimo nell’impero romano fu accompagnata da un’organizzazione sempre più ordinata delle comunità di fede, chiamate <<chiese>> (assemblee di credenti). Tendenza di fondo fu la separazione tra i laici e il clero, dedito all’esercizio del culto e alla gestione dei beni delle chiese, e che progressivamente si definì come un gruppo sociale a sé stante. Responsabile di ogni comunità era il vescovo, guida spirituale e amministrativa della comunità, affiancato dai preti, incaricati della predicazione e delle celebrazioni liturgiche (sacerdoti), e dai diaconi, che svolgevano compiti di assistenza e di amministrazione. I laici partecipavano, insieme al clero, all’elezione dei vescovi e alla gestione degli affari delle comunità. All’aumento dei fedeli corrispose un crescente incremento delle ricchezze, per i lasciti in monete, oggetti preziosi, edifici e soprattutto terre, che fecero delle chiese maggiori delle potenze economiche con patrimoni equivalenti a quelli delle grandi famiglie aristocratiche. Questi beni erano inalienabili, tutelati sacralmente da confische, ed esenti dalle imposte. Le chiese si svilupparono nelle città e l’ambito su cui si esercitava il ministero del vescovo era il territorio circostante, la diocesi, che tese a corrispondere alla circoscrizione amministrativa urbana di origine romana. Dal V secolo le campagne furono evangelizzate attraverso la fondazione di chiese battesimali, le pievi, direttamente controllate dal clero cittadino. L’autorevolezza dei vescovi crebbe nel tempo insieme alla loro assunzione di funzioni di guida non solo spirituale ma anche civile e politica delle città. Essi venivano scelti tra le famiglie che costituivano le élites urbane, e diventarono punti di riferimento di gruppi e di clientele di laici e di ecclesiastici, sia cittadini che contadini. Tra IV e V secolo, raggruppamenti di più diocesi furono sottoposti all’autorità di un vescovo di rango superiore, detto metropolita, che confermava e consacrava i vescovi della propria provincia. Alcune sedi maggiori, fondate da apostoli, affermarono la loro preminenza sulle province circostanti: Roma in Occidente, Alessandria in Egitto, Antiochia in Oriente. Insieme a Gerusalemme e a Costantinopoli, i loro metropoliti ebbero il titolo di patriarchi. L’organizzarsi delle chiese in ambito locale e intorno a gerarchie episcopali regionali generò presto l’esigenza di un coordinamento fra le diverse comunità. A lungo, fino a tutto il X secolo, la Chiesa cattolica fu infatti priva di un’organizzazione centralizzata e di un vertice quale sarebbe stato poi il papa. L’unità del mondo cristiano poggiava sullo spirito di comunione che legava i diversi vescovi, le comunità e i fedeli, e traeva forza dalla volontà di testimoniare la propria fede di fronte ai pagani. Un ruolo centrale dalle assemblee del clero. Esse erano convocate periodicamente dai metropoliti in sede provinciale (sinodi), per decidere questioni organizzative e disciplinari. Meno frequenti erano le grandi adunanze (concili) cui convenivano in gran numero i vescovi delle varie province della cristianità: nei concili universali, convocati in genere dagli imperatori, si definivano le verità di fede (dogmi), si regolamentavano i riti liturgici e le leggi ecclesiastiche (canoni). Cronologia dei concili ecumenici (IV-IX) riconosciuti dalla Chiesa ortodossa 325 Concilio di Nicea: convocato dall’imperatore Costantino, il quale condannò l’arianesimo e approvò il Credo, la professione di fede cattolica. 381 Concilio di Costantinopoli: convocato dall’imperatore Teodosio, il quale confermò il Credo e affermò la natura divina dello Spirito Santo. 413 Concilio di Efeso: convocato dall’imperatore Teodosio II, il quale approvò il titolo di Madre di Dio (Theotòkos) attribuito a Maria, condannando il nestorianesimo. 449 Concilio di Efeso: convocato dal vescovo di Alessandria e presieduto dal patriarca di Costantinopoli, in cui si condannò il nestorianesimo. 451 Concilio di Calcedonia: convocato dall’imperatore Marciano, il quale condannò il monofisismo e sancì l’uguale preminenza (non riconosciuta da papa Leone) del patriarcato di Costantinopoli (la nuova Roma) rispetto alla sede apostolica di Roma. 553 Concilio di Costantinopoli: convocato dall’imperatore Giustiniano, il quale confermò le dottrine approvate nei concili precedenti, ribadendo la condanna del nestorianesimo e del monofisismo. 680-681 Concilio di Costantinopoli: convocato dall’imperatore Costantino IV, il quale condannò il monoteismo. 787 Costantino di Nicea: convocato dall’imperatrice Irene, la quale condannò l’iconoclastia, ripristinando la venerazione delle icone. 869-870 Concilio di Costantinopoli: convocato dall’imperatore Basilio I, non fu riconosciuto dalla Chiesa ortodossa. Egli depose il patriarca di Costantinopoli Fozio, poi ristabilito dal concilio di Costantinopoli dell’879-880. Il cristianesimo nei primi secoli presentava una varietà di culture teologiche e di interpretazioni del dogma, che era l’esito dell’adattamento del messaggio cristiano da parte delle diverse culture che lo fecero proprio: dalle élites urbane educate nella tradizione filosofica ellenistica, ai gruppi sociali subalterni in cerca di una predicazione salvifica, ai barbari con i loro culti tradizionali, alle popolazioni rurali radicate nelle credenze pagane. Il problema centrale fu quello di conciliare il principio del monoteismo (la fede in un unico Dio) con la molteplicità delle persone divine (la Trinità). Le dispute dottrinali si concentrarono sulla definizione della natura di Cristo. Nel IV secolo si confrontarono la dottrina che sosteneva la natura umana di Cristo, difesa da Ario di Alessandria, e quella che sosteneva la consustanzialità (cioè l’identità di sostanza e di natura) del Figlio del Padre, promossa da Anastasio sempre di Alessandria. Nel V secolo il patriarca di Costantinopoli, Nestorio, sostenne la duplicità della natura, umana e divina, di Cristo (nestorianesimo), mentre tra l’Egitto e la Siria si diffuse la dottrina che sosteneva l’unicità della natura divina di Cristo (monofisismo). La varietà delle interpretazioni dottrinali era anche esito della indipendenza delle sedi episcopali. Ai contrasti teologici fra le varie chiese contribuivano anche motivi derivanti dalla volontà di preservare l’identità e l’autonomia locali. Gli imperatori cercarono di salvaguardare l’unità della cristianità emanando editti e convocando concili per formulare dogmi universalmente accettati (ortodossi, da <<retta fede>>) di contro alle credenze ritenute erronee (eresie). Così, per esempio, il concilio di Nicea del 325 condannò come ereticale l’arianesimo, mentre quello di Calcedionia del 451 tentò un compromesso tra il nestorianesimo e il monofisismo. L’imperatore Zenone emarginò però nel 482 il monofisismo per riaffermare la sua incerta autorità nelle regioni intorno a Costantinopoli. L’editto detto dei Tre capitoli emanato da Giustiniano nel 544, che condannava il nestorianesimo, produsse a sua volta una profonda spaccatura: i vescovi occidentali guidati da Virgilio di Roma rifiutarono di aderirvi, aprendo uno scisma che durò fino alla fine del VII secolo e che segnò l’opposizione delle sedi metropolitane italiane a ogni volontà centralistica. rispettivamente, da un vescovo (Gregorio di Tours) e da due monaci (Paolo Diacono e Beda il Venerabile). Nei centri scrittorii, gli scriptoria vescovili e monastici, si redigevano commenti alle Scritture, testi agiografici, raccolte omiletiche, e si ricopiavano i testi della classicità latina. Questi vennero selezionati, valutandone l’accessibilità dal punto di vista cristiano, intorno a un corpus di circa 150 opere (di autori come Virgilio, Ovidio, Cicerone, Seneca e altri) destinato a essere tramandato nei secoli. Accanto a esso vennero letti e diffusi anche gli scritti di padri della Chiesa come Tertulliano e Agostino, e opere enciclopediche come le Etimologie di Isidoro vescovo di Siviglia. Le Nozze di Mercurio e Filologia di Marziano Cappella, un autore tardoantico, suggerirono la ripartizione delle discipline del sapere tra le arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del Quadrivio (matematica, geometria, astronomia e musica) che ispirarono la formazione superiore. Carlo Magno promosse l’istruzione per formare adeguatamente i funzionari destinati all’amministrazione e il clero impegnato nella cristianizzazione. Tre furono gli interventi principali: la riforma della liturgia, volta a far pregare tutti i chierici dell’impero nello stesso modo; il miglioramento della loro formazione, soprattutto nella conoscenza della lingua e della grammatica latina; e la riaffermazione dell’importanza della scrittura nell’amministrazione e negli affari politici. Le scuole furono riorganizzate ad ogni livello, i centri scrittorii moltiplicati e le biblioteche arricchite. Presso la corte dei sovrani si raccolse un’accademia di intellettuali (quasi tutti ecclesiastici), detta anche schola palatina, che approfondì la conoscenza delle opere classiche e produsse testi letterari originali. La cultura rimase ancora un patrimonio di pochi. Il libro e l’esperienza della lettura prima del XII secolo Per i secoli precedenti al XII non è appropriato parlare di libri. Si trattava di codici, ossia di oggetti fisicamente molto diversi fra loro da ciò che noi oggi intendiamo con la parola <<libro>>: le pagine di codici erano di pergamena e non di carta, ed erano coperte di lettere scritte a mano in grandi dimensioni, illustrate e decorate da miniature. Leggere una pagina di un codice era un’esperienza estetica paragonabile, come ha scritto lo storico Ivan Illich, <<a quella che si può rivivere la mattina presto nelle chiese gotiche che hanno conservato le loro finestre originali: quando il sole si alza, dà vita ai colori delle vetrate che prima dell’alba parevano un mero riempitivo degli archi di pietra.>> L’esperienza della lettura veniva paragonata spesso al muoversi all’interno di una vigna, cogliendo quello che la pagina aveva da offrire alla meditazione. Si trattava di un viaggio <<attraverso>> la pagina, in cui il tempo impiegato per la lettura era considerato secondario rispetto al valore delle verità che venivano via via scoperte e assaporate, quasi fisicamente, dal lettore. Di qui i continui inviti dei maestri alla pazienza e alla necessità di assaporare le verità contenute nelle pagine dei codici. Ance quando non leggeva a voce alta per altre persone, il monaco ripeteva a fior di labbra, per sé stesso, le frasi latine che scorgeva sulla pagina. La pratica della lettura silenziosa esisteva già ma era ben poco frequente: sant’Agostino parlava con ammirazione del suo maestro, sant’Ambrogio, che ogni tanto leggeva un libro senza neppure muovere le labbra. Il monaco che leggeva creava, per il solo fatto di leggere, un ambiente uditivo pubblico, in cui tutti erano uguali davanti al suono delle parole. La lettura nei monasteri, fino al XII secolo, fu sempre considerata un momento sacro, proprio perché annunciava pubblicamente un episodio della storia della salvezza. Il libro era l’oggetto fisico che permetteva questo annuncio: per questo finì per divenire, esso stesso, un oggetto sacro. Le riforme della Chiesa Lo sviluppo di poteri territoriali da parte di vescovi e abati intorno alle grandi proprietà, alle fortezze, ai diritti e alle immunità possedute dalle chiese episcopali e dai monasteri, diede vita a una fitta trama di signorie ecclesiastiche largamente autonome. Le famiglie aristocratiche che avevano fondato chiese e monasteri <<privati>> e che erano in grado di condizionare la designazione di vescovi, abati e chierici, cercarono di impossessarsi in maniera duratura delle cariche ecclesiastiche rendendole ereditarie. Tali cariche erano lucrose, perché permettevano di controllare patrimoni ingenti e di incrementare prestigio e potere. Gli aristocratici che riuscivano ad ottenerle erano però quasi sempre sprovvisti di un’adeguata preparazione e spesso anche di autentica vocazione. Accadeva così molto spesso che vescovi e abati continuassero a seguire lo stile di vita dell’aristocrazia laica, a occuparsi di politica, a combattere in guerra, a svagarsi in caccie e banchetti, a mantenere concubine. A sua volta, il clero inferiore era in genere incolto, spesso nemmeno in grado di leggere e comprendere le scritture. La necessità di interventi di riforma fu avvertita già dai sovrani carolingi. Obiettivi principali dei loro interventi furono quelli di restituire prestigio religioso alle autorità ecclesiastiche ed efficacia all’azione pastorale. Si puntò a migliorare la formazione del clero, rafforzando la rete di scuole episcopali e monastiche, dove si insegnava la grammatica, cioè il latino, lo studio delle Scritture, la conoscenza dei canoni e la corretta pratica liturgica. Fu promosso un riordinamento territoriale delle sedi episcopali, secondo un modello gerarchico subordinato ai metropoliti, che rafforzò anche l’articolazione diocesana in pievi battesimali. Fu istituita la decima (la decima parte del raccolto e del reddito in generale, che proprietari e coltivatori pagavano alla Chiesa per il sostentamento del clero.), gestita dal vescovo e destinata a sostenere il clero e a soccorrere i poveri (779). A tutte le comunità monastiche furono estese le regole benedettine (817), e furono riorganizzate anche le comunità canonicali, formate da preti che vivevano in comune secondo una propria regola, che fu anch’essa uniformata a tutto l’impero (816). Le donne religiose furono escluse dall’amministrazione dei beni della Chiesa e fu loro precluso ogni contatto al di fuori dei monasteri. L’assunzione di responsabilità nell’organizzazione ecclesiastica da parte dei sovrani carolingi discendeva dal loro ruolo di sovrani cristiani, difensori della Chiesa di Roma. I numerosi compiti svolti dai vescovi nell’amministrazione dell’impero legittimarono il crescente intervento regio. Soprattutto in Germania i legami tra i re e i vescovi rimasero stretti, e furono rafforzati dalla concessione di beni e diritti di giurisdizione in cui si distinse la dinastia degli Ottoni. Vescovi e abati divennero organico supporto dell’autorità regia, che si assicurò la facoltà di designarli scegliendoli tra figure di elevato vigore morale. Con il Privilegium del 962 Ottone I ribadì anche il controllo imperiale sull’elezione pontificia, che era già stato sancito dalla Constitutio romana di Ludovico il Pio nell’824. Da allora e fino al 1058 i papi furono tutti legati al trono imperiale. Gli interventi imperiali rafforzarono le istituzioni ecclesiastiche ma resero ancora più inestricabile la commistione, spesso perniciosa, fra ordinamenti ecclesiastici e i laici. Dal X secolo si fecero sempre più avvertite, in diversi ambiti della società cristiana, due esigenze principali di riforma: la moralizzazione dei costumi del clero, auspicato più degno e adeguato a svolgere il proprio ruolo pastorale e liturgico, e la tutela delle istituzioni ecclesiastiche dalle ingerenze e dai condizionamenti del mondo laico. La spinta verso il rinnovamento non si espresse in un progetto organico, anche perché, fino alla seconda metà dell’XI secolo, mancò un soggetto capace di coordinare in modo unitario le diverse istanze. L’autorità papale, oltre che subordinata a quella imperiale, era infatti ostaggio locale delle grandi famiglie romane che si contendevano la scelta dei pontefici. Presero corpo così, sia all’interno della Chiesa sia al di fuori, iniziative molteplici di riforma. A esse si opposero in particolare l’episcopato e l’aristocrazia che maggiormente beneficiavano del controllo degli ingenti patrimoni e degli uffici ecclesiastici. Più che in ambito vescovile, fu all’interno del mondo monastico che si avvertì inizialmente l’esigenza di ridare prestigio e credibilità morale alla Chiesa. Protagonisti principali furono i monaci dell’abbazia di Cluny, fondata nel 910 in Borgogna dal duca di Aquitania Guglielmo. Pur nascendo come monastero privato l’abbazia riuscì ad acquisire una forte autonomia, sotto la guida di grandi monaci come Maiolo (948-994) e Odilone (994-1049), grazie all’immunità concessa dal duca e all’esenzione, assicurata dal papato, dalla dipendenza diretta del vescovo della loro diocesi. La riforma promossa da Cluny non contestava le ricchezze e i beni ecclesiastici, che erano visti come legittimi perché dimostravano il fulgore della Chiesa. Essa proponeva di rimodellare in senso monastico tutta la Chiesa, privilegiando la centralità della preghiera, la purezza del corpo, la funzione del clero quale mediatore sacro. I monaci di Cluny elaborarono un nuovo stile di vita monastico basato sulla specializzazione liturgica, sulle opere di misericordia e sullo studio. Il lavoro manuale fu invece demandato ai conversi (i laici che, pur facendo atto di professione e seguendo una vita analoga a quella dei monaci, non avevano ricevuto gli ordini sacri, vivevano in spazi separati e attenevano ai lavori manali della comunità) e ai servi. Riconoscendo il primato papale, Cluny ottenne l’autorizzazione a porre sotto la propria autorità i monasteri che accettassero il nuovo modo di vivere la regola benedettina. Decine di cenobi furono fondati e centinaia di altri riformati, dando vita a una potente congregazione che raggiunse all’inizio del XII secolo circa 1.200 priorati (monasteri affidati a <<priori>> dipendenti dall’unico abate di Cluny) e probabilmente 10.000 monaci sparsi in tutta l’Europa. Graie alle donazioni dei potenti che confidavano nelle preghiere dei monaci per salvare l’anima, l’ordine cluniacense divenne una potenza imponente della Chiesa riformata. Al rinnovamento monastico contribuirono anche altre esperienze. Rifiutando di trasformare le abbazie in centri di potere, conobbero un deciso rilancio tra X e XI secolo anche le esperienze eremitiche, che intendevano riprendere gli ideali del primo monachesimo. Ispirandosi ai <<padri del deserto>>, figure come quelle di Romualdo da Ravenna e Giovanni Gualberto diedero vita ad eremi che garantivano ampi spazi di isolamento e di ascesi individuale: Camaldoli e Vallombrosa in Toscana, o Fonte Avellana nella Marche. Anche nel clero secolare (società al di fuori dei monasteri e dei conventi, senza obbligo di vita in comune né di obbedienza a una regola di vita) emersero nel corso del X secolo impulsi a forme di vita più rigorose e spirituali. Vescovi come Attone di Vercelli o Raterio, presule a Liegi e a Verona, si impegnarono con le opere e con gli scritti per il rinnovamento dei costumi e per l’elevazione morale e culturale del clero. Ferivano la sensibilità dei fedeli l’attaccamento alle ricchezze materiali, la compravendita delle cariche ecclesiastiche (simonia), le pratiche di concubinato (nicolaismo), gli interessi dinastici più che pastorali, le violenze e le spoliazioni di chiese, di cui si rendevano spesso protagonisti vescovi e preti. L’offensiva moralizzatrice, nella quale si distinsero nell’XI secolo anche figure come il cardinale Umberto di Silvacandida o il monaco Pier Damiani, puntò alla deposizione dei sacerdoti simoniaci – crescentemente individuati nei vescovi di nomina imperiale- e alla scomunica dei preti concubinari. Fu dato nuovo vigore anche alle forme di vita in comune dei chierici, favorendo la nascita di comunità di canonici riformati intorno alle chiese cattedrali e pievane. Una forte spinta al rinnovamento venne anche dal laicato, in particolare fagli abitanti delle città. Oggetto di contestazione furono le ricchezze accumulate e gestite dai prelati (persona di maggiore dignità rispetto ad altre. Membro del clero secolare e regolare che esercitano le cariche maggiori, dotate di giurisdizione, come i cardinali i vescovi e gli abati) e il loro coinvolgimento nelle questioni temporali. Come rimedio si cominciò a predicare l’ideale evangelico della povertà, la rinuncia ai beni secolari e il ritorno alla Chiesa delle origini. La polemica si concentrò contro l’alto clero episcopale, agendo spesso di concerto con i papi che, nello stesso periodo, tentavano di controllare le chiese locali. Lotte violente si ebbero nei decenni centrali del secolo XI a Firenze e soprattutto a Milano, dove il movimento popolare prese il nome di <<patarìa>> e giunse a non riconoscere la validità dei sacramenti amministrati da sacerdoti concubinari e indegni e a chiedere l’accesso diretto dei laici alle scritture in assenza di chierici adeguati al compito. Rispetto al rivendicazioni a una guida più efficace della Chiesa spinsero a dotare il papato tra XI e XII secolo di strumenti idonei a svolgere i compiti di tutela del buon funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche. La Chiesa romana cominciò a operare come <<curia>>, cioè come centro di governo. Tornarono ad essere frequenti i concili ecumenici, ora convocati dal papa direttamente a Roma, e perciò detti <<lateranensi>> (dal nome del palazzo Laterano che li ospitava). Le attività di cancelleria aumentarono per il crescente volume di lettere spedite ai principi e ai chierici della cristianità. Si diffuse anche l’uso di inviare i paesi lontani rappresentati dal pontefice, detti <<legati>>, spesso provvisti di ampi poteri dei vescovi, che segnò un netto punto di svolta nell’ordinamento della Chiesa, verso una marcata subordinazione all’autorità pontificia anche del mondo monastico. Proponendosi come guida suprema della cristianità, il papato animò anche la lotta contro i suoi nemici, guidando il movimento crociato che dalla fine dell’XI secolo si propose la liberazione dei luoghi santi della Palestina, occupati dai musulmani. Dissensi, eresie e nuovi ordini religiosi Le riforme della Chiesa ebbero un esito ambiguo. Se la lotta per la libertà delle istituzioni ecclesiastiche dai condizionamenti dei poteri laici conseguì risultati evidenti, irrisolte rimasero invece molte delle aspirazioni per il rinnovamento della vita religiosa e spirituale. In particolare, forti disagi provocò il nuovo ruolo monarchico e autoritario del papato, nella cui azione molti cristiani vedevano dimenticati i valori evangelici. Contestazioni del clero cattolico vennero in particolare dal mondo dei laici, portando all’estremo la radicalità dei movimenti pauperistici e patarinici che avevano animato le lotte cittadine contro i vescovi corrotti. Il potere ecclesiastico dimostrò, però, dalla fine dell’XI secolo un minor grado di tolleranza nei confronti delle forme di dissenso, bollandole come <eresie>>. A differenza delle eresie dei primi secoli del cristianesimo, che affrontavano questioni teologiche ed erano promosse da ecclesiastici, i fenomeni più recenti sorgevano in larga misura dal laicato e contestavano ricchezze, poteri temporali e indegnità morali del clero. Un’intonazione pauperistica ebbe il movimento avviato da un mercante di Lione, Valdo (1170-1217), che rinunciò ai propri beni e si mise a predicare il Vangelo in lingua volgare, nonostante il divieto delle gerarchie ecclesiastiche. Scomunicato Valdo nel 1215, i suoi seguaci sopravvissero alle persecuzioni rifugiandosi nelle valli alpine tra Francia e Italia. Ispirazioni millenaristiche ebbe il cistercense calabrese Gioacchino da Fiore (1145-1202), che predicava l’avvento dell’età dello Spirito Santo e la sostituzione delle istituzioni ecclesiastiche con un nuovo ordine monastico, spiritualmente puro: l’eversione dell’ordine costò anche a lui l’accusa di eresia. Il movimento ereticale più diffuso tra XII e XIII secolo in diverse aree europee ( dalla Francia all’Italia, alla Bulgaria), fu quello dei catari (<<puri>>). Miscelando nuclei di cristianesimo a credenze di tipo dualistico di origine orientale, la loro teologia presupponeva l’esistenza dei principi del bene e del male, incessantemente contrapposti. Il rifiuto di alcuni sacramenti come il battesimo e l’eucarestia, e la contrapposizione di una propria Chiesa, con propri sacerdoti, a quella cattolica, scatenò su di loro dure persecuzioni. Di fronte a predicazioni che contestavano la ricchezza e il potere temporale della Chiesa – come quella del canonico Arnaldo da Brescia che, opponendosi alla gerarchia ecclesiastica e alla sua mondanità, nel 1148 riuscì a cacciare da Roma con una sommossa popolare il papa Eugenio III-, il papato reagì con crescente vigore a tutela del dogma cattolico e del ruolo di mediazione sacrale dei propri sacerdoti. Inizialmente gli eretici furono scomunicati, attraverso bolle papali come la Ad abolendam di Lucio III, che nel 1184 condannò catari e valdesi. Successivamente, alcune decretali di Innocenzo III del 1199 li equipararono ai rei di lesa maestà, condannandoli a morte. La lotta si inasprì ulteriormente nel 1208 quando venne bandita dal papa una crociata, condotta da aristocratici, contro i catari di Albi nella Francia meridionale, che provocò stragi della popolazione. Nel 1231 Gregorio IX avocò a Roma la guida della repressione giudiziaria dell’eresia, fino ad allora lasciata ai tribunali civili: nelle diocesi il compito fu affidato a delegati del papa, i giudici inquisitori, perlopiù domenicani, che agirono con poteri speciali in materia di fede. Alla metà del secolo i meccanismi di funzionamento dei tribunali dell’inquisizione vennero perfezionati con l’introduzione della tortura degli imputati. Accanto allo sviluppo di un forte apparato repressivo contro gli eretici, la Chiesa seppe anche ricondurre alcuni movimenti religiosi nell’alveo dell’ortodossia. La sensibilità per le nuove esigenze di spiritualità si rivolse in particolare verso nuove forme di religione regolare, nuovi ordini che diffondevano il messaggio evangelico attraverso l’azione pastorale e caritativa (carmelitani, crociferi, serviti, etc.). Essi non seguivano i modelli della vita monastica, ma operavano nella realtà sociale, soprattutto nei popolosi ambienti urbani. Straordinario successo e vastissima diffusione in tutta Europa ebbero gli ordini fondati dal castigliano Domenico di Guzmàn (1170-1221) e dall’umbro Francesco di Assisi (1182-1226). Entrambi centrarono la propria predicazione sull’esigenza di un ritorno alla povertà evangelica e i loro ordini furono detti <<mendicanti>> perché non possedevano beni e vivevano delle elemosine e delle offerte dei fedeli tra i quali insediavano i propri conventi. Domenico promosse un ideale di cristianità ortodossa fondato su una solida cultura teologica e sulla predicazione del Vangelo come antidoto alle suggestioni ereticali. I frati domenicani ebbero approvata la prima regola da Onorio III nel 1216, e si distinsero nei decenni successivi come inquisitori, in virtù della loro preparazione dottrinale: diversi esponenti dell’ordine, a cominciare da Tommaso D’Aquino (1225-1274), furono chiamati a insegnare teologia e filosofia nelle principali università dell’Occidente. Francesco fu straordinario esempio di una vita improntata sulla povertà assoluta, all’umiltà, all’esaltazione degli ideali di pace e di fratellanza. L’intransigenza pauperistica gli attrasse i sospetti di eresia e solo la sua dichiarazione di fedeltà all’autorità della Chiesa consentì la costruzione dell’ordine dei francescani, detti <<minori>> in segno di umiltà e sottomissione. Dopo l’approvazione dello stile di vita di parte di Innocenzo III nel 1209, Onorio III ne approvò la regola nel 1223. Su incoraggiamento di Francesco, Chiara da Assisi (1194-1253) fondò un gruppo di <<sorelle>> (che, diventato ordine femminile nel 1214, prese il nome di clarisse) caratterizzato da un’intensa spiritualità e da un ideale di vita di povertà e di preghiera. Nel corso del XII secolo anche il mondo monastico, e in particolare l’ordine di Cluny, aveva cominciato a subire critiche per l’ostentata potenza e lo stile di vita aristocratico. Accusa ricorrente fu quella dell’assenza, fra i loro chiostri, di una cultura della povertà. Puntando a una restaurazione dell’originaria regola benedettina, a una riaffermata austerità di vita e a pratiche di preghiera e lavoro manuale, prese vita dal monastero di Citeaux un nuovo ordine (quello dei cistercensi), la cui regola fu approvata nel 1119. Grande animatore ne fu Bernardo di Chiaravalle (1090-1153), ispiratore di una rinnovata spiritualità, alla cui morte l’ordine contava circa 350 monasteri sparsi per l’Europa. Più vicino ai modelli eremitici fu il rigoroso modo di vita dei certosini, dal nome della certosa fondata presso Grenoble nel 1084: la regola dell’ordine, approvata nel 1133, prevedeva che i monaci, pur vivendo in comunità, passassero gran parte del tempo pregando isolati nelle proprie celle. I nuovi monasteri non erano più centri di dominio signorile ma importanti centri di attività agricola, condotti col sistema delle grange. (azienda agricola compatta, accorpata intorno a un centro di gestione padronale, in relazione all’estrema frantumazione dei fondi conseguente alla crisi del sistema curtense.) Monaci e frati Non è infrequente, per quanto errato, confondere i monaci con i frati. I <<monaci>> non sono <<preti>>, ma dei laici che hanno deciso di condurre una vita di preghiera in solitudine (e pertanto si possono chiamare anche <<eremiti>>, da <<eremo>>) o in comunità (e pertanto <<cenobiti>>, da <<cenobio>>), obbedendo a una regola monastica. Per questo i monaci sono anche detti <<regolari>>. Solo alcuni monaci sono <<sacerdoti>>, perché hanno ricevuto l’ordinazione sacerdotale, cioè la responsabilità di impartire i sacramenti. I monaci risiedono nei monasteri, ma non tutti i monasteri sono <<abbazie>>: lo sono solo quelle che sono guidate da un <<abate>>. I monasteri di un ordine dipendenti da un abbazia (come Cluny) erano in genere retti da un <<priore>>, e pertanto possono essere anche detti <<priorati>>. Col termine <<ordine>> si intende un insieme di comunità che vivono tutte secondo la stessa regola e ubbidiscono a un’unica autorità. I domenicani e i francescani non si definiscono <<monaci>>, ma <<frati>> (da <<fratres>>, fratelli) perché non perseguivano una vita di preghiera ritirata dal mondo ma un impegno pastorale nel mondo. Le sedi dei loro ordini non si definiscono <<monasteri>> (cioè luoghi dei monaci, gli uomini <<soli>>) bensì <<conventi>> (cioè luoghi di conventus, adunanza e incontro). I francescani sono anche detti frati <<minori>>, ossia più piccoli, perché sottomessi a tutti. Francesco diede loro una regola, che fu approvata da papa Onorio III nel 1223. I domenicani sono anche detti frati <<predicatori>> perché proponevano il proprio ideale di cristianità attraverso la predicazione. Essi seguivano la regola agostiniana, la stessa adottata dai canonici <<regolari>>, cioè dai fedeli che conducevano una vita in comune in base a norme comuni, diverse da quelle monastiche perché più orientate all’assistenza e all’impegno sociale. Come i monaci, anche i canonici potevano essere dei laici, benché fossero più spesso dei <<chierici>>. Le loro sedi sono dette <<canoniche>>, ed è errato definirle conventi o monasteri. Gli uomini dei domenicani e dei francescani sono detti anche ordini <<mendicanti>>, perché potevano sostentarsi solo con le elemosine dei fedeli; gli stessi conventi dove vivevano non appartenevano loro ma alla Chiesa romana. A differenza del monachesimo benedettino, che si era sviluppato soprattutto nelle campagne in luoghi isolati, fino a diventare un elemento fondamentale della società rurale, gli ordini mendicanti furono protagonisti soprattutto della vita cittadina, stabilendosi sin dall’inizio in conventi nelle aree urbane periferiche, spesso nei quartieri di maggiore connotazione popolare. Il loro successo negli ambienti urbani fu rapido ed enorme perché i mendicanti coinvolsero i laici in attività religiose, entrando spesso in competizione, e talora in conflitto, con il clero tradizionale. Non è infine un caso che gli ordini monastici come i cluniacensi e i cistercensi trovarono diffusione soprattutto in Francia e in Germania, aree prevalentemente rurali, mentre gli ordini mendicanti si irradiarono soprattutto nelle aree dell’Europa urbana, come l’Italia, la Francia meridionale e le Fiandre. Il cristianesimo orientale: ortodossia e scismi Nell’impero bizantino la Chiesa continuò a dipendere dal ruolo attribuito al sovrano. L’imperatore era vicario di Dio sulla terra e garante della difesa e del rafforzamento delle comunità cristiane. Dal VII secolo le sedi patriarcali di Alessandria, Gerusalemme e Antiochia si ritrovarono fuori dall’impero per l’avanzata islamica, e solo quella di Costantinopoli poté appoggiarsi all’autorità secolare. A differenza della Chiesa cattolica, le chiese locali mantennero una forte autonomia, in una struttura centrata sulle assemblee consiliari e priva di un vertice gerarchico come quello che in Occidente si venne stabilendo dall’XI secolo intorno all’autorità del papa. Anche il movimento monastico ebbe grande sviluppo: i cenobi crebbero in ricchezza e acquisirono influenza sulle fondazione di nuovi villaggi accentrati e facilmente difendibili. La migrazione verso le regioni baltiche e centro-orientali di coloni tedeschi, fiamminghi e frisoni (500.00 mila individui tra XII e XIII secolo), guidati da signori tedeschi e da ordini religiosi come i Cavalieri teutonici, diede ordine non solo a nuovi insediamenti rurali ma anche a nuove città. Le attuali città polacche furono create quasi tutte dai tedeschi. L’espansione delle campagne La crescita della popolazione andò di pari passo con l’estensione delle coltivazioni. La crescente pressione demografica costrinse infatti a produrre una maggiore quantità di risorse alimentari. Condizione favorevole fu il miglioramento naturale del clima europeo, che nei secoli a cavallo del Mille fu più dolce rispetto al periodo precedente, con un’alternanza più equilibrata tra siccità e freddo e un rialzo medio delle temperature. Se ne avvantaggiarono le coltivazioni in tutte le regioni europee, ma soprattutto in quelle del centro-nord, caratterizzate da maggiore piovosità e da terreni più profondi. I limiti tecnologici del tempo, nonostante alcuni progressi, resero però determinante per l’incremento della produzione agricola l’ampliamento delle superfici coltivate, avviato tra X e XI secolo e che ebbe il suo culmine nel XII. Un po’ ovunque, la superfice dei campi guadagnò terreno sui boschi, sugli sterpi e sui pantani. Si diffuse un vasto fenomeno di occupazione di terre, di dissodamenti e colonizzazioni. Le zone incolte ai margini delle aziende curtensi e dei villaggi furono le prime ad essere dissodate, con il disboscamento delle sterpaglie e di porzioni di foreste, e con la bonifica dei terreni paludosi. Nella pianura padana, per esempio, si irreggimentarono i corsi d’acqua; nelle Fiandre si costruirono dighe per asciugare gli acquitrini lungo le coste e metterli poi a coltura (polders). Negli ambienti più isolati e disabitati furono inviti coloni per mettere a coltura nuovi terreni. Soprattutto in queste aree si svilupparono nuovi centri di insediamento –indicati coi termini di <<ville nuove>> e di <<borghi franchi>>- che attiravano contadini con la promessa di esenzioni fiscali. Ne sono documentati ben 500 nell’area intorno a Parigi e almeno 200 nella pianura padana. L’iniziativa fu promossa dai grandi principi territoriali, dai signori laici ed ecclesiastici e, più tardi, dalle città. In alcune aree, furono i monaci cistercensi e certosini a provvedere direttamente a dissodamenti e colonizzazioni. Se l’espansione dell’agricoltura fu soprattutto il risultato del graduale dissodamento di terre incolte, a essa contribuì anche il miglioramento degli strumenti di lavoro e l’introduzione di nuovi sistemi di coltivazione. I progressi principali si ebbero nell’aratura. La diffusione, dall’XI secolo, del collare rigido, che poggiava sulle spalle del bue, al posto delle cinghie che stringevano l’animale alla gola, e alla ferratura dei cavalli, che ne favorì l’impiego nel dissodamento dei terrei, permise una maggiore forza di traino e l’introduzione di aratri più pesanti. Soprattutto nei terrei compatti e argillosi dell’Europa centro-settentrionale si rivelò determinante l’adozione di un nuovo tipo di aratro, con il vomere (la lama che penetra il terreno) di metallo e munito di un versoio capace di rivoltare le zolle in profondità favorendone l’ossigenazione, mentre nelle regioni mediterranee continuò a prevalere l’uso di aratri leggeri, interamente in legno, più adatti a terreni friabili. A partire dal XII secolo fu introdotta anche la rotazione triennale delle terre, che metteva a riposo una parte dei campi ogni tre anni, anziché due, accrescendone la fertilità. Nell’anno intermedio vi si coltivavano cereali primaverili e leguminose, destinabili anche al foraggio degli animali da tiro e quindi alla loro migliore efficienza. Pur rinnovando profondamente l’economia agraria e il volto delle campagne europee, l’espansione agricola a cavallo del Mille non superò i propri limiti strutturali, in primo luogo il problema dell’approvvigionamento alimentare. Lo spettro della carestia fece la sua comparsa nel IX secolo, diventò ossessivo nelle cronache dell’XI secolo e rimase una preoccupazione costante anche nei tempi successivi. La produttività dei terreni, infatti, non crebbe molto, a causa della scarsità di concime: da rese pari a 2/3 volte le sementi nei secoli IX-X a rese medie di ¾ nei secoli XIII-XIV. Fu perseguita invece la coltura estensiva, soprattutto di cereali da pane (segale e frumento), e di colture specializzate (vite, lino e cotone) od orientale alle produzioni manifatturiere urbane (robbia, guado, zafferano). Ciò avvenne soprattutto a detrimento della varietà di coltivi che era stata tipica del sistema curtense, funzionale all’autoconsumo della singola famiglia contadina. L’effetto non fu solo una minore ricchezza e varietà dell’alimentazione, ma la maggiore esposizione del sistema economico locale alle annate sfavorevoli, che determinavano penuria nei generi alimentari. L’espansione determinò profonde trasformazioni anche nella struttura della proprietà e nell’organizzazione del lavoro agricolo. La crisi del sistema curtense, dove già nel X secolo l’equilibrio tra la riserva signorile e i mansi aveva cominciato a favorire i secondi, si accentuò. Il dominico, cioè la terra gestita dal signore attraverso i propri servi, tese a scomparire tra XI e XII secolo, frazionato tra contadini di varia condizione giuridica. Le aziende si trasformarono e i campi furono concessi in affitto. Anche le corvées cui i contadini erano stati tenuti, scomparvero, sostituite da canoni in denaro. Aumentò il numero dei coltivatori concessionari di terre, attraverso contratti più elastici, di lunga durata, che richiedevano corresponsioni di canoni in denaro o in natura. L’affitto incoraggiava i contadini a produrre di più e meglio e permetteva al proprietario di aumentare la propria rendita fondiaria. Peraltro, aumentando il numero delle famiglie contadine, i mansi si fecero sempre più piccoli. Ma le grandi proprietà, pur ristrutturate, non vennero meno. Le differenziazioni già presenti nella società rurale si accentuarono. Resi più autonomi, i coltivatori più intraprendenti approfittarono dell’aumento della produzione agricola e della sua commercializzazione, accumulando ricchezze. Grazie alla lunga durata degli affitti e all’esiguità del canone, essi poterono anche consolidare i diritti sulla terra che lavoravano, maturando su di essa una sorta di diritto di possesso (<<dominio utile>> lo chiamarono i giuristi), che consentiva loro di lasciarla in eredità ai figli o di alienarla (il proprietario ne manteneva il <<dominio diretto>>, riconosciuto dal pagamento di un censo periodico). I contadini più agiati erano pieni proprietari, concessionari di terre in <<dominio utile>>, e affittuari di altri fondi di proprietà di aristocratici ed enti ecclesiastici. Furono essi a consolidare quelle élites rurali che dal XII secolo cominciarono ad essere attratte dalle città. I grandi proprietari sostennero le innovazioni che accrescevano i loro profitti e promossero le imprese di colonizzazione e dissodamento mercializzando il surplus prodotto. Le trasformazione della società rurale Fino a tutto il X secolo il sistema di organizzazione agraria prevalente nell’Occidente europeo, pur con differenze locali, era stato quello curtense. Dopo il Mille le campagne furono attraversate da molte trasformazioni, che erano anch’esse un segno della crescita della società europea. In primo luogo, il consolidamento dei poteri signorili, trasformando tutti i coltivatori in dipendenti, modificò i concetti di proprietà e di libertà nelle campagne, colpendo soprattutto i piccoli proprietari. La distinzione tra le terre che il contadino possedeva in allodio e le terre padronali che coltivava in cambio di un censo perse significato. Il livellamento di condizioni fu favorito anche dalle forme di coltivazione collettiva, imposte dal calendario dei lavori agricoli (aratura, semina, raccolto,…) e dalla conformazione del territorio, benché la proprietà della terra restasse individuale. Tra i grandi proprietari si diffuse invece l’uso di sostituire alla compravendita la concessione delle terre in feudo, che divenne il modo abituale con cui la terra passò di mano tra gli aristocratici, come segno distintivo. I piccoli proprietari continuarono invece a cedere e ad acquistare liberamente le terre in piena proprietà. Scomparso il dominico, le grandi proprietà, anche per effetto della crescita demografica, si erano frammentate in innumerevoli parcelle possedute tutte dal medesimo proprietario, ma affidate a un gran numero di coltivatori diversi, i quali, a loro volta, coltivavano appezzamenti separati e spesso lontani tra loro e talora appartenenti a padroni diversi. Di conseguenza, per molti secoli i contadini abitarono perlopiù tutti insieme in villaggi piuttosto che i abitazioni isolate nei campi. Dal XII secolo, nelle aree meno popolate furono i proprietari ecclesiastici, per primi i cistercensi, ad accorpare la proprietà intorno a un centro di gestione padronale, attraverso il sistema delle grange. Dal XIV secolo anche la proprietà urbana avrebbe promosso, attraverso la compravendita dei terreni, l’accorpamento delle tenute in poderi. Le concessioni fondiarie erano fi solito a lunga o a lunghissima scadenza, con sensi in denaro quasi sempre fissi, e pertanto destinati a una progressiva svalutazione. Per reazione, a partire dal XIII secolo, alcuni proprietari, soprattutto quelli urbani, iniziarono a introdurre contratti a più breve scadenza, che consentirono di attenuare gli effetti dell’inflazione. Nel complesso, la condizione dei contadini peggiorò rispetto al periodo precedente, caratterizzato dal sistema curtense. L’affermazione della signoria territoriale livellò su un unico stato di dipendenza individui di diverso status giuridico: liberi affittuari, servi casati, addirittura piccoli proprietari, che si ritrovarono tutti sottomessi allo stesso modo al potere signorile. Gli stessi contratti agrari stipulati dall’XI secolo in poi contengono riferimenti sia agli obblighi agrari sia ai diritti di prelievo signorile. Anche l’alimentazione peggiorò: il sistema autosufficiente della curtis aveva garantito anche ai contadini una dieta variegata comprendente prodotti come il formaggio, la carne di maiale, il pesce, i frutti del bosco. La specializzazione delle colture che si affermò dopo il Mille, centrata su quelle cerealicole, ridusse invece la varietà degli alimenti: sulla tavola dei contadini finì col prevalere un solo prodotto, il pane. La nuova dieta, povera di proteine, si fece meno equilibrata, favorendo l’insorgere di malattie legate alla denutrizione: l’ergotismo (un’intossicazione alimentare da segale cornuta) conobbe due grandi ondate nel 994 e nel 1089 nella Francia settentrionale e nelle Fiandre, per poi propagarsi a tutto l’Occidente. Dall’economia della terra all’economia degli scambi Già nel sistema curtense si era manifestata la capacità dei grandi proprietari fondiari di utilizzare la raccolta agricola alla vendita dei sovrappiù produttivi. Dall’XI secolo l’estensione generalizzata dei poteri signorili di <<banno>> all’intera popolazione rurale accentuò il prelievo signorile sui contadini. L’aumento delle rendite fondiarie e della conseguente disponibilità di spesa da parte delle famiglie aristocratiche si tradusse in una domanda di beni e di servizi che, pur intesa a soddisfare innanzitutto i beni di lusso, creò nuovo reddito nei settori delle produzioni manifatturiere e della loro commercializzazione. Lo sviluppo economico ebbe origine nelle campagne. Anche i coltivatori più agiati furono in grado di vendere maggiori quantità dei loro prodotti e di reinvestire gli introiti in denaro nell’acquisto di merci di altro genere. Da un’economia basata esclusivamente sulle rendite agrarie si passò progressivamente a un’economia trainata dagli scambi. Merito dei signori fu anche quello di investire in infrastrutture che favorirono lo sviluppo commerciale delle campagne: mulini, ponti, strade, approdi fluviali, luoghi di mercato, che si rivelarono utili a sostenere l’economia rurale. Assicurando protezione e tutelando i movimenti delle persone e delle merci, i poteri signorili incentivarono la diffusione degli scambi e trassero profitto dalla vita economica del territorio sottoposto a loro giurisdizione. Tornò ad essere curata anche la rete delle vie di comunicazioni terrestri e acquee, dopo che per secoli era mancata la manutenzione della lastricatura delle antiche strade romane. Il trasporto sull’acqua restò più facile di quello terrestre. Furono sfruttate le potenzialità dei bacini fluviali, creando approdi, ponti e canali: divenne usuale risalire con carichi nautici pesanti per centinaia di chilometri i corsi d’acqua interni, lungo il Reno, il Danubio, il Po e moltissimi altri fiumi e affluenti. Tra X e XIII secolo furono disegnati e l’energia idraulica per molte attività, attraverso l’albero a camme, che trasformava il movimento circolare della ruota in movimento lineare. Esso fu applicato alle macine per il grano, ai frantoi, ai mantici e ai magli delle forge per la lavorazione del ferro, alle gualchiere per la follatura dei panni. Dal XII secolo si diffusero sulle coste atlantiche anche i mulini a vento. L’attività manifatturiera si intensificò nei villaggi, nei domini signorili e soprattutto nelle città, differenziandosi in vari settori produttivi, taluni anche nuovi e qualificanti. Nelle città si svilupparono gruppi di artigiani specializzati, organizzati in corporazioni. Il settore in più forte espansione fu quello tessile, e in particolare laniero. Introdotta dagli arabi in Sicilia, si diffuse in varie aree italiane, francesi e tedesche anche la produzione di tessuti di seta. Si svilupparono anche le manifatture di cotone e di fustagno, e cominciò a diffondersi la produzione di carta. La lavorazione dei metalli sollecitò lo sviluppo del settore minerario. Il commercio marittimo promosse la crescita dell’industria cantieristica. La lavorazione delle pelli richiese l’importazione dall’Asia Minore di allume. Accanto a settori nuovi ebbe un nuovo impulso quello tradizionale dell’edilizia, che sostenne anche con nuove tecniche costruttive la grande espansione urbanistica del periodo. La più ampia disponibilità dei beni incrementò le attività commerciali. Gli scambi locali e regionali furono ovunque rafforzati. I mercati dei centri rurali e delle città cominciarono a interagire progressivamente con la ripresa dei grandi commerci a lunga distanza. Questi furono favoriti non solo dalla maggiore cura delle vie di comunicazione, ma anche da miglioramenti tecnici nei trasporti: carovane di muli e cavalli, carri a due e talora anche a quattro ruote, per le vie terrestri; bussole, carte nautiche e portolani, per la navigazione marittima. In alcune regioni a più alta concentrazione di popolazione e di produzione agricola –le Fiandre, la Francia del nord-est, la Renania, l’Italia centro-settentrionale – si svilupparono veri e propri distretti manifatturieri, specializzati nelle produzioni artigiane destinate ai mercati locali ed extraregionali. In altre, specie se prossime a porti marittimi e fluviali, prevalsero le specializzazioni soprattutto agricole: per esempio quella del vino, lungo la Mosella e il Reno o in Aquitania, dove il porto di Bordeoux costituì un grosso emporio, rivolto in particolare verso l’Inghilterra. Diverse regioni europee si trovarono a essere collegate tra loro da scambi commerciali che erano sostenuti da una crescente domanda di beni alimentata dai consumi aristocratici e urbani. Le sedi delle corti sovrane (Parigi, Londra, Palermo) e le maggiori città italiane divennero grandi centri di consumo di beni e prodotti del commercio internazionale: dalle spezie orientali ai vini francesi e renani, dai panni di lana fiamminghi e toscani ai tessuti di lino e cotone delle regioni padane e francesi settentrionali, dalle manifatture artistiche e argentiere italiane e francesi alle armi tedesche, spagnole e lombarde. Messe in contatto, le vocazioni manifatturiere e mercantili locali furono incentivate, incrementando qualità e quantità delle merci da scambiare, con un effetto di crescita complessiva. Venne così delineandosi una pluralità di aree con specializzazioni differenti, ma complementari e integrabili, che si estendeva in tutta Europa e che costituiva un sistema economico tendenzialmente unitario. Per la posizione geografica al crocevia dei flussi di scambio tra Oriente e Occidente e tra nord e sud dell’Europa, e per la precocità della crescita delle loro città, i mercati italiani furono gli iniziali protagonisti dell’espansione commerciale. Tra X e XI secolo alcune città costiere meridionali, come Amalfi, Bari, Napoli, si inserirono nel commercio mediterraneo, creando una rete di stazioni commerciali nei porti della Siria, della Palestina, dell’Asia Minore e del Mar Nero, punto d’arrivo delle carovane mercantili dall’Oriente, e dando vita a intensi rapporti di scambio con gli arabi e i bizantini. A esse si affiancò presto Venezia che finì con l’ottenere nel 1082 da Bisanzio la libertà di commercio in tutto il territorio dell’impero e divenne lo snodo principale dei traffici mercantili tra l’Europa continentale e il Mediterraneo. Pisa e Genova, a loro volta, si batterono, anche con azioni di pirateria e di saccheggio, per la conquista della Sardegna e della Corsica, costituendo basi mercantili nelle regioni musulmane: in Sicilia, in Spagna e nelle coste africane. Fra XI e XII secolo le città marinare italiane acquistarono un sostanziale monopolio dei commerci mediterranei, scalzando i mercanti greci, ebrei e musulmani. Nell’Europa del Nord i traffici gravitavano intorno al Mare del Nord e al Baltico. Nell’area baltica, che mediava le materie prime provenienti dalla Scandinavia e dall’entroterra polacco e russo, furono soprattutto i mercanti tedeschi a sviluppare un intenso commercio dal XII secolo, costituendo società di mercanti (Hanse) che collegarono gli empori costieri da Lubecca a Danzica a Riga. Sbocco dei traffici baltici verso l’Occidente europeo erano le città delle Fiandre, il cui sviluppo mercantile collegava le coste del Mare del Nord con l’Inghilterra, con l’entroterra francese e con la Renania. Le Fiandre erano anche il punto di arrivo dei traffici provenienti dal Mediterraneo attraverso i porti francesi e la valle del Rodano e le vie transalpine che collegavano le città e i porti italiani ai centri renani e fiamminghi. Accanto ai mercati permanenti i luoghi principali degli scambi diventarono le fiere, cioè i mercati periodici. Per la favorevole posizione geografica, all’incrocio tra i traffici del Nord e del Mediterraneo, conobbero grande importanza dal XII secolo le fiere che si tenevano a rotazione bimestrale in sei centri della Champagne, dando vita a una nuova sorta di mercato permanente lungo tutto l’anno. La diffusione dei rapporti feudali Dalla fedeltà personale al raccordo politico L’aristocrazia sviluppò un sistema di rapporti fondato sullo scambio tra fedeltà militare offerta da un vassus e impegno di protezione garantito da un senior attraverso la concessione di un beneficio. Gli storici usano distinguere due fasi di evoluzione di questo sistema. Nella prima, che durò fino al X secolo, i rapporti vassallatico-beneficiari servirono da collante dell’ordinamento pubblico. Nell’impero carolingio i vassalli non erano ufficiali del regno, ma l’imperatore scelse i conti, i marchesi, e i missi principalmente tra i suoi vassalli, proprio per poter contare su personaggi di fiducia. Il vassallo non poteva esercitare le funzioni pubbliche (fiscalità, giustizia) sulle terre ottenute in beneficio, che non appartenevano al suo patrimonio ma gli erano concesse solo come compenso economico della sua fedeltà militare. Fu solo con la dissoluzione dell’impero tra X e XI secolo che le grandi famiglie aristocratiche resero ereditarie sia le cariche pubbliche sia i benefici. La seconda fase dei rapporti vassallatico-beneficiari si aprì nell’XI secolo quando, con lo sviluppo dei poteri signorili, tali legami si rivelarono uno strumento utile per collegare tra loro i nuclei di potere dispersi. Fu l’estrema frammentazione del potere pubblico che trasformò la natura dei rapporti vassallatici. Col tempo era venuto meno l’obbligo del servizio armato, anche perché i vassalli si erano spesso legati a una pluralità di signori creando crescenti problemi di priorità in caso di conflitto. Inoltre, i benefici, anche i minori, erano ormai incorporati nei patrimoni dei vassalli, e resi ereditari dall’Edictum de beneficis di Corrado II del 1073. Da quel momento i rapporti vassallatici mutarono definitivamente, trasformandosi da legami di fedeltà personale di tipo militare i raccordi di tipo eminentemente politico. Anche il modo di indicarli cambiò significativamente: il termine <<feudo>> venne sostituendosi a quello di <<beneficio>>. Solo per questa età è appropriato parlare di rapporti di tipo feudale. Tra XI e XIII secolo l’espansione della società europea fu caratterizzata, sul piano politico, da un generale processo di ricomposizione dei poteri territoriali che il precedente sviluppo dell’ordinamento signorile aveva frammentato in una pluralità di nuclei (laici, ecclesiastici, urbani). Strumento principale della ristrutturazione in quadri politici più ampi –principati e monarchie- furono le relazioni feudali, che sancirono e legittimarono in forme nuove i rapporti di potere. Il feudo divenne lo strumento preferenziale di concessione di diritti pubblici e ciò consentì di coordinare intorno a nuove gerarchie quei poteri locali che l’eccessiva frammentazione esponeva al pericolo di isolamento e di conflitti esiziali. Viceversa, tali poteri poterono inquadrarsi in rapporti di subordinazione che non intaccavano la loro autonomia. Ciò poté avvenire perché il feudo divenne sempre più chiaramente parte del patrimonio del vassallo, trasmissibile per via ereditaria e revocabile solo in casi eccezionali di infedeltà. (Feudo: il termine costituisce la latinizzazione (feudum) dell’antico germanico fihu (fehu) che era usato per indicare un pagamento in servizi, prevalentemente in capi di bestiame, e che presto assunse il medesimo significato del termine tardo latino beneficium, che indicava il compenso (una rendita, prevalentemente in terra) che remunerava la fedeltà militare del vassallo. In origine il beneficiario costituiva una concessione provvisoria, vitalizia e revocabile. Quando il beneficio divenne un diritto ereditario, definitivamente dall’XI secolo per tutti i gradi della vassallità, il temine feudo cominciò a essere utilizzato per indicare varie cose. Sul piano politico l’esercizio di diritti signorili o della giurisdizione legata a un castello divenne un bene feudale, che il sovrano concedeva ai propri vassalli, direttamente o attraverso la finzione del feudo oblato. Su quello economico il termine feudo assunse il significato di alienazione di proprietà, in genere tra aristocratici, o di affitto di terra di un padrone a un contadino.) Il coordinamento dei signori locali in compagini territoriali più ampie attraverso i nuovi strumenti feudali fu accompagnato dal XII secolo dall’elaborazione di un vero e proprio diritto feudale. I giuristi contribuirono a chiarire l’intricata materia dei rapporti secondo i principi di delega dei poteri. I rapporti feudali potevano assumere infatti una varietà di configurazioni. Quando i principi cominciarono a dare come benefici ai loro fedeli la giurisdizione delle terre, i documenti indicano tale investitura con il termine di feudum nobile. Poteva avvenire che i signori locali, per legittimare i propri incerti poteri di fatto, donassero le loro terre a un principe che gliele restituiva subito come feudi: i diritti esercitati su quei territori erano in tal modo investiti feudalmente, e si parla in tal caso di feudo <<oblato>>. Per assicurarsi la fedeltà dei vassalli taluni principi imposero loro di prestare un omaggio cosiddetto <<ligio>>, che in caso di conflitto era considerato superiore a tutti gli altri omaggi prestati. Il tradimento degli obblighi di fedeltà feudale tra il signore e il vassallo fu configurato ei termini di crimine di <<fellonia>>. La moltiplicazione dei legami feudali fu determinata dalla convergenza tra la pressione dei principi territoriali e la convenienza dei signori più piccoli di raccordarsi politicamente con i più potenti. Venne per tal via creandosi una rete di relazioni feudali che raccordava tra loro tutti i poteri. Nel XII e XIII secolo giuristi e consiglieri di re e imperatori cominciarono a elaborare lo schema ideologico di una struttura piramidale del potere, discendente da un unico grande centro erogatore di legittimità: il sovrano. A esso facevano vassallaticamente capo i principi territoriali, che a loro volta annoveravano tra i propri vassalli i signori locali, i quali avevano come vassalli dei cavalieri, e così via. In particolare l’immagine della piramide feudale ben si adattò ai regni più centralizzati, come quelli normanni d’Inghilterra e dell’Italia meridionale. È però un errore credere che essa corrispondesse a una realtà di fatto: si trattava solo di un modo di descrivere la gerarchia dei poteri elaborato dai giuristi a partire dal XII secolo. Nemmeno i cavalieri vanno confusi con i vassalli: potevano diventarlo, ma non lo erano in quanto tali. Il rapporto tra signore e vassallo era un rapporto tra pari. Lo indicava anche il rito attraverso cui esso si stabiliva sin dall’età carolingia: entrambi stavano in piedi, e mentre il senior prendeva tra le sue mani del vassus (investitura) questi gli giurava fedeltà (omaggio); frequente era anche lo scambio di un bacio. L’addobbamento cavalleresco, invece, non era un rapporto tra pari, bensì una promozione sociale che un membro della nobiltà compiva a vantaggio di un uomo di sua fiducia. Diverso era anche il rito. Il futuro cavaliere stava genuflesso davanti al signore, che gli consegnava la spada e il cinturone, inferendogli simbolicamente un colpo con il palmo della mano o con la spada stessa. governo, e facendo ricorso alla scrittura ad uso amministrativo. Gli ufficiali regi potevano agire efficacemente solo nelle aree di diretto dominio della corona, mentre in quelle feudali dovevano coordinare la propria autorità con le prerogative dei poteri locali. Nondimeno, il numero di sceriffi, prevosti, balivi, castellani, dislocati nei territori periferici del regno, tese a crescere nel tempo. Questi ufficiali non erano vassalli del re, bensì degli stipendiati. Rispetto ai sovrani dell’epoca precedente, costretti a concedere in feudo i territori per amministrali, i nuovi monarchi poterono infatti avvalersi della ritrovata circolazione monetaria e dell’espansione dell’economia europea per remunerare i burocrati del servizio svolto. Rispetto ai regni delle età precedenti, dove il potere si fondava sulle relazioni personali tra il re e il suo popolo (regni romano-barbarici) o tra il re e i grandi del suo popolo (impero carolingio), la concezione del potere delle nuove monarchie era sostanzialmente diversa. La potestà regia era ora orientata verso un esercizio territoriale della propria autorità, cioè sulla capacità di comando su tutti gli abitanti di uno spazio definito. Punto fondamentale era il controllo del territorio, che fu perseguito anche attraverso la rivendicazione di quote crescenti di giurisdizione che i signori e le comunità locali furono costretti a cedere attraverso patti e accordi scritti (non più affidati alle consuetudini orali diffuse nel mondo signorile). Cardine di questo sforzo regio fu l’imposizione del principio della superiorità del tribunale regio su quelli signorili, con l’obbligo dei sudditi di fare ricorso alla giustizia del re in caso di delitti particolarmente gravi oppure in appello. Il regno di Francia Il regno dei franchi occidentali, dopo la dissoluzione dell’impero carolingio, corrispondeva grosso modo all’area della Gallia romana e costituiva, tra X e XI secolo, un’area politica caratterizzata da un sistema di principati. La dinastia dei Capetingi che aveva assunto nel 987 il titolo regio controllava solo uno dei principati territoriali in cui era frammentata la Francia dell’epoca. Il loro potere non si differenziava, per natura ed estensione, rispetto a quello dei duchi e dei conti vicini. Il dominio diretto dei Capetingi era limitato a un’area ristretta compresa tra la Loira e la Senna. La potenza degli altri principati derivava invece o dalla tradizione etnica, come ne caso della Bretagna e dell’Aquitania; oppure traeva forza dalle relazioni con potenze esterne, come la Normandia legata al mondo anglosassone, le Fiandre al mondo commerciale del Mare del Nord, la contea di Tolosa in relazione con la Spagna cristiana, la Borgogna collegata alla monarchia germanica; o ancora dall’iniziativa di principi potenti, come in Angiò, nella Champagne o in Provenza (che era terra di impero). La debolezza del potere dei Capetingi si trasformò paradossalmente in un fattore di forza per la loro affermazione monarchica. Proprio perché debole, il loro esercizio della regalità non era avvertito come una minaccia effettiva dagli altri potentati locali, che lo accettavano in quanto simbolo dell’unità del regno e di garante della pace e della giustizia, per esempio nell’intervento arbitrale nelle dispute tra i grandi signori. Per questa via i Capetingi mantennero vivo il regno per tutto l’XI secolo e posero le basi per l’aumento del proprio potere nel secolo successivo. Assicuratosi il pieno controllo del principato <<reale>>, infatti i Capetingi assunsero il compito effettivo di protettori delle chiese e di garanti delle paci di mercato in aree soggette ad altri principati, così guadagnandosi il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche e delle città del regno. Inoltre, essi seppero costruire una trama di relazioni vassallatiche con i duchi e i conti, che garantì loro la superiorità feudale (detta souzeraneité) e rafforzò i vincoli di dipendenza al sovrano. Il ruolo simbolico dei re capetingi fu rafforzato anche dalla sottolineatura della sacralità della funzione regia. Tra XII e XIII secolo la propaganda regia presentò l’immagine del re come un personaggio dotato di poteri taumaturgici (di guarigione). I sostenitori regi diffusero la credenza che il sovrano acquisisse dall’unzione divina nel corso della cerimonia di incoronazione la capacità di curare, con il solo tocco della mano, alcune gravi malattie, tra le quali la scrofola (una forma grave di tubercolosi) che fu detta perciò anche <<male del re>>. I malati accorrevano in massa in periodiche adunanze per farsi curare. La popolarità del potere soprannaturale dei re di Francia-non in quanto persone, ma come manifestazione della dignità regia e della dinastia che la esercitava- si diffuse nell’immaginario collettivo di molte aree europee e contribuì ad accrescere il loro prestigio e il loro potere. Per un certo periodo un analogo potere taumaturgico fu attribuito anche ai re d’Inghilterra. Fu a partire dall’epoca di Luigi VI (1108-1137) e, soprattutto, di Luigi VII (1137-1180) che si avviò un primo deciso processo di consolidamento delle strutture del regno. Furono sviluppati gli apparati centrali, in primo luogo quelli concernenti l’esazione fiscale, e dislocati i primi rudimentali strumenti di controllo regio nei territori immediatamente soggetti agli altri principi. La graduale espansione del potere capetingio condusse all’assorbimento di altre realtà regionali, sia attraverso alleanze matrimoniali sia per via militare. Decisiva fu la formalizzazione delle relazioni feudali tra i grandi vassalli e la corona: Luigi VII fu in grado di promuovere sistematicamente la diffusione del feudo <<ligio>> che premiava la fedeltà al re prima di ogni altra. Anche la superiorità giudiziaria del re cominciò a essere affermata durante il lungo regno di Luigi VII: egli divenne progressivamente il punto di riferimento per la soluzione delle dispute tra i grandi signori. Luigi VII dovette affrontare un lungo e duro conflitto con i più potenti dei loro vicini, i Plantageneti, originari del Maine, che limitavano a Occidente l’espansione del regno di Francia. Essi discendevano da Goffredo conte d’Angiò- detto Plantageneto dalla pianta di ginestra che era l’insegna della sua casata- e da sua moglie Matilde, figlia del re d’Inghilterra e signora dei ducati di Normandia e Bretagna. Il loro figlio Enrico sposò nel 1152 Eleonora, signora di Aquitania e del Poitou, e nel 1154 ricevette anche la corona d’Inghilterra. Egli venne così concentrando sotto un’unica autorità un dominio vastissimo, esteso sulle due coste della Manica, e che andava dalla Scozia ai Pirenei. L’aspetto paradossale fu dato dal fatto che Enrico era formalmente vassallo del re di Francia per il possesso di vari feudi, soprattutto in Bretagna, ma era ben più potente di lui, in quanto controllava di fatto la maggior parte del territorio francese. Il conflitto fu inevitabile, ma pur perdurando a lungo si risolse nel riconoscimento della presenza minacciosa del re d’Inghilterra entro i confini del regno di Francia. Il problema della potenza plantageneta fu risolto da Filippo II, detto Augusto (1180-1223), durante il cui regno si ebbe la triplicazione dei territori sottoposti al diretto controllo sulle aree orientali del regno (Artois e Vermandois), mente con decise azioni militari furono strappate agli eredi di Enrico d’Inghilterra la maggior parte dei territori francesi (Angiò, Berry, Bretagna, Maine e Normandia). Decisiva fu la vittoria nella battaglia di Bouvines, presso Lille nel nord della Francia, del 1214, dove Filippo Augusto, appoggiato da Innocenzo III e dal giovane re di Germania Federico II, sconfisse la coalizione tra l’imperatore Ottone IV e il re d’Inghilterra, Giovanni I Plantageneto detto Senza Terra: quest’ultimo fu costretto a cedere alla Francia tutti i possedimenti a nord della Loira. Filippo Augusto sviluppò ulteriormente l’apparato burocratico, destinando all’amministrazione dei beni della corona i balivi e istituendo i prevosti per amministrare la giustizia regia, riscuotere le imposte e ricevere l’omaggio vassallatico dei signori e delle comunità. Gli obblighi dei vassalli cominciarono a essere redatti per iscritto e la rete delle fedeltà feudali fu resa più gerarchica. Il regno d’Inghilterra Alla fine del IX secolo il re anglosassone del Wessex Alfredo il Grande (871-899) era riuscito a fermare l’espansione vichinga in Inghilterra e ad avviare un’energica azione di governo, che fu poi ulteriormente rafforzata dai successori. Dalla prima metà del X secolo il regno anglosassone unificò i numerosi poteri locali presenti sul territorio dell’isola britannica. L’iniziativa regia fu accompagnata dall’adozione di un cerimoniale di incoronazione di tradizione carolingia introdotto dall’arcivescovo Dunstano nell’ultimo quarto del X secolo. Il regno era diviso in circoscrizioni territoriali in cui operavano gli agenti del re (sherifs), incaricati della riscossione dei tributi e dell’amministrazione della giustizia. La società locale era organizzata in insediamenti rurali (tuns, da cui poi towns) i cui abitanti partecipavano alle corti giudiziarie in cui si amministrava periodicamente la giustizia. I grandi possessori fondiari (earls) svolgevano per il re compiti di coordinamento militare su base territoriale. Dal 1016 si impadronì della corona, con una spedizione militare, il danese Canuto II, detto il Grande perché capace di creare un dominio esteso anche alla Danimarca e alla Norvegia. A sua volta Canuto III designò come proprio successore sul trono anglosassone il fratellastro di Edoardo il Confessore, figlio di Emma di Normandia, che fu eletto re nel 1042 dall’assemblea dei nobili. Il regno di Inghilterra pervenne così ai normanni per rivendicazione dinastica e per mezzo di una grandiosa operazione militare. Avvenne che il duca di Normandia Guglielmo, dopo avere consolidato il proprio potere dal 1042 con l’appoggio del re di Francia Enrico I, alla morte senza figli di Edoardo il Confessore re d’Inghilterra nel 1066, che lo aveva indicato sin dal 1051 come suo erede al trono inglese, si oppose all’incoronazione di Aroldo del Wessex. Attraversata la Manica sbarcò sull’isola con il suo imponente esercito di cavalieri ed ebbe facilmente ragione sulle truppe sassoni nella battaglia di Hastings il 14 ottobre 1066, dove fu sconfitto e ucciso Aroldo; nel Natale dello stesso anno Guglielmo fu consacrato re d’Inghilterra (con l’epiteto di Conquistatore) nell’abbazia di Westminster. La resistenza degli anglosassoni si prolungò per qualche tempo e la conquista fu completata solo nel 1071, con l’eccezione del Galles e della Scozia. Guglielmo confiscò le proprietà dei sassoni uccisi e ribelli e le distribuì ai normanni del suo seguito, riservando alla propria famiglia enormi estensioni, pari a circa un quinto dell’intero territorio. Il Conquistatore mantenne la preesistente suddivisione amministrativa del regno in una trentina di contee e in gruppi di villaggi posti sotto il comando di uno sceriffo, che presiedeva alle funzioni giudiziarie, fiscali e militari. Il potere degli sceriffi era bilanciato dalla presenza di giudici itineranti che agivano da corti d’appello. Soprattutto, Guglielmo impiantò una maglia di castelli su tutto il territorio del regno, posti su unità fondiarie (manors), che concesse in feudo a baroni e cavalieri in larga parte normanni, badando a non favorire la creazione di signorie territoriali. Il re puntò infatti a uno stretto controllo del sistema feudale, ribadendo con il giuramento di Salisbury del 1086 che le fedeltà dei vassalli minori non dovevano essere di pregiudizio all’autorità regia. Con il colossale censimento detto Domesday Book, completato nel 1086, il sovrano registrò a fini fiscali tutte le proprietà fondiarie, i nomi dei vassalli e il numero dei capifamiglia del regno, anche per evitare eventuali usurpazioni. Gli incerti interregni seguiti alle morti di Guglielmo (1087) e di Enrico I (1135) avevano favorito un clima di guerra interna scatenata dai baroni, risolto solo dall’ascesa al trono di Enrico II (1154-1189), primo re della famiglia della dinastia dei Plantageneti, capace di riaffermare il potere monarchico. Egli cercò innanzitutto di recuperare i diritti regi sul demanio (patrimonio pubblico, costituito da terre e giurisdizioni) per assicurarsi una solida base di entrate, e provvide poi a ridurre gli spazi di manovra della grande nobiltà. Molti castelli signorili furono abbattuti, ulteriori limitazioni furono poste nell’amministrazione della giustizia e nella riscossione delle tasse, e fu introdotta un’imposta che esentava i baroni dal servizio militare. In tal modo il peso militare dell’aristocrazia venne diminuendo mentre il progressivo espandersi dell’amministrazione regia apriva ai baroni la partecipazione agli apparati burocratici. Rafforzato fu anche l’obbligo degli sceriffi di versare periodicamente i proventi fondiari e fiscali delle loro contee davanti alla camera dello Scacchiere, l’organismo centrale di tesoreria (chiamato così per l’uso del drappo quadrettato che facilitava la contabilità sul tavolo della riunione). Nelle assise (assemblee giudiziarie dei signori e dei loro vassalli) di Clarendon del 1164, Enrico II emanò delle mise fine alle presenze longobarde e bizantine in Italia. Egli tentò anche una spedizione contro la Grecia bizantina nella quale trovò la morte nel 1085. Il fratello Ruggero avviò la conquista della Sicilia nel 1061, che si prolungò per un trentennio (fino alla presa di Noto nel 1091), scontrandosi con la resistenza delle popolazioni locali, nonostante la rapida espugnazione di Palermo nel 1072. Ruggero concesse in feudo piccoli domini ai suoi sostenitori, riservando alla sua famiglia il controllo della maggior parte dei territori occupati (per questo fu detto anche il Granconte). Inoltre, Urbano II gli concesse nel 1098 l’autorità di legato apostolico, con il compito di ridefinire le circoscrizioni ecclesiastiche dell’isola, profondamente islamizzata, e di nominarvi i titolari delle sedi vescovili. A differenza della conquista dell’Inghilterra, che puntava a un regno già organizzato, la conquista normanna del Mezzogiorno italiano dovette dare luogo alla costruzione di una nuova monarchia. Fu il figlio di Ruggero il Granconte, Ruggero II, a riunificare i diversi principati normanni, raccogliendo l’eredità dell’ultimo ducato di Puglia e Calabria nel 1127, nonostante l’opposizione capeggiata da papa Onorio II. Apertosi lo scisma tra il successore di quest’ultimo, Innocenzo II, e Anacleto II, Ruggero si schierò con l’antipapa, dal quale ottenne nel 1130 il titolo di re di Sicilia, ricevendo l’unzione sacra e assumendo una dignità superiore rispetto a tutti i poteri esistenti nel nuovo regno. La solennità della cerimonia di incoronazione, rappresentata anche dal mosaico della chiesa della Martorana a Palermo, tradiva la ricerca di legittimazione che il nuovo sovrano perseguiva. Ruggero II seppe governare con saggezza, valorizzando le diversità culturali dei popoli del regno. Ne sono ancora oggi testimonianza i molti monumenti artistici e architettonici ricchi di influssi delle tradizioni (bizantine e arabe, nordiche e latine) di cui la corte normanna di Palermo fu raffinata espressione. Il regno si fondava su una solida organizzazione feudale, introdotta proprio dai normanni e capace, come in Inghilterra, di esercitare un deciso controllo sui baroni, e si affidava a una struttura burocratica ereditata dai musulmani e dai bizantini. Ruggero II rafforzò gli uffici centrali (i camerani, gli ammiragli, per lo più greci, la dohana, gestita da funzionari musulmani) e impiegò appositi ufficiali periferici (giustizieri e baiuli) per controllare le realtà locali, riscuotere le imposte e amministrare la giustizia. Al vertice istituì una <<curia>> feudale, composta da ministri e consiglieri con competenze specializzate, che gli consentì di associare al governo i grandi del regno. Nel 1140 promulgò, nelle assise di Ariano, una serie di ordinamenti volti a meglio disciplinare i rapporti tra la corona e le giurisdizioni particolari dei feudatari e delle città. Intorno al 1150 fece anche stilare l’elenco dei benefici e dei diritti dei baroni del regno (Catalogo dei baroni). Ruggero II perseguì anche una politica espansionistica in Africa e in Grecia, che lo portò alla conquista di Gerba (1135), Tripoli (1146) e Corfù (1147). Il controllo della feudalità e il contenimento degli sviluppi urbani, che ne mortificò le autonomie accentuandone le differenze rispetto ai coevi sviluppi delle città comunali del centro-nord, accrebbero tensioni che esplosero in aperte rivolte da parte dei baroni e delle città dopo la morte di Ruggero II (1156-1157 e 1160-1161). Esse furono fronteggiate dal successore Guglielmo I (1154-1166) per mezzo di decise repressioni (che gli valsero l’epiteto di Malo) e di parziali concessioni alle rivendicazioni degli insorti, come la conferma di tutte le consuetudini della città del regno nel 1166. Alla morte del conte di Lucca Tancredi d’Altavilla, che i baroni siciliani avevano eletto re, Enrico VI si impadronì del regno nel 1195, reprimendo duramente la rivolta dei nobili, e producendo con risolutezza l’annientamento del gruppo dirigente normanno che si era affermato intorno alla monarchia. Il sovrano morì prematuramente nel 1197. L’espansione armata della cristianità La reconquista e i regni iberici Nella penisola iberica la riorganizzazione monarchica si svolse in relazione e con il grande movimento –detto (dal XIX secolo) della reconquista- di rioccupazione da parte dei cristiani dei territori conquistati dai musulmani. Un processo che fu sia di riconquista militare sia di ripopolamento, promosso da una società che partecipava al più grande modo di espansione dell’Europa dei secoli XI-XIII. La riconquista trasse una spinta ideale dalla lotta per la cristianizzazione delle regioni islamizzate, e per questo godette dell’appoggio del papato. Essa fu il frutto dell’iniziativa di dinasti locali, e diede vita non a un regno unitario ma a una pluralità di organismi minori che inglobarono nuovi territori. Nuclei di partenza furono piccoli regni del nord della penisola: alla morte di Sancho III nel 1035, dal regno di Navarra si separò la contea di Castiglia, che assunse dignità regia e autorità anche sul regno di Leòn e sulle Austrie; dall’unione di alcuni principati franchi nacque il regno di Aragona, che nel 1134 si unificò con la contea di Barcellona; nel 1139, infine, dal regno di Leòn e Castiglia si separò la contea di Oporto, nucleo del successivo regno di Portogallo. Alla base della reconquista era la crisi generale del mondo musulmano. Come la Sicilia, anche il califfato dell’<<al-Andalus>> si era frammentato, specialmente dopo la morte del califfo Al-Mansur nel 1002, in un pulviscolo di signorie territoriali (taifas), che proliferarono dopo la sua definitiva dissoluzione nel 1031. L’XI secolo vide la continua avanzata degli eserciti cristiani verso sud, fino alla conquista di Toledo nel 1085 da parte del re di Castiglia e Leòn, Alfonso VI, che vi trasferì la capitale. Per reazione il califfato fu conquistato fu conquistato dalla dinastia berbera degli Almoravidi nel 1086, la cui robusta organizzazione politica e militare frenò l’avanzata cristiana. Anche la successiva dinastia degli Almohadi, che dal 1147 costruì un vasto dominio esteso dalla Libia al Marocco all’Andalusia, bloccò l‘avanzata degli eserciti cristiani nelle regioni più urbanizzate e popolate della Spagna musulmana. La seconda fase della reconquista riprese solo verso la fine del XII secolo lungo tre direttrici principali, corrispondenti all’espansione dei regni di Portogallo, Castiglia e Aragona. Decisiva si rivelò la vittoria degli eserciti uniti a Las Navas de Tolosa, presso Cordova, nel 1212 che aprì la strada alla riconquista delle principali città (Cordova nel 1236, Murcia nel 1243 e Siviglia nel 1248) per mano di Ferdinando III di Castiglia, e delle isole Baleari (1229-1235) per iniziativa si Giacomo I di Aragona. I regni cristiani iberici dovettero affrontare al proprio interno problemi analoghi a quelli che nelle coeve monarchie europee venivano definendo i rapporti fra un potere regio in via di affermazione e un’aristocrazia resa sempre più potente dalle rendite militari. Nel regno di Castiglia e Leòn fu Alfonso VI (1072-1109) il primo sovrano a puntare sulla sacralizzazione del potere monarchico per esaltarne l’autorità: egli si proclamò <<imperatore>> di tutta la Spagna, ottenendo il riconoscimento dal re di Aragona. Alfonso VII (1126-1157) riuscì a imporre alla nobiltà una serie di prestazioni collettive e a subordinare i benefici dei vassalli alla prestazione dell’omaggio al re. Nel corso del XII secolo le città riconquistate e i centri di nuova fondazione ricevettero dai sovrani franchigie (cartas de poblaciòn) e privilegi (fueros) che prevedevano consigli municipali liberi dall’influenza della nobiltà. Soprattutto nel regno di Aragona, che si reggeva sull’accordo giurato tra il re e le élites delle diverse regioni, il luogo della mediazione politica fu rappresentato dalle assemblee (cortes) che riunivano periodicamente i rappresentanti dei baroni, del clero e delle città mercantili. L’area imperiale e l’espansione verso est Mentre in varie aree dell’Occidente la ricomposizione politica fu promossa dall’affermazione dei regni, fra XII e XIII secolo l’area imperiale, e soprattutto il regno germanico e l’Italia centro- settentrionale, rimasero caratterizzate da una notevole frantumazione locale dei poteri. L’impero non riusciva a proporsi con la medesima capacità delle altre monarchie come struttura di inquadramento del territorio, a fronte della forza persistente delle signorie territoriali, dei principati, delle città e delle comunità alpine. La debolezza dell’impero derivava anche dalla mancata affermazione del principio dell’ereditarietà della corona. Il titolo regio, cui era connessa la dignità imperiale, era elettivo, e la nomina di ogni imperatore continuava a essere soggetta all’approvazione dell’assemblea dei principi. Dopo la morte di Enrico V nel 1125, la lotta per la corona si polarizzò tra la casata dei duchi di Svevia e quella dei duchi di Baviera. Fu solo l’elezione a re di Germania, nel 1152, di Federico I di Svevia, discendente per parte di madre dalla casa bavarese, a ricomporre il dissidio che lacerava l’aristocrazia germanica. Federico I (imperatore dal 1155 al 1190) incrementò i domini della casata di Hohenstaufen concentrati nelle regioni sud- occidentali della Germania, affidandoli all’efficiente amministrazione dei propri ministeriali (tutti coloro che il padrone investe di un compito. I funzionai di provata fedeltà di origine servile, cui i principi e i signori affidavano il governo della propria casa e l’amministrazione dei beni fondiari). Da essi trasse le risorse necessarie alle dispendiose campagne imperiali in Italia e nel Mediterraneo. Anch’egli e i suoi successori utilizzarono i legami feudali per consolidare il potere monarchico, ma l’impossibilità di incamerare nel patrimonio della corona i feudi vacanti, li costrinse a rafforzare la nobiltà con costanti concessioni di terre e diritti. Inoltre, le frequenti assenze della Germania degli imperatori li indussero a riconoscere con sempre maggiore frequenza la piena sovranità territoriale dell’aristocrazia. Federico II (1212-1250), per esempio, concesse ampi poteri ai vescovi nel 1213 (Bolla d’oro) e ai principi nel 1231 (Statutum in favorem principium), tra i quali il divieto ai loro sudditi di potersi appellare alla giustizia dell’imperatore. Larghi privilegi mercantili, fiscali e amministrativi ottennero anche molte città, soprattutto quelle di immediata dipendenza dall’impero (Reichstadte). Grande importanza nella storia tedesca ebbe anche il movimento di espansione territoriale verso l’Europa orientale (detto Drang nach Osten) abitata da popolazioni ancora pagane. Dalla metà del XII secolo furono innanzitutto i principi di Sassonia e d Baviera a prendere l’iniziativa militare lungo le coste del Baltico, oltre il fiume Elba, e nelle più meridionali regioni della Boemia, delle Alpi orientali e degli slavi occidentali. Agli inizi del XIII secolo protagonisti della cristianizzazione forzosa furono soprattutto gli ordini monastici dei Cavalieri teutonici e dei Portaspada, fondati nel 1198 e 1202. Nei territori conquistati, che dilatarono stabilmente l’area d’ influenza tedesca e imperiale sulla Prussia orientale e sulla Livonia, si formarono nuove signorie ad opera dei nobili e dei cavalieri tedeschi o di dinasti locali. Al seguito degli eserciti e dei missionari fu massiccia la migrazione di contadini attratti dall’abbondanza di terre e dalle favorevoli condizioni di insediamento. Furono così fondati migliaia di villaggi e numerose città, rette spesso dal diritto tedesco. Le crociate in Terrasanta Uno degli aspetti del rinnovamento religioso dell’XI secolo fu la diffusione crescente della pratica del pellegrinaggio nei luoghi sacri della cristianità: a Roma, sede delle tombe degli apostoli Pietro e Paolo, a Gerusalemme, dove si trovava il sepolcro di Cristo, e anche a Santiago di Campostela nella Spagna del nord-occidentale, dove si riteneva fosse stato sepolto l’apostolo Giacomo, l’evangelizzatore della penisola che dal XII secolo assunse i tratti di protettore della lotta contro i <<mori>> (i musulmani che avevano invaso la Spagna), guadagnandosi l’appellativo popolare di Matamoros (Ammazzamori). Il pellegrinaggio veniva affrontato da uomini di ogni condizione sociale, per devozione, per adempimento di un voto, per espiazione dei peccati. Dalla metà dell’XI secolo si consolidò anche l’uso da parte dei pontefici (per primo Alessandro II nel 1064) di concedere l’indulgenza, cioè la remissione dei peccati, a chi partecipasse alla reconquista armata della penisola iberica contro i musulmani. Si sancì così l’idea di difendere la fede cristiana con le nemico ed è intriso di pacifismo. Tuttavia le religioni monoteiste hanno tratto dai testi rivelati l’idea della legittimità dell’esercizio della violenza in nome di Dio, anche se con qualche distinzione: il giudaismo conduce la guerra del Signore per la sola Terra d’Israele; l’Islam ha invece il mondo intero come orizzonte di conquista. Nel medioevo la storia dei rapporti tra cristianità e mondo musulmano vide alternarsi, per molti secoli, relazioni pacifiche e violente. Oltre alle guerre, il medioevo conobbe rapporti commerciali e scambi culturali tra le popolazioni di differente religione: i mercanti delle città italiane constatarono che l’Oriente musulmano era un mondo ricco e stratificato, con cui si potevano concludere buoni affari, mentre gli intellettuali cristiani (filosofi, matematici, maestri) ricavarono dai testi arabi idee, traduzioni, esperienze. Le scorrerie dei pirati saraceni, prima e dopo l Mille, contribuirono però a far nascere una reputazione negativa delle popolazioni musulmane tra le popolazioni rivierasche del Mediterraneo. Ulteriore ostilità fu alimentata dai resoconti (spesso veritieri) dei pellegrini cristiani, reduci dalla Terrasanta dopo la conquista turca di Gerusalemme (1071). Ma furono soprattutto i predicatori a far nascere nell’immaginario comune l’idea della società islamica come un mondo nemico, ostile e terribile. Ne era convinto il monaco Bernardo di Chiaravalle, principale predicatore della seconda crociata. Lo pensava anche Urbano II, il papa che nel 1095, a Clermont, lanciò un appello ai cavalieri cristiani invitandoli a recare soccorso ai <<fratelli orientali>> (cristiani bizantini) minacciati dall’avanzata turca; il pontefice mise in campo tutti gli elementi tipici della guerra voluta da Dio, momento decisivo dell’eterna lotta tra il bene e il male, promettendo ai cavalieri cristiani la salvezza eterna in caso di morte sul campo. Prima del 1095 tra cristiani e musulmani si erano già combattute diverse guerre, per motivi politici ed economici. Così era avvenuto per i conflitti tra l’impero bizantino e l’impero arabo. La stessa reconquista spagnola, nelle prime fasi, fu più un conflitto per l’espansione territoriale che una vera e propria guerra contro gli infedeli. Infatti l’eroe nazionale spagnolo Rodrigo Diaz de Vivar (1043-1099), all’inizio fu celebrato dai mori sia dai cristiani come cavaliere coraggioso e senza macchia, pronto a difendere gli oppressi e il proprio onore. I mori lo chiamarono nel Cid (signore), i cristiani el Campeador (comanante). Solo dopo la sua morte prevalse l’immagine del guerriero cristiano che strappa agli infedeli le città del suo paese. Il Corano parla spesso di guerra e anche di jihad (etimologicamente <<lo sforzo per raggiungere un determinato obiettivo>>). Nella <<sura della vacca>> il fedele islamico è inviato a combattere principalmente per difendersi e senza superare i limiti, <<perché Allah non ama coloro che eccedono>>: nei versetti successivi si legge <<Uccidete (gli infedeli) ovunque li incontriate e scacciateli da dove vi hanno scacciato… Se però cessano, allora Allah è perdonatore e misericordioso. Combatteteli finché non ci sia più persecuzione e il culto sia reso solo ad Allah. Se desistono, non ci sia ostilità, tranne per coloro che pervaricano>>. Il Corano considera <<infedele>> il politeista e richiede quindi di combattere uno jihad contro chi non crede nel Dio unico. Tale presupposto rappresentò il fondamento e la legittimazione per l’espansione territoriale degli arabi nella penisola arabica: le popolazioni politeiste che l’abitavano andavano o convertite o sterminate, e tale fu la sorte dei beduini <<adoratori degli idolo>> che abitavano l’Arabia nel VII- VIII secolo. Diverso fu, invece il comportamento dell’islam nei confronti dei cristiani e degli ebrei. Costoro infatti non erano pagani politeisti, perché credevano anch’essi nel Dio unico. Pur non essendo <<fedeli>>, cioè seguaci della rivelazione coranica, cristiani ed ebrei non erano nemmeno totalmente <<infedeli>>, poiché appartenevano alla <<gente del libro>> (la Bibbia) discendente da Abramo, antenato comune di tutte le fedi monoteistiche. Perciò cristiani ed ebrei rientravano nella categoria del <<protetti>> e dovevano essere tollerati, evitando conversioni forzate. Nell’impero arabo essi potevano conservare la loro religione a determinate condizioni: dovevano pagare una tassa di denaro, abitare in case più basse, rinunciare a predicare la propria fede e a esercitare opposizione politica nei confronti dei governanti musulmani. L’interpretazione più diffusa del concetto di jihad, nel mondo musulmano, fu quella militare. Il mondo appariva diviso in due categorie, da una parte la Casa dell’islam (Dar al-islam) e dall’altra la Casa della guerra (Dar al- Harb): questa seconda <<casa>> era abitata dai popoli non ancora convertiti alla vera fede e, per questo, potenziale bersaglio di attacchi. Lo stesso Maometto fu indubbiamente, nel corso della sua vita, un <<profeta armato>>. Tuttavia alcuni teologi musulmani hanno sostenuto che il concetto di jihad non va preso alla lettera, ma interpretato: esso in arabo può anche significare <<sforzarsi, applicarsi con zelo>> e indica dunque uno sforzo morale e spirituale (lotta contro il male) più che materiale e militare. Alcune correnti dell’islam hanno insistito nel conferire allo jihad questo valore di lotta all’impurità e all’ingiustizia, da condursi sia nel mondo esterno, sia nel cuore di ogni individuo, con metodi non violenti. Pur non essendo stata la posizione prevalente nell’islam, tuttavia essa fu presente e operante. Allo stesso modo, nel mondo cristiano molti maestri di spiritualità e di pensiero, come per esempio Francesco d’Assisi, predicarono il valore della pace, ricordando l’insegnamento di Gesù. Francesco diede l’esempio in prima persona, recandosi nel 1219 in Terrasanta per convertire con la parola e non con le armi. Ottenne un colloquio con il sultano Malik-al-Khamil, mentre le truppe crociate assediavano Damietta e se ne tornò sano e salvo, tra lo stupore generale. Ai nostri giorni il concetto di jihad fa parte della retorica dei movimenti islamici radicali, così come le chiese cristiane non parlano più di <<guerre sante>>. Nobiltà e cavalleria Protagonisti della grande espansione crociata tra XI e XIII secolo furono i cavalieri. Essi non devono essere confusi con i vassalli. Fino al XIII secolo la cavalleria fu una professione praticata da persone di gruppi sociali assai diversi. Intorno al Mille i milites (guerrieri a cavallo) potevano avere umili origini: talora si trattava di servi che, come i <<ministeriali>> in area tedesca, servivano con le armi il proprio signore. Tra XI e XII secolo il mestiere di cavaliere venne specializzandosi e diffondendosi anche per effetto della sempre minore fedeltà armata dei vassalli ai propri signori, che si rivolgevano così ai professionisti della guerra. Il costo crescente delle armi contribuì a restringere la cavalleria a un élite sociale, mentre il prestigio dell’attività di cavaliere indusse un numero sempre più elevato di persone di alto rango a intraprendere il mestiere delle armi. Dal XIII secolo l’addobbamento cavalleresco fu riservato quasi esclusivamente ai discendenti dei cavalieri, che costituirono così un vero e proprio ceto ereditario. Le vicende della cavalleria si intrecciarono con quelle della nobiltà. Furono infatti le disposizioni regie che tra XII e XIII secolo conferirono privilegi ai cavalieri e ai loro figli, a rendere una cerchia di famiglie giuridicamente superiore agli altri sudditi: le prime lettere di nobilitazione non erano altro che dei permessi di diventare cavaliere. La nobiltà, cioè, utilizzò progressivamente la dignità cavalleresca per differenziarsi dagli altri gruppi sociali. In origine infatti i gruppi preminenti non avevano costituito una classe ereditaria, dotata di privilegi sanciti giuridicamente. L’aristocrazia dell’alto medioevo era costituita da un’aristocrazia <<di fatto>>, definita dall’esercizio del potere, dalla ricchezza e dallo stile di vita: un gruppo in continuo ricambio, cui potevano accedere tanto i discendenti da famiglie potenti quanto coloro che avessero accumulato ricchezze e poteri. Tra XII e XIII secolo la cavalleria e i privilegi feudali chiusero invece ai nuovi ingressi una nobiltà <<di diritto>>: una classe ereditaria giuridicamente privilegiata e progressivamente organizzata in una gerarchia di titoli e dignità dispensati dalla corona. Ad accrescere il rango dei cavalieri contribuì la definizione di un nuovo modello elaborato dagli uomini di chiesa per disciplinare il comportamento violento. Dall’XI secolo furono promosse dai vescovi le <<paci di Dio>>, assemblee durante le quali i cavalieri giuravano di astenersi da violenze ingiustificate e di non usare le armi in certi periodi dell’anno. Dal XII secolo l’immagine del cavaliere difensore dei deboli (donne, fanciulli, chierici e religiosi) fu propagata dall’epica cavalleresca e da romanzi che narravano le vicende di cavalieri ispirati dalla fede (come Parsifal all’inseguimento del Graal). Cornice ideologica era l’immagine tripartita della società elaborata inizialmente da alcuni intellettuali ecclesiastici dell’XI secolo, Adalberone di Làon e Gerardo di Cambrai: un insieme organico di tre ordini in cui si distinguevano coloro che pregavano per la salvezza dell’anima di tutti (oratores), coloro che combattevano per la difesa della società (bellatores) e coloro che lavoravano per essa (laboratores). Un’immagine elaborata per consolidare l’ordine costituito, che riconosceva l’affermazione dei nuovi gruppi sociali dei cavalieri e dei contadini. La ricchezza economica Il <<boom>> demografico L’incremento di popolazione che si era avviato dal IX-X secolo, e che aveva già assunto dimensioni consistenti nel corso dell’XI-XII secolo, divenne impetuoso nel corso del XIII secolo. La curva della crescita demografica, che aveva invertito verso l’alto la sua direzione tra VII e VIII secolo, raggiunse il suo culmine tra XIII e XIV secolo. La popolazione dell’Occidente europeo, stimata in 23 milioni intorno all’anno 700, e già cresciuta a circa 42 milioni intorno al 1000, raggiunse i 73 milioni intorno al 1300: il massimo numero di abitanti tutto il lungo millennio seguito alla fin del mondo antico. All’inizio del XIV secolo la Francia, insieme con le Fiandre, contava circa 19-20 milioni di abitanti, la Germania 11-12, l’Italia 10-11, la Spagna 8-9, l’Inghilterra 4-5. La crescita demografica era l’effetto combinato dell’assenza di gravi epidemie e del migliorato sistema alimentare, frutto dell’espansione dei coltivi e dei progressi dell’agricoltura, che consentivano una riduzione della mortalità infantile e una vita media più lunga. L’indicatore più spettacolare della crescita demografica fu l’incremento della popolazione urbana, che riguardò un po’ tutte le regioni europee. Le città furono attraversate da uno slancio edilizio mai conosciuto fino ad allora, con l’allargamento delle cinte murarie a comprendere nuovi spazi, la riduzione delle aree non ancora edificate e spesso lasciate a campo, la costruzione in altezza delle abitazioni, a cominciare dalle torri. È stato calcolato che il 95% delle città medievali avesse tra i 500 e i 2.000 abitanti. Molte erano le città di media dimensione, fino ai 10.000 abitanti: in Italia esse erano almeno una settantina. Intorno all’anno 1300 numerosi erano i centri maggiori: Milano e Parigi erano le più grandi città dell’epoca con quasi 150.000 abitanti; Venezia e Firenze ne contavano circa 110.000, Siviglia 90.000, Granada 75.000, Gand 65.000 e Genova quasi 60.000; circa 50.000 ne avevano Bologna, Palermo, Siena e Cordova; poco meno Brescia, Cremona, Barcellona, Bruges e Londra. Un’altra quindicina di città italiane giunse a contare tra i 20 e i 40.000 abitanti. Nonostante l’impetuoso fenomeno di inurbamento, che spingeva masse crescenti di popolazione rurale (non solo contadini, ma anche proprietari e signori territoriali) a risiedere nelle città, la maggior parte della popolazione europea rimase insediata nelle campagne. La crescita della popolazione urbana portò a un certo punto al calo della manodopera rurale e alla crescita del fabbisogno alimentare delle città. Le tecniche agricole, pur migliorate, non permettevano però di ottenere rese adeguate alla nuova domanda di cereali. Ciò spinse i proprietari fondiari a mettere a coltura terre marginali e meno fertili, più esposte alle variazioni del clima e alle carestie. L’equilibrio tra il numero degli uomini e le risorse a disposizione si ruppe. Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, infatti, la popolazione, in crescita progressiva da secoli, smise di crescere e in alcune regioni cominciò anche a diminuire. Prodromo della crisi gravissima che sarebbe scoppiata alla metà del Trecento. Il ciclo economico espansivo manufatti tessili, olio e vini, armi, legno e ferro provenienti dall’Occidente con lane, allume, cera, spezie, zucchero, seta, perle, argento lavorato, carta provenienti dall’Oriente. Nel Mediterraneo occidentale il commercio si sviluppò con qualche ritardo e con volumi complessivamente inferiori rispetto a quelli del levante. A dominare furono i mercanti genovesi, cui fecero concorrenza i pisani e i catalani, mentre i veneziani vi cercarono solo dal primo Trecento dei porti da integrare alla linea di navigazione atlantica che, attraverso Gibilterra, collegava Venezia alle fiandre e all’Inghilterra, inaugurata nel 1314 dopo che Genova ne aveva già aperta una propria dal 1277. Le principali piazze commerciali erano Tunisi, Bugia, Algeri, Orano, fino a Marrakech sull’Atlantico, Siviglia, Barcellona, Aigues-Mortes, Marsiglia, e, nelle isole, Maiorca, Alghero, Cagliari, Trapani, Palermo e Messina. In esse i mercanti europei vi scambiavano tessuti, armi, metalli, olio, vino e spezie acquistate in Oriente in cambio di lana, pellame e cuoio lavorato, cera, grano, frutta secca, pesce salato dal Maghreb e dall’Atlantico. Da carovane provenienti dall’Africa subsahariana arrivò anche l’oro che consentì la nuova coniazione di monete in Occidente. Ricchezze e differenziazioni sociali L’impetuoso sviluppo demografico ed economico dell’Occidente che ebbe il culmine tra il XII e l XIII secolo determinò profonde trasformazioni nella società. Rispetto ai secoli precedenti il Mille l’Europa appariva molto più popolata, più ricca e caratterizzata dallo sviluppo delle città. La società non si raccoglieva più soltanto intorno alle grandi proprietà fondiarie laiche ed ecclesiastiche, ma era distribuita in una miriade di villaggi e di centri urbani. La popolazione si spostava incessantemente in cerca di migliori condizioni di vita: dalle montagne alle pianure, dalle campagne alle città o verso nuovi territori (nell’est europeo, nel sud musulmano, in Terrasanta). La crescita delle attività economiche creò nuove opportunità di arricchimento, divisioni e specializzazioni nel mondo del lavoro, e una più accentuata differenziazione sociale. Nelle campagne tornarono ad acuirsi le disparità sociali: accanto a un’élite di contadini agiati, molti coltivatori dovettero accettare nuovi, meno favorevoli, contratti di affitto di terre a breve scadenza con canoni in denaro o in natura che li costrinsero a indebitarsi in misura crescente. Fu soprattutto nelle città che la società si differenziò maggiormente. La concentrazione di un numero crescente di abitanti sollecitò la domanda di prodotti diversi, cui rispose la moltiplicazione di muratori, fornai, beccai, fabbri, cuoiai, tessitori e di altre tipologie di artigiani. L’aumento degli scambi determinò la crescita del numero di commercianti, bottegai, mercanti e prestatori di denaro. Per una società sempre più articolata occorsero anche scrivani, notai, maestri di scuola, giudici, avvocati, medici, etc. Caratteristiche dell’epoca non furono più solo le figure di ecclesiastici (preti e chierici) e religiosi (monaci e predicatori) come nei secoli precedenti, ma anche nuove figure di laici come, in primo luogo, i mercanti e i notai. Ai notai fu riconosciuta dal XII secolo, soprattutto in area italiana, la capacità giuridica di redigere atti autentici e validi come prova legale, apponendovi direttamente i marchi professionali (signa tabelllions) e curandone la conservazione in archivi. La figura che più di ogni altra incarnò le trasformazioni del periodo fu quella del mercante. Negoziatori erano stati attivi anche nell’alto medioevo, in genere come agenti dei grandi proprietari laici ed ecclesiastici. Lo sviluppo dei commerci favorì invece le attività in proprio e una più marcata professionalizzazione. Gli <<uomini d’affari>>, che alla compravendita di merci univano attività creditizie e finanziarie, diventarono presto membri dei grandi gruppi dirigenti delle città europee. Essi svilupparono una vera e propria cultura mercantile, cioè un sapere tecnico che li portò a innovare le forme societarie e gli strumenti contabili e finanziari. Problematica fu invece la questione del prestito a interesse, condannato moralmente dalla chiesa come usura. Nonostante l’individuazione di mezzi leciti per percepire un interesse, molti mercanti in punto di morte usavano donare parte dei cospicui patrimoniali accumulati ai poveri o alle chiese per mondarsi l’anima dal peccato di usura. Non a caso, la credenza in un luogo intermedio dell’aldilà, il purgatorio, nel quale i peccatori pentiti avrebbero scontato una pena emendatrice, cominciò ad affermarsi proprio tra XII e XIII secolo. Papato, impero e regni Le autorità universali Papato e impero rinnovarono tra XII e XIII secolo i rispettivi progetti di supremazia universalistica sulla cristianità, elaborando propri modelli di autorità e dando luogo a nuovi conflitti di cui fu a lungo teatro l’Italia. Dopo il concordato di Worms del 1122 l’azione politica del papato divenne irreversibile. Allo stesso modo, l’elezione di Federico I nel 1155 restaurò l’autorità imperiale sulla scena europea e mediterranea, dopo l’eclissi sofferta tra XI e XII secolo. Entrambi i poteri dovettero affrontare forze crescentemente ostili alla loro pretesa di guida egemonica. Gli imperatori furono costantemente impegnati a gestire l’autonomia rivendicata dai principi territoriali tedeschi e delle città italiane. I papi entrarono invece in conflitti con i grandi monarchi per il controllo delle immunità e delle cariche ecclesiastiche nei regni. Per ragioni diverse, i disegni universalistici dell’impero e del papato entrarono in crisi dalla seconda metà del XII secolo. Da allora la sovranità dei regni e di altre formazioni politiche territoriali come le città italiane non poté più essere messa in discussione. Alla base dell’idea di supremazia imperiale di Federico I, teorizzata dal suo cancelliere Rinaldo di Dassel, era un rigoroso senso dell’autorità imperiale e della sua missione universale: il potere imperiale era conferito direttamente da Dio attraverso l’unzione, e non era mediato dall’incoronazione del pontefice. La volontà divina si manifestava nell’elezione da parte dei principi elettori. L’imperatore era vicario di Cristo e sacre le sue leggi: fu probabilmente durante il suo dominio che cominciò a essere utilizzata l’espressione di <<sacrum imperium>> (inappropriata è pertanto la dizione di <<sacro romano impero>> per le epoche precedenti). Da qui la determinazione di non riconoscere la supremazia papale e il sostegno dell’antipapa Vittore IV nel 1159, che aprì uno scisma ricomposto solo nel 1176-1177 con il tardivo riconoscimento di Alessandro III. A sua volta, il nipote Federico II rilanciò il concetto di una dominazione illimitata, alimentato dall’esplicito recupero dell’ideologia classica e del diritto romano in materia imperiale. Esaltato dalla propaganda sveva e demonizzato da quella pontificia, Federico II ingaggiò con i pontefici un conflitto durissimo, fino alla deposizione, che scioglieva i sudditi dal giuramento di fedeltà, sancita da Innocenzo IV nel1245. Federico I si propose di pacificare la Germania e di riaffermare il potere imperiale in Italia. Se nel regno tedesco conseguì qualche successo, la politica italiana si trasformò in aperto conflitto con città. Nel 1158 convocò a Roncaglia, presso Piacenza, un’assemblea pubblica del regno d’Italia in cui riaffermò (con la Constitutio de regalibus, che attingeva al diritto romano) le prerogative (regalie) dell’autorità regia: esercizio della giustizia, riscossione delle imposte, facoltà di battere moneta, diritto di arruolare eserciti, controllo di strade e fortezze. Proibì inoltre le leghe tra città e le guerre fra privati, e impose all’aristocrazia l’omaggio feudale. Milano non si assoggettò e fu attaccata dall’esercito di Federico I che ne distrusse le mura nel 1162 e vi insediò un funzionario imperiale. La crescita della pressione fiscale spinse molte città alla formazione di un’alleanza, detta <<lega lombarda>>, sostenuta da papa Alessandro III, che sconfisse militarmente e costrinse Federico I a concedere, attraverso la pace stipulata a Costanza nel 1183, l’esercizio delle regalie ai comuni, in cambio del riconoscimento formale dell’autorità imperiale. Prima di morire nel 1190 durante la terza crociata, Federico I assicurò al figlio Enrico VII l’eredità del regno di Sicilia combinandone il matrimonio con Costanza d’Altavilla. Enrico VI morì però nel 1197, quando il figlio Federico era bambino. La madre ne affidò la tutela a papa Innocenzo III, di cui i re di Sicilia erano vassalli, che lo incoronò nel1208. L’elezione a re di Germania nel 1212, dove confermò diverse prerogative regie ai principi e alle città, aprì a Federico II la strada all’incoronazione imperiale nel 1220. Fu solo nel regno di Sicilia che egli riuscì a perseguire una politica di piena affermazione della propria sovranità, disciplinando le forze baronali e le autonomie urbane e impiantando un efficiente apparato burocratico. Vano fu invece il tentativo di imporre l’autorità imperiale sulle città del centro-nord, sostenute da papa Gregorio IX, che scomunicò Federico II per eresia nel 1227 (scomunica ribadita nel 1239 e nel 1245) e gli scatenò contro una campagna diffamatoria. Dopo la vittoria di Cortenuova, presso Bergamo, nel 1237 contro l’esercito della rinnovata lega lombarda, egli non riuscì a fare seguire un precario controllo di alcune città. Dopo gravi sconfitte militari a Parma nel 1248 e a Fossalta nel 1249, dove i bolognesi catturarono il figlio Enzo, Federico II morì nel 1250, lasciando incompiuto il progetto di unificare il potere imperiale della Germania dal 1237, la dinastia sveva di estinse con il figlio di questi Corradino, dapprima usurpato dallo zio Manfredi della corona di Sicilia nel 1258 e poi sconfitto e condannato a morte dal nuovo sovrano Carlo I d’Angiò nel 1268. Si aprì allora una grave fase di instabilità politica che vide sia il titolo regio tedesco sia quello imperiale vacanti fino al 1273 quando fu eletto imperatore Rodolfo I d’Asburgo. Il lungo interregno incrinò il prestigio dell’autorità imperiale. Dopo di allora nessun sovrano riuscì a svolgere un ruolo significativo a sud delle Alpi, se non brevi ricognizioni di potere irrimediabilmente ridimensionato. L’imperatore si ridusse a essere definitivamente un sovrano tedesco. La lunga vacanza seguita alla morte di Federico II contribuì anche a rafforzare l’idea che l’impero cristiano dovesse essere soggetto al potere universale del pontefice. Affinando la teoria teocratica, già elaborata da Gregorio VII, che attribuiva al papato il potere assoluto su tutti i governi, fu Innocenzo III a sviluppare una coerente dottrina che ne affermava la supremazia universale. Attraverso la metafora del sole (la Chiesa che brilla di luce propria) e della luna (l’impero che brilla di luce riflessa) espressa nel 1198, egli sancì il principio per cui il papa, vicario di Cristo, riceveva da Dio sia il potere spirituale sia quello temporale, delegando l’autorità temporale ai sovrani, che dovevano esercitarla sotto la guida della Chiesa. Innocenzo IV (1243-1254) sostenne il diritto papale di scegliere e deporre gli imperatori (come fece lui stesso con Federico II) e di amministrare il potere in caso di vacanza. Bonifacio VIII (1294-1303) ribadì perentoriamente la subordinazione del potere civile a quello religioso, che poteva concederlo o toglierlo a suo arbitrio. La pretesa dei papi si fondava sul Constitutum Constatini (noto come Donazione di Costantino), un documento che falsamente attribuiva al primo imperatore cristiano, all’atto di trasferire la capitale a Costantinopoli, la concessione a papa Silvestro del dominio su Roma e sulla pars occidentis dell’impero. Donazione di Costantino Si tratta di un documento apocrifo (Constitutum Constantini) attraverso il quale si volle attestare la donazione di tutti i territori occidentali dell’impero alla Chiesa di Roma nel 313 da parte di Costatino, grato a papa Silvestro I di averlo guarito da una grave malattia. La sua autenticità, già posta in dubbio dall’imperatore Ottone III, fu smentita su base filologica dall’umanista Lorenzo Valla nel 1440. Il documento fu redatto probabilmente durante il pontificato di Paolo I (757-767) iberici ulteriori conquiste territoriali. Il Portogallo consolidò il controllo delle regioni atlantiche inglobando l’Algarve, la Castiglia annesse le città di Cordova e di Siviglia, l’Aragona conquistò Valencia e le isole Baleari. Il regno di Castiglia gravitava sulle vaste pianure interne della penisola, dove le grandi proprietà consolidarono il potere di una nobiltà che entrò spesso in conflitto con la politica regia di accentramento, soprattutto al tempo di Alfonso X (1252-1284), che trasformò la corte in un importante centro di cultura e promosse nel 1265 un’imponente raccolta legislativa (Las siete partidas, <<Le sette parti>>, completate nel 1280). Il regno di Aragona, unione di diversi regni e domini, si basava sul patto tra il sovrano e le diverse componenti del regno a rispettare le leggi consuetudinarie. Grazie ai mercanti catalani l’economia era soprattutto commerciale e proiettata sui traffici del Mediterraneo, e sostenne l’espansione politica e militare dei re aragonesi, che si insediarono in Sicilia tra 1282 e 1302 e avviarono la conquista della Sardegna nel 1323. In entrambi i regni le istituzioni rappresentative (cortes) furono luoghi di mediazione politica tra le disposizioni regie e gli interessi della nobiltà, del clero e delle città. Agendo come un monarca, anche il papa rafforzò i poteri temporali sul proprio territorio tra XII e XII secolo. Nucleo iniziale era stato il cosiddetto <<patrimonio di San Pietro>>, cioè l’area tra Umbria e Lazio dove si concentravano i maggiori possessi fondiari pontifici, poi integrato dalle donazioni fatte dai sovrani longobardi e carolingi nell’VIII secolo. Fu Innocenzo III ad espandere il territorio, facendosi giurare fedeltà da nobili e città del Lazio, dell’Umbria e delle Marche, e articolando i tratti essenziali dello stato pontificio intorno a quattro province: Lazio meridionale, Tuscia, ducato di Spoleto e marca di Ancona. Nel 11278 fu aggiunta anche la Romagna. Larghe autonomie furono concesse in materia fiscale e giudiziaria ai signori del territorio e ai rappresentanti delle città, che partecipavano a parlamenti locali presieduti da rettori pontifici. Più in generale, i pontefici curarono lo sviluppo di un apparato burocratico destinato a riscuotere in tutta la cristianità i vari tributi, in un sistema fiscale complesso che faceva capo alla tesoreria di curia (<<camera apostolica>>), e ad amministrare un numero crescente di cause giudiziarie che richiedevano l’arbitrato del papa. L’Europa orientale Nell’Europa orientale e slava si erano formati tra XI e XII secolo alcuni regni di grande estensione territoriale quanto di debole coesione politica. In aree poco popolate, senza precisi confini naturali, prive di grandi centri urbani e di un’economia mercantile, le monarchie non riuscirono a dare vita a forti strutture di governo e a contrastare la crescente potenza della nobiltà rurale. Fu la cristianizzazione a offrire un senso di identità a regioni su cui l’impero tedesco riuscì facilmente a estendere la propria superiorità feudale. Il regno di Polonia che si era costruito nel 1025 sotto la dinastia dei Piasti, fu scosso da rivolte popolari e da sempre più forti rivendicazioni della nobiltà, finendo con il frazionarsi tra XII e XIII secolo in più di una ventina di principati. La più piccola Boemia divenne regno autonomo solo nel 1158 sotto la dinastia dei Premyslidi. In Ungheria la dinastia degli Arpad si consolidò nel corso dell’XI secolo, con annessioni in Croazia e Slavonia, ma fu costretta a riconoscere nel 1222 importanti privilegi ai nobili, al clero e alle comunità rurali. La Bulgaria riconquistò la propria indipendenza da Bisanzio nel 1187 e raggiunse il massimo splendore con il regno di Ivan Asen II (1218-1241). Intorno al IX secolo gli slavi orientali erano penetrati nelle grandi pianure tra il Danubio e il Don stabilizzandosi nell’attuale Ucraina e nelle regioni vicine. Contemporaneamente dalla Scandinavia vi si erano insediati anche gruppi di commercianti e guerrieri vareghi che le popolazioni slave chiamavano <<rus>>. Fu un loro capo, Oleg, che nell’882 unificò il principato settentrionale di Novgord con quello meridionale di Kiev, dando vita al principato di Kiev (o Rus). Il regno, a maggioranza slava, adattò la lingua slava e sotto Vladimir I (980-1015), che sposò la sorella dell’imperatore di Bisanzio Basilio II e si convertì al cristianesimo (988), si aprì all’influenza della civiltà bizantina e della liturgia ortodossa. Con Iaroslav il Saggio (1016-1054), che raccolse per iscritto le consuetudini in un <<codice russo>>, il principato raggiunse l’apice della sua potenza e si estese fino a controllare le grandi vie di commercio tra il Baltico, l’Europa e l’Oriente. Dopo un estremo tentativo a opera di Vladimir II (1113-1115) di ridare unità al dominio, anch’esso andò incontro a un processo di divisione in vari principati, che ne resero inarrestabile il declino. Dall’inizio del XIII secolo venne formandosi nelle steppe asiatiche una vastissima dominazione per opera di tribù nomadi originarie della Mongolia. Guidati da Temujin (1162—1227), detto Gengis Khan (<<signore universale>>), i mongoli conquistarono rapidamente la Cina settentrionale l’Asia centrale e la Russia orientale, grazie a mobilissime truppe di arcieri a cavallo. I successori operarono incursioni verso i paesi musulmani fino all’Egitto, convertendosi in larga parte all’islam e giungendo a saccheggiare Baghdad nel 1258. In Europa (dove furono chiamati <<tartari>>) compirono razzie spingendosi nel 1240-1241 fino alla Polonia, alla Slesia e all’Ungheria, minacciando Vienna e affacciandosi anche sull’Adriatico. Dalla metà del Duecento i mongoli cominciarono però a ripiegare per le rivalità sempre più accese tra i loro capi. L’enorme impero, che si estendeva dalla Corea alla Persia ai confini della Polonia, si divise in <<khanati>>. Dopo la distruzione di Kiev nel 1240, per quasi due secoli i principati slavi furono resi tributari del khanato dell’Orda d’oro con capitale Sarai sul basso Volga, accentuando il distacco dell’area russa dal resto dell’Europa. Il rinnovamento della cultura Protagonisti laici La crescita economica che si manifestò dall’XI secolo ebbe conseguenze anche sul piano culturale. Il numero di persone in grado di leggere e scrivere si allargò considerevolmente, coinvolgendo i laici. L’aumento dell’alfabetizzazione fu l’esito delle necessità di una società in espansione dove la crescita dei commerci richiese la redazione per iscritto degli accordi e delle transazioni. Si fece così più intensa la produzione e la conservazione di documenti scritti redatti dai notai e dagli stessi mercanti. Inadeguato rispetto alle nuove esigenze si rivelò il sistema scolastico centrato sulle scuole monastiche e vescovili. Nelle città sorsero così delle scuole di base, dapprima private, poi, dal XIII secolo, organizzate dalle autorità pubbliche, che insegnavano a leggere, a scrivere e a fare di conto, sulla base di libri d’abaco; e le scuole di apprendistato organizzate dalle corporazioni dei mestieri. E’ dunque possibile parlare di laicizzazione della cultura, nel senso di una diffusione del sapere al di fuori degli ambienti ecclesiastici, svincolata dall’esclusivo monopolio dei chierici, ma non per questo dal messaggio e dal pensiero cristiano. Tra XI e XII secolo si affermò un fenomeno nuovo: la messa per iscritto di testi in volgare. In precedenza lo scritto era stato riservato quasi esclusivamente al latino. Da allora acquisirono dignità letteraria anche le lingue parlate comunemente. Nella definizione dei modelli culturali ebbero un ruolo di rilievo i gruppi nobiliari, con la diffusione della letteratura epica che narrava le gesta dei guerrieri e della poesia d’amore. La prima si sviluppò in Francia, presso un pubblico che stava elaborando l’etica del cavaliere cristiano: la Chanson de Roland ne è il testo più rilevante. La seconda affascinò il pubblico delle corti e fu diffusa dai trobadori (compositori di poesie in lingua d’oc destinate a essere cantate e accompagnate con la musica; erano quasi sempre nobili che trovavano testi raffinati che cantavano esperienze sull’amore). La fioritura di componimenti letterari raggiunse anche la penisola iberica, con il Cantar del mio Cid, la Germania, con il Nibelungenlied, e l’Italia, con i rimatori siciliani della corte di Federico II. Nelle regioni meno romanizzate, invece, la comparsa dei testi volgari era stata più precoce: tra VIII e X secolo erano stati composti, per esempio, il poema eroico del Beowulf, all’origine della letteratura anglosassone, e la vasta produzione di saghe nell’Irlanda celtica. Al monaco cluniacense Rodolfo il Glabro, l’Europa dei primi decenni dopo il Mille parve rivestirsi di un <<candido manto>> di nuove chiese. Emblema di una rinnovata spiritualità, di forte impronta monastica, ne fu lo stile che fu poi detto <<romanico>> nel XIX secolo. Esso si diffuse dapprima in Italia settentrionale e in Catalogna per poi estendersi a tutto il continente tra X e XII secolo. Le chiese romaniche rappresentarono il trionfo della pietra quale elemento costruttivo, impiegata per le coperture (in precedenza realizzate in legno) con volte a crociera o a botte, e adattata a tutti gli elementi architettonici che risultarono, conseguentemente, più pesanti. Le iniziali forme spoglie, care in particolare ai cistercensi, lasciarono progressivamente il posto a rilievi scultorei sui capitelli e sulle facciate. Le città si dotarono di nuove cattedrali, simboli della crescita economica e civile: tra gli esempi più splendidi è il duomo di Pisa, eretto tra il 1065 e il 1118. Le forme del romanico furono varie, a seconda delle regioni: influenzate dallo stile arabo, per esempio, nelle aree di confine cristiano-musulmane della Spagna e nell’Italia normanna, o da quello paleocristiano e bizantino in Italia. Trasformazione del libro nel XII secolo Nella seconda metà del XII secolo si produsse una profonda trasformazione del modo di concepire il libro. Nella scrittura dei testi comparvero, nel giro di pochi anni, una serie di strumenti e di abitudini nuove: il testo venne scritto con caratteri più piccoli e fu diviso in paragrafi e capitoli, dotati di titoli e di sommari, per permettere di ritrovare rapidamente un argomento, e soprattutto cominciarono ad essere usati gli indici alfabetici per organizzare i materiali contenuti nei volumi. L’alfabeto fonetico esisteva già da quasi duemila anni (e quello latino ben più che da mille) ma nessuno, fino a quel momento, aveva penato di utilizzarlo come strumento per schedare e quindi ritrovare le informazioni. Ciò induce a riflettere sul fatto che non basta che una tecnologia sia materialmente disponibile perché essa venga impiegata: è necessario che la società che ne dispone ne senta il bisogno come avvenne, appunto, nell’Occidente europeo negli anni in cui maturò un nuovo clima culturale che si propose di imporre un nuovo ordine alle cose del mondo. Gli intellettuali cominciarono a usare i libri non come strumenti per la meditazione privata sulla storia della salvezza, ma come materiali da ricombinare per creare un testo nuovo. La pagina diventò lo schermo su cui la mente poteva proiettare il proprio ragionamento, articolato in punti e sottopunti. Queste novità culturali si accompagnarono ad altri cambiamenti, di carattere materiale: in particolare fu necessario disporre di un nuovo supporto materiale, la carta, più economico della pergamena; si dovette trovare un nuovo tipo di inchiostro, composto da una soluzione di sale metallico e tannino, una sostanza ottenuta dalla bollitura della corteccia o delle ghiande della quercia che, asciugando, fungeva da mordente bloccando il pigmento sulla carta; si dovette anche inventare un sistema per tagliare e per rilegare insieme i fogli, in modo che potessero essere facilmente consultati e trasportati. Il risultato complessivo di questi processi fu, già molto tempo prima dell’invenzione della stampa, la creazione della pagina come la intendiamo oggi, ossia come esteriorizzazione e concretizzazione di un pensiero che viene in qualche modo reso <<visibile>> dalla stessa divisione della sua struttura in paragrafi, titoli, rientri, note a margine o a piè di pagina. Da questo punto di vista, l’invenzione dei caratteri mobili e della stampa, attorno alla metà del Quattrocento, non fece che meccanizzare e rendere riproducibili, su grandi quantità, un processo e un oggetto che esistevano già da secoli. Università e nuovi campi del sapere fine dell’XI secolo. Nelle città della Provenza e delle Fiandre le prime magistrature (consoli, scabini) comparvero nella prima metà del XII secolo, in quelle della Francia del nord e della Germania tra la fine del XII e l’inizio del XIII secolo. Frequente fu il conflitto locale con i vescovi. Tranne che nel regno italico, le autonomie si svilupparono nella forma di concessioni di diplomi (carte di <<comune>>) o di <<franchigia>>) da parte dei re e dei principi territoriali, che riconoscevano prerogative e diritti parziali, imponevano quasi ovunque la presenza di propri ufficiali, e davano luogo a forme di governo misto. La dimensione del fenomeno dell’autogoverno cittadino fu europea, ma le aree italiane appartenenti al regno italico e allo stato pontificio furono all’avanguardia del fenomeno. Si può anzi affermare che solo in quella regione si sviluppò una vera e propria <<civiltà>> comunale, che assunse caratteristiche omogenee in tutte le città. Tra le più importanti vanno ricordate almeno le seguenti: in primo luogo, dal punto di vista politico, l’alto grado di effettiva autonomia, che fu un tratto tipico solo delle città italiane; dal punto di vista istituzionale, l’intensa circolazione di esperienze da un centro all’altro, che contribuì a uniformare il fenomeno; sotto il profilo sociale, la forte articolazione e differenziazione, che offrì possibilità di ascesa e promozione; dal punto di vista territoriale, lo stretto legame con le aree extraurbane coincidenti tendenzialmente con le diocesi, oggetto della costruzione di contadi; dal punto di vista culturale, l’esperienza italiana espresse un nesso organico tra la politica e le elaborazioni intellettuali, che si impegnarono a legittimarne i regimi di autonomia. Le città dell’Italia meridionale non conobbero invece una vera esperienza comunale. Lo sviluppo delle autonomie urbane fu qui bloccato dall’affermazione di una forte autorità centrale in seguito all’instaurarsi della monarchia normanna. Grandi città come Napoli, Salerno, Palermo, Bari o Messina e moltissimi centri pugliesi, campani e siciliani, pur ricchi di abitanti, commerci e attività produttive, vennero inquadrati nell’amministrazione regia. Nelle città i magistrati locali furono nominati dal re, e le cittadinanze non espressero mai un pieno autogoverno. Esse ricevettero limitate prerogative amministrative, pur conservando e vedendosi confermate le proprie consuetudini: la loro condizione fu quella di universitates. Inoltre, le città non costituirono un vero e proprio contado, limitandosi la proiezione del territorio a essere espressione dei legami economici, sociali e religiosi delle società locali, dove forte rimase il condizionamento dell’aristocrazia rurale. In Sardegna non c fu alcun processo spontaneo verso il comune, che vi fu parzialmente importato solo dai pisani e dai genovesi. Lo sviluppo di ampie autonomie politiche da parte delle città italiane fu la conseguenza di due condizioni principali. Da un lato, della loro forza economica, sociale e culturale; dall’altro, della debolezza, rispetto ad altre aree europee, dei sistemi politici entro cui esse erano inserite, in primo luogo dell’impero e dei grandi signori territoriali. Nella maggior parte delle città europee gli abitanti avevano un’origine sociale omogenea, di impronta mercantile e <<borghese>>, che non investiva in proprietà fondiarie e che non aveva legami feudali con i signori rurali. Nelle città italiane, invece, la società si articolava intono a tre componenti eminenti: un’aristocrazia militare urbana (milites), talora legata vassallaticamente al vescovo e spesso direttrice di diritti signorili e beni fondiari nel territorio; un’élite commerciale (negotiatores), fornita di ingenti ricchezze mobili e fondiarie; e un ceto di uomini di cultura ( iudices), giudici e notai, in grado di elaborare il sapere e di gestire le tecniche di governo della città. Ciascuno di questi gruppi fornì un contributo determinante allo sviluppo comunale: rispettivamente, la potenza militare, la disponibilità economica e la competenza giuridica. Nella maggior parte delle città italiane le prime esperienze di autogoverno maturarono in rapporto all’autorità vescovile. In alcune ciò avvenne in continuità con il potere del presule, senza confitti; in altre fu invece determinante l’indebolimento delle figure episcopali per l’azione riformatrice del papato, che tendeva a sottrarre la nomina dei vescovi al controllo dei gruppi eminenti della società cittadina. La lotta per le investiture di cui i vescovi furono oggetto nel più generale conflitto tra papato e impero, dette luogo a conflitti violenti tra i sostenitori delle due parti in molte città negli ultimi decenni dell’XI secolo. Le iniziative di pacificazione lasciarono spazio a un nuovo ordine politico, quello del comune, che consistette inizialmente in assemblee (conciones o <<arenghi>>) di cittadini eminenti (cives) che eleggevano come loro rappresentanti temporanei dei consoli (consules) per il governo politico, militare e giudiziario della città. Si ha così notizia di consoli (due o più) attivi a Pisa nel 1081, a Lucca nel 1085, ad Asti nel 1095, a Genova nel 1099 e altrove nei primi decenni del XII secolo. Il nuovo sistema politico venne sviluppando nel corso del tempo una pratica fondata sulla partecipazione dei cittadini, sul principio elettivo, sull’alternanza dei governanti e sulla discussione politica. L’ampiezza delle rivendicazioni di autonomia da parte delle città si manifestò nello scontro con l’impero che iniziò alla metà del XII secolo, quando in quasi tutte le città si erano formate le prime istituzioni comunali, benché non ancora riconosciute. Le città non disconobbero la sovranità imperiale, ma rivendicarono il diritto all’autogoverno, a una libera politica di alleanze, all’estensione della loro autorità sui contadi, rifiutando l’invio di funzionari imperiali e l’imposizione arbitraria di tributi. Il conflitto con Federico Barbarossa portò alla formazione di leghe tra le città venete e lombarde, poi fuse nella <<lega lombarda>> giurata a Pontida nel 1167, che si rivelarono capaci di sconfiggere clamorosamente in battaglia l’esercito imperiale a Legnano nel 1176, e di costringere Federico I a trattare. La pace di Costanza del 1183 garantì alle città il diritto di esercitare i poteri regi, di eleggere i propri consoli, di costituire leghe, di esercitare diritti sul territorio e di erigervi fortezze. Il rinnovato conflitto tra la lega lombarda e Federico II, innescato dalla convocazione imperiale dei rappresentanti delle città a Cremona nel 1226 e culminato nella battaglia di Cortenuova del 1237 in cui prevalse l’esercito del sovrano, si risolse in una provvisoria sottomissione delle città al governo diretto di Federico II, che svanì con la morte di quest’ultimo nel 1250. Lo sviluppo politico maturò pienamente nella prima metà del XIII secolo, alla stabilizzazione delle istituzioni e a un decisivo riordinamento amministrativo e giuridico. Simbolo di questa nuova fase fu la magistratura del podestà, affiancata da un consiglio ristretto di cittadini. Il potestà era reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della politica che si muovevano tra le città contribuendo a renderne omogenee le pratiche di governo: presiedere i consigli cittadini, guidare l’esercito, mantenere l’ordine e amministrare la giustizia. Il nuovo regime –che si affermò in tutte le città italiane del centro-nord tra il 1180 e il 1220 circa- consentì di allargare a famiglie cresciute in ricchezza, talora anche provenienti dal contado, la partecipazione ai consigli e agli uffici del comune, superando il sistema consolare che era stato egemonizzato da una ristretta cerchia di famiglie potenti (milites) provocando conflitti crescenti. Il podestà cominciò anche a far redigere per iscritto ai propri giudici e notai i diritti della città, le sue leggi e consuetudini –gli statuti- e a tenere registrazione delle quotidiane attività amministrative in volumi e poi in archivi pubblici. La crescita demografica e lo sviluppo economico promossero la continua ascesa di gruppi sociali e familiari cosiddetti di <<popolo>> - mercanti, banchieri, notai e artigiani- fino ad allora esclusi dalla partecipazione politica. Furono dapprima i fanti (pedites) a lottare, spesso con azioni violente, contro i privilegi (esenzione fiscale e risarcimento dei danni di guerra) dei cavalieri (milites) dell’esercito cittadino per una più equa ripartizione delle imposte e per l’accesso ai consigli del comune. Alla metà del secolo in alcune città- per esempio a Bologna nel 1248, a Firenze, Piacenza e Modena nel 1250, a Pisa nel 1254, a Lucca e Perugia nel 1255, a Vercelli nel 1259- il <<popolo>> riuscì a mobilitare le sue società armate a base rionale, talora d’intesa con le corporazioni di mestiere, per imporre nello spazio politico proprie istituzioni che affiancarono quelle del comune: un consiglio generale e uno ristretto, un collegio esecutivo di <<anziani>> e una magistratura di vertice, il capitano del popolo, modellata su quella podestarile. L’affermazione dei governi di <<popolo>> non fu duratura. La proiezione territoriale delle città italiane si tradusse nel controllo diretto del contado (comitatus), cioè di un’area corrispondente in larga misura alla diocesi cittadina, erede a sua volta del territorio su cui i centri urbani esercitavano già in età romana una funzione di coordinamento. La conquista del contado, avviata nel XII secolo e consolidata nel successivo, ricorse alle armi e agli accordi, utilizzando anche i vincoli feudali per legare alla città i signori rurali, meno forti rispetto ad altre aree europee e che spesso decisero di integrarsi nel mondo urbano. L’assoggettamento politico e fiscale delle comunità rurali garantiva approvvigionamenti alimentari e favoriva la diffusione della proprietà fondiaria dei cittadini, fonte di reddito tutelata dagli statuti. Anche le liberazioni forzose dei contadini dalle dipendenze signorili, che furono messe in atto da alcune città –a Vercelli nel 1243, a Bologna nel 1257, a Firenze nel 1289- ebbero per fine quello di sottrarre uomini ai signori rurali, di aumentare il numero dei contribuenti alla fiscalità cittadina e di liberare manodopera per le manifatture urbane. Non tutti i comuni furono città. A dare vita a forme analoghe di autogoverno furono infatti anche le comunità rurali. Il fenomeno era parte della più generale evoluzione della società rurale europea tra XII e XIII secolo verso una più marcata emancipazione dei contadini dalle dominazioni signorili. In una prima fase, i signori precisarono i limiti del proprio potere, mediante concessioni di privilegi ai propri rustici, dette carte di <<franchigia>> o di <<libertà>>. In genere esse riconoscevano ai contadini il diritto di trasferirsi altrove, riducevano la fiscalità e limitavano l’attività degli agenti signorili nell’amministrazione e nella giustizia. Nel corso del Duecento, in alcune aree di espansione e di colonizzazione come la Spagna e l’est europeo, alcune comunità diedero luogo a organismi dotati di ampie libertà. In Italia diverse comunità rurali si organizzarono con istituzioni di tipo consolare analoghe a quelle urbane, per difendere i propri interessi e rivendicare nuove autonomie. A promuovere i comuni rurali furono le élites che erano emerse dalla trasformazione e dalla differenziazione della società rurale. Cittadinanza e partecipazione politica Nelle città italiane che si diedero regimi di autonomia comunale, la condizione di cittadinanza costituiva il prerequisito per la partecipazione politica, vale a dire l’eleggibilità agli uffici, per l’accesso ai consigli e alle commissioni politiche. Va osservato però come non tutti gli abitanti di una città godessero dei diritti politici e dei connessi privilegi in ambito economico, fiscale e giuridico. Solo coloro che pagavano le tasse, che assolvevano a obblighi di carattere militare e relativi all’ordine pubblico (guardia alle porte, vigilanza notturna e servizio antincendi) e che risiedevano da generazioni in città potevano accedere allo stato di cittadinanza: criteri che valevano anche per i sempre più numerosi immigrati. Ad esserne esclusi erano i lavoratori salariati non iscritti alle arti, i servi, i non abbienti, etc. Se si considera anche l’esclusione delle donne e dei maschi che non avevano ancora raggiunto la maggiore età (oscillante, a seconda dei servizi da prestare, tra i 14 e i 18 anni), si può ritenere che i cives non ammontassero che al 20% della popolazione di una città. La partecipazione politica, nei regimi comunali, riguardò una minoranza degli abitanti: a prevalere era allora il concetto di preminenza sociale, non quello di uguaglianza. Il <<laboratorio politico>> italiano La tradizione di esercizio di prerogative pubbliche da parte del vescovo rappresentò la base per la legittimazione dei regimi di autogoverno cittadino. Il richiamo all’antica <<libertà>> di cui le città erano sedi servì l’elaborazione di un discorso pubblico votato all’esaltazione della loro grandezza. Soprattutto nelle città italiane vi si impegnarono in varie generazioni di intellettuali: al maestro di retorica (ars dictandi) Boncompagno da Signa (1170-1240), che insegnò a Bologna, Venezia, sovrani angioini, alleati della città, che ci inviarono i propri vicari e ufficiali per periodi concordati. Un governo popolare delle arti fu istituito nel 1282, e una severa legislazione antimagnatizia (che escluse 147 famiglie dagli uffici) fu emanata tra 1293 e 1295, sotto il nome di <<Ordinamenti di giustizia>>. Le lotte di fazione, originate intorno alla faida tra le famiglie dei Cerchi e dei Donati, portarono nel 1302 al bando della città (che colpì anche Dante Alighieri) di centinaia di individui appartenenti alla parte filoghibellina. L’esito fu la selezione di un gruppo dirigente guelfo e angioino, a guida mercantile, che tra 1328 e 1332 consolidò a proprio favore i meccanismi elettorali di accesso ai consigli e agli uffici di governo. L’alternanza tra forme di governo fu esperienza ricorrente. A Modena governi di <<popolo>> si alternarono (nel 1250-1264, 1271-1287, 1306-1307) a predomini di parte e di tipo signorile: nel 1306 furono 80 gli individui dichiarati <<magnati>>. A Parma, al regime di <<popolo>> che emanò una dura legislazione antimagnatizia nel 1279 fecero seguito la signoria di Ghiberto da Correggio dal 1303, un rinnovato governo popolare dal 1316 e l’elezione dei Rossi a signori nel 1328. A Bologna, la selezione del gruppo dirigente fu perseguita attraverso una serie di misure antimagnatizie e di esclusione politica. Con il sostegno del <<popolo>>, nel 1274 la fazione guelfa dei Geremei si impose su quella ghibellina dei Lambertazzi con migliaia di provvedimenti di bando ed esilio. Fu poi il <<popolo>>, guidato dalla potente corporazione dei notai, a esautorare i capi della parte geremea, colpendoli tra 1282 e 1284 con appositi ordinamenti antimagnatizi (che esclusero 92 individui appartenenti a 40 famiglie). Nel 1292 si procedette a una complessiva revisione delle misure di proscrizione, rinnovando gli ordinamenti e aggiornando le liste dei banditi: moltissimi furono gli individui che negoziarono la loro riammissione in un più ristretto gruppo dirigente. L’affermazione di forme di potere personale e signorile fu contemporanea a quella dei governi di <<popolo>> nei decenni centrali del Duecento. In numerose città i consigli municipali cominciarono a conferire a un singolo cittadino eminente- spesso titolare di cariche come quelle del podestà o di capitano del <<popolo>>, come fu il caso di Martino Della Torre a Milano o di Mastino Della Scala a Verona nel 1259- un potente incondizionato (arbitrium) svincolato dagli statuti della città, per un tempo definito a vita. Al signore (dominus) così eletto erano assegnati compiti particolari per la difesa militare, la sicurezza e la pacificazione interna della città, così come lo si autorizzava ad espellere i membri delle fazioni avverse. Le esperienze signorili rappresentarono una sperimentazione avanzata di gestione della crescente complessità degli spazi politici cittadini. A lungo, fino agli inizi del XIV secolo, i cittadini considerarono le forme di governo a comune, a <<popolo>>, e a signore, come risorse possibili cui ricorrere in funzione delle necessità e delle circostanze: soprattutto, la plasticità del sistema politico cittadino le configurava come esperienze politiche reversibili. L’affermazione dei poteri signorili fu più precoce nelle città padane rispetto a quelle dell’Italia centrale. Ciò fu dovuto alla capacità di alcuni grandi signori, dotati di beni fondiari e di investiture imperiali, di costruire dominazioni su costellazioni di città e di territori rurali sfruttando i conflitti tra le fazioni e le rivalità tra le diverse città. Il caso più noto è quello di Ezzelino dei conti da Romano, che dai suoi feudi trevigiani estese la sua autorità su Verona, Vicenza, Padova e Treviso tra 1226 e 1259. Simile fu l’esperienza di Oberto dei Pallavicini, che trasformò la funzione di vicario di Federico II in una diretta signoria su alcune città emiliane e lombarde (Cremona, Pavia, Piacenza, Brescia, Milano, e altre) tra 1249 e 1266. Un’analoga dominazione signorile su alcune città piemontesi stabilita da Guglielmo VII dei marchesi di Monferrato fu dissolta tra 1290 e 1292 per la reazione dei Savoia e dei Visconti. Queste costruzioni signorili si estinsero con i loro protagonisti, per la fragilità di domini ramificati sul territorio ma non radicati in alcuna città. Più stabili e durature si rivelarono le signorie che si svilupparono all’interno di singoli centri urbani per iniziativa di famiglie influenti. Peraltro, il loro profilo sociale poteva essere assai differente. Quello degli Este, per esempio, che si affermarono su Ferrara sin dal 1240, era analogo a quello dei da Romano e dei Monferrato, e la loro autorità si affidò molto ai legami feudali. Origini comitali avevano i Della Torre che si appoggiarono alle organizzazioni di <<popolo>> a Milano per affermare la propria signoria dal 1259. Famiglia cittadina, ma non di milites, era quella dei Della Scala che cominciarono ad affermarsi a Verona tra 1259 e 1262, legandosi alla corporazione dei mercanti e ai movimenti di <<popolo>>. Stirpe aristocratica, legata all’episcopato, fu al contrario quella dei Visconti che nel 1277 si sostituirono ai Della Torre nell’esercizio del potere signorile a Milano. In Toscana, dove le signorie si affermarono stabilmente solo dal primo Trecento, era di tradizione comitale la famiglia dei Donoratico che si insignorì a Pisa dal 1317 al 1347, ed episcopale quella dei Tarlati, signori di Arezzo dal 1321 al 1337. Tendenza comune a molte esperienze signorili fu la capacità dei discendenti di farsi attribuire cariche a vita in qualità di <<signori generali e permanenti>>, come Azzone VII d’Este a Ferrara nel 1264, Alberto Della Scala a Verona nel 1277 o Guido Bonacolsi a Mantova nel 1299. Alcuni ottennero anche la facoltà di designare un successore, che doveva comunque essere riconosciuto formalmente dagli organi del comune. L’introduzione del principio ereditario consentì di fondare vere e proprie dinastie signorili, come furono quelle dei Della Scala fino al 1387, dei Visconti fino al 1447, dei Da Polenta a Ravenna dal 1285 al 1441, dei Malatesta a Rimini dal 1282 o dei Gonzaga a Mantova dal 1328 alla piena età moderna. Ciò contribuì a rafforzare il potere dei signori, che trasformarono progressivamente nel corso del XIV secolo il sistema di governo con la creazione di organi ristretti, di cancellerie e di archivi a loro direttamente dipendenti, svuotando le istituzioni consiliari e abolendo molti uffici comunali. Intorno alle dinastie signorili cominciarono a formarsi delle corti, con ruoli, cerimoniali e stili di vita cavallereschi. La ricerca del consenso passò anche attraverso un processo di legittimazione che adottò i linguaggi dell’architettura, delle lettere e delle arti, per diffondere l’immagine encomiastica del signore. Pur diversi nella forma, i governi signorili non cancellarono i tratti più tipici del sistema politico comunale, di cui costituirono l’evoluzione e il superamento L’eredità cittadina fu infatti una delle caratteristiche dei poteri signorili: la partecipazione politica vi perse vigore propositivo e assunse un tenore prevalentemente consultivo, ma molte istituzioni di origine comunale rimasero in vita. Il sistema delle corporazioni sopravvisse in quasi tutte le città, e ben saldi si mantennero gli organismi mercantili. Lo stesso quadro normativo statuario venne modificato, ma non cassato, e ampio sviluppo ebbero gli apparati amministrativi con le connesse pratiche di produzione e conservazione delle scritture documentarie. Quando poi molte città furono sottomesse a signorie esterne –come il caso di quelle assoggettate dai Visconti-, i gruppi dirigenti non persero il loro ruolo: la limitazione dell’autonomia politica fu spesso compensata dal loro rafforzamento in ristretti patriziati che continuarono a sedere nei consigli e a occupare gli uffici municipali. Verso la metà del XIV secolo si erano ormai stabilmente affermati tutti i governi signorili in quasi tutte le città comunali. Solo in pochissime erano sopravvissute esperienze a comune, a costo di pronunciate ristrutturazioni in senso oligarchico. A Siena si era consolidato un nucleo di circa 60 famiglie aristocratiche e popolane di omogeneo orientamento mercantile e finanziario, incentrato tra 1287 e 1355 intorno al governo dei Nove. A Venezia, dove la città era retta da un doge, le grandi famiglie di mercanti reagirono al diffondersi di lotte di fazione e di congiure aristocratiche allargando nel 1297 il Maggior consiglio a <<uomini nuovi>>, per procedere poi dal 1323 ad ammissioni selettive: si formò così un’élite ereditaria, coerente per interessi economici, che escluse le casate nobiliari e le famiglie popolane. Più instabili furono gli equilibri a Genova, dove un’informale oligarchia mercantile-finanziaria nel 1339 elesse doge a vita, sul modello veneziano, il ricco mercante Simone Boccanegra, affiancato da un collegio di anziani scelti fra i popolari, mentre i nobili furono esclusi dagli uffici più importanti. Depressione demografica e ristrutturazioni economiche La crisi demografica La popolazione europea subì un drammatico calo nel corso del XIV secolo. La curva demografica toccò probabilmente il suo apice già alla fine del Duecento. Da quel momento la crescita della popolazione che durava ininterrottamente da alcuni secoli si fermò. La spiegazione più plausibile appare quella della cosiddetta <<sovrappopolazione relativa>>, vale a dire dello squilibrio ce a un certo punto si venne creare tra la disponibilità di risorse alimentari e l’eccessivo numero di uomini. A causa della strutturale carenza di concime, l’agricoltura non riuscì a incrementare la produzione cerealicola per sfamare una popolazione sempre più numerosa. La percentuale dei morti cominciò ad alzarsi oltre i livelli consueti, dando luogo a sempre più frequenti crisi di mortalità. Così, nella prima metà del Trecento la popolazione inizio lentamente a calare. All’inizio del XIV secolo si manifestarono in varie regioni europee crisi di sussistenza sempre più acute. La pressione demografica aveva spinto a estendere la coltivazione a terreni marginali (declivi delle montagne, brughiere) che fornivano scarsi raccolti, e a sfruttare eccessivamente i suoli finendo con l’isterilirli. Una successone di cattivi raccolti, dovuti all’eccesso di piogge o a lunghe siccità, si infittirono dalla fine del XIII secolo determinando carestie sempre più frequenti. Certamente influì una serie di annate di eccezionale maltempo, con inverni più rigidi e piogge più frequenti, che alcuni storici del clima ritengono essere state l’inizio di un ciclo meteorologico più freddo. Ma la penuria fu generalizzata, non più compensata dalle importazioni a lunga distanza di cereali. La crisi annonaria(scorta granaria importata e gestita da apposite magistrature che ne sorvegliavano la commercializzazione e la distribuzione a prezzi calmierati in tempo di carestia) era strutturale, dovuta agli scompensi dell’economia agricola e all’evoluzione demografica. Una prima serie di gravi carestie colpì l’Italia nel 1271-1271 e 1275-1277 e l’Inghilterra nel 1293-1295. Gran parte dell’Europa settentrionale fu flagellata nel 1315-1317. In alcune città morì di stenti circa il 10% degli abitanti: dopo molto tempo, dunque, in Europa si ricominciò a morire di fame. La Catalogna e Barcellona furono colpite nel 1333, la Linguadoca nel 1335-1337, mentre l’Italia soffrì di gravi carestie negli anni 1328-1330, 1339-1342 e 1346-1347. Dalle campagne affamate affluirono in città contadini in cerca di fortuna, ma le autorità urbane cercarono di ostacolarne l’ingresso perché già alle prese con popolazioni in precarie condizioni alimentari. I prezzi dei cereali aumentarono fino a dieci volte, rendendo proibitivo l’acquisto del pane. La sottoalimentazione accrebbe la mortalità per l’indebolimento delle difese immunitarie che resero gli uomini più esposti alle malattie. Firenze, per esempio, perse circa 20.000 abitanti tra 1300 e 1347, Bologna 7.000 tra 1294 e 1324. Se una popolazione già provata da anni di difficoltà si abbatté nel giro di pochi mesi dal 1347 una terribile epidemia di peste bubbonica (per i rigonfiamenti, detti bubboni, delle ghiandole linfatiche delle ascelle e dell’inguine) o <<nera>> (per le macchie scure che produce sulla pelle) proveniente dall’Asia. La malattia, infettiva, fu trasmessa dalla puntura delle pulci parassite del ratto nero e poi nella sua forma polmonare, ancora più micidiale. Il suo dilagare fu favorito dalle precarie condizioni igieniche e dalla denutrizione che colpiva in primo luogo gli strati sociali più umili della popolazione, che, soprattutto in città, vivevano in condizioni malsane e non potevano fuggire al contagio, come fecero invece molti abbienti isolandosi nelle proprietà in campagna. Era dalla fine del VII secolo che l’Occidente europeo non aveva conosciuto epidemie di quel genere, forse a causa dei mutamenti climatici che avevano reso il clima europeo inospitale al bacillo. La peste si diffuse attraverso le vie di commercio. Dal Kazakistan, dove era endemico, il bacillo giunse in Europa attraverso le vie carovaniere che collegavano le steppe asiatiche agli empori mercantili del Mar Nero. Da qui, trasportata da topi annidati nelle stive delle navi di mercanti genovesi, la peste internazionale più articolato e integrato: le aree del Mediterraneo non più solo <<granai>> di cereali, ma anche esportatrici di olio; alcune regioni della Francia meridionale, della Spagna e del Portogallo produttrici di vini ad alta gradazione; la Castiglia il maggiore produttore di lana (con 2.700.000 capi di bestiame nel 1470). I grandi proprietari fondiari furono indeboliti dalla riduzione dei margini di rendita dovuta allo spopolamento, alla diminuzione dei prezzi e all’aumento dei salari. In alcune regioni crebbe la proprietà cittadina per gli investimenti di mercanti e imprenditori. Il ricambio di uomini promosso dalla crisi demografica offrì l’occasione ai proprietari di rinnovare i contratti agrari. I patti consuetudinari a lungo termine e a canone fisso furono affiancati e spesso sostituiti da contratti scritti di breve durata (da 1 a 5 anni), che prevedevano la ripartizione, in generale a metà, dei prodotti della terra tra proprietario e contadino, in cambio di una serie di investimenti da parte del padrone (in sementi, attrezzi e animali da lavoro). Là dove si diffusero –soprattutto tra Emilia e Toscana, ma anche in Provenza e in Aquitania- questi contratti parziari furono detti di mezzadria (contratto agrario in cui il coltivatore riceveva dal proprietario, oltre alla terra, anche una casa e, anche bestiame, attrezzi da lavoro e sementi. In cambio il contadino era tenuto a dare al proprietario la metà del raccolto, oltre ad alcune quantità di altri prodotti e bestie di piccolo taglio) o di métayage e assicurarono un generale incremento produttivo. Anche nelle città la crisi demografica determinò un calo della manodopera e un conseguente aumento dei salari degli operai, che fece crescere i costi di produzione e i prezzi dei prodotti. Soprattutto, il calo della popolazione determinò un calo altrettanto pronunciato delle manifatture. Nel settore principale, quello tessile, si hanno i dati relativi a uno dei maggiori centri di produzione di panni di lana, Firenze, che passò da 30.000 pezze annue nel 1338 a 24.000 nel 1378, a 11.000 intorno al 1420. Meno grave ma ugualmente sensibile fu la crisi tessile anche nelle città delle Fiandre. Conseguentemente, anche gli scambi subirono una forte contrazione. I dati disponibili sul commercio nei porti di Genova e di Marsiglia intorno al 1400, per esempio, indicarono una diminuzione nel volume dei traffici del 65% nella prima rispetto al 1300 e del 35% nella seconda rispetto al 1340. Il mutamento più evidente nella produzione manifatturiera fu la diversificazione delle merci. Da un lato le produzioni di pregio, come i tessuti di qualità, la seta, le armi, i vetri, la carta. Dall’altro, soprattutto, i prodotti di uso comune a prezzi accessibili, destinati a una più larga fascia della popolazione: in primo luogo tessuti non pregiati, di cotone, di lino o di fustagno, una fibra mista più resistente ed economica. Lo sviluppo di nuovi settori produttivi determinò la crescita economica di alcune regioni e il declino di altre. Al calo della produzione dei panni di lana, per esempio, Firenze e la Toscana risposero con lo sviluppo della manifattura della seta. In Catalogna, in Olanda e in Inghilterra si svilupparono manifatture di lana di minore qualità rispetto a quelle fiamminghe e fiorentine, ma a più buon mercato. L’Inghilterra, che produceva lane rinomate, ne diminuì progressivamente l’esportazione mentre aumentò quella dei tessuti lavorati. Una profonda ristrutturazione dell’organizzazione produttiva investì le manifatture. Perse importanza la figura dell’artigiano che fino al XIII secolo lavorava in proprio la materia prima fino alla finitura del prodotto e allo smercio nella sua bottega. Dalla metà del XIV secolo le fasi della lavorazione cominciarono a separarsi da quelle della vendita. Ciò avvenne a cominciare dal settore più importante, quello tessile, dove nuove figure di mercanti-imprenditori, dotati dei capitali necessari, acquistavano le materie prime, le affidavano in successione a varie botteghe artigiane ognuna delle quali presiedeva a un momento particolare della produzione, e provvedevano a collocare il prodotto finito sui mercati anche a lunga distanza. Alcune fasi della lavorazione erano affidate a domicilio, anche a donne e a contadini. La dislocazione in manifatture rurali fu largamente utilizzata in Inghilterra e nelle Fiandre per abbassare i costi di produzione. Le difficoltà dell’economia coinvolsero anche le attività creditizie. Rispetto al passato, esse non si limitarono più a sostenere il commercio e le attività produttive, ma cominciarono a finanziarie anche i sovrani europei. Questi chiedevano prestiti ai grandi banchieri internazionali, che erano soprattutto toscani, per finanziare le guerre e i sempre più costosi apparati amministrativi dei regni. Per alleggerire i costi dei capitali e degli interessi da rimborsare, alcuni di essi imposero svalutazioni forzose delle proprie monete, come fece il re di Francia Filippo IV il Bello. Con la propria insolvenza (impossibilità di far fronte alle obbligazioni di pagamento assunte) tra 1297 e 1308 egli determinò la bancarotta di una delle più grandi compagnie di banchieri dell’epoca, quella dei Bonsignori di Siena. Negli stessi anni fallirono anche quelle dei Ricciardi di Lucca e degli Ammanati e dei Chiarenti di Pistoia, e quando il re d’Inghilterra Edoardo III, tra 1342 e 1343, dovette sospendere il pagamento dei debiti ai banchi fiorentini dei Bardi e dei Peruzzi, anch’essi fecero bancarotta. Il fallimento dei fiorentini fu gigantesco, se consideriamo che la compagnia dei Bardi aveva raggiunto nel 1318 un giro di affari di quasi 900.000 fiorini d’oro, e provocò un effetto a catena che coinvolse altre 350 compagnie di mercanti e banchieri che fallirono entro il 1346. Ciò indusse gli operatori ad adottare misure tese a evitare, per il futuro, crolli generalizzati. La ristrutturazione del sistema bancario articolò le compagnie in filiali fornite di capitali propri e di autonomia di gestione, così che la bancarotta di una non potesse determinare il cedimento dell’intero complesso. Anche le attività mercantili furono organizzate intorno a una rete di operatori stabili nei maggiori centri commerciali internazionali. Furono anche affinati ulteriormente gli strumenti assicurativi e le lettere di cambio e sviluppati sistemi più complessi di contabilità come la partita doppia (metodo per tenere la contabilità; applica il principio della scrittura doppia, per cui ogni operazione viene segnata a credito o a debito in un medesimo registro), che teneva distinte le entrate e le uscite. Il sistema delle fiere declinò definitivamente, sostituito dalla rete stabile delle filiali commerciali e dal forte incremento dei trasporti marittimi, reso possibile anche da costanti miglioramenti nelle tecniche di navigazione e dall’adozione di navi di stazza crescente (cocche, galee e caracche). Lo sviluppo delle economie dell’Inghilterra, dell’Olanda e della Spagna favorì l’apertura di nuovi assi commerciali, che iniziarono a spostare irreversibilmente il baricentro degli scambi internazionali dal Mediterraneo all’Europa atlantica. Forte incremento ebbero le rotte che collegavano i centri mercantili del Mare del Nord ai porti della Francia, del Portogallo e della Spagna. Da questi scali cominciarono a muovere anche nuove rotte lungo le coste occidentali dell’Africa. Nel Mediterraneo Venezia consolidò l’egemonia nei traffici con l’Oriente, a danno di Genova e di Barcellona. La grande area di traffici sul Baltico si integrò sempre più ai mercati del Mare del Nord. Reazioni e ripresa Mentalità e sensibilità di fronte alla crisi La peste destò enorme impressione tra i contemporanei per la velocità con cui si diffuse inizialmente, per la rapidità del decorso, per la mancanza di rimedi e per l’ignoranza sulle sue cause e sui modi di contagio. Grazie all’osservazione empirica vennero adottate misure per circoscriverne la diffusione: divieto di assembramenti, limitazione degli spostamenti e segregazione dei malati. Nelle città furono istituite apposite magistrature per isolare gli individui e i quartieri colpiti; dal XV secolo, in zone periferiche o al di fuori delle mura, furono creati dei lazzaretti dove confinare gli infetti. Alle porte furono effettuati controlli più rigidi, e si impose anche la quarantena alle navi provenienti dagli scali asiatici. Durante le epidemie la vita politica ed economica rimaneva paralizzata: i consigli non venivano convocati per paura del contagio, né i mercanti e le merci si spostavano. La congiuntura aveva seminato il terrore. La gente non riusciva a spiegarsi le cause del susseguirsi dei cattivi raccolti, delle pestilenze, delle guerre e di eventi naturali come l’alluvione che colpì Firenze nel 1333 o il terremoto che, nel 1348, squassò le Alpi austriache provocando circa 10.000 morti. La risposta più immediata fu di interpretarli come annunzio apocalittico: in questi avvenimenti si vedeva l’azione delle forze del male che segnalava l’approssimarsi della fine del mondo. Si diffusero pratiche di penitenza in confraternite di devozione che, confidando nella salvezza attraverso l’espiazione delle colpe, praticavano la flagellazione e compivano pellegrinaggi: nel 1399, attraversò l’Italia la devozione cosiddetta dei <<Bianchi>> per il colore dei vestiti indossati dai flagellanti. Si sviluppò il culto della Passione di Cristo per l’attrazione esercitata dai soggetti religiosi che affrontavano il tema del dolore. Si intensificò anche il culto di santi, come Sebastiano e Rocco, ritenuti protettori contro la peste. Le reazioni individuali e collettive furono le più diverse. Crebbero coloro che disposero nei testamenti donazioni alle chiese e in favore degli ammalati, dei poveri e dei fanciulli abbandonati. Ma vi fu anche chi si sfrenò nell’infuriare delle epidemie: le cronache segnalarono baldorie di ubriachi a Roma, feste e banchetti a Parigi, addirittura giochi e tornei in Inghilterra. Le processioni dei flagellanti che attraversarono l’Europa accrebbero l’eccitazione contro coloro che si ritenevano complici del demonio nell’opera di destabilizzazione della cristianità. In molti casi furono incitate le popolazioni al linciaggio dei non cristiani ritenuti responsabili del contagio. Gli ebrei furono accusati di avvelenare i pozzi e di uccidere il bestiame, e divennero oggetto di violente persecuzioni in Francia e nelle Fiandre, in Ungheria, in Catalogna e, soprattutto, in area tedesca, dove sono stati identificati ben 96 pogrom tra 1348 e 1350. La paura della mote assunse nuovi tratti, per la sua drammatica presenza nella vita quotidiana del periodo e per le dolorose esperienze cui costringeva rispetto a un passato anche recente. La diversa sensibilità fu probabilmente alla base della trasformazione che dal XIV secolo incominciò a investire l’arte sacra sviluppando il tema della morte, rappresentata in forma di scheletro o di cadavere putrefatto. La testimonianza monumentale più antica è quella dell’affresco nel Camposanto di Pisa dipinto da Buonamico Buffalmacco tra il 1336 e il 1338- dunque prima dell’epidemia di peste – che rappresentava il Trionfo della morte, dove a dei giovani a cavallo si offre la visione di cadaveri in decomposizione allineati in bare scoperte. La più nota è invece quella dipinta nel cimitero degli Innocenti di Parigi nel 1424 che rappresenta la Danza macabra attraverso trenta coppie di personaggi di tutte le condizioni sociali che danzano insieme al proprio cadavere: un’immagine che fu poi ripresa in Francia, in Inghilterra e in Germania. La peste lasciò drammatici echi anche nella letteratura dell’epoca. La maggior parte delle cronache ne indicò espressamente la causa nei peccati degli uomini: le guerre, gli omicidi, il comportamento dei cattivi cristiani, etc. La provenienza del contagio era chiaramente individuata nell’Oriente, un mondo rappresentato come magico e terribile, popolato da infedeli che avevano in animo la morte dei cristiani. La letteratura enfatizzò il senso di angoscia e la consapevolezza che la bellezza della gioventù e il fasto dei potenti erano sotto la minaccia costante della morte. Il Decameron del fiorentino Giovanni Boccaccio, con i suoi giovani protagonisti rifugiati in una villa di campagna, rispecchia l’uso dei ricchi di isolarsi dal contagio e descrive superbamente il sinistro senso di minaccia che incombeva sulla società dell’epoca. Nel 1348 in alcune zone dell’Inghilterra alcune donne che vivevano da sole, praticando guarigioni, furono accusate di stregoneria e linciate dalla popolazione in cerca di capri espiatori della peste. Questi episodi diedero avvio a un plurisecolare fenomeno di <<caccia alle streghe>> che ebbe per oggetto le donne, ritenute responsabili del peccato originale e pertanto potenziali interlocutrici del demonio. La stregoneria-vale a dire l’esercizio di poteri magici attribuiti a individui ritenuti capaci di entrare in contatto con esseri sovrannaturali- era stata sempre combattuta dalla Chiesa cristiana, che vi vedeva la sopravvivenza di superstizioni pagane che minacciavano il suo ruolo sacerdotale di mediazione con la sfera del sacro. Dalla metà del XIV secolo si sviluppò l’idea che la stregoneria socialmente allarmante. I vagabondi cominciarono a essere percepiti come individui pericolosi: in Inghilterra nel 1349 e in Francia nel 1351 furono adottate le prime misure repressive contro di essi. Per combattere la povertà molti governi adottarono politiche di assistenza, fondando enti caritativi e ospizi, distribuendo elemosine in denaro, alimenti e vestiti, raccogliendo i fanciulli abbandonati, costituendo doti per le ragazze povere. Per impulso dei francescani, nelle città italiane furono fondati i <<monti di pietà>> (il primo a Perugia nel 1462), che erogavano piccoli prestiti su pegno a interessi contenuti. La ripresa del Quattrocento Il rinnovato equilibrio tra risorse alimentari e numero degli uomini e l’aumento della produttività dei raccolti posero le basi per l’inversione della tendenza demografica. Per almeno un secolo e mezzo, tra la fine del Duecento e la prima metà del Quattrocento la popolazione dell’Europa non aveva fatto che diminuire costantemente. Dalla metà del XV secolo cominciarono ad avvertirsi segnali di ripresa che si fecero progressivamente diffusi fino a consolidare una fase di crescita, lenta ma costante, che non conobbe battute di arresto sino ai primi decenni del XVII secolo. Il miglioramento dell’alimentazione aumentò la resistenza alle malattie e alle avversità climatiche. Le epidemie cominciarono a farsi meno virulente e a mietere meno vittime. Anche il tasso di natalità mutò di segno: nella regione di Lione, per esempio, il numero dei figli sopravvissuti passò da una media di 2 nel 1430 a una di 4-5 nel 1480. Il recupero demografico fu più precoce in Spagna e in Italia, più tardivo in Francia e in Inghilterra. Alcune regioni recuperarono pienamente i livelli demografici dell’inizio del XIV solo dopo la metà del XVI secolo, come in Italia dove si riattinse l’apogeo di circa 12,5 milioni probabilmente solo alla fine del secolo, mentre altre dovettero attendere l’inizio del XVIII secolo. La ripresa diede luogo anche a una redistribuzione della popolazione, come avvenne in Italia, dove il peso demografico del Mezzogiorno si fece più consistente, vivendovi un italiano su tre. Le città meridionali diventarono tra le più popolose del continente: Palermo, Messina, Catania e soprattutto Napoli, che sfiorò i 200.000 abitanti. Anche Roma, che non contava più di 25/30.000 abitanti prima della peste nera, raddoppiò ad almeno 50.000 nel 1527. Recuperi analoghi ebbero anche Firenze, che passò dai 37.000 abitanti del 1427 ai 60.000 del 1552, e altre città. Anche la ripresa economica fu più marcata in alcune regioni europee rispetto ad altre. Nel settore agricolo l’Olanda, la Lombardia e l’Inghilterra meridionale svilupparono un sistema integrato di colture e allevamento progredito per l’epoca. Base era un avanzato regime idraulico che consentiva l’irrigazione dei prati e la coltivazione dei foraggi (fieno e biade) che nutrivano un bestiame allevato in stalle e destinato a fornire concime e prodotti (latte, formaggio e carne) per i mercati urbani. Prati irrigui e ben concimati consentirono pratiche di avvicendamento delle colture che incrementavano il rendimento dei raccolti e prevenivano l’isterilirsi dei suoli. Al contrario, le regioni che si erano aperte all’allevamento brado e transumante di ovini (che, a differenza dei bovini, si nutrono anche delle radici) andarono incontro all’impoverimento a lungo termine dei terreni, come fu il caso delle aree meridionali dell’Italia e della Spagna. Nel corso del XV secolo si accentuò la trasformazione del mercante da negoziatore impegnato in prima persona nei commerci a lunga distanza, come era stato per tutto il XIII secolo, a figura sedentaria a capo di grandi compagnie con filiali estere operanti non più solo nel traffico delle merci ma anche nel cambio del denaro, nella produzione manifatturiera e negli investimenti fondiari. Un’organizzazione del genere consentì ai mercanti fiorentini di superare i fallimenti di metà Trecento e di tornare a essere protagonisti a livello internazionale con banchi come quelli degli Alberti, degli Strozzi e dei Medici. Il caso più eclatante è quello dei tedeschi Fugger, che cominciarono la propria attività come commercianti di tessuti ad Augusta nel 1368, per poi operare come mercanti e banchieri su scala europea, e diventarne i maggiori proprietari di miniere d’argento e rame: ricchi a tal punto da poter finanziare l’elezione imperiale di Carlo V d’Asburgo nel 1519. La lunga fase di crisi attraversata dall’Occidente europeo coincise con l’avvio del periodo di fioritura artistica, letteraria, architettonica che va sotto il nome di Rinascimento. A prima vista, la coincidenza potrebbe sembrare contraddittoria: come si concilia una depressione economica con una rinascita culturale? Le spese in opere artistiche, apparentemente voluttuarie, non costituivano però un ripiego rispetto a investimenti che non rendevano più come prima, bensì un investimento di profitti in un’economia fiorente. La concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi benestanti permise loro di diversificare le proprie attività economiche e di investire in cultura. Essi alimentarono una forte domanda di beni di lusso: palazzi, chiese, cappelle che necessitavano di arredamenti e prodotti di qualità e di gusto (mobilio, oreficeria, arazzi, pitture, sculture e altre arti minori). Le élites mercantili e nobiliari italiane furono all’avanguardia del fenomeno. Il papato e la società cristiana Elaborazioni ideologiche Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo maturò non solo sul piano istituzionale ma anche su quello ideologico il declino delle concezioni universalistiche del papato e dell’impero. In occasione del conflitto con il re di Francia, Filippo IV, su chi avesse diritto di imporre le tasse sul clero e sui beni della Chiesa francese, il papa Bonifacio VIII portò all’estremo gli ideali teocratici dei suoi predecessori. Nella bolla Unam sanctam del 1302 egli riaffermò che il potere temporale era affidato ai laici <<secondo il comando e la condiscendenza del clero>> e la necessità che <<ogni creatura umana>> si sottomettesse all’autorità del <<pontefice di Roma>> per la propria salvezza. Di conseguenza, ogni potere civile doveva subordinarsi al potere spirituale. Ma la nuova realtà politica europea, dove l’antagonista del papato non era più imperatore bensì un re forte del legame con i propri sudditi, rese anacronistiche tali pretese. Le aspirazioni teocratiche furono irreversibilmente ridimensionate e subirono la contestazione non più solo dei sostenitori imperiali ma anche di quelli monarchici. Nonostante la crisi seguita all’interregno imperiale e al debole governo di Rodolfo I d’Asburgo, si mantenne viva l’idea della necessità di un’autorità civile superiore, autonoma rispetto a quella pontificia e garante della pace e della giustizia di tutti i cristiani. In occasione della discesa in Italia di Enrico VII nel 1310-1313, intenzionato a restaurare l’autorità imperiale pacificando la penisola, Dante Alighieri sostenne la necessità di un impero universale, la cui autorità derivava direttamente da Dio e agiva per il bene del mondo. Il fallimento della spedizione di Enrico VII non spense l’ideale imperiale. Esso trovò nuove argomentazioni nel pensiero del francescano Guglielmo di Ockham e del teologo Marsilio da Padova, entrambi consiglieri dell’imperatore Ludovico di Baviera. Guglielmo concepiva la Chiesa come una società spirituale nella quale era negato al papa il potere politico derivante da Dio ma poggiante sul consenso del popolo, che ne delegava le prerogative al principe senza bisogno di alcuna legittimazione da parte dell’autorità religiosa. Lo stesso Ludovico fu incoronato, nel 1328, ad opera di un laico, rappresentante del popolo di Roma. Filippo IV il Bello, re di Francia (1285-1314), può essere considerato il sovrano che prima di altri comprese le conseguenze della crisi dei poteri universali e le opportunità che si aprivano per una nuova legittimazione di quelli monarchici. Nel conflitto che lo oppose a Bonifacio VIII egli ricorse agli <<stati generali>> per garantirsi il sostegno delle diverse componenti del regno e si circondò di giuristi che teorizzarono l’autonomia del potere regio da quello pontificio. In una violenta campagna scandalistica contro il papa, uno di essi, Pietro Dubois, giunse addirittura ad accusare Bonifacio VIII di eresia per avere osato attribuirsi il potere temporale. Un altro, Guglielmo di Nogaret, rompendo con la tradizione che vedeva la cristianità inquadrata da sovranità universali, affermò che i re non riconoscono alcun superiore al di sopra di loro (<<rex superiorem non recognoscit>>), nemmeno l’imperatore, i poteri e diritti del quale appartengono al re all’interno del proprio regno (<<rex in regno suo est imperator>>). Ogni residua pretesa universalistica era così definitivamente rigettata. Il papato ad Avignone e lo scisma Al culmine dello scontro tra Bonifacio VIII e Filippo IV, il re fu scomunicato dal papa. Su consiglio di Guglielmo Nogaret, uno dei giuristi che orchestrava la campagna di discredito del pontefice, il re concepì il disegno di condurre il papa davanti a un tribunale francese per sottoporlo a giudizio di lesa maestà. Nel 1303 una spedizione guidata dallo stesso Nogaret e appoggiata dalla famiglia romana dei Colonna, nemica storica dei Caetani cui apparteneva Bonifacio VIII, lo raggiunse ad Anagni, in quel momento sede della curia, dove fu coperto di insulti e arrestato. Il papa morì pochi giorni dopo, ma l’episodio dimostrò che le pretese teocratiche dei pontefici non avevano più alcuna possibilità di concreta realizzazione. Nonostante lo scandalo sollevato, infatti, il re riuscì a far eleggere papa nel 1305 il suo candidato Bertrand de Got, vescovo di Bordeaux, salito al soglio con il nome di Clemente V. Temendo un’accoglienza ostile da parte dei romani, nel 1309 il nuovo pontefice trasferì la curia pontificia ad Avignone, dove sarebbe rimasta fino al 1377. La lunga permanenza della curia ad Avignone rafforzò i rapporti tra il papato e il regno di Francia, consolidando l’asse <<guelfo>> che dominò la scena politica del Trecento facendo perno anche sulle corti di Parigi e di Napoli angioina. I sette pontefici del periodo furono tutti francesi, come lo fu la maggior parte dei cardinali da loro nominati: 112 su 134, di cui ben 96 originari della Francia meridionale. Anche il personale di curia fu quasi esclusivamente francese. Lontana dai conflitti tra le grandi famiglie romane che spesso l’avevano paralizzata, la curia poté sviluppare un efficiente apparato amministrativo che consentì ai pontefici di rafforzare la natura monarchica del loro governo sulla Chiesa, riducendo l’autonomia delle istituzioni ecclesiastiche locali. Fu in primo luogo la nomina non solo dei vescovi, ma anche degli abati e delle badesse a essere accentrata, insieme con l’assegnazione degli uffici e dei benefici minori (arcipreture, parrocchie, etc.): ogni beneficio era fonte di cospicui introiti fiscali per il papato. Gli uffici di curia furono rafforzati. La cancelleria, l’organo che produceva e conservava i documenti di amministrazione e i governo della Chiesa, fu riordinata e ampliata nel 1331. L’accentramento pontificio riguardava anche le materie disciplinari e giurisdizionali. I tribunali di curia avocarono una grande quantità di cause fino ad allora delegate ai tribunali vescovili. A risolvere le questioni più spinose furono inviati in loco i cardinali <<legati>>, che in alcuni casi si posero anche personalmente a capo delle milizie mercenarie del papa. Le spese politiche e amministrative del papato crebbero enormemente. Per questo motivo la camera apostolica divenne l’ufficio di curia più importante, gestendo con scritture contabili correnti la mole crescente di tasse, sussidi e cespiti raccolti nella cristianità attraverso un’estesa rete di nunzi e collettori, tra i quali ebbero un peso sempre più forte i banchieri italiani ed europei. Le entrate di cui i papi avignonesi poterono disporre ne fecero la quarta potenza finanziaria d’Europa dopo i regni di Francia, Inghilterra e Napoli. La residenza ad Avignone fu caratterizzata anche dall’accentuarsi di fenomeni di corruzione che affliggevano la curia pontificia. Particolare sviluppo ebbe la vendita delle indulgenze, cioè della remissione delle pene temporali inflitte ai peccatori. In precedenza erano state concesse a compimento di preghiere, di pellegrinaggi, come nel caso del giubileo indetto da Bonifacio VIII, o della partecipazione alle crociate. Dal XIV secolo fu sempre più facile ottenerle, bastando una semplice elargizione in denaro, per procurarsi il quale i pontefici non esitarono a concederle senza ritegno. Queste pratiche contribuirono alla perdita di
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