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Riassunto manuale di storia romana dalle origini a Teodosio il Grande, Sintesi del corso di Storia Romana

Questo manuale tratta della fondazione di Roma, età monarchica, dall'egemonia mediterranea alla fine della Repubblica, le istituzioni romane, mos maiorum, organizzazione delle province, impero, propagazione del cristianesimo e caratteristiche delle comunità, tetrarchia e regno di Costantino, fino al codice teodosiano.

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 22/02/2023

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Scarica Riassunto manuale di storia romana dalle origini a Teodosio il Grande e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! PARTE PRIMA Roma nel Lazio e in Italia 1 : Roma Arcaica “E’ oscura la storia romana” Cicerone, La Repubblica, “Di quei tempi sono noti soltanto i nomi dei re”. Gli autori antichi erano consapevoli dell’impossibilità di avvicinarsi alla verità storica su Roma arcaica, sull’epoca delle origini. Varietà di versioni. Per lo storico Tito Livio questo era dovuto all’eccessiva antichità e alla scarsa documentazione, così anche per Plutarco e Dionigi di Alicarnasso (distanza temporale da queste che sono le nostre fonti letterarie principali, vissute tra il tardo I sec a.C. e gli inizi del secondo sec d.C.). Dalla fine dell’Ottocento si confrontano due prospettive principali sull’attendibilità della tradizione sulla Roma delle origini: l’una scettica sulla possibilità di conoscere veramente le origini dell’Urbs, chiamata dagli avversari ipercritica, l’altra crede invece che la tradizione leggendaria possa cogliere nuclei significativi di storicità, che meriti fiducia come memoria di realtà lontane e che sia punto di partenza per conferme di carattere linguistico o archeologico. I.I La nascita della città a seguito di un atto di fondazione Seconda la vulgata, risale alle peregrinazioni di Enea e dei suoi familiari dopo la guerra di Troia, giunti sulle coste del Lazio dove Enea si sarebbe unito ad una famiglia reale latina e avrebbe fondato Lavinio. Questa leggenda (influenzata dall’epica greca) fu combinata con il motivo nazionale romano molto antico (risalente al VI/V sec a.C.) dei gemelli Romolo e Remo allattati dalla Lupa e della fondazione della città da parte di Romolo. Guerra di Troia però risale all’inizio dell’XII sec a.C., incoerenza cronologica risolta con la creazione della città attraverso le generazioni dei re di Albalonga, città stabilita nel Lazio da Ascanio figlio di Enea. In epoca augustea viene stabilita la data della fondazione di Roma con la cronologia canonica dell’antiquario tardorepubblicano Varrone del 753 a.C. Il 21 aprile cadeva il giorno natale di Roma, si festeggiavano sul Palatino le feste (Palilia) in onore della divinità delle greggi Pale. I gemelli sarebbero nati dalla principessa Rea Silvia di Albalonga e dal dio Marte: Venere (madre di Enea) e Marte (padre di Romolo) collegano la genesi di Roma alle forze divine di amore/pace e guerra. Lasciati lungo il Tevere, ai piedi del Palatino, salvati e allattati dalla lupa e cresciuti da pastori, da adulti avrebbero deciso di creare una nuova città nel luogo dove erano stati lasciati: tragica contesa fratricida per decidere le modalità della fondazione. A Romolo sono attribuiti procedure giuridiche e rituali religiosi formalizzati, come il tracciato del perimetro sacro quale limite della città (il pomoerium) e i sacrifici. Avrebbe anche redatto una costituzione sul modello degli ecisti (legislatori delle città greche), erigendo una barriera difensiva, avviando la monumentalizzazione e l’organizzazione politica della città. Roma sarebbe stata creata ex nihilo sul suolo vergine del Palatino e si sarebbe ingrandita accorpando le altre vette urbane. Popolamento connesso con l’istituto dell’asilo e con l’episodio del ratto delle Sabine è data dalla convinzione antica che Roma fosse già società aperta e multietnica. Archeologia fondamentale per le ricerche sulla Roma arcaica: gli scavi dello scorso secolo provano che il motivo di Enea in Italia circolava già nel VI sec a.C. e che successivamente al troiano furono riservate forme di culto come eroe e padre fondatore indigeno. Probabile è l’appartenenza allo stesso periodo del bronzo della Lupa Capitolina, oggi nel Palazzo dei Conservatori a Roma, con i gemelli Romolo e Remo. Poi verso la sommità del Palatino sono stati individuati i resti di una palizzata di legno e soprattutto, più in basso, di un tracciato di mura e altri contesti archeologici in parte databili al 730 a.C. (forse proprio parte delle mura del Pag. 1 a 113 Palatino di cui la leggenda ci parla). Prevale però atteggiamento molto prudente sul fatto che ci si trovi dinnanzi a un caso di “conferma” archeologica della leggenda. I.2 La città dei sette colli e il Tevere: il modello di origine del sinecismo Presenza del Tevere, vicinanza al mare, posizione favorevole alle comunicazioni con Lazio Etruria e Campania: l’organizzazione di una comunità in questo sito fu dettata anche dall’intuizione delle sue potenzialità geografiche ed economiche. Se la tradizione vuole che dal nucleo primitivo del Palatino si sia sviluppato un progressivo allargamento dell’abitato, l’origine della città è più considerata in termini di sinecismo: tracce di insediamenti a ridosso del Tevere ma anche sulle sette vette maggiori – Palatino, Aventino, Celio, Esquilino, Viminale, Quirinale, Campidoglio – e risalgono alla prima età del ferro, verso il 1000 a.C. con frammenti di ceramiche, fori per pali di capanne, tombe a incinerazione. Dopo il IX sec a.C. anche oggetti di piccole dimensioni, armi, sepolture a inumazione. Il sito di Roma era dunque occupato in vari luoghi prima dell’VIII sec a.C. e l’avvio di un processo di fusione di strutture di villaggio separate sui colli si sarebbe completato in un agglomerato unitario definibile come città in senso antico (polis, civitas), dotato di un proprio ordinamento politico, di monumenti pubblici e spazi civili e religiosi per la vita collettiva. Indizi: cerimonie religiose, in particolare la antichissima processione del Septimontium (da septes montes secondo Varrone) in età storica festeggiata l’11 dicembre, a memoria della originaria pluralità delle parti costitutive della città. E’ verosimile l’ipotesi di una trasformazione del Palatino in polo principale e propulsivo, capace di aggregare le installazioni sparse sulle altre sommità. I.3 Roma latina e le popolazioni dell’Italia: identità culturali e interazioni economiche La comunità formata a Roma entrò in contatto con le varie realtà del Latium protourbano. Lo storico Plinio il Vecchio (I sec d.C.) stilò un elenco di una serie di centri ed etnie latini (oppida, populi Albenses) che si trovavano in età antichissima sul monte Albano per un pasto sacrificale a base di carne: Roma è assente a questo evento, ma entrerà presto a far parte della confederazione di comunità laziali chiamata Lega Latina, dotata di organismi propri, un regolamento interno e un culto comune. Due notizie sembrano confermare il tutto: Re Servio Tullio che avrebbe tentato di imporre come centro federale il nuovo tempio di Diana sull’Aventino, e che intorno al 500 a.C. i latini avrebbero tentato di allontanare Roma dalla confederazione. La latinità dei romani è naturalmente evidente nella lingua usata, il latino (sermo latinus), dialetto destinato a prevalere su quelli affini delle comunità stanziate nel Lazio primitivo. La nostra conoscenza del latino arcaico si basa su iscrizioni del VI sec a.C. o da elementi linguistici trasmessi indirettamente da testi giuridici, religiosi o sul mondo contadino. In Italia: predominanza di gruppi indoeuropei. Dopo le dinamiche migratorie del II millennio, già dall’età del ferro (IX/VIII sec a.C.) la Penisola risulta abitata da culture ben distinte (segni e alfabeti), differenziazione ancora più evidente dal V sec a.C.: l’area cisalpina era abitata da tribù alpine, venetiche, liguri, celtiche, e nel versante padano si trovavano centri di tipo villanoviano, presenti anche nell’Italia centro-meridionale. In continuità con quest’ultimi, si stanziarono gli Etruschi: in Padania, Toscana, Umbria occidentale, alto Lazio e Campania. Intraprendente ed economicamente sviluppato, tra il VII e VI sec a.C. il popolo etrusco (su base linguistica ritenuto non indoeuropeo) si era costituito in città-stato indipendenti riunite in forme confederative panestrusche a scopo religioso. Centri di rilievo: Volsinii, Tarquinia, Veio, Orvieto. Falisci a nord, sabini a nord-est di Roma, piceni sulle coste medio-adriatiche. “Italici” (greco italikoi), all’inizio solo abitanti della Calabria, poi tutti i popoli con dialetti osco-umbri, definiti anche sabellici: volsci nel Lazio meridionale, Equi nel Lazio centrale, Sanniti, Lucani, Bruzii più a sud. In Puglia il principale raggruppamento etnico furono gli Iapigi (messapi, salentini, peucezi, dauni). Pag. 2 a 113 I.5 La fine della monarchia nel quadro “internazionale” di fine VI-inizio V secolo Nel 509 a.C. la monarchia cadde, con l’espulsione dei re. Al loro posto venne introdotto un regime repubblicano, il quale si dette come principale carica un collegio di due magistrati supremi chiamati CONSOLI, annuali ed eletti dai comizi centuriati. Questa situazione è ricondotta – dalla storiografia antica e dalla lista divenuta ufficiale dei consoli romani, i Fasti Consolari – all’atto della fondazione del nuovo ordine costituzionale (509 a.C.), ma si stabilizzò solo in una fase successiva. Per fornire una causa morale alla svolta politica, l’annalistica (specialmente tramite Livio) ci dà come motivazione del complotto contro il regnante Tarquinio il Superbo la reazione all’oltraggio sessuale commesso da suo figlio ai danni della nobile Lucrezia. Forte opposizione all’ultimo dei Tarquini, anche nell’ambiente di corte (parenti del re Bruto e Collatino, i due “liberatori”), corruzione e arroganza del potere, maturazione dei presupposti per la sostituzione anche a Roma di un governo tirannico con realtà costituzionali di tipo oligarchico. Anche ragioni di politica estera: l’indebolimento dello stato romano forse costrinse il Superbo a chiedere aiuto alla monarchia della etrusca Chiusi, che finì con l’impadronirsi della città e si trasformò in una minaccia per le realtà latine tutte, è verosimile che il sovrano di Chiusi, Porsenna, abbia attaccato ed espulso da Roma il suo ultimo re. Lo sfondo politico si completa con un conflitto dei latini, staccati da Roma durante la crisi politica del 509 e alleati con il tiranno Aristodemo della magnogreca Cuma contro la stessa Chiusi. Ne conseguì l’eliminazione di Porsenna e l’instaurazione definita a Roma del governo repubblicano. Informazioni risalenti ad una Cronaca Cumana confermano il tutto anche se collocano al 504 la battaglia finale presso il “capoluogo” latino di Aricia. Roma in questo periodo (calate celtiche nell’Italia settentrionale, nascita della democrazia ateniese, rafforzamento di Sparta, conquiste persiane nel Mediterraneo orientale) aveva già la fama di potenza in espansione. La popolazione dell’Urbe alla fine del VI sec a.C. è stata calcolata tra i 25 e i 40000 abitanti. Per confronto, Atene periclea raggiungeva i 140000 abitanti. Al 508 a.C. è fatta risalire la prima notizia storica di rapporti diplomatici intrattenuti con la città-stato che diverrà una delle sue più agguerrite rivali per l’egemonia mediterranea: CARTAGINE. La città, ubicata nei pressi dell’attuale Tunisi, di fondazione punica, attiva e ricca, competeva con città greche per la colonizzazione della Sicilia e il controllo delle coste sarde, fondamentali per i commerci occidentali. Suo obiettivo era farsi amica Roma, già temibile e proiettata in un contesto politico ed economico internazionale. I termini del partnerato sono riportati dallo storico greco di II secolo a.C. POLIBIO (Storie, III, 22), con interessanti notazioni storiografiche: “il primo trattato tra romani e cartaginesi è dell’epoca di Lucio Giunio Bruto e Marco Orazio, i primi consoli che furono eletti dopo la fine della monarchia, dai quali fu anche consacrato il tempio di Giove Capitolino… Qualora un romano giunga in Sicilia, nella parte controllata dai cartaginesi, tutti i suoi diritti siano uguali a quelli degli altri.” 2 : Dialettica sociale e lotta politica nella prima età repubblicana Negli anni del nascente stato repubblicano, Roma aveva raggiunto un posto di primissimo piano nello scenario politico ed economico tirrenico. La lotta tra patriziato e plebe (che per gli studiosi va dal 509 a.C. agli inizi del III sec a.C.) si animò attorno a due problemi: le difficoltà dei settori meno protetti dalla cittadinanza; le aspettative dei ceti emergenti, deluse dal monopolio dei clan gentilizi sulle massime cariche politiche e religiose. Evoluzione delle dinamiche politiche interne che porteranno al rinnovamento del Senato che guidò Roma nell’epoca delle grandi conquiste ultramarine. Pag. 5 a 113 2.1 Le prime istituzioni repubblicane “E così lo Stato cadeva in balia dell’infima feccia e nelle turbolenze, poiché ognuno cercava per sé l’imperio e il sommo comando. Ma ecco alcuni insegnarono ad eleggere i magistrati, ed istituirono il diritto affinché si procedesse a norma di legge.” (Lucrezio, I sec a.C., La natura delle cose V) Anarchia o no, la transizione dal regime dei re alla collegialità magistratuale fu rapidissima. Le nostre fonti letterarie usano a volte, riguardo la terminologia istituzionale, vocaboli anacronistici e convenzionali dei quali non potevano fare a meno per evitare confusioni: come per i primi magistrati, denominati probabilmente praetores ma ricordati come consules, in quanto quest’ultimi furono in epoca storica l’emblema della “libertà” repubblicana. I consoli otterranno poteri e prestigio altissimi, il possesso del comando militare (imperium) e il diritto di convocare le assemblee popolari e il senato. Politica durante la Repubblica = sistema di “pesi e contrappesi”: annualità della funzione, controllo reciproco fra magistrati, forza di pressione del senato, regole, periodiche elezioni, vita pubblica nel foro. L’ideologia della COLLEGIALITA’ per alleviare l’iniziale concentrazione di responsabilità nelle mani dei consoli fu, e continuerà ad essere, contrapposta per tutta la repubblica al governo di uno solo. In “Vita di Publicola”, Plutarco è attribuita a Valerio Publicola, padre fondatore della repubblica romana, la convinzione che la morte fosse la giusta pena per chi aspirasse alla tirannide. Pena capitale per perduellio, ossia alto tradimento, a Spurio Cassio, nel 486 a.C., che si era già riunito con i membri della Lega Latina e voleva restaurare il regime monarchico. Sin dagli esordi del nuovo regime, occorrevano situazioni di emergenza militare o gravi rischi di sedizione interna perché si ammettesse, su nomina dei consoli, il cumulo di poteri su un solo uomo: il dictator. Tra le cariche più antiche, il dittatore era chiamato a restituire le proprie prerogative una volta normalizzata la situazione e comunque non oltre i sei mesi di mandato. 2.2 Patrizi e plebei Fra la fine del VI e l’inizio del V sec a.C. in cronologia tradizionale vi fu una generale recessione economica e una crisi sociale nell’Italia centrale che investiva direttamente Roma. Le guerre inasprirono tale contesto. Inoltre, le istituzioni politiche repubblicane attiravano quei plebei che avevano raggiunto uno status sociale adeguato per nutrire aspirazioni di ascesa. Non più tardi del 485 a.C. (come accertato dai Fasti consolari) le istituzioni vennero monopolizzate dai maggiori gruppi dell’aristocrazia gentilizia, che nello stesso tempo iniziarono una politica di chiusura endogamica. Gaetano De Sanctis in Storia dei romani definì questa fase “serrata del patriziato”. Di volta in volta i patrizi sono stati considerati una casta formata dai discendenti dei romani membri delle curie originarie, oppure dai senatori, i proprietari terrieri, i patroni, i cavalieri, cioè la parte più prestigiosa e nobile del primitivo esercito. I patrizi (associazione concettuale con il latino patres, che indicava i senatori) erano i principali detentori del potere politico. Almeno per larga parte del V secolo il senato fu sotto il loro stretto controllo. In virtù di loro speciali prerogative di stirpe, avevano l’esclusiva dei sacerdozi e dei riti con i quali si assicurava la conservazione della pax deorum (tra popolo romano e divinità) e si sondava la volontà divina. I patrizi costituivano anche la parte più solida e rappresentativa dei ricchi possidenti. Elemento di complessità ulteriore per stabilire con certezza se una gens fosse patrizia o plebea: rami familiari plebei potevano essere imparentati con gentes patrizie dopo alleanze matrimoniali. La definizione più semplice di plebeo è, in negativo, quella di non-patrizio. La plebe di Roma era in molti casi formata da coloro che si trovavano in posizione di dipendenza o di subordinazione rispetto ai patrizi: clienti, indebitati suscettibili di cadere in una sorta di prigionia del creditore, lavoratori e piccoli proprietari terrieri, soldati e altri cittadini, spesso dignitosi o anche benestanti e in ascesa. I plebei costituivano una Pag. 6 a 113 articolazione sociale di “deprivati”, dai casi di assenza dei minimi diritti alla esclusione dalle cariche pubbliche più prestigiose. Con obiettivi e senso di appartenenza comuni, adottarono in alcune occasioni la strategia della SECESSIONE, con la quale instaurarono una sorta di stato nello stato, esemplificato su quello ufficiale ma antagonistico ad esso. 2.3 L’“Aventino” Nel 494 a.C. il malessere della parte più indifesa della cittadinanza dinanzi alla crisi socioeconomica e le tensioni con la gestione della politica da parte dei patrizi indussero i plebei a un gesto provocatorio e sorprendente: ritirarsi sull’Aventino, colle al di là del pomerio e destinato in breve a divenire area di popolamento plebeo; là essi costruirono anche un tempio consacrato ad una loro “triade” (Cerere, Libero e Libera, contrapposta a quella ufficiale del Campidoglio: Giove, Giunone, Minerva). Non solo lacerazione dell’unità politica, ma anche crisi della sopravvivenza dell’esercito: parte della plebe protestataria era costituita da cittadini-soldati armati alla leggera. Alla minaccia di astensione alla leva avevano già fatto ricorso i cittadini indebitati che il nexum, preciso istituto, asserviva al creditore in caso di insolvenza. Roma si trovava allora in uno stato di belligeranza con le popolazioni laziali di equi, volsci ed ernici, e il gruppo dirigente patrizio sentiva la necessità di mantenere unito il corpo sociale per garantire l’efficacia dell’impegno militare. La tradizione (Livio, Storia di Roma) ricorda ambasceria del senatore Menenio Agrippa presso la plebe che ha condotto ad un negoziato: i plebei accettarono di rientrare nella res publica a patto di avere a disposizione un’assemblea propria e alti magistrati eleggibili soltanto tra uomini della loro stessa estrazione. L’assemblea, denominata concilium plebis, era ripartita sulla base delle tribù territoriali di residenza e doveva elaborare gli indirizzi politici e prendere specifiche decisioni, i plebisciti, dal latino “plebis scita” a nome della collettività plebea nonché di eleggerne i massimi rappresentanti. Quest’ultimi, i tribuni plebis, erano in grado di porre il veto (intercessio tribunicia) alle decisioni dei consoli e di mettere sotto processo e persino condannare a morte chiunque ledesse i diritti della plebe. Si istituzionalizzò così la distinzione tra PLEBS e POPULUS, termine quest’ultimo comprensivo di tutta la cittadinanza romana. 2.4 Religione e diritto Nell’epoca arcaica a Roma l’unico campo nel quale esistevano leggi rese pubbliche (opera dei primi re, così il Niger Lapis) era quello sacro (sacrum, fas), mentre per la regolamentazione legale delle relazioni e comportamenti sociali nella città (ius) i romani procedevano in virtù di norme consuetudinarie controllate dai pontefici massimi (suprema carica sacerdotale, custodia del calendario religioso, redazione di una schematica cronaca annuale, prima forma di annales). Era ai patrizi che spettava la rivestitura dei principali sacerdozi, organizzati in sodalizi: per l’epoca più antica i pontefici, gli auguri, i duumviri (poi decemviri) sacris faciundis, collegio preposto alla conservazione dei Libri Sibillini, poi i salii e i feziali, che mantenevano in ordine le relazioni tra religione e guerra, i flamini, che dedicavano la loro vita al culto di un solo Dio (di Giove, di Marte..). Infine, grande prestigio era delle vestali, le vergini preposte al Tempio di Vesta, la divinità custode del “focolare” dello stato romano. A Roma fu sempre stretto il legame tra vita comunitaria e religione. In epoca storica vi era un fittissimo calendario di festività religiose celebrate pubblicamente, e i senatori e magistrati erano spesso anche sacerdoti che, mediante il contatto con le divinità, erano in grado di attribuirsi parte dei meriti della prosperità collettiva e di orientare l’iniziativa politica. Il caso più emblematico sarà quello degli auguri: uno solo di loro poteva porre fine o impedire le assemblee popolari con il semplice annuncio: alio die, “che si tengano un altro giorno” (Cicerone, Le leggi II). 2.5 La legge delle Dodici Tavole Pag. 7 a 113 3 : Guerra e organizzazione della conquista in Italia 3.1 Roma e l’Etruria meridionale Durante le guerre fra Roma e le tribù laziali, condotte per il bottino e il recupero o la conquista di delimitate zone, Roma si misurò a settentrione con l’etrusca VEIO, a meno di 20 km, uno dei principali centri economici e artistici del mondo etrusco, sulla riva destra del Tevere. Negli ultimi decenni del V secolo lo scontro assunse il profilo di un conflitto tra potenze regionali avente quale posta in gioco il dominio su di un’area strategica per le comunicazioni e i commerci. Roma, vincolata agli interessi della Lega Latina di cui faceva parte, riuscì a schiacciare Fidene, città latina a metà tra Veio e Roma, strappandola alla alleanza con la rivale (426 a.C.) e assicurandosi il controllo delle piste viarie utili al trasporto del sale delle foci del Tevere verso le aree interne. Dopo venti anni regolati da una tregua (indutiae) i romani posero sotto assedio Veio. Tradizione annalistica ispirata dall’epopea greca: l’assedio, iniziato nel 406 a.C. sarebbe durato dieci anni, come la guerra di Troia, e come questa sarebbe stata risolta da uno stratagemma ideato dal dittatore Marco Furio Camillo. La città è stata presa grazie allo scavo di una galleria sotterranea dentro la quale sarebbe passato l’esercito romano. L’annessione dell’area veiente consentì ai romani di istituire quattro nuove tribù rustiche. Lotti di terra assegnati ai cittadini, e superficie del territorio romano estesa a circa 2200 kmq. A breve distanza dalla presa di Veio, tribù di Galli senoni guidate da Brenno sconfinarono affamate di terre al di là degli Appennini e infine discesero verso Roma. Forze romane e latine sconfitte sul fiume Allia, affluente del Tevere, il 18 luglio, data che diventò dies Alliensis, giorno funesto nel calendario romano che aprì ai nemici le porte dell’Urbe. Il saccheggio e l’incendio dei galli (390 a.C. per Varrone, 387 a.C. per autori greci) furono di modeste dimensioni (scavi archeologici non li hanno comprovati in modo definitivo). Il 390 a.C. fu ingigantito dalle fonti, che attribuirono a quell’evento la perdita di quasi tutta la documentazione “d’archivio” relativa ala storia delle origini e della prima epoca repubblicana. Immaginario collettivo: Galli diventarono uno dei nemici più temuti dai romani = metus Gallicus. Fonti leggendarie riportano come fu garantita la salvezza di Roma e di luoghi-simbolo come il Campidoglio e su come il già vincitore di Veio M.Furio Camillo avrebbe portato i romani alla riscossa. Arredi per i riti sacri e delle vergini vestali furono trasferiti a Cere (odierna Cerveteri, da Caere vetus), centro dell’Etruria marittima, fino a che non fu possibile il loro ritorno nell’Urbe. 3.2 La fine della Lega latina Dalla vittoria su Veio al predominio incontrastato sul resto della Penisola centromeridionale, in area etrusca, sannitica e magnogreca, passò poco più di un secolo. Un secolo di intensità eccezionale in cui lo stato repubblicano e il suo senato dovettero fare i conti con la crisi irreversibile dei rapporti con la Lega latina, insofferente con Roma per il mancato rispetto dei limiti imposti alla sua leadership dal foedus Cassianum (trattato di pace, esercito comune, i cittadini potevano, all’interno delle città alleate, spostarsi e commerciare liberamente). Anche altri popoli presero iniziative antiromane, forse incoraggiati dalla “catastrofe gallica”, prova della vulnerabilità di prova. Nonostante i conflitti sociali interni, Roma tra il 390 e 381 a.C. vinse contro volsci ed equi e incorporò la città di Tuscolo, cui fu garantita la piena cittadinanza; dal 362 a.C. ebbe la meglio su Preneste, Tivoli e comunità latine verso sud ed est; fra il 358 e il 351 a.C. guerra contro la potente Tarquinia, Falerii e una coalizione etrusca di cui fece parte la stessa Cere (che nel 353 a.C. fece pace separata con Roma e ottenne la cittadinanza senza completi diritti politici); dal 360 a.C. Roma fu impegnata da nuove incursioni galliche lungo le coste laziali. Pag. 10 a 113 Il completamento del dominio sul Lazio si realizzò a seguito di un’aspra guerra combattuta da Roma contro i latini ribellatisi negli anni 340-338 a.C. Le città latine erano compatte nell’aspirazione a ottenere maggiori riconoscimenti da Roma, secondo la dichiarazione di Lucio Annio all’assemblea dei latini, dei quali era uno dei rappresentanti: “.. se l’alleanza significa uguaglianza di diritti, se oggi possiamo gloriarci di essere consanguinei dei romani, cosa di cui un tempo ci vergognavamo.. perché non si stabilisce una parità assoluta? Perché uno dei consoli non vien dato dai latini?” (Livio, Storia di Roma VIII) L’insurrezione fallì. Vi fu lo scioglimento di fatto della Lega, e continuarono a essere dedotte coloniae latinae, ma la denominazione ora indicava un tipo di statuto giuridico, non implicava più una compartecipazione collettiva, di Roma e delle comunità latine, alla fondazione (colonizzazione latina prodotta dalla esclusiva volontà romana). La definitiva sottomissione dei volsci (a sud-ovest) contribuì a pacificare il settore costiero tirrenico, dove prima Anzio e poi Terracina furono costituite coloniae romanae. L’obiettivo di Roma era ormai l’area campana, con una corrente senatoria favorevole a intervenire in quelle zone del sud dal grande prestigio culturale e artistico, note per la fertilità agricola e potenzialità commerciali. 3.3 Le guerre sannitiche Al successo romano durante la guerra latina avevano contribuito i sanniti, confederazione di tribù osche insediate in villaggi dell’area appenninica campana e abruzzese. Società di forte impronta guerriera, sin dalla fine del V secolo a.C. avevano preso iniziative aggressive verso le regioni campane più pianeggianti. Per questo Roma nel 354 a.C. aveva stipulato con loro un trattato di spartizione di sfere di influenza geopolitica, fra Lazio e Campania, che aveva nel fiume Liri il suo ideale confine. Infranto questo accordo tattico, le TRE guerre durate quasi mezzo secolo fra Roma e i sanniti resero Roma una delle grandi protagoniste nelle dinamiche politiche dell’Italia meridionale. Fonte: LIVIO, Storia di Roma. La prima guerra scoppiò quando Capua, attaccata dai sanniti, proclamò la sua resa senza condizioni (deditio) a Roma nel 343 a.C. (Livio, Storia di Roma VII) Nella concezione romana, la protezione di chi rinunciasse alla propria autonomia facendosi parte integrante del corpo della res publica era un principio giuridico e politico fondamentale. La deditio di Capua costringeva perciò Roma ad aiutarla: i romani tentarono prima una soluzione negoziata, fallita, quindi discesero con l’esercito romano e latino in Campania (Livio, Storia di Roma VII). Nel 342 a.C. una sedizione militare a Capua favorì da parte romana la ricerca di un accordo, e le ostilità con i sanniti si chiusero momentaneamente, mentre di lì a breve si sarebbe verificata la ribellione latina del 340-338 a.C. Le due guerre successive, iniziate nel 326 a.C. (casus belli: richiesta di sostegno a Roma da Napoli contro le infiltrazioni sannitiche che avevano occupato Paleopoli, la “città vecchia”), furono caratterizzate per molti anni da combattimenti logoranti su terreni spesso montuosi. Nel 321 a.C. i romani subirono una pesante sconfitta nella gola del Caudio (vicinanze dell’odierna S. Agata dei Goti): le legioni furono costrette a passare fra gli insulti circondati dalle armi nemiche. Livio, Storia di Roma IX, rituale così umiliante per i Romani da diventare proverbio “passare sotto le forche caudine”. Dopo alcuni anni di tregua la contesa si allargò dall’area campano-sannita alla Puglia settentrionale, dove i romani si garantirono il controllo della situazione grazie al sostegno determinante dei gruppi indigeni fino ad allora filosanniti. Preziosa per i romani (per l’accerchiamento dei rivali) fu la rete di stanziamenti militari creata con l’impulso dato alla colonizzazione “latina”: vennero fondate in area apula settentrionale Lucera (314 a.C.), Sessa Aurunca (313 a.C.), e altre ancora. L’evento militare di maggiore portata fu la presa di Bovianum, il centro principale del Sannio, nel 305 a.C. Pag. 11 a 113 All’inizio del III sec a.C. il conflitto, nella sua terza fase, assunse uno sviluppo drammatico: Roma era impegnata su vari fronti di guerra (Etruria, Umbria) e i suoi nemici decisero di unire le forze contro di lei. Prese corpo una grande coalizione, in funzione antiromana, costituita da etruschi, umbri, sanniti, e da un possente esercito di galli transpadani (sospinti verso sud da movimenti di popolazioni celtiche transalpine). Le forze alleate non riuscirono però a coordinare militarmente la loro azione e le imprese dei grandi generali Quinto Fabio Rulliano e Publio Decio Mure produssero due vittorie decisive nella sanguinosa battaglia del 295 a.C. a Sentino (oggi nelle Marche), e nel 293 a.C. nell’altura irpina di Aquilonia (oggi Lacedonia). I sanniti abbandonarono la guerra. Una ribellione dei sabini fu duramente repressa dal console del 290 a.C. Manio Curio Dentato e il loro territorio fu conquistato. Lo stato romano si ampliò ancora di più e nuove tribù furono create (il numero massimo di 35 tribù sarà raggiunto nel 241 a.C. e dopo di allora i nuovi cittadini saranno inseriti esclusivamente in tribù già esistenti). La pacificazione delle aree conquistate richiese ulteriori interventi militari dei romani, e anche verso l’Adriatico e l’area appenninica del Piceno si attivarono processi di romanizzazione, che durante il III e II sec a.C. sarebbero progrediti con forme di colonizzazione comunitaria (Senigallia, colonia romana nel 283 a.C., Rimini e Fermo, colonie latine nel 268 e 264 a.C.), o di concessioni di terra a titolo individuale a cives, alleanze con comunità indigene e galliche, costruzione di collegamenti stradali. 3.4 Pirro e le sue vittorie: come Roma penetrò in Magna Grecia Nella seconda metà del IV secolo a.C. l’Italia meridionale conosceva un’epoca di instabilità dovuta sia alle guerre romano-sannitiche sia alle discordie fra comunità magnogreche: le divisioni politiche interne a ciascuna polis e il ruolo giocato da Siracusa nello scacchiere meridionale. Roma approfittò della situazione, e dopo aver avuto la meglio sulla colonia spartana di Taranto, riuscì ad impiantare nel sud della Penisola un assetto geopolitico a lei favorevole. Poco prima delle campagne straordinarie in Oriente di Alessandro Magno, Alessandro il Molosso era stato interpellato dai tarantini perché li supportasse militarmente contro i lucani e messapi (Strabone, Geografia VI; Giustino, Storie filippiche XII). Il Molosso, entrato in rapporti di amicizia con Roma (anche se forse era venuto in Italia con progetto di instaurare regno ellenistico-occidentale), combatté con i suoi mercenari contro i vari nemici, e morì in Italia dopo essersi inimicato la stessa Taranto. Nel 282 a.C. le ostilità tra Roma e Taranto scoppiarono dopo l’apparizione di forze navali romane nelle acque della città ionica: l’azione contravveniva a una convenzione (303-302 a.C.) che faceva divieto alle navi romane di risalire lo Ionio oltre il Capo Licinio (altezza di Crotone), entrando così nel Sinus Tarantinus. Taranto fece di nuovo ricorso a un comandante straniero, chiese aiuto al re dell’Epiro PIRRO, che, sbarcato in Italia nel 280 a.C. con i suoi mercenari, sconfisse più volte i romani. Impiegò armi pesanti e agì con l’ausilio di elefanti, che costrinsero i romani a ritirarsi da una battaglia ormai vinta dalla paura che suscitavano in loro. I suoi successi in battaglia, sostenuti da un’alleanza greco-italica forte e affiancati dalla propaganda che lo voleva discendente di Achille (Plutarco, Vita di Pirro I), furono tutti parziali, in vista della sconfitta finale (Diodoro Siculo, Biblioteca XXII) (espressione “vittoria di Pirro” per questo). Pirro e le sue manovre belliche: difficili da comprendere. Per alcuni fu visionario quasi sprovveduto, per altri abile leader erede degno di suo cugino Alessandro Magno. Dopo aver combattuto anche in Sicilia, contesa tra il regno di Siracusa e Cartagine, e aver subito una batosta a Benevento (dopo essere tornato in Italia, località Malventum dal 268 a.C. dedotta colonia latina), Pirro nel 275 a.C. tornò in patria. Tre anni più tardi Roma fece capitolare Taranto, consentendole di conservare una sua sovranità, battere moneta locale e mantenere una sua autonomia diplomatica. Pag. 12 a 113 Il sistema falangitico fu profondamente modificato dall’introduzione della legione manipolare, caratterizzata da unità tattiche ridotte formate da 20 uomini armati alla leggera, manipoli appunto, e da un sistema di dislocazioni dei corpi estremamente articolato (Livio, Storia di Roma VIII; Polibio, Storie VI). L’aspetto decisivo per i successi di Roma in guerra fu legato alla capacità ineguagliata di chiamare a raccolta, anche dopo gravi sconfitte, un arsenale di forze alleate latine e italiche numericamente eccezionali grazie alla rete di alleanze che la città aveva progressivamente creato nella penisola. Plutarco, Vita di Pirro: “ai romani, quasi avessero una fontana che fluisse di continuo da casa loro, l’accampamento si riempiva facilmente e rapidamente.” Le colonie latine e i federati italici erano in grado di garantire (secondo quantitativi prestabiliti dalla “lista dei togati”, formula togatorum) un enorme apporto di uomini e mezzi. Il primo annalista romano, Fabio Pittore, parla di un totale di 700000 fanti e 70000 cavalieri tra romani e alleati nel 225 a.C., Livio di 800000 armati. 3.8 Ideologia e rituale della guerra Un’ideologia della pace, non pacifista, troverà compiuta formulazione per la prima volta in epoca augustea, mentre le condizioni della compagine romana furono quelle di una società il cui “stato permanente” fu la guerra, con la vita militare quale componente centrale della dimensione del cittadino (la chiusura delle porte del dio Giano, dal latino ianua = porta, segno cerimoniale di non belligeranza perché le porte aperte consentivano il passaggio del dio in soccorso ai romani, fu rara e celebrata come evento memorabile). Il rapporto tra guerra, religione e politica era strettissimo. Fondamentale era la credenza che una guerra fosse consentita soltanto quando fosse ‘legittima’ (bellum iustum), cioè quando essa si basasse sul consenso degli dei, con i quali la collettività poteva mantenere dei rapporti di giustizia e amicizia: la pax deorum. La legittimità della guerra era preservata in primo luogo quando le procedure formali che portavano alla dichiarazione di ostilità erano espletate. Esisteva un apposito antichissimo sacerdozio, quello dei FEZIALI, preposto a tale compito metà rituale e metà diplomatico, su indicazione e con la approvazione ufficiale del senato e con l’ordine, lo iussus, del popolo. I feziali davano l’ultimatum secondo le norme giuridico-religiose e, se il nemico non riparava il torto, indicevano la guerra con il gesto solenne del lancio di un’asta intrisa del sangue di un animale sacrificato nel territorio nemico. Se il nemico aveva le sue sedi lontano, il lancio aveva luogo intorno alla columna bellica del tempio di Bellona nel Campo Marzio, simbolo del territorio nemico. Il ruolo dei feziali andò esaurendosi negli ultimi due secoli dell’età repubblicana (più agili ambascerie senatorie), ma ricomparvero loro tracce in epoca augustea. Fattore di autolegittimazione alla guerra: dimostrare durante i dibattiti pubblici che l’inizio delle azioni militari avveniva effettivamente per difesa, prevenzione o protezione degli interessi di un alleato in nome del rispetto della fides (Cicerone, I doveri II). 3.9 La gloria militare e la memoria degli antenati fra mentalità aristocratica e competizione politica L’abilità e il coraggio in guerra erano le virtus centrali nel codice di valori non solo dell’aristocrazia romana, ma della società romana tutta. Erano tanto fondamentali per la qualità dell’identità familiare e personale quanto come strumento per ottenere prestigio nell’agone politico: il servizio militare era una tappa obbligata della formazione dell’uomo politico romano. La GLORIA militare, con la FAMA, l’HONOR, le LAUDES, culminava nel cerimoniale del trionfo, riconoscimento di eccezionale prestigio decretato dal senato per risolutive vittorie decisive. Requisiti per conferire il diritto al trionfo: l’ imperator doveva aver sconfitto nemici esterni, e il suo esercito doveva averne ucciso un numero molto elevato. I trionfi venivano registrati in elenchi ufficiali (i Fasti Triumphales inseriti, insieme alle liste consolari, nei Fasti Capitolini) con i nomi dei generali vittoriosi e degli hostes vinti. Testi nudi di retorica e densi di capacità evocativa ed emotiva. Pag. 15 a 113 L’ambizione e la competizione militare furono senza dubbio determinanti nell’orientare le decisioni del senato e delle assemblee popolari romane in una direzione connotata in senso imperiale. Ciclo di affreschi (forse della prima metà del III sec a.C.) dalla necropoli dell’Esquilino che celebra le imprese dei Fabii contro Veio nel V sec a.C. e poi nelle guerre sannitiche: pittura trionfale con iscritti i nomi del romano Fabius (Fabio Rulliano) e del sannita Fannius. La cultura del senatore combattente e comandante, bellator e imperator, fu un motivo presente negli scrittori romani (storia di Roma come successione ininterrotta delle azioni di eroici generali) e nelle storie delle famiglie tramandate di generazione in generazione, in occasione di banchetti solenni o di orazioni funebri (laudationes funebres). Polibio, Storie VI, descrizione della perpetuazione privata e pubblica delle gesta familiari e del culto romano degli antenati: trasporto del defunto dinanzi al popolo, sepoltura ed esposizione dell’immagine del morto nell’atrium di casa, esibizione di maschere cerate degli avi indossate dai giovani membri della famiglia che: “indossano vesti orlate di porpora se il morto è stato console o pretore, color porpora se è stato censore, ricamate d’oro se ha celebrato il trionfo.. procedono su carri e quando arrivano ai rostri si siedono tutti in fila su seggi d’avorio. Non è facile per un giovane amante della gloria e della virtù vedere uno spettacolo più bello… la gloria di chi ha compiuto qualche bella azione si fa così immortale, diviene nota ai più e trasmessa ai posteri. La cosa più importante è che i giovani sono incoraggiati a sopportare qualunque cosa per il bene dello Stato, per conseguire la gloria che accompagna gli uomini di valore.” A lungo i successi in guerra furono “trattenuti” entro le tradizioni familiari e dalla visione di Roma come res publica in cui i meriti individuali dovevano confluire dell’edificazione ideologica di un impero che era il prodotto di un accumulo lento e collettivo. Nel corso della seconda metà del III e i primi decenni del II sec a.C. gruppi del senato provarono attrazione verso i modelli eroici quasi divinizzanti con cui il mondo greco-occidentale celebrava gli uomini più in vista, ma dall’altra parte c’erano i più conservatori, attaccati alla tradizione di una romanità ostile alla personalizzazione del principio di gloria bellica (Catone il Vecchio, III-II sec a.C., nella sua opera Origines raccontò gli eventi militari evitando di nominare i singoli generali). 3.10 Più forti di Alessandro? Caso antico di storiografia ucronica (che si fa “con i se e con i ma”): polemica nata dopo la morte di Alessandro Magno di cosa sarebbe accaduto se il condottiero macedone avesse tentato l’avventura in Occidente. Livio si oppose ai levissimi ex Graecis, ‘greci quantomai superficiali’, che ancora in epoca augustea ritenevano che Alessandro avrebbe vinto, facendo leva sulla peculiarità romana di essere una formidabile scuola militare: “in qualsivoglia di questi uomini non solo v’era la stessa disposizione d’animo e d’ingegno che in Alessandro, ma soprattutto la disciplina militare, tramandata di mano in mano fin dalle origini dell’Urbe, era giunta a una forma d’arte regolata da tutta una serie di norme. (…) si sarebbe proprio lasciato sopraffare dagli accorgimenti di un giovane quel senato, di cui si fece un esatto concetto solo colui il quale disse che il senato romano era un consesso di re!” (Livio, Storia di Roma IX, introduce il confronto nella trattazione della seconda guerra sannitica). PARTE SECONDA Dall’egemonia mediterranea alla fine della Repubblica 4: La genesi dell’impero: dalle guerre puniche alla distruzione di Numanzia (264-133 a.C.) Pag. 16 a 113 Descriveremo il ruolo di Roma nel Mediterraneo durante i secoli III e II a.C. presupponendo le seguenti definizioni: egemonia, impero, imperialismo. ‘Egemonia’ intesa come influenza su larga scala e limitazione della sovranità degli altri stati esercitate con vari mezzi di pressione, controllo, in una fase in cui il dominio diretto e l’organizzazione dei territori fondati sul sistema delle province non siano ancora prevalenti e consolidati. ‘Impero’ visto come momento successivo all’egemonia, di cui costituisce lo sbocco: grande sistema di potere statuale i cui elementi caratterizzanti siano il controllo militare permanente, la direzione politico- amministrativa con riscossione di tributi, l’imposizione del diritto (anche controllo a distanza, economico, culturale.. limitante la sovranità dei paesi controllati e l’indipendenza dei loro cittadini). ‘Imperialismo’ (vocabolo coniato in Gran Bretagna dopo la metà del XIX sec per il Secondo impero francese e poi diffusosi per le iniziative delle nazioni colonialiste) è termine da tempo utilizzato per descrivere la fase dinamica delle conquiste romane in Italia e fuori d’Italia, cioè del passaggio dalla egemonia alla edificazione e al mantenimento dell’impero romano; usato anche per la descrizione del processo di conquista ultramarina di Roma (può esistere un imperialismo senza impero, in quanto tendenza ad ampliare le sfere di influenza e potere economico statali senza un’estensione delle strutture politiche, Arendt Origini “imperialismo non è fondazione di un impero, ed espansione non è conquista”). 4.1 Roma e Cartagine nella prospettiva della storiografia greca Prima regolamentazione dei rapporti tra Cartagine e Roma: 508 a.C. Gli altri trattati romano-cartaginesi risalenti alla seconda metà del IV e al III sec a.C. all’epoca di Pirro confermano la disponibilità della capitale punica a vedere in un’ottica di spartizione di sfere d’influenza mercantili e di cooperazione politico-militare la situazione del Mediterraneo occidentale. Un riflesso del delinearsi all’orizzonte dello scontro epocale tra i due grandi stati lo troviamo già in Timeo di Tauromenio (Taormina), autore (storico attento alle coincidenze e alle cronologie esatte) perduto di una serie di Storie del mondo greco: sensibile alle dinamiche della sua isola, egli dichiarò che la fondazione di entrambe le città risaliva all’814-813 a.C., volendo così prefigurare una sorta di predestinazione del conflitto tra le due potenze. Il parallelismo cronologico, altamente simbolico, delle due date di fondazione circolava già avanti lo scoppio della prima guerra punica, nel 264 a.C. Grande rilievo ai rapporti tra romani e cartaginesi lo attribuì Polibio di Megalopoli, teorico più profondo dell’imperialismo romano, che introduce nella sua opera Storie, V discorsi sull’inevitabile dilagare del dominio di chi tra cartaginesi e romani avesse vinto, e che di fatto inizia la sua trattazione più dettagliata nel 264 a.C. 4.2 La prima guerra punica Si ascrive all’epoca del conflitto contro Cartagine la nascita della prima flotta navale dei romani, ma già dal IV sec a.C. si prestava molta attenzione alla difesa delle coste tirreniche. La creazione nel 311 a.C. di due ufficiali di marina (duoviri navales) era dovuta alla volontà di prevenire con pattugliamenti la pirateria e, nel 267 a.C., l’istituzione di quattro “ammiragli” (quaestores classici) avvenne in precauzione alla già presente ostilità coi punici. Situazione che scatenò il conflitto: i mamertini (associati così a Mamers = Marte), mercenari campani un tempo al servizio del tiranno di Siracusa Agatocle, si erano impadroniti della città e del territorio di Messina. Verso il 270-269 a.C. subirono attacchi da parte di Siracusa, e pochi anni dopo furono minacciati dai siracusani di Gerone. Ottennero allora un presidio cartaginese in città, ma chiesero anche aiuto ai romani. Nell’Urbe l’opinione dominante era che si dovesse impedire un rafforzamento del controllo cartaginese Pag. 17 a 113 piano di Annibale fondato sulla mancata tenuta delle alleanze romane sembrò realizzarsi: abbandonarono l’alleanza città come Capua, Locri, Taranto, Metaponto, Crotone, Siracusa, i bruzi, i lucani (Livio, Storia di Roma XXII). Paure, devastazioni, morte e spopolamento incombono su campagna e città, la gente cerca rifugio nelle superstizioni e si diffondono rituali di salvezza insoliti e stranieri. Il senato sarà costretto nel 205 a.C. ad accogliere con piena ufficialità un culto anatolico dai rituali sconvolgenti, quello della pietra nera di Cibele, la Gran Madre degli Dei. Dopo Canne fu ripetuto un rituale pubblico di sacrificio umano, già eseguito nel 228 a.C. alla discesa dei galli. Uomo e donna galli e uomo e donna greci (simboli del nemico straniero) furono sepolti vivi nel Foro Boario (“rito per nulla romano” Livio). 215 a.C. = guerra nello scenario iberico e in quello greco-illirico dove Annibale ha stretto un’alleanza di ferro con il potente regno macedone di Filippo V, mentre i romani possono contare sull’appoggio di Sparta e della lega guidata dagli etoli. Nel settore iberico conducono le operazioni (instaurando clientele con i capi delle tribù del posto) membri della gens degli Scipioni. Nel 212 a.C. i romani ottengono importanti risultati grazie al giovane Publio Cornelio Scipione, dotato da due anni di un imperium straordinario. Nel 206 a.C. i cartaginesi, dopo una serie di sconfitte (ultima a Ilipa, a 10 km a nord dell’odierna Siviglia), abbandonarono lo scontro, e Scipione fondò per i suoi veterani la colonia di Italica (Siviglia) e poi ripartì per Roma. In Grecia i combattimenti che vi si svolgono non hanno un ruolo determinante per l’esito della guerra annibalica. E’ questa la prima guerra tra Roma e la Macedonia, che si chiude con la pace di Fenice, in Epiro, del 205 a.C. La lunga permanenza di Annibale in Italia – tattica temporeggiatrice voluta dall’ex dittatore e console a più riprese Quinto Fabio Massimo – estenuerà le forze cartaginesi e inutile si rivelerà l’arrivo in Italia del fratello di Annibale, Asdrubale Barca, con rinforzi dalle Spagne. I romani, dopo aver demolito il dominio cartaginese in Spagna, si accingono a ottenere il secondo maggiore obiettivo: costringere Annibale ad abbandonare l’Italia. Essi riescono a riavvicinare a sé popoli alleati e in particolare a riconquistare Siracusa, poi Capua, e Taranto. Gli anni dal 207 a.C., con la morte di Asdrubale, furono uno stillicidio per i cartaginesi, e Annibale scelse di ritirarsi in patria nel 203 a.C. Scipione, console per il 205 a.C., preparò dalla Sicilia la spedizione africana, riscontrando le antipatie di Fabio Massimo e Marco Porcio Catone (Catone il Vecchio, noto anche come “il Censore”, censore nel 184 a.C.). Scipione guiderà nell’ottobre del 202 a.C. le legioni romane a ZAMA, cinque giorni di marcia da Cartagine, nella battaglia finale che lo consacrerà col soprannome militare di Africano. In terra d’Africa troverà un sostegno prezioso nel numida Massinissa, già suo alleato in Spagna. Annibale morirà suicida in Bitinia poco prima del 180 a.C., dopo essere stato per anni esperto di guerra alla corte del re di Siria Antioco III. La guerra annibalica era stata vinta da Roma con un enorme dispendio di energie umane e materiali: l’Italia era stata per larghe zone rovinata, le istituzioni e le magistrature erano state piegate a forzature inedite (come proroghe dei comandi). Le clausole della resa furono gravose per la città punica (Polibio e Livio): sebbene mantenesse la possibilità di auto-amministrarsi e conservasse i possedimenti africani, era tenuta a pagare in cinquant’anni un’indennità pesantissima in talenti, vedeva sciolta la sua marina da guerra, era obbligata a chiedere il consenso romano prima di qualunque iniziativa militare ed era posta sotto la tutela di Massinissa. 4.5 Roma dinanzi alla Macedonia e alla Siria Solo due anni dopo Zama, il popolo riunito nei comizi centuriati votò una dichiarazione di guerra alla Macedonia di Filippo V (dopo ultimatum irricevibile di non fare guerra a nessun popolo greco e riconoscere Pag. 20 a 113 Roma come arbitro di controversie tra la Macedonia e gli altri stati greci). Aggressività della Macedonia contro Atene, alleata di Roma. Non mancarono contrasti alla decisione di muovere guerra di uno stato ancora fortemente debilitato dalla guerra annibalica. Guerra PREVENTIVA, ragioni perorate dal console del 200 a.C. Servio Sulpicio GALBA (Livio, Storia di Roma XXXI): era per evitare una imminente e inevitabile invasione dei macedoni in Italia, gli eserciti si portavano così fuori dal suolo italico. Tenere a distanza di sicurezza la minaccia macedone. Quanto alla LEGITTIMITA’ dell’iniziativa, essa era garantita in quanto Pergamo e Rodi, che tentavano di resistere al re macedone, si erano attivate per mettersi nelle mani del senato (come fece la stessa Atene). La seconda guerra macedonica fu breve: fu sufficiente la vittoria di Cinoscefale in Tessaglia da parte dell’esercito comandato dal console Tito Quinzio Flaminino per provocare la resa dei nemici. Roma si proclamò LIBERATRICE della Grecia: nel 196 a.C. a Corinto (durante i giochi istmici) proclamò la libertà (eleutheria) giuridica, fiscale, militare, restituita a tutti i greci (Polibio, Storie XVIII) con celebrazione pubblica di Flaminino nel ruolo di liberatore. Gli etoli erano insoddisfatti perché rispetto al loro impegno militare Roma aveva riconosciuto loro scarse contropartite materiali, quindi affermarono che per i greci, più che di una liberazione, si trattava di un cambiamento di tiranni. Corinto fu una tappa significativa della prima fase dell’imperialismo ultramarino di Roma. L’occupazione militare romana durò pochi anni e verso il 194 a.C. i romani evacuarono militarmente la Grecia. Roma entrò a più stretto contatto con l’Egeo orientale, dove le dinastie ellenistiche dei Seleucidi di Siria e dei Tolomei d’Egitto si contendevano la supremazia sulla regione della Celesiria (oggi valle della Beqa, in Libano). Tutti gli equilibri consolidati entrarono in crisi: Antioco III di Siria percepì le domande di Roma sull’iniziativa siriaca in Asia Minore come un ingiustificato atteggiamento imperialistico. Il re reagì con fermezza affermando che i romani non avevano alcun diritto di auto-proclamarsi liberatori del mondo greco, soprattutto nel settore microasiatico che Antioco considerava di propria pertinenza. Riconosceva ai romani l’egemonia in Italia e prometteva di stipulare l’alleanza con Tolomeo d’Egitto (Polibio, Storie XVIII). Nacque dopo pochi anni il conflitto romano – siriaco. Dopo una spedizione in Grecia organizzata dagli etoli (passati dalla parte siriaca) sconfitta da Glabrione con una battaglia vittoriosa alle Termopili e il contrattacco romano si addivenne ad un trattato (pace di Apamea, 188 a.C.) che assegnava a Pergamo e Rodi (dalla parte di Roma) vantaggi territoriali, e obbligava la Siria a rinunciare alle sue ambizioni in Asia Minore a ovest della catena del Tauro. Le iniziative dei due comandanti Scipione Asiatico e suo fratello Scipione Africano suscitarono scandalo e persino processo a Roma (voluto da Catone e causa dell’esilio di Africano), per la gestione delle finanze e le relazioni diplomatiche che prescindevano dalle direttive del senato. Decenni successivi: la vittoria di Lucio Emilio Paolo sulla Macedonia nel 168 a.C., dopo la celebre battaglia di Pidna ai danni di Perseo, figlio di Filippo V, pose fine alla terza guerra macedonica. I macedoni e gli illiri furono dichiarati ‘liberi’ dall’oppressore Perseo, dal regime monarchico, dalle armi dei romani. La Macedonia e l’Illiria, senza essere subito ridotte a province, vennero smembrate in repubbliche indipendente tra loro, ma subordinate al potere romano. Dal 149 a.C., ribellioni antiromane in Macedonia e Grecia furono represse sino alla distruzione di Corinto, nel 146 a.C. Lo scrittore Pausania ricordava (Descrizione della Grecia VII) l’organizzazione della regione data dal generale Mummio e dai dieci commissari che lo affiancavano: nomina dei consiglieri cittadini sulla base del censo e della lealtà politica a Roma, introduzione del tributo ordinario. Parte dei territori greci fu annessa alla provincia di Macedonia, istituita nel 148 a.C. Quindici anni dopo, Roma ottenne l’eredità del regno di Pergamo, sopra il quale, tra il 129 e il 126 a.C., venne plasmata la grande e prestigiosa provincia d’Asia. Pag. 21 a 113 4.6 Fra politica antica e storiografia moderna: filellenismo e imperialismo Theodor Mommsen e grande tradizione storiografica: i romani facevano guerre non programmate in funzione di sicurezza spinti da FILELLENISMO = attrazione verso la cultura e le tradizioni delle poleis greche destinata a modificare in profondità le abitudini educative della gioventù dell’aristocrazia romana. Erano filelleni gli Scipioni e Flaminino, mentre non lo era Catone, simbolo della conservazione di un mos maiorum romano-italico concepito staticamente come priorità da salvare da qualsiasi attentato culturale. Dopo il conflitto punico, prevalse l’orientamento della politica di Roma in una direzione ostile ai regni ellenistici di Macedonia e Siria, perché ritenuti minacciosi per l’autonomia delle città-stato e delle confederazioni greche da tutelare come per una vocazione politica e culturale. In questa prospettiva vengono considerate sul piano politico-militare le dichiarazioni per neutralizzare le minacce dei regni maggiori, la seconda guerra macedonica e la concessione di libertà alla Grecia nel 196 a.C. che causò a Roma ulteriori conflitti; sul piano diplomatico, le frequenti ambascerie greche a Roma, la consanguineità di comunità greche e anatoliche con Roma (comuni antenati troiani); sul piano amministrativo le delibere del senato per dirimere controversie interstatali, o la riluttanza dei romani ad annettere come province i territori di lingua e cultura greca. Sincera nobiltà dell’agire romano confermata dalla consuetudine di attribuire solenni titoli onorifici, dagli inizi del II sec a.C., alle personalità romane, che nel sentire greco- ellenistico apparvero come pubblici benefattori. Sono numerose le iscrizioni in cui i romani erano apostrofati con la formula di “comuni evergeti” o “dèi salvatori”: Roma appariva una divinità da omaggiare, e lo stesso Flaminino venne eroizzato e celebrato nelle monete. Singole personalità romane venivano onorate quasi religiosamente con statue e dediche epigrafiche. Filellenismo come motore dell’imperialismo romano in Oriente è spiegazione da integrare con altri fattori, per esempio la possibilità che il senato si sia mosso per un ordine geopolitico del mondo ellenistico rispondente ai suoi interessi prima che a quelli della grecità. Esisteva poi un rapporto tra il fenomeno della conquista e la competizione per la gloria militare nella classe dirigente romana, a livello di ambizioni familiari ed individuali. E poi ci sono i fattori economici. Proprio intorno alle molteplici cause e implicazioni economiche dell’imperialismo romano, verso Oriente ma pure verso Occidente, si è incentrato il dibattito moderno più recente. Studiosi che vedono nelle guerre di Roma – secondo la giustificazione romana antica – necessità difensive o interventi non programmati, con una sottostima degli interessi economici (IMPERIALISMO DIFENSIVO O PREVENTIVO) VS studiosi che vi vedono espressione di un’aggressività pretestuosa, una sistemazione della più violenta logica di potenza (in sintonia con la letteratura antiromana secondo cui il desiderio di impero e di ricchezze altrui era la causa profonda del guerreggiare dei romani, veri e propri banditi del mondo). Dagli approcci che attribuiscono ai romani primarie motivazioni economiche e lo sviluppo di una mentalità acquisitiva da parte dell’aristocrazia senatoria sino dalle origini dell’espansione in Italia e nel Mediterraneo si distanziano quelli che insistono sulla gradualità dei contenuti economici e commerciali dell’egemonia e dell’imperialismo: se ne ammette la rilevanza, ma li si identifica come elemento dominante della politica romana solo nel corso della prima metà del II sec a.C. All’imperialismo romano è stata attribuita una trasformazione di natura, che lo ha portato ad assumere una spregiudicata metodica politica e militare. Livio la definiva (basandosi sulla condotta romana durante la terza guerra macedonica) “nova sapientia”. Nelle guerre iberiche vi furono ritorsioni violente da parte dei governatori romani di provincia, e queste suscitarono risposte istituzionali in nome della tradizionale lealtà romana anche verso i nemici rappresentata dal senato. 4.7 Modalità della conquista in Occidente Pag. 22 a 113 provinciale, le circoscrizioni sottoposte erano ancora affidate a magistrati in servizio e solo dopo le riforme sillane saranno insediati di norma come governatori dei promagistrati – proconsoli, propretori – ossia magistrati cui veniva prorogato l’imperium. Il consolato mantenne inalterate le sue funzioni di suprema magistratura senatoria, era culmine del prestigio per un uomo politico. I consoli rimasero due, proveniente da poche famiglie che costituivano la nobilitas: gruppo sociale formato da chi poteva fregiarsi di antenati consoli ed era per questo favorito nell’acquisire potere. Il tribunato della plebe era una sorta di “anomalia” di sempre nella politica romana, sia per le condizioni sociali di accesso (essere plebei), sia per l’inviolabilità della persona tribunizia e l’estensione del suo diritto di divieto (i due più celebri tribuni della storia romana furono i fratelli Gracchi). SENATO “Consesso di molti re” – per Cinea, diplomatico di Pirro inviato per trattative con Roma (Plutarco, Vita di Pirro 19,6). Questo grande strumento di coordinamento e di iniziativa politica romana poteva intervenire in tutti gli ambienti pubblici: istituzionale, religioso, erariale, militare. Il senato con la sua auctoritas poteva, con discrezionalità non assoluta, ammettere o respingere un provvedimento delle assemblee popolari, ed era anche la sede cerimoniale del potere: gestiva i rapporti con le città alleate, riceveva le delegazioni diplomatiche straniere e si occupava con le sue ambascerie della direzione degli affari internazionali prima durante e dopo i conflitti bellici. L’organismo fu composto durante tutta la storia repubblicana fino all’epoca di Silla da 300 membri, verificati e scelti (lectio) periodicamente dai censori sulla base del controllo dei costumi (cura morum) e di una qualificazione patrimoniale. La libertà di scelta dei censori era ridotta, perché accedevano tradizionalmente al senato ex magistrati curuli (che potevano sedersi sulla sella curulis), e sarà così fino al tardo II e I sec a.C., quando anche l’edilità e il tribunato plebei consentiranno l’ammissione al senato. Le riunioni erano convocate da un console, un pretore, o un tribuno e la parola veniva data in base a un criterio gerarchico. Le decisioni del senato (senatus consulta) assunsero valore normativo piuttosto tardi, verso la fine del III sec a.C. (Celebri quello del 200 a.C. Filippo V deve accettare mediazione romana nelle questioni politiche greche e quello del 186 a.C. sulla repressione dei culti bacchici diffusi durante la guerra annibalica). ASSEMBLEE POPOLARI A Roma esistevano varie assemblee popolari plenarie (ad Atene solo l’ekklesia). I comizi più antichi, risalenti all’epoca monarchica, ossia i comizi curiati, erano successivamente decaduti e attivati soltanto con funzioni di solennità cerimoniali, senza la convocazione del popolo. Il compito più significativo ribadiva sul piano formale che il magistrato eletto aveva i pieni poteri e l’ imperium (stabilito da 30 littori che simboleggiavano le curie originarie). Ai comizi centuriati era riservata, insieme al senato, la decisione per gli affari di guerra e di pace (erano stati i comizi centuriati a dichiarare formalmente guerra a Filippo V nel 200 a.C.). Assemblee dell’esercito avevano luogo oltre il pomerio, nel Campo Marzio. I comizi centuriati eleggevano pretori, consoli e censori, erano responsabili di alcune procedure legali e come corte d’appello, e inoltre era a loro sottoposta la provocatio ad populum (appello al popolo), ultima opportunità di salvezza per i romani condannati a morte (estesa dal II sec a.C. ai cittadini delle province). Gli abbienti erano favoriti nelle votazioni: le classi di censo votavano in successione e alle prime classi corrispondeva una netta preponderanza numerica delle unità di voto, le centurie. L’ordinamento centuriato era anche l’ossatura del reclutamento dell’esercito su base censitaria (anche se nel corso del II sec a.C. vi fu una proletarizzazione dell’esercito). Pag. 25 a 113 L’altro organo che comprendeva tutto il popolo erano i comitia tributa, comizi ripartiti per tribù molto diversi da quelli basati sul sistema delle centurie (Livio, Storia di Roma I): si potevano riunire in vari luoghi della città, di solito all’interno del pomerio. Dopo la fine della prima guerra punica, nel 241 a.C., essi videro fissato per sempre il numero delle loro unità di voto a 35 (4 urbane e 31 rustiche: ogni cittadino era iscritto in una tribù e si trattava di un legame “tra i più forti dello stato romano”). I comizi tributi si specializzarono dal tardo III sec a.C. come organismo legislativo, ma eleggevano anche i magistrati minori e avevano alcune competenze giudiziarie. (Una riforma poco nota collegò il numero delle tribù a quello delle centurie, che furono abbassate a 70 per la prima classe, e sembra evidenziare la crescita d’importanza dei comitia tributa nel corso della media e tarda repubblica. Si perdono però nelle fonti le distinzioni fra questi e gli antichi concilia plebis da cui erano esclusi i patrizi). COLLEGI SACERDOTALI Dopo la LEX OGULNIA del 300 a.C., con cui i collegi sacerdotali maggiori furono aperti ai plebei, si accrebbe il numero dei pontefici e degli auguri, mentre sin dal 367 a.C. i custodi dei Libri Sibillini erano stati portati a dieci (decemviri sacris faciundis). Nel 196 a.C. fu creato un quarto maggiore collegio, incaricato della gestione dei banchetti pubblici, gli epulones, prima di 3 membri e poi di 7, da lì il nome di septemviri epulones. Il carattere vitalizio delle cariche sacerdotali e la nomina mediante cooptazione rimasero in vigore, salvo che dal III sec a.C. vi fu una qualche incompiuta forma di democratizzazione della sfera religiosa: il pontefice massimo era scelto per via assembleare e dal 104 o 103 a.C. la responsabilità della elezione dei componenti delle principali sodalità religiose fu affidata a 17 tribù (lex Domitia de sacerdotibus). 5.3 Mos maiorum e buon uso della ricchezza Il ‘costume degli antenati’ era costituito da “una ricca riserva di principii, modelli, linee d’azione tradizionali, modi di comportarsi già sperimentati, regole e pratiche concrete che non riguardavano solo la vita privata dei cittadini, ma regolava il complesso del diritto penale e del “diritto pubblico”, la religione ufficiale e l’esercito, la politica interna ed estera” (Holkeskamp, Reconstruire). I membri dell’aristocrazia dirigente dovevano agire secondo le convenzioni morali e pratiche stabilite dal mos maiorum, delle quali erano responsabili dinanzi al popolo che le condivideva: spesso era la vicinanza a questi paradigmi che orientava le battaglie politiche e le competizioni elettorali e che dettava come agire nei periodi di esercizio delle magistrature. Tutti si dovevano rispecchiare nel mos maiorum. Nell’età della media repubblica, un rapporto controverso intrattenne il mos maiorum con le tematiche del lusso e della ricchezza. Fabio Pittore, dell’annalistica antica, affermava che dopo la fine delle guerre sannitiche i romani avrebbero conosciuto per la prima volta i vantaggi della ricchezza. Fu l’espansione nel Mediterraneo (con le entrate assicurate dalle imposizioni di tipo tributario sulle province e dalle requisizioni e bottini) ad aprire la strada ad un impressionante arricchimento della società romana. Ne conseguirono anche cambiamenti della circolazione monetaria: con le grosse quantità di metalli preziosi dai territori occupati iniziarono ad essere coniati per ordine del senato i denari, di valore superiore rispetto alla moneta bronzea. Pezzi monetari d’oro inizieranno ad essere coniati solo più tardi, verso la fine dell’epoca repubblicana. Sono evidenti nelle commedie di Plauto (autore del tardo III sec a.C.) la militarizzazione della società romana e il decollo economico del periodo di più forte spinta conquistatrice. Le basi agrarie dell’economia di Roma rimasero salde, e i primi beneficiari della crescita imperiale furono le aristocrazie, sia senatoria sia, in parte minore, i ceti elevati dei municipi italici. Nasceva in questi anni un Pag. 26 a 113 urgente problema di natura ideologica: quello del buon uso della ricchezza e, ancor prima, del decoro da mantenere nelle tecniche di acquisizione delle ricchezze, il pecuniam magnam bono modo invenire. Negli anni della guerra annibalica si sviluppò per la prima volta una polemica sul lusso dei privati e furono varati alcuni provvedimenti miranti a contenerlo, come le leges sumptuariae, o la Legge Oppia del 215 a.C., varata all’indomani di Canne: essa si opponeva all’ostentazione del lusso femminile, se non lo interdiceva del tutto. Le donne non potevano portare addosso più di mezza oncia d’oro, circa 15 grammi, ed erano poste loro restrizioni nell’indossare vesti sgargianti (Livio, Storia di Roma XXXIV). Altre leggi più tarde intendevano limitare l’entità dei doni tra privati, ed erano dettate dalle necessità di “tirare le cinghia” in un periodo di enorme sforzo bellico, austerità e solidarietà tra parti del corpo sociale. Una volta lanciata Roma nelle campagne vittoriose nei confronti delle potenze greco-orientali, il problema dei modelli etici rispetto alle nuove ricchezze divenne di piena attualità. La legge del 219/218 a.C. nota come PLEBISCITO CLAUDIO aveva stabilito il tonnellaggio massimo di capacità calcolata in anfore (300) delle navi che poteva possedere un senatore. I guadagni ricercati tramite il commercio per mare, ritenuto rischiosissimo, apparivano dubbi in una mentalità tradizionale per cui la terra era fonte e destinazione delle ricchezze. Era noto, tuttavia, che i senatori speculassero anche su larga scala tramite prestanome. Lo faceva lo stesso Catone il Vecchio, che le fonti dipingono come simbolo della conservazione del mos, oratore accanito contro ogni degenerazione verso il lusso, che si oppose all’abrogazione della legge Oppia. 5.4 Romani e italici fanno affari I romani e gli italici (comunità federate e quelle di diritto latino) si trovarono nelle condizioni migliori per sfruttare le opportunità della conquista di cui erano stati artefici. Vi furono espropri, prede di guerra, furti legalizzati di oggetti e monumenti d’arte civile e religiosa, e quest’ultima pratica (ammirazione culturale per gli elleni vinti, cupidigia, volontà di supremazia) iniziò ad impreziosire domus e ville di aristocratici, e gli stessi paesaggi urbani come Roma. Polibio (Storie IX), spoliazioni in Sicilia durante la seconda guerra punica, sottolinea quanto quella pratica fosse immorale e un rischio per i romani (monito per le potenze imperiali della storia universale) di inimicizia e impopolarità: “Essi, che conducevano una vita semplicissima lontani dal lusso, avevano sempre la meglio su avversari presso i quali tali cose erano rappresentate al grado più alto di bellezza, come non ritenere un errore il loro comportamento? Abbandonare i costumi dei vincitori per mettersi a imitare i vinti (..) si può definire senza dubbio un modo di agire sbagliato. L’osservatore non si congratula mai con quelli che si sono impossessati dei beni altrui, li invidia, ma sente anche una certa pietà per i proprietari originali. Ma, lasciando nei luoghi d’origine ciò che è estraneo a tale potenza, e insieme l’invidia, sarebbe stato possibile arricchire la fama della propria patria adornandola non di dipinti e sculture, ma di decoro e nobiltà d’animo. Comunque, ciò sia detto a beneficio di chi di epoca in epoca assumerà il dominio affinché non creda, spogliando le città, che le sventure altrui siano un ornamento per la propria patria.” Fonte di reddito per romani e italici: attività di esportazione e importazione, prestiti bancari. Nelle aree di lingua greca, questi mercanti erano chiamati rhomaioi. Roma, potenza egemone, era in grado di indirizzare i flussi commerciali e di modulare protezionismo, privilegi e libertà di mercato secondo le proprie convenienze. Il caso più emblematico riguardò le isole di Rodi e Delo. Rodi era fra gli empori commerciali più prosperi della grecità ellenistica, era città filoromana ma alla vigilia della terza guerra macedonica alcune sue posizioni mediatrici tra Roma e Perseo non piacquero: Catone pronunciò orazione A difesa dei Rodiesi ma la città fu sanzionata dal senato con la sottrazione della sovranità su alcuni territori e con la creazione nel 167/166 a.C. di un porto franco a Delo. Il provvedimento avvantaggiò, a spese di Rodi, l’economia di Delo e quella dei rhomaioi, dei siriani e di altri popoli commercianti che potevano sfruttarne la posizione strategica nei traffici tra Oriente e Occidente. Nel II sec a.C.: fenomeno di emigrazione a scopi di affari nelle isole del Pag. 27 a 113 Durante la Rivoluzione Francese l’ideologia graccana era ritenuta simbolo dell’equità degli assetti della proprietà terriera, e questo crea paradosso: l’ideologia moderna dei Gracchi come popolari e antimonarchici contrasta con le tesi dei conservatori del tempo loro nemici che li accusavano di voler instaurare un regime assolutistico. Quando Tiberio si ripresentò alle elezioni per il tribunato nel 132 a.C. aspirava ad una ripetizione della carica che legalmente non era ammessa. Un gruppo di suoi oppositori, capeggiati dal pontefice massimo Publio Cornelio Scipione Nasìca, lo assassinò durante un tumulto insieme ai suoi seguaci. Appiano, storico vissuto nel II sec d.C. nella sua opera intitolata Le guerre civili coglie la cesura storica rappresentata dall’episodio: “Nessuna arma fu portata mai nell’assemblea né si ebbero uccisioni intestine prima che Tiberio Gracco perisse per primo in una sedizione, e molti con lui, in Campidoglio. Dopo questo crimine le sedizioni non cessarono più, ed in ogni occasione i cittadini si dividevano apertamente in fazioni contrarie.. di tanto in tanto venne ucciso qualche magistrato nei templi, nelle assemblee, nel foro, fosse un tribuno, pretore, console, o candidato. La violenza sfrenata ed un vergognoso disprezzo delle leggi e della giustizia dominavano sempre.. uno dei capifazione, circa cinquant’anni dopo Tiberio G, Cornelio Silla, scacciando un male con un altro male, si proclamò solo capo dello stato per un tempo illimitato.” 6.2 Il “vasto programma” di Gaio Gracco La riforma agraria non ebbe tempo di sortire gli effetti strutturali sperati, e forse nel 121 a.C. i lotti ridistribuiti furono resi soggetti a compravendite: ciò favorì il rinascere di acquisto degli appezzamenti dei beneficiari che erano in difficoltà finanziaria o desideravano cedere quanto acquisito. Altre clausole di tutela dei proprietari più deboli vennero meno, e la riforma fu liquidata definitivamente. Gaio non visse la dissoluzione della Lex Sempronia agraria. Nel 123 a.C. si era candidato al tribunato della plebe, ponendosi direttamente sulle orme del fratello, e dette alla sua iniziativa un respiro più ampio sia sul piano programmatico che politico. Le fonti senatorie ostili lo presentano come ambizioso e populista. Gaio non odiava il senato, però tentò di intaccarne l’autorità con una articolata rete di alleanze e una spregiudicata politica sociale. Una lex frumentaria beneficò la plebe urbana con elargizioni mensili di grano a prezzo politico: iniziò in questo periodo la costruzione di magazzini pubblici per lo stoccaggio degli alimenti. Momento in cui i livelli demografici di Roma erano in progressiva ascesa a causa dell’inurbamento. Subito, però, nacque il pregiudizio di Gaio demagogo e plebe oziosa che vive di sovvenzioni pubbliche presente nelle fonti antiche posteriori (Appiano Le guerre civili, Plutarco Vita di Gaio Gracco). Inoltre, non piacque a molti la decisione di fornire vesti ai soldati senza addebitarne a loro i costi, e vi fu resistenza verso quelle iniziative favorevoli all’ordine equestre e quelle per l’istituzione di nuove colonie di cittadini romani sia in Italia che a Cartagine (territorio africano) dove inviare coloro che la riforma agraria non riusciva a fornire di terra. Nel 122 a.C. Gaio fu rieletto nel collegio tribunizio, grazie ad una nuova legge che rendeva la ripetizione immediata possibile quando il numero delle candidature non era completo. Questa volta, però, l’oligarchia riuscì a far eleggere anche un proprio uomo, Marco Livio Druso. Allontanatosi da Roma per fondare sul suolo cartaginese la nuova colonia di Iunonia, Gaio perse il controllo sulla città. Una volta tornato, Gaio tentò di costituire un asse privilegiato con le elites peninsulari che premevano per l’estensione della cittadinanza a tutti gli abitanti delle colonie di diritto latino e la concessione del diritto latino agli alleati italici. Nel 121 a.C. Gaio Gracco fu sconfitto nel suo tentativo di rielezione al terzo tribunato. In città si scatenarono tumulti e il senato intervenne in modo diretto facendo ricorso ad un provvedimento estremo: il senatus consultus ultimum. Legislazione emergenziale, toglieva a Gaio le garanzie costituzionali e autorizzava i consoli a usare qualunque mezzo per eliminarlo. Gracco, dopo un vano tentativo di fuga, Pag. 30 a 113 ordinò ad un suo servo di ucciderlo. Il senato riutilizzò il senatus consultum ultimum nella vicenda catilinaria e nella guerra civile tra Cesare e Pompeo, a testimonianza della crisi delle libertà repubblicane. Con la morte di Gaio Gracco si avviò verso un rapido declino il tentativo riformatore iniziato da Tiberio e proseguito dal fratello con un piano ricco di idee innovative, venato da tratti di visionarietà e demagogia. 6.3 Ordine senatorio e ordine equestre Secondo le fonti, prova della politica di alleanze in funzione anti-senatoria (Appiano, Le guerre civili I): Gaio Gracco ha sottratto al senato le corti penali permanenti (che, dirette da un magistrato, giudicavano intorno alle denunce di reali commessi dagli amministratori romani in provincia “quaestiones perpetuae de repetundis”) e le ha trasferite sotto il controllo dei cavalieri. Esistenza incontestabile di un antagonismo tra senatori e cavalieri, rafforzato dal configurarsi di questi iudices esponenti del ceto equestre, di interessi, mentalità, tipo e dimensioni della ricchezza. IDENTITA’ dei cavalieri e rapporto tra ordine (ordo) equestre e ordine senatorio: parlando dei cavalieri si deve far riferimento (per un lunghissimo tempo dalla fondazione dell’Urbe) alla parte più abbiente e nobile della società, quella che costituiva la cavalleria e votava per prima nei comizi centuriati. Tra i cavalieri si distinguevano quali senatori “coloro che avendo esercitato una magistratura o essendo stati direttamente scelti dai censori, vengono iscritti nell’albo del senato” (Nicolet). Con l’età dell’imperialismo e l’estendersi delle opportunità economiche e amministrative una parte di questa elite aveva iniziato a dedicarsi alla gestione di attività che il mos riteneva inadatte all’uomo politico. Si produsse pian piano una distinzione pratica e concettuale fra coloro che avevano una vocazione affaristica e coloro che invece decidevano di dedicarsi alla vita pubblica, fino alla definitiva spaccatura: nel 129 a.C. il senato stabilì (SC equorum reddendorum) che i cavalieri che aspiravano, dopo aver svolto le previste campagne militari, ad entrare nella carriera magistratuale dovevano restituire il cavallo finanziato dallo Stato dal quale prendevano la denominazione di equites equo publico. Con questo gesto simbolico essi abbandonavano le centurie equestri ed entravano a far parte dell’ordine senatorio. L’ordine equestre era quindi costituito da aristocratici e persino figli di senatori che non avevano interesse a fare carriera politica, o da uomini molto ricchi e intraprendenti, tutte persone comunque attratte dai grandi commerci o dalla costituzione di società di appalto di servizi per conto della repubblica (le compagnie dei publicani), e che raggiungevano una posizione di grande rilievo economico o occupavano un posto centrale negli spazi tra finanza e amministrazione. Nel II sec a.C. avanzato, l’ordine equestre sarà ceto più vicino ai politici con piattaforma di tipo popolare (i populares contrapposti agli optimates) ostile all’oligarchia più conservatrice del senato. 6.4 Nuove province Vicende fondamentali per il completamento dell’impero di Roma si connettono direttamente agli sviluppi di età graccana. Nel regno di Pergamo, che re Attalo III aveva lasciato in eredità ai romani, scoppiò nel 133 a.C. (mentre in Italia si combatteva la prima guerra servile) una grave insurrezione. Era capeggiata da un Aristonico, fratellastro di Attalo, che aveva rifiutato la legittimità del testamento e aveva fatto leva su forze militari filomonarchiche, schiavi ed emarginati, promettendo loro la Heliopolis (città del sole). Dopo aver battuto Aristonico, a partire dal 129 a.C., il console Manio Aquilio e una commissione del senato dettero avvio, sulle ceneri del regno pergameno, una progressiva organizzazione della grande provincia d’Asia (che sarà una delle più ricche e prestigiose dell’Impero Romano), formata da Frigia, Misia, Lidia e parte di altre regioni come la Caria. Varrone notò il duplice senso del nome ASIA come continente e provincia nel suo trattato Sulla lingua latina: “Asia è quella che non è Europa e dove si trova anche la Siria, ma Asia si chiama la prima parte dell’Asia nella quale sta la Ionia e la nostra provincia .” Sarà qui in Asia che i romani esercitarono senza scrupoli il loro dominio, opprimendo pesantemente città e territori con malversazioni e soprusi. Pag. 31 a 113 I romani operarono su due altri fronti: in area illirica e dalmatica. Ai confini nord-orientali si svolsero campagne impegnative contro popolazioni alpine e istriane, e il dominio romano sull’ Istria fu consolidato nel 129 a.C. Nella Gallia meridionale, su richiesta di Marsiglia sua alleata, Roma intervenne per placare conflitti tra tribù locali. In pochi anni la regione ricevette un assetto provinciale e avviò un processo di romanizzazione istituzionale, materiale e culturale, tramite la fondazione di colonie romane come Narbona e la costruzione di strade consolari come la via Domitia (da governatore Domizio Enobarbo), che congiungevano la valle del Rodano e la Spagna pirenaica (passando per città come Tarraco Tarragona e Barcino Barcellona). L’enciclopedista e storico Plinio il Vecchio (in Storia Naturale III) tramite la descrizione dell’area che proprio dal latino provincia avrà il nome di Provenza, fornisce un riflesso dell’affinità culturale tra la parte della Gallia prospiciente il Mediterraneo e l’Italia: “Si chiama provincia Narbonese la parte delle Gallie che si affaccia sul Mediterraneo, un tempo detta Bracata. Per l’agricoltura, la dignità dei costumi, le risorse (..) più che una provincia si può considerare una parte dell’Italia.” 6.5 Cambiamenti nel reclutamento dell’esercito, clientele militari Dal 118 a.C. il regno filoromano di Numidia fu oggetto di un’aspra contesa dalla quale uscì vincitore il principe Giugurta. Brillante e generoso, guastò i rapporti con Roma con mosse provocatorie come la strage nel 112 a.C. della comunità dei commercianti italici a Cirta, dove si era asserragliato uno dei suoi rivali. La guerra contro Giugurta fu occasione dell’emergere di Gaio Mario. HOMO NOVUS (arrivato ai vertici dello stato senza avere antenati nobili) inizialmente protetto dalla gens dei Metelli, Mario (tribuno plebeo nel 119 a.C. e pretore nel 115 a.C.), come console eletto nel 107 a.C. assunse il comando della guerra e la chiuse vittorioso dopo due anni. Dal 104 a.C. ebbe, contro le leggi, una serie ininterrotta di altri cinque consolati, a ciascuno dei quali corrisposero imprese vittoriose: sconfitta delle minacciose tribù germaniche di teutoni (ad Aquae Sextiae, Aix-en-Provence) e cimbri (a Vercelli). Sin dal momento della leva per la guerra giugurtina Mario favorì il reclutamento dei volontari: con lui, per la prima volta furono impiegati i nullatenenti = i capite censi, cittadini romani registrati ma senza beni. L’esercito, da sempre basato sulla leva dei cittadini proprietari tenendo conto della loro qualifica censitaria, si andava professionalizzando. I legami tra comandante e suoi soldati si stringevano, e l’immagine di Mario divenne al contempo imperator e umile commilitone, datore di ordini e loro esecutore (Sallustio, La guerra di Giugurta). Prendeva impulso la CLIENTELA MILITARE: gli ex legionari si trasformarono in un gruppo di pressione decisivo nelle contese elettorali e legislative a partire dal 100 a.C., quando il tribuno Lucio Apuleio Saturnino, che voleva l’approvazione di una legge per l’assegnazione di terre galliche ai veterani, “mandò dei messaggeri tra i cittadini della campagna, nei quali soprattutto fidavano, per essere stati soldati sotto Mario” (Appiano, Le guerre civili I). Con il supporto di Glaucia, pretore nel 100 a.C., Saturnino riuscì a farla passare nonostante le opposizioni. Fu però proprio Mario a favorire l’eliminazione di Saturnino e Glaucia: li lasciò al loro destino, ed entrambi furono uccisi dalla parte nobiliare durante scontri di guerriglia urbana. Perché questa scelta? Perché c’erano tensioni interne al movimento popolare (tra Glaucia e Mario) e forse Mario desiderava compiacere il senato per divenire (lui homo novus) parte della più esclusiva oligarchia. 6.6 La giustizia: controllo sui tribunali e processi politici Linea di demarcazione tra amministrazione della giustizia e lotta politica con strumento coercitivo giudiziario era sottile, talvolta inesistente. La fine del II e il I sec a.C. fu uno dei momenti in cui fu maggiore l’incidenza dell’uso dei processi per mettere in difficoltà o eliminare gli avversari. Senatori e cavalieri, secondo le fonti, si contendevano senza esclusione di colpi il controllo sulla corte regolare che deliberava Pag. 32 a 113 italici attivi in Asia furono trucidati in località diverse in un solo giorno: gli eccidi voluti da Mitridate riflettevano la crudeltà del suo potere autocratico ma anche l’insofferenza contro la presenza romana. Il sovrano pontico riuscì ad ergersi a paladino di questo tipo di sentimenti antiromani che circolavano persino sotto forma di testi oracolari in cui si preannunciava la futura vendetta dell’Asia su Roma. L’insofferenza degli orientali riguardava sia l’avido sfruttamento economico (incarnato dai publicani) sia la dipendenza politica da Roma. Mitridate suscitava d’altro canto l’ostilità di svariate popolazioni anatoliche indigene. Nel corso della sua campagna, Silla ristabilì l’ordine romano ad Atene, vincendo l’esercito pontico a Cheronea e Orcomeno. A Dardano (nell’odierna Turchia) nell’85 a.C. Silla e Mitridate stipularono un accordo di pace. Nel frattempo, Mario e i suoi uomini avevano ripreso il potere su Roma, facendola sprofondare però nel caos della guerra civile, con ritorsioni e vendette. Mario era coadiuvato da Cinna (console sostenuto da Silla nell’87 a.C. ora passato dalla parte popolare) e insieme fecero confiscare i beni di Silla e ottennero il consolato per l’86 a.C. Mario morì in questo stesso anno e due anni dopo morì anche Cinna. Scomparsi i rivali più temuti, Silla ripartì dopo Dardano con l’intenzione di rientrare in Italia, era arrivato il momento propizio del suo ritorno che aveva aspettato a lungo in Grecia. Nell’83 a.C. sbarcò a Brindisi e da lì si mosse verso la capitale. Sconfitti nella battaglia presso Roma a Porta Collina nel novembre 82 a.C. i sanniti e lucani comandati da generali mariani, Silla entrò in città e spiegò ai comizi i suoi obiettivi di restaurazione. Ancora provvisto dei poteri di proconsole, rese pubblico l’elenco dei nomi dei più accaniti oppositori che avrebbero dovuto essere colpiti, in modo da evitare rappresaglie indiscriminate e far intravedere il ritorno alla pace sociale. Sono queste le famigerate PROSCRIZIONI di Silla, che di fatto inaugurarono un nuovo clima di odio e terrore, fondato su delazioni, condanne capitali, e cacce all’uomo legalizzate. Silla fu nominato ufficialmente dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae; aveva assunto epiteti divinizzanti come quello di Epaphroditos (protetto di Venere-Afrodite), e di Felix (felicitas = virtù del generale fortunato per volontà divina). Nell’81 a.C. emanò dei provvedimenti per rendere più efficiente il governo, aprendo qualche spiraglio di dialogo con i moderati dello schieramento avverso, ma venendo sempre incontro ai suoi sostenitori di parte ottimate. Il senato fu portato da 300 a 600 membri e i nuovi senatori furono scelti per lo più fra cavalieri e i notabili italici legati a Silla: voleva favorire una riconciliazione fra l’ordine senatorio e l’ordine equestre, dopo le tensioni per il controllo sui tribunali che si occupavano delle repetundae pecuniae (affari di concussione relativi alle province) che ora poté essere restituito ad una giuria composta da membri del senato. Il numero di pretori e questori fu aumentato per coprire il fabbisogno di promagistrati ora destinati all’amministrazione delle province. Il tribunato della plebe fu invece penalizzato: i tribuni persero il diritto di veto (diritto di bloccare una deliberazione amministrativa, legislativa, politica) e l’esercizio della carica fu reso incompatibile con l’ulteriore sviluppo di un cursus senatorio. Risulta che con Silla sia stato ampliato il pomoerium, operò numerose iniziative edilizie a Roma e confiscò molti terreni che divise tra i veterani del proprio esercito. Al culmine del suo potere, il dittatore abdicò, deponendo la sua carica, mentre tutto stava andando come lui aveva sperato. Visse gli ultimi anni tra Roma e la sua villa di Cuma in Campania, dove si dedicò all’opera storiografica di Memorie, non pervenutaci. Morì nel 78 a.C. a sessant’anni, con onori funebri di immensa solennità e partecipazione. Fu generale eccezionale, statista importante, la cui crudeltà divenne proverbiale (crudelitas sillana), si voleva far riconoscere come riformatore anzi restauratore delle istituzioni repubblicane. 6.9 L’ascesa di Pompeo Negli anni 78-70 a.C. persistevano conflittualità tra sillani e mariani e il controllo romano su alcuni territori extraitalici era tutt’altro che stabile. Pag. 35 a 113 In Spagna, GNEO POMPEO (figlio di Gneo Pompeo Strabone generale romano nella guerra sociale e dalla parte di Silla) si mise in luce sconfiggendo il popolare Quinto Sertorio, ex proconsole nella Spagna Citeriore che aveva costruito una sorta di governo indipendente rafforzando le proprie milizie (in cui erano confluiti soldati di un altro insorgente popolare, Lepido, console nel 78 a.C.) con residenti romano-italici e aristocrazie indigene. Nel 73 a.C. scoppiò forse la più pericolosa delle guerre servili: quella promossa dal trace Spartaco all’interno della rinomata scuola di gladiatori di Capua e poi tracimata per l’Italia, con decine di migliaia di rivoltosi, schiavi e nullatenenti desiderosi di libertà e di terre da saccheggiare. Nel 71 a.C. il pretore Marco Licinio Crasso, sillano, riuscì con l’aiuto di Pompeo a reprimere con energia la ribellione. Spartaco fu ucciso, ma verrà ricordato molti secoli più tardi come eroe romantico o icona di movimenti rivoluzionari a ispirazione socialista. Nel 70 a.C. Pompeo e Crasso furono eletti al consolato: P era dotato di grande prestigio militare, C era ricchissimo per bottini e ardite speculazioni finanziarie, molto vicino all’ordine equestre. Furono loro, sillani di estrazione poi addivenuti a posizioni moderate, fra i principali artefici dell’abrogazione dei provvedimenti più radicalmente antipopolari di Silla. Due incarichi accrebbero ulteriormente il prestigio di Pompeo: nel 67 a.C. una legge (lex Gabinia de uno imperatore contra praedones constituendo) gli attribuiva poteri eccezionali per lottare contro il fenomeno della pirateria. Con una efficacissima campagna, in appena tre mesi Pompeo ripulì le coste della Cilicia e della Licia distruggendo le fortezze dei pirati e mandando in frantumi la loro organizzazione. L’anno successivo si riacutizzò il conflitto con Mitridate, a seguito dell’invasione mitridatica del regno di Bitinia lasciato dal re Nicomede in eredità ai romani. Il senatore Licinio Lucullo, onesto e moderato verso i provinciali, fu sostituito nel 66 a.C. dal senato con il più carismatico Pompeo. Grazie ad una lex Manilia fortemente caldeggiata da Cicerone, Pompeo ricevette l’incarico di concludere le campagne d’Oriente (imperator e con soprannome di “Magno” datogli da Silla) con un comando straordinario per quantità di legionari e assoluta libertà di iniziativa di guerra e di pace. Mitridate perse alleati militari e, ridotto all’impotenza, si suicidò nell’estate del 63 a.C. Pompeo preparò l’invasione della Siria e dopo un lungo assedio, nell’autunno del 63 a.C., cadde Gerusalemme e finì tragicamente l’indipendenza dei giudei. Il comandante annunciò alle truppe la conclusione vittoriosa della guerra. In appena quattro anni, Pompeo aveva risolto il problema dei pirati, pacificato l’Oriente, esteso i domini di Roma e soprattutto aveva eliminato il pericolo legato all’antico e irriducibile nemico Mitridate. Nuova sistemazione dell’Oriente: Pompeo organizzò in forma di provincia la Siria e completò l’organizzazione provinciale avviata da Lucullo annettendo parte del Ponto alla Bitinia (tutte aree sottoposte ora a governatori e tributarie di Roma). Pompeo strinse nuove relazioni con comunità, principi e potenti di quell’area. Creò in molti casi rapporto di tipo clientelare, garantendo la protezione in cambio di collaborazione nel controllo delle regioni orientali e di lealtà politica verso di sé e verso l’Impero Romano. 7: L’organizzazione delle province 7.1 Il termine ‘provincia’ Questione della formazione e della organizzazione delle province nella Roma medio e tardorepubblicana. Nella saggistica, la parola ‘provincia’ è generalmente usata per indicare un’area conquistata militarmente e subordinata sul piano politico, giuridico ed economico, dotata di confini e diretta da amministratori inviati sul posto per conto del potere centrale romano. Questo significato nacque da una più larga accettazione del latino ‘provincia’ quale specifica area di attività, giurisdizione, missione di carattere civile o bellico di un Pag. 36 a 113 magistrato (o promagistrato). Quest’ultimo significato non verrà sostituito del tutto, anzi si manterrà per indicare ambito di competenza assegnato dal senato o dall’imperatore a un determinato magistrato o funzionario fino all’epoca postclassica e tardoantica. Il concetto di provincia come distretto soggetto alla potenza dominante fu considerato, dai decenni successivi alla guerra sociale almeno fino al II sec d.C. in contrapposizione a quello di ‘ Italia’ come entità idealmente e statutariamente assimilabile a Roma costituita da municipi affrancati da un sistema di governo di tipo provinciale. Riconoscimenti giuridici: nell’Italia peninsulare la fascia a nord del Po otterrà nel 49 a.C. l’estensione del diritto di cittadinanza romana, continuando a essere provincia (di Gallia Cisalpina) e ad essere governata da un ex console sino all’immediato dopo-Cesare. 7.2 Evoluzione organizzativa e assetti statutari La più antica provincia romana, la Sicilia, era stata occupata sin dalla fine della prima guerra punica e provvista nel 227 a.C. di un pretore probabilmente annuale, mentre un secondo pretore era stato preposto alla Sardegna-Corsica. In Sicilia i romani, dopo la presa della ribelle Siracusa nel 211 a.C., regolarizzarono le riscossioni fiscali resuscitando l’imposizione della decima sui prodotti (prevista dal re siracusano Gerone II, da qui la definizione di Legge di Gerone usata da Cicerone per il modello contributivo adottato nell’isola per sfruttarne la produttività cerealicola). La gradualità dell’entrata a regime dei modelli amministrativi romani caratterizzò la difficile provincializzazione delle due Hispaniae, per le quali erano stati creati nel 197 a.C. due nuovi pretori e, più tardi, di Macedonia, Africa, Asia, Gallia Transalpina meridionale. Quindi, esigenze preparatorie e di adattamento agli specifici contesti regionali potevano far sì che intercorressero molti decenni tra la presa di possesso di un territorio a seguito della vittoria in guerra e l’instaurazione di schemi di governo ordinati e uniformi, un invio regolare di governatori, tecniche di controllo politico e sfruttamento economico-finanziario. Tale compiutezza può ritenersi realizzata verso la fine del II sec a.C., quando ormai si è formato un vero sistema provinciale destinato a svilupparsi e completarsi in epoca postsillana con una nuova intensa ondata di annessioni (per conquista o cessioni di monarchi orientali) e rapida trasformazione in province. LEX PROVINCIAE Dal punto di vista normativo, nella maggior parte dei casi il primo assetto “romano” dato alla regione conquistata era opera del magistrato-comandante vincitore, il quale varava acta e provvedimenti spesso affiancato da una commissione senatoria inviata ad hoc. Quindi la regione riceveva un ordinamento legale complessivo, detto dai moderni lex provinciae: le leggi provinciali erano costituzioni transitorie e flessibili, sostituibili e integrabili da altre carte. Potevano tuttavia valere anche per moltissimo tempo: nel 111/113 d.C. la Lex Pompeia (vincoli per l’accesso alle cariche municipali) data alla Bitinia appena provincializzata nel 63 a.C. è ancora citata in una lettera di Plinio il Giovane, legato della stessa provincia, all’imperatore Traiano. Altre leges provinciae sono le lex Rupilia del 132/131 a.C. relativa alla Sicilia, e quella data da Metello Cretico all’isola di Creta. FORMULA PROVINCIAE Con un’espressione traducibile con ‘riduzione alla forma di provincia’ (redactio in formam provinciae), dal I sec si faceva riferimento al nuovo ordinamento costituzionale di una certa area e si denotava l’avvenuta formalizzazione dello statuto provinciale. Questa era conseguenza di una lista ufficiale detta formula provinciae: Roma, nella formula, determinava esattamente il quadro geopolitico e metteva nero su bianco gli obblighi delle singole comunità elencate, ciascuna delle quali aveva in preciso status deliberato da Roma. Pag. 37 a 113 censori attraverso aste pubbliche) costoro ottennero i diritti a riscuotere le tasse in provincia, che avveniva spesso mediante terribili vessazioni dei contribuenti e indeboliva le economie provinciali (indebolimento ancora più serio tra la fine del II sec a.C. e l’età pompeiana con nuove province). L’ingente mole di denaro che erano chiamati a garantire anticipatamente all’erario favorì la formazione di società di appaltatori, societates public(an)orum, ciascuna in un distretto di riferimento. Riscuotevano sia le tasse dirette, sia quelle sul transito delle merci, ed erano temuti per la loro aggressività e perché sfruttavano al massimo le opportunità di guadagno favorite dalle loro prerogative. Dal momento che l’accesso alle attività finanziarie era vietato ai senatori e ai politici, i gruppi di pubblicani più importanti erano cavalieri dotati del censo minimo di 400000 sesterzi o comunque molto vicini ad ambienti equestri. C’erano anche speculatori di varia natura. I pubblicani avevano una base principale a Roma, ma c’erano stazioni di riscossione e succursali della sede in molti centri portuali e località interne del Mediterraneo, con impiegati e servi. La loro organizzazione interna comprendeva soci ordinari (redemptores), responsabili degli appalti (mancipes) e direttori delle società (magistri), rappresentanti dinanzi a terzi in ambito negoziale e processuale, esattori a diretto contatto coi contribuenti. L’impopolarità dei pubblicani e al tempo stesso la loro irrinunciabilità (pena il crollo dell’intera organizzazione provinciale e delle entrate tributarie) costituiva una vera questione. Agire in combutta con loro avrebbe potuto portare guai anche per il più spregiudicato degli amministratori provinciali: i sudditi potevano sempre attivare procedure giudiziarie presso il senato e i fori sulle malversazioni. Il terrore incusso negli amministrati inoltre NON era una qualificazione apprezzata dell’uomo politico romano. Il governatore finiva in genere col doverli vezzeggiare, trattare con accortezza e cautela, poiché era impossibilitato a rinunciare alla loro opera e al sostegno politico del ceto equestre cui facevano riferimento. Cicerone, Epistole al fratello Quinto: “Sarà inevitabile per te riflettere sui giudizi tanto lusinghieri sul tuo conto, sui tributi di stima tanto importanti, e contro questo tuo volere scrupolosamente manifestato creano una seria difficoltà i pubblicani: se ci mettiamo in conflitto con loro faremo sì che vengano rotti i ponti con noi e con lo stato repubblicano da parte di un ceto sociale saldamente incardinato nella struttura dello Stato. Se, invece, li asseconderemo, faremo perire irrimediabilmente i nostri amministrati. Ora, trattare la questione in modo tale da appagare i pubblicani, così che i provinciali non siano rovinati, pare prerogativa di una mente che azzardo a definire divina, cioè la tua. E innanzi tutto, ai greci non deve sembrare così duro l’essere sottoposti a tributo, per la semplice ragione che essi, non ancora soggetti al dominio romano, si trovavano in siffatta situazione. (..) Tutto affinché tu componga ogni contrasto tra pubblicani e greci, e che i greci lascino che noi sosteniamo e conserviamo quel vincolo di solidarietà che abbiamo con i pubblicani.” 8: Cicerone e l’età cesariana (63 – 43 a.C.) 8.1 Cicerone protagonista e testimone Il ventennio tra 63 e 43 a.C. può essere definito epocale per il livello delle tensioni civili e delle lotte sociali che segnarono l’ultima fase del passaggio dal regime repubblicano al nuovo ordine di Ottaviano Augusto, per la densità di produzione poetica e letteraria (Catullo, Lucrezio, Varrone), per la statura dei protagonisti (peso delle individualità). Se sono perdute le Storie del senatore Asinio Pollione (76 a.C. – 5 d.C.) sugli anni di conflitto tra Cesare e Pompeo, abbiamo comunque una notevole quantità di informazioni sulle principali personalità di quel Pag. 40 a 113 periodo: Cornelio Nepote in una biografia della sua opera storica su Gli uomini illustri ricorda l’amicizia che legava l’editore Attico e Cicerone, testimoniata dal carteggio fra i due: “Chi legge gli undici rotoli di lettere mandate ad Attico nel periodo dal consolato di C alla morte non sentirà bisogno di una monografia storica di quei tempi. Tutto ha la sua luce giusta e vien fatto di pensare che la sua sensibilità politica era in un certo senso divinatrice: C non solo ebbe la visione anticipata dei fatti che si svolsero quando egli era in vita, ma anche predisse quelli che accadono ora.” L’epistolario ciceroniano costituisce una fonte di primissimo rilievo per lo studio storico dei due decenni che conducono alla dittatura e alla morte di Gaio Giulio Cesare. Fonte ancora più preziosa perché la tradizione manoscritta ha trasmesso la data della missiva, permettendoci di seguire le vicissitudini private e gli affari pubblici giorno per giorno. Non solo grazie alle sue orazioni giudiziarie, opere retoriche, trattati politici e filosofici, ma seguire il filo della stessa attività pubblica e della vita privata di Cicerone consente una sorte di viaggio nella tarda repubblica, dalla morte di Silla alla sua tragica fine nel 43 a.C. L’elemento vistoso della soggettività scherma in modo ineliminabile l’osservazione e l’interpretazione così della cronaca come della storia. Come Cesare memorialista (analogo a Silla, la cui autobiografia è andata perduta) intorno alle sue imprese di proconsole negli anni Cinquanta ne La guerra gallica e di leader nello scontro armato contro il rivale Pompeo Magno dal 50 al 46 a.C. ne La guerra civile. Digressioni etnografiche, notizie prosopografiche, affreschi di storia e disciplina militare. Cicerone e Cesare avevano entrambi (lo fanno capire l’uno con le riflessioni teoriche, l’altro con l’azione) una visione delle cause della crisi della repubblica e dei suoi rimedi. Altrettanto si può dire di Gaio Crispo Sallustio, che rimeditò su passato e presente nelle due monografie dedicate alla Congiura di Catilina e alla Guerra di Giugurta, e nelle Storie dedicate agli anni dal 78 al 67 a.C. Delineare in modo esauriente quanto accadde in questo periodo non è possibile. Rapporto indissolubile tra affari interni romani e affari provinciali (per Sallustio res internae e res externae), tra conservazione e innovazione istituzionale. Partiremo dal 63 a.C., uno degli snodi cronologici della politica tardorepubblicana e anno del drammatico consolato di Cicerone. 8.2 Il 63 a.C.: Cicerone console e la congiura di Catilina Cicerone era nato nel 106 a.C. da una famiglia equestre nella laziale Arpino, patria già di Gaio Mario. A Roma aveva frequentato le migliori scuole di retorica, filosofia e diritto, aveva svolto l’avvocatura, viaggiato in Grecia e Asia, si era avviato alla carriera pubblica con la questura in Sicilia nel 75 a.C., l’edilità nel 69 a.C., la pretura nel 66 a.C. Nel 63 a.C. raggiunse, homo novus, la massima magistratura in coppia con Gaio Antonio, un senatore plebeo di ambigua collocazione politica. Proprio in quell’anno esplodeva il caso di Catilina. Sul tentativo di colpo di stato operato da Catilina e sulla sua figura di uomo immorale ma “di grande energia intellettiva e fisica” (Sallustio) la nostra fonte principale è Sallustio, secondo cui “vennero al pettine” in quel periodo nodi formatisi dopo che il regime di Silla aveva accelerato il degrado della res publica. Importanti sono anche le quattro orazioni di Cicerone, le Catilinarie. Lucio Sergio Catilina, appartenente ad una famiglia patrizia decaduta, era stato sillano e aveva avviato la sua carriera lungo vie ordinarie sino alla pretura nel 68 a.C. Governatore in Africa, ne era uscito con un’accusa di peculato. Dopo un primo tentativo fallito (e forse una prima congiura fallita) si era ricandidato nel 63 a.C. per il consolato dell’anno successivo. Il suo programma aveva contenuti di stampo popularis ed era caratterizzato da metodi demagogici: Catilina sperava nel sostegno di tutti coloro che come lui ambivano a modificare radicalmente gli assetti politici e sociali consolidati. Dopo l’ulteriore insuccesso elettorale, Catilina si risolse all’atto eversivo violento. La cospirazione lievitò rapidamente: le ambizioni personali deluse di Catilina vennero coordinate con la spregiudicatezza di una minoranza di nobili outsiders e amici di Catilina, la sensibilità di altre elites verso lo slogan della liberazione della repubblica dalla Pag. 41 a 113 potentia paucorum, la valorizzazione dei giovani come gruppo identitario, i sentimenti di riscatto dei poveri e della plebe più emarginata ai quali venivano promesse ridistribuzioni di terre e abolizione dei debiti. Cicerone fu il grande repressore della ribellione catilinaria, e il modo in cui egli gestì l’impresa gli valse i meriti di salvatore della res publica (venne anche denominato pater patriae da autorevoli contemporanei, epiteto che sarebbe appartenuto decenni dopo al principe Augusto). Egli ottenne le prove della congiura, il cui piano avrebbe dovuto portare al rovesciamento della repubblica, l’eccidio di molti senatori ostili e l’ingresso di Catilina nell’Urbe con le sue armate, allestite ed equipaggiate al meglio in Etruria. Venne emanato un senatus consultum ultimum col quale Catilina era trattato da ‘nemico pubblico’. Le insurrezioni (a Roma, in Etruria, soprattutto nel Piceno e in Puglia) non risolsero la situazione e la guerra fu chiusa da una battaglia sulle alture di Pistoia il 5 gennaio 62 a.C., in cui morì lo stesso Catilina. Cicerone usò la sua autorità di console, appoggiato dal senatore Catone il Giovane, per condannare a morte i cospiratori e farli giustiziare senza il pieno rispetto di tutte le garanzie legali previste: si trattò di un errore che Cicerone avrebbe pagato con l’esilio. Nell’opera di Sallustio il ruolo del console è sottorappresentato, per la scarsa simpatia dello storico verso Cicerone. Erano considerati dai contemporanei quasi personalità antitetiche (si sarebbero scagliati addirittura due pamphlets scolastici, Invettiva contro Sallustio – depravato, ambizioso irrispettoso delle leggi – e Invettiva contro Cicerone - definito homo levissimus, pauroso, voltagabbana, “Romolo d’Arpino”). 8.3 A proposito del ruolo delle assemblee popolari: la campagna elettorale di Cicerone Negli ultimi anni c’è stato ampio dibattito attorno al ruolo del popolo nei comizi legislativi ed elettorali del I sec a.C., vediamone i termini essenziali anche relativi alla competizione per il consolato ciceroniano del 63 a.C. Secondo un illustre filone storiografico della prima metà del Novecento, l’esito delle deliberazioni comiziali dipendeva dal peso di potentati e clan familiari capaci di orientare la politica attraverso clientele e alleanze private, corruzione, elargizione di doni e altre forme di controllo: le assemblee non sarebbero state altro che momenti di formalizzazione di maggioranze precostituite, a seguito di lotte o accordi tra chi contava, nelle settimane e mesi precedenti alla votazione. Uno dei presupposti di tale quadro (fondato sul metodo prosopografico) era l’idea di plebe come massa amorfa, attenta solo al pane delle distribuzioni. Anche la religione poteva entrare in gioco nelle dinamiche elettorali ed essere strumento nelle mani degli aristocratici detentori dei sacerdozi, come gli auguri che potevano modificare l’andamento dei comitia populi (autorizzandone o rinviandone lo svolgimento, o invalidandone ex post i risultati) attraverso la dichiarazione di auspici divini favorevoli o meno a tali attività (poteva essere richiesto da un magistrato in carica). Tarda repubblica come situazione nella quale gli spazi partecipativi del popolo romano rendevano legittima l’applicazione della nozione di ‘democrazia’ è stata riargomentata dallo storico inglese Millar (che la nozione sia corretta per capire il sistema politico tardorepubblicano lascia dei dubbi: la democrazia romana aveva inadeguatezze intrinseche = molto bassa percentuale di cittadini aventi diritto in grado di partecipare alle attività politiche che si svolgevano a Roma, peso preponderante sempre mantenuto dalle aristocrazie, si era lontani da un riconoscimento generale). Per Millar alcuni fattori sono invece a sostegno della sua teoria: esistenza di una relativa libertà di espressione quando si votava col sistema a scrutinio segreto (per tabellam), l’importanza delle campagne elettorali combattute intorno al rispetto del mos maiorum, ai meriti personali o familiari, a programmi e interessi. Funzionari a tutto ciò erano l’oratoria e i discorsi nelle contiones al popolo, nei comizi o in tribune nel foro prima delle votazioni = modificavano gli orientamenti di un elettorato in definitiva dotato di autonomia di scelta maggiore di quanto abitualmente creduto. Una delle fonti più importanti per una valutazione della concorrenza, del consenso, e del ruolo del popolo nella politica romana è una lettera-opuscolo dal titolo Manualetto di campagna elettorale indirizzata da Quinto Cicerone al fratello illustre oratore in occasione della sua candidatura al consolato. Rilievo degli spostamenti del candidato fra i cittadini, affabile e amico con tutti, ammiratori, voto di scambio, rendersi Pag. 42 a 113 non era autorizzato a condurre un esercito in assetto di guerra. L’11 gennaio 49 a.C. varcò con le sue truppe il ponticello, e tutte le decisioni passarono alle armi. Cesare dichiarava di essere stato costretto alla guerra, di agire in difesa della sua dignitas ingiuriata, della libertà repubblicana, dei tribuni della plebe la cui volontà era stata calpestata (Svetonio, Vita di Cesare; Cesare, La guerra Civile). Iniziava così la marcia verso Roma. Cicerone, nell’epistola all’amico Tirone, espresse la sua convinzione che Pompeo avesse purtroppo iniziato tardi “a temere Cesare”. 8.5 La guerra civile e la dittatura di Cesare Durante la sua rapida discesa lungo la penisola, molte città passarono dalla parte di Cesare o furono da lui occupate diventandone basi strategiche. Pompeo decise di imbarcarsi con i suoi a Brindisi, per spostare il baricentro del conflitto nel settore balcanico e in Oriente, dove godeva di appoggi e clientele. Dopo una diversione in Spagna (supporto di alcune legioni, Spagna prevalentemente pompeiana), Cesare passò in Epiro dove, nonostante l’inferiorità numerica delle sue truppe, vinse la battaglia decisiva campale dell’agosto del 48 a.C. presso la città di Farsalo in Tessaglia. Pompeo fuggì in Egitto, ma gli ambienti di corte del giovanissimo Tolomeo XIII si rivelarono una trappola mortale: P venne assassinato a tradimento. Cesare, sbarcato nel paese del Nilo (dove soggiornò per circa un anno dal settembre del 48 a.C. e consolidò il protettorato romano), manifestò (ipocrita per lo storico di età imperiale Cassio Dione) il suo disprezzo verso l’atto e rese pubblicamente omaggio alla memoria dell’avversario. La sorella e secondo uso dinastico la sposa di Tolomeo XIII, la regina Cleopatra, ebbe una lunga e non clandestina relazione col generale romano e forse gli dette un figlio, Cesarione; Cesare continuava a vivere con la moglie Calpurnia, ma matrimonio iustum e concubinato non erano aberrazioni per il costume sociale romano. Le ultime resistenze dei pompeiani furono vinte prima nel 46 a.C. a Tapso in Africa, quindi nel 45 a.C. a Munda in Spagna. In Africa, a Utica, si suicidò Catone (soprannome di Catone l’Uticense), repubblicano irriducibile e irriducibile nemico di Cesare. Assicuratosi il potere come console dal 48 a.C. in poi e come dittatore (un anno dalla fine del 49 a.C.) nel 46 a.C. fu nominato dal senato dittatore per dieci anni, nel febbraio del 44 a.C. divenne dictator perpetuus, e Cesare si dedicò ad un piano di riforme istituzionali e di ricostruzione della morale della società dilaniata dai conflitti. Sul piano politico, egli reintegrò spesso l’avversario e il nemico con la sua clementia, abilmente propagandata e divenuta valore etico centrale della ideologia imperiale. In un’orazione del 46 a.C., Cicerone affronta il tema con una stucchevole retorica adulatrice (con il desiderio di ottenere dal dittatore la grazia per amici e pompeiani): “Ma questa tua giustizia e mitezza d’animo fiorirà ogni giorno di più, e senza dubbio tu avevi già prima vinto in equità e misericordia tutti gli altri vincitori delle guerre civili, ma oggi ha vinto te stesso: tu hai vinto la stessa vittoria nel momento in cui hai restituito ai vinti quei beni che essa aveva ottenuto. Noi tutti, che siamo stati sconfitti, saremmo morti, ma siamo stati graziati dal giudizio della tua clemenza.” Maggiori iniziative intraprese durante la dittatura: rilancio di una politica coloniaria di grande stile, specialmente extraitalica con stanziamenti garantiti ai proletari, a una gran massa di veterani e anche ai liberti; la realizzazione di grandi opere pubbliche quali il tempio di Venere Genitrice e il Foro Giulio; lo scioglimento delle associazioni professionali di mestiere (collegia); la forte riduzione dei beneficiari delle distribuzioni gratuite di grano nell’Urbe; l’ampliamento del Senato a 900 membri con una cospicua immissione dei propri seguaci. Razionalizzazione del calcolo del tempo, finalmente fondato sull’anno solare di 365 giorni (riforma del calendario civile, detto “giuliano”). Unione dei suoi formidabili poteri concreti in ambito religioso e civile (pontificato massimo, prerogative di tipo censorio concesse a vita, possibilità di nominare personalmente i magistrati) con le titolature onorifiche e carismatiche (l’ascendenza divina, l’epiteto onorifico di Imperator, tipico dei trionfatori repubblicani, attribuitogli a vita, Caesar) era o si avviava a divenire sinonimo di autorità sovrana. Pag. 45 a 113 Riguardo l’anomalo conferimento decennale della dittatura, antica carica di solito di durata semestrale, storico Christian Meier ha posto il quesito: si voleva forse distogliere Cesare, con questa generosa concessione, dall’instaurare una monarchia? Molti erano convinti che mirasse a sostituire il governo repubblicano con un regno, e la parola regnum suscitava istintiva diffidenza, ripugnanza, alle orecchie dei romani. Questa idea sembrò confermata quando il console del 44 a.C. e attivissimo filocesariano Marco Antonio il 15 febbraio di quell’anno, pochi giorni dopo il conferimento della dittatura a vita, osò proporre a Cesare la corona reale. 8.6 Dalle “Idi di marzo” alla morte di Cicerone Il rifiuto dell’incoronazione fu, nell’opinione di antichi come Svetonio (Vita di Cesare) e moderni, soltanto una messinscena dalla quale doveva sortir fuori il tradizionalismo e l’attaccamento del dittatore all’ordinamento repubblicano. L’opposizione anticesariana si era venuta articolando variamente fra ottimati, pompeiani, nemici privati anche ex cesariani, sinceri repubblicani e legalitari impauriti dalla deriva autocratica in atto. Pare non fosse soltanto l’ostilità di un pugno di aristocratici, ma che fosse diffusa anche presso il popolo. Parola chiave era la LIBERTAS, ma uno slogan così era stato usato da molti, anche da personaggi come Catilina e Clodio, che lo piegavano al loro scopo. Il ripristino della libertà repubblicana (primato al senato, svolgimento regolare delle elezioni, limitazione ai minimi termini degli incarichi eccezionali, regolamentazione delle clientele militari) era davvero una possibilità antistorica. Quella dell’ultima repubblica si configurò come una “crisi senza alternativa” (Meier, Res Publica), ossia un’alternativa che non fosse autoritaria o monocratica. Prese corpo l’organizzazione del tirannicidio. Una sorta di comitato di congiurati (Marco Giunio Bruto, Longino, Decimo Bruto, Trebonio, già legati a Cesare) decise di colpire per le Idi (il giorno 15) di marzo del 44 a.C., quando era convocata una seduta del senato presso la curia annessa al teatro di Pompeo. Disvelamento del complotto a Cesare durante il tragitto verso il senato, folla che si accalcava impedendogli di leggere il foglio con le prove, ventitré coltellate. Mito di Cesare. Le “Idi di marzo” furono un motivo di soddisfazione per Cicerone, come sappiamo dalla sua fitta corrispondenza del 44 a.C. con Attico. Da un lato veniva riconosciuto ai tirannicidi di avere agito in buona fede per amore patrio (amnistia per la violenza commessa), dall’altro si ritenne di dover onorare la memoria di Cesare e di realizzarne le volontà espresse nel testamento, che fu letto in pubblico il 17 marzo. Prevedeva, oltre a un grosso lascito in sesterzi per la plebe urbana, che la sua eredità andasse al nipote nemmeno ventenne C. Ottavio, adottato nella circostanza (ampia narrazione di Nicolao Damasceno, Vita di Augusto). Ottavio, all’inizio di maggio, rese pubblica l’accettazione del testamento: il nome completo da lui preso dopo l’adozione da parte del dittatore fu C. Giulio Cesare Ottaviano. Fonti greche lo menzionano come Kaisar. Una svolta si ebbe nell’ottobre del 44 a.C. quando Ottaviano promise ai veterani di Cesare in Campania che avrebbe vendicato l’assassinio del padre. Cicerone, 4 novembre, scriveva così ad Attico da Pozzuoli: “In un solo giorno mi sono state recapitate due lettere da parte di Ottaviano, che mi invita a recarmi immediatamente a Roma, dicendo che vuole agire attraverso il senato. Egli esercita pressioni, però io mi prendo una pausa di riflessione. Non ho fiducia nella sua età, ignoro da quali intenzioni sia animato. Ho paura che Antonio prevalga e non mi piace allontanarmi dal litorale. A Varrone dispiace proprio il progetto del ragazzo, a me no. Dispone di truppe valide e potrebbe avere dalla sua parte Bruto. Svolge la sua azione alla luce del sole, a Capua forma le centurie dei suoi soldati e dà loro il soldo. Da un momento all’altro vedo scatenarsi la guerra.” Nel 43 a.C., decaduto l’iniziale atteggiamento di Marco Antonio (incline alla pacificazione e conciliante verso i congiurati), si riaprirono gli scontri armati in area Cisalpina e in altre province. Combattevano Antonio e i suoi contro i cesaricidi, forniti di legioni nelle province di cui erano governatori. Nella convulsa Pag. 46 a 113 lotta si inserì anche Ottaviano con un esercito privato che mise a disposizione del senato (privato che salvava lo Stato era ideologia che giustificava i poteri straordinari e i personalismi). Ottaviano, affiancato dai consoli in carica Irzio e Pansa, intervenne militarmente a Modena nell’aprile del 43 a.C., contro Antonio che vi assediava Decimo Bruto. Non vi furono stragi e vendette, e Ottaviano ne uscì ancora più forte e, tornato a Roma, riuscì ad imporre la sua elezione al consolato nell’agosto del 43 a.C. Il 27 novembre dello stesso anno, una lex Titia lo nominava, insieme ad Antonio (col quale si era riappacificato) e Marco Emilio Lepido (patrizio già console nel 46 a.C. e fra i più stretti collaboratori di Cesare), membro del SECONDO TRIUMVIRATO (tresviri rei publicae constituendae). I triumviri erano dotati di poteri eguali o superiori a quelli dei consoli per un quinquennio. Uno dei primi atti fu puramente repressivo: liste di proscrizione di sequestro dei beni o di eliminazione fisica dei nemici di Cesare e degli avversari personali dei triumviri. Fra questi Cicerone, fatto uccidere nel dicembre del 43 a.C. quando era tornato a svolgere un ruolo principale in senato: l’oratore si era inimicato Antonio con le quattordici orazioni note come Filippiche (pronunciate tra settembre 44 e aprile 43 a.C.: nome per ricordare i discorsi pronunciati dall’oratore di IV sec a.C. Demostene contro Filippo II di Macedonia), nelle quali attaccava i misfatti e i difetti antoniani, con l’auspicio di indurre il giovane Ottaviano dalla propria parte, riconoscendo la legittimità delle sue aspirazioni alla leadership. Farsi rappresentanti della memoria del dittatore scomparso avrebbe potuto garantire sostegno militare, supporto popolare, carisma, ma avrebbe significato anche dover gestire una scomoda eredità, sostanzialmente monarchica, e assumersi la responsabilità di dare una sistemazione in terre ai veterani di Cesare. 8.7 Cicerone politologo Conservatore illuminato, Cicerone fu sempre vicino agli ottimati, o a coloro che sul piano morale e sociale erano collocati su posizioni antinomiche alla “politica agitatoria” dei popolari, l’altro maggiore polo della politica romana. Era pienamente consapevole della crisi della sua epoca. Nel corso del tempo elaborò, sia attraverso trattati teorici sia in discorsi pubblici o in lettere private, un suo modello di riforma delle istituzioni e del sistema giudiziario. Non di rado egli cambiò prospettiva e intenzioni: “non bisogna rimanere sempre dello stesso parere quando cambiano i sentimenti dei buoni cittadini, bisogna adattarsi alle circostanze.” (Epistole ai familiari). Bisogna distinguere, nel leggere Cicerone, le alleanze tattiche e le speranze riposte in momenti diversi su uomini quasi provvidenziali come Pompeo, e ancora Ottaviano, in una società che doveva recuperare unità e coesione, ripristinando l’ordine costituzionale perduto e garantendo solidità all’intero impianto dell’impero mediterraneo, in un contesto di nuova moralizzazione. Negli scritti degli anni Cinquanta esistevano ancora speranze per un rinnovamento civile. Nell’orazione In difesa di Sestio del 56 a.C. l’Arpinate ha descritto il suo progetto, ma anche in opere più tarde di filosofia e politica come La repubblica e Le leggi. La visione di C era fondata sulla necessità allo stesso tempo di educare gli uomini politici alla disciplina di statisti e di affidare le redini del governo a quello che egli definisce rector o gubernator o moderator rei publicae affinché operasse al di sopra delle parti per produrre una grande coalizione capace di mettere d’accordo tutti gli ‘uomini dabbene’: un CONSENSUS OMNIUM BONORUM di senatori, cavalieri, ceti elevati italici in crescita, ma anche individui provenienti dai ceti più modesti e persino liberti, di tutti i ceti produttivi che svolgevano onorevolmente le loro attività e che avevano la possibilità di ascendere nella scala sociale in base a meriti. Slogan ne’ In difesa di Sestio “cum dignitate otium” = buon cittadino/uomo politico attivo nella vita pubblica ma non corroso dall’ambizione e perciò capace di dedicarsi a pause di riflessione e di studio. Pag. 47 a 113 le cittadinanze di aree sotto il suo controllo come l’Asia Minore). Fra i romani l’audacia, l’antitradizionalismo, la contraddittorietà dei suoi comportamenti suscitarono perplessità e perdite di consenso anche da parte dei suoi seguaci in Oriente (alla genesi del conflitto con Ottaviano). 9.3 Il naso di Cleopatra Quale è stato il suo ruolo nell’epoca triumvirale? Difficoltà di ricostruzione coerente a causa dei quadri difformi delle fonti antiche. Si oscilla tra visioni, vicine alla propaganda ostile, di un Antonio letteralmente prono ai desideri e ai piani della regina, ed altre che sottolineano piuttosto che fu Cleopatra ad essere vittima della lotta senza quartiere tra i potentati romani di età cesariana e triumvirale (in quanto sovrana e abile amministratrice dell’Egitto, centro di rilevanza strategica ed economica). Fonti: Plutarco e altri autori greci di età imperiale. Educazione adeguata, difetti, cultura, conoscenza di molte lingue che rendeva quasi inutili gli interpreti a corte, autrice di opere letterarie. E’ probabile che siano inattendibili, poiché accecati dall’odio, i numerosi autori che ne hanno evidenziato solo vizi, falsità, sfrenatezza dei costumi. Relazione prima con Cesare (con cui visse a Roma una sfarzosa e onorata vita pubblica dal 46 al 44 a.C. prima di tornare in Egitto dopo la sua morte) e poi con Marco Antonio. Blaise Pascal: “se la forma del naso di Cleopatra fosse stata diversa, anche le sorti della storia sarebbero cambiate”, e c’è un fondo di verità in questo. Fascino complessivo della regina. Ma il suo naso (nelle monete che la ritraggono trentenne, nata intorno al 69 a.C.) era piuttosto pronunciato e adunco, segno di forte personalità. Immagine di Plutarco: donna capace di attrarre gli uomini in modo quasi ipnotico con voce suadente e parola efficace. Dopo il loro incontro a Tarso, in Cilicia, nel 41 a.C., i destini di Cleopatra e Antonio si intrecciarono indissolubilmente. Tra il 40 e il 36 a.C. Cleopatra ebbe tre figli, i due gemelli Alessandro Elio e Cleopatra Selene, e poi Tolomeo detto Filadelfo. Innesto tra tradizioni egizie e progenie romana. Ci furono prolungati periodi di distacco fisico tra il triumviro e la regina, e non si è in grado di stabilire se i due si siano mai sposati con una cerimonia ufficiale. Antonio aveva in Ottavia una moglie dalle parentele temute, e Ottaviano stesso usò la carta di assecondare il desiderio di Ottavia di recarsi dal marito come mossa provocatoria: come contraccambio del suo sostegno nella lotta contro Sesto Pompeo, Ottaviano inviò delle truppe ad Antonio e accompagnata da queste c’era anche Ottavia. Senza respingere i modesti rinforzi, Antonio invitò la moglie, arrivata sino ad Atene, a tornare a Roma, il che equivaleva ad un ripudio. Ottaviano non sembrò oltraggiato dalla ripulsa della sorella: sino al 33 a.C. i rapporti con Antonio furono corretti formalmente e Ottavia stessa mantenne il ruolo di madre di famiglia in modo ineccepibile. Dal 36/35 a.C. in poi, Antonio e Cleopatra condivisero con intensità la loro vicenda affettiva e le loro esperienze di personalità pubbliche. Non c’è motivo di fare di lui un uomo completamente stregato e di lei una cinica simulatrice attenta ad allargare il peso politico dell’Egitto. Nel trasformare l’Egitto di Cleopatra nel regno vassallo più potente dell’area semitico-orientale, il triumviro non agiva più per rafforzare l’impero romano-italico, ma spingeva per obiettivi autonomi con ogni probabilità ora incentrati nel conferire nuove basi geopolitiche all’impero romano. Adeguandosi a Cleopatra ‘Nuova Iside’, Antonio percorreva la strada della divinizzazione del potere: portò il titolo e si fregiò delle immagini esteriori, scolpite anche in statue monumentali, di ‘Nuovo Dioniso’ (Plutarco, Vita di Antonio). In Egitto poi il dionisismo era particolarmente popolare, ma nonostante tutto Antonio non rinnegò la sua matrice culturale e politica di imperator romano provvisto di legioni, togato, triumviro. 9.4 La guerra dei mondi Pag. 50 a 113 La vittoria su Sesto Pompeo fu seguita da altre guerre in Spagna, lungo le fasce alpine e in Illiria: queste campagne volute o condotte da Ottaviano servivano a dare sicurezza ai confini e anche per tenere pronte e allenate le legioni. Ottaviano appariva sempre più uomo provvidenziale per le sorti dell’Occidente. Nel 36 a.C. dopo Nauloco aveva dichiarato la fine delle guerre civili e questo fa supporre anche la cessazione dell’emergenza che aveva presieduto all’instaurazione del governo triumvirale: Lepido era stato estromesso e Marco Antonio era avvertito che, di fatto, gli accordi del triumvirato confermato a Taranto erano obsoleti. Antonio si tratteneva in Oriente dove però non riusciva ad ottenere la gloria militare e dove la complicità con Cleopatra rendeva la sua posizione ambigua se non minacciosa per la sopravvivenza di Roma e dell’Italia come centro dell’impero mediterraneo. Come Ottaviano presentava nella sua incalzante propaganda, era un vero e proprio scontro tra mondi e civiltà. Paladino e difensore dei più austeri valori romano-italici, delle istituzioni repubblicane, dell’Urbe come capitale, il figlio adottivo di Cesare faceva di tutto per sensibilizzare l’opinione pubblica verso il rischio di una metamorfosi completa della res publica in una corte concepita alla maniera ellenistica. Forse Cleopatra aveva davvero intenzione di esercitare la sua autorità giurisdizionale da Roma, una volta ottenuta la vittoria, forse Ottaviano aveva cavalcato l’onda della ostilità diffusa alle tendenze orientalizzanti di Antonio, percepite come un tradimento alla romanità. La maggioranza dei senatori era dalla parte di Ottaviano, ma nel 33 a.C. i clan legati ad Antonio non dovevano aver perso ogni capacità di pressione e di incidenza nella politica romana, visto che i consoli ordinari del 32 a.C. furono due antoniani, Gaio Sosio e Gneo Domizio Enobarbo (Cassio Dione, Storia romana). Il 1 gennaio, all’atto dell’insediamento consolare, Sosio svolse in senato un’orazione violentemente antiottavianea, e Ottaviano poco tempo dopo si presentò nella curia con un seguito armato. Colpo di stato? Forse sì, se si ammette che la storia romana degli ultimi decenni era stata un susseguirsi di colpi di stato. Ottaviano comunque considerava Antonio decaduto dal triumvirato e il suo obiettivo era impedire la prevista sua nomina al consolato del 31 a.C. per sottrargli la possibilità di detenere un imperium legale. Frattanto, i due consoli e 300 senatori di fede antoniniana avevano deciso di recarsi in Oriente per la preparazione della guerra. Enobarbo se ne pentì, e così anche molti amici (tra cui Manuzio Planco) che disertarono, forse spinti dal contatto diretto con la realtà orientale dove, contro l’opinione di molti, cocciutamente Antonio lasciava spazi di azione rilevantissimi alla basilissa egiziana. Planco informò Ottaviano che le vestali custodivano il testamento di Antonio e questo ritrovamento (così utile da far sorgere il sospetto di un falso antico) consentì una pubblica lettura ai romani: il testatore ribadiva la sua scelta ideologica orientale, chiedendo di essere sepolto ad Alessandria, vicino a Cleopatra. Quando Ottaviano avviò la costruzione del proprio sepolcro monumentale nel Campo Marzio il contrasto fra i due fu netto. Antonio faceva fatica a stare al passo della formidabile propaganda sviluppata da Ottaviano. A poco valeva che attraverso suoi emissari o mediante lettere si prendesse gioco degli oscuri natali del rivale o gli rovesciasse le accuse di lussuria. Infine, la guerra fu dichiarata ufficialmente a Cleopatra e all’Egitto: quella che era di fatto una guerra civile ebbe i crismi legittimanti, sul piano etico e giuridico, di una lotta nazionale contro un nemico straniero. A fianco delle sue province, quasi tutte le comunità italiche pronunciarono a Ottaviano il loro solenne appoggio politico e militare. Come affermato dallo stesso Ottaviano nella grandiosa iscrizione sulle sue ‘imprese’ (Res Gestae) applicata lungo le pareti del suo mausoleo e composta durante il suo principato (ultima revisione del 13 d.C.), nei posti di fede ancora antoniniana vi furono rifiuti: valorizzazione del consenso raggiunto mostrando che il dissenso poteva esistere, e anche per rispetto istituzionale dei legami di clientela (fondamento del rapporto tra le comunità italiche e il loro dux). Pag. 51 a 113 9.5 Il trionfo di Ottaviano: la battaglia di Azio Fu Antonio a muovere dalla base di Efeso verso la Grecia. Il suo piano prevedeva l’attacco dell’Italia, con il supporto delle altre città dell’Asia Minore e dei principi orientali che gli fornivano assistenza. L’esercito antoniano ammontava verosimilmente a oltre 250000 uomini tra fanteria, reparti equitati e la poderosissima flotta. Spostò le basi principali lungo la costa dalmata-albanese e presso isole ionie come Corfù. Davanti al promontorio di Azio avvenne decisivo il 2 settembre del 31 a.C. lo scontro navale, dopo una lunga fase di blocco. Il principale campo di Ottaviano era spostato poche decine di chilometri a nord. Battaglia tra navi enormi, quelle di Antonio, con armamenti da lancio come le catapulte, e la flottiglia più agile diretta da Agrippa per conto di Ottaviano, il cui obiettivo era danneggiare le strutture degli scafi nemici mantenendosi in alto mare onde evitare che la battaglia potesse trasformarsi in un corpo a corpo terramaricolo. La tattica riuscì perfettamente. Politicamente fu un tripudio. Antonio e Cleopatra scelsero la fuga verso Alessandria, nella speranza vana di allestire una rivincita. Plutarco mostra Cleopatra colpita profondamente dalla disgrazia di Antonio, e sono pure invenzioni quelle che attribuivano a Cleopatra traditrice responsabilità della morte di Antonio. Alcuni mesi dopo, una volta arrivate le truppe di Ottaviano, i due si uccisero a distanza di pochi giorni. L’Egitto divenne a tutti gli effetti un territorio romano. Il dio Febo Apollo avrebbe presieduto al successo di Ottaviano ad Azio e su questo sito fu fondata una nuova ‘città della vittoria’, Nicopoli. Dalle elegie “romane” di Properzio, squarci trasfigurati poeticamente dell’intera vicenda di Roma tra Oriente e Occidente prima e dopo la battaglia: “Due mondi si scontrarono. Qui la nave di Augusto, col presagio di Giove a piene vele e, a vincere assuefatte, le insegne della patria. E il padre Cesare che osservava dall’astro Idalio: “Un dio io sono; ne fa fede siffatta discendenza.” E fama ottenne Febo da Azio, poi che vinse con una sola freccia lanciata, dieci navi. Pur se Augusto risparmia le orientali faretre, che affidi ai propri figli queste vittorie.” PARTE TERZA L’impero da Augusto agli Antonini (31 a.C. – 192 d.C.) 10: Augusto e la fondazione del principato I primi due secoli della nostra era, sino a Marco Aurelio (161-180 d.C.) e a suo figlio Commodo (180-192 d.C.) sono tradizionalmente ritenuti un periodo di prosperità del governo di Roma retto da una forma di monarchia moderata, e contrapposti ad una fase culminata nella crisi della metà del III sec d.C. e poi approdata, con le riforme di Diocleziano, a un sistema nel quale il sovrano era visto come padrone unico dello Stato (Dominus) e i suoi poteri avevano un fondamento teocratico più dichiarato che in passato. Questo primo periodo viene definito tradizionalmente come ‘alto impero’ o ‘principato’. 10.1 La “rivoluzione romana” e la res publica Nel proemio alla Storia di Roma dalla sua fondazione, Tito Livio (59-17 d.C.), evocò così il degrado della società romana: “si è arrivati a questi tempi, nei quali non siamo più in grado di tollerare né i nostri vizi né i rimedi ad essi.” Forse intendeva che le risposte della politica non erano state in grado di salvare Roma dall’emergenza mantenendone l’ordinamento a guida del senato. L’interpretazione moralistica di Livio sulle cause della crisi tardorepubblicana (analoga a quella di Sallustio) può essere corretta o meno, comunque non c’è dubbio che nei secoli dopo i Gracchi fossero avvenuti notevoli mutamenti: l’ingresso della violenza e del più aggressivo giustizialismo nell’agone politico, l’accentramento dei poteri politici fondati su seguiti personali in grado di forzare il funzionamento delle istituzioni, l’inedito rimescolamento delle elites dirigenti, e il rinnovato quadro della distribuzione delle ricchezze (in rapporto col fatto che l’antica classe senatoria era stata in parte rovinata dalle guerre intestine). Quest’ultimo punto è al centro del libro dello Pag. 52 a 113 quale ogni anno il 23 settembre – giorno nel quale la felce sorte dei tempi generò il rettore del mondo – tre cavalieri romani, scelti dalla plebe, sacrificheranno un animale ognuno e forniranno a proprie spese in quel giorno ai coloni e ai residenti incenso e vino per la supplica al suo nume. E il 24 settembre, anche l’1 gennaio, e il 7 gennaio – giorno nel quale egli per la prima volta prese gli auspici del suo impero del mondo, e il 31 maggio.” 10.4 Guerra e pace Dopo la vittoria su Marco Antonio, l’esercito romano fu riportato al numero totale di 26 e poi 28 legioni, alle quali erano attaccati contingenti di truppe ausiliarie (auxilia) reclutate fra le popolazioni sconfitte e meno romanizzate. Esercito di terra contava circa 300000 uomini. Non essendo un generale di grande valore, Augusto si circondò di comandanti ottimi, che con una serie di campagne gli permisero di dare legittimazione militare al suo potere. Le spedizioni dovevano in primo luogo completare la pacificazione dei territori e proteggere l’Italia dal rischio di attacchi nemici, ma anche operare per la conquista di nuove regioni ampliando così i confini dell’impero. Fronti principali di intervento: Africa settentrionale e Penisola Iberica nord-occidentale, dove le forze romane intervennero per reprimere rispettivamente insurrezioni di tribù berbere e la resistenza delle popolazioni indigene di asturi e cantabri. Poi il controllo dell’arco alpino, ultimato nel 14 a.C. dopo l’assoggettamento di quarantasei tribù locali (Plinio il Vecchio, Storia naturale III); operazioni lungo il Danubio contro tribù indigene pannoniche, traciche, daciche, garantirono l’occupazione delle linee di comunicazione fra Italia e Macedonia e provincializzarono la Pannonia. Artefici maggiori di questi risultati furono Agrippa (marito della figlia di Augusto, Giulia), e soprattutto Druso e Tiberio, figli della moglie di Augusto, Livia. Fu in Germania che già nel 15 a.C. prese corpo il più ambizioso progetto della politica estera augustea, volto ad occupare il territorio tra i fiumi Reno e Elba, ma il progetto non ebbe buon esito: Druso morì in Germania, tre legioni guidate da Varo, governatore della provincia di Germania, furono distrutte da un’imboscata mossa dal Cherusco Arminio, che aveva conoscenza delle tattiche nemiche perché aveva militato fra gli ausiliari romani fino a pochi anni prima. Fu la più grave sconfitta in guerra subita da Augusto. Da quel momento i romani si dovettero arrestare entro la linea del Reno e il sogno di conquistare la Germania transrenana finì. Ad Oriente, il controllo del territorio era effettuato con buoni risultati sia dai governatori provinciali, sia dai principati “vassalli” di Roma. L’unico vero contraltare alla potenza romana era il regno dei parti, al di là della Mesopotamia. Grazie alla pressione militare dell’esercito di Tiberio nel 20 a.C. e a trattative diplomatiche l’Armenia (confinante con i parti e spesso sottomessa alla loro egemonia) nominò un re filoromano incoronato dallo stesso Tiberio. Questa soluzione fu accettata dai parti, che restituirono a Roma le insegne strappate a Carre a Crasso nel 53 a.C. e una parte dei prigionieri sopravvissuti. Questo evento fu celebrato come simbolo della grandezza del regime: Augusto sapeva quanto rafforzasse il suo regime l’accentramento dell’ideologia della Vittoria – la Nike alata dell’iconografia greca, astrazione divinizzata anche a Roma – i meriti militari erano ascritti anzitutto al principe, al quale venne riservata la celebrazione di veri e propri trionfi (Augusto fece in modo che a chi non appartenesse alla sua domus fossero concessi altri tipi di onori militari, ovazioni, ornamenti trionfali, ma non altrettanto prestigiosi). Augusto fece passare come messaggio di avere assicurato a Roma un perfetto equilibrio tra estensione dei confini dell’impero e tranquillità interna ottenuta grazie a un efficiente controllo militare sul territorio. La conseguente PAX AUGUSTA, come pace universale, si tradusse in uno slogan vincente del regime. L’Ara Pacis Augustae, altare recintato nel Campo Marzio dedicatogli nel 9 a.C., faceva risaltare l’armonia tra le componenti della società romana e la casa imperiale, nonché simbologie della prosperità universale conseguita. La pace fu esaltata anche nelle Res Gestae 13, dove si ricordava l’unicità della triplice chiusura sotto il solo governo augusteo delle porte del tempio di Giano (chiuse solo due volte dall’origine di Roma). Il motivo della pace fu recepito anche al di fuori di Roma (cosmopolitismo dell’Urbe): lo stesso testamento Pag. 55 a 113 politico delle Res Gestae, epigrafe destinata ad essere esposta all’esterno del Mausoleo di Augusto, fu poi riprodotto e reso pubblico anche nei centri provinciali (si diffusero altari con dediche per la Pax Augusta o per la Securitas romana). 10.5 Ecumene Rapporto tra pace ed ecumenicità (universalità) dell’ideologia augustea: Augusto (anteriori tradizioni di matrice tardorepubblicana, statua di Pompeo con il globo in mano conservata a Palazzo Spada a Roma) aveva una chiara visione ecumenica del dominio di Roma. Ne lasciò testimonianza ancora una volta nelle Res Gestae e in scritti perduti, oltre che nelle rappresentazioni allegoriche di opere d’arte del tempo e opere di scrittori a lui vicini (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane; Plinio il Vecchio, Storia naturale). Età augustea: periodo in cui la tensione verso il “mai raggiunto prima” fu più forte con la dimensione della primazia politica, dura volontà di sfruttamento, nobile curiosità scientifica merito dei pragmatici romani. Chiamati a governare spazi di ampiezza comunque eccezionale, il principe e i suoi collaboratori dettero impulso a nuove iniziative per migliorare le conoscenze delle terre sottoposte = per i greci oikoumene, per i romani orbis terrarum. Viaggi ed esplorazioni collegati con spedizioni militari, si sviluppò l’uso di dare rappresentazioni cartografiche delle regioni dell’impero. Con la cosiddetta “carta di Agrippa” (Plinio il Vecchio, Storia naturale), il genero di Augusto fece esporre nella Porticus Vipsania nel Campo Marzio (consapevole della suggestione che avrebbe avuto) una grande carta di forma rettangolare dell’ecumene da lui elaborata facendo tesoro dell’esperienza ellenistica in materia geografica, cosmografica e matematica. L’opera di inventariazione (“inventario del mondo”, Nicolet) non rispondeva soltanto a curiosità etnografiche, né alla volontà di mostrare visivamente ai sudditi la vastità del dominio romano, ma aveva concreti riflessi sui modi dell’amministrazione (rendeva più agevoli censimenti e catasti) e consentiva forme di regestazione archivistica a scopi statistici e, in particolare, fiscali. 10.6 Roma Durante le ultime lotte civili, voci ricorrenti (alimentate ad arte ma non del tutto prive di fondamento) volevano che il baricentro della res publica fosse spostato da Roma all’Egitto, e questo spiega l’impegno di Augusto nel confermare il ruolo di Roma quale sede del potere: l’assetto urbanistico conobbe un capillare rinnovamento dell’edilizia sia civile (completata la Curia Iulia dove si riuniva il senato, rifacimento di settori del Campidoglio e di teatri, portici, basiliche, miglioramento delle infrastrutture di utilità in particolare di acquedotti), sia sacra (Mausoleo nel Campo Marzio, templi eretti o restaurati). Uso del bel marmo di Carrara. Anche esponenti della casa imperiale intervennero con iniziative prestigiose a rimodellare l’aspetto dell’Urbe, un esempio famoso è quello del Pantheon di Agrippa. Lo spazio politicamente più importante e architettonicamente più imponente fu il Foro di Augusto: realizzato grazie a bottini di guerra, richiese vari decenni di lavori, dal 42 a.C. all’inaugurazione del 2 a.C. La monumentale piazza coniugava le funzioni tipiche dei fori romani (spazi destinati allo svolgimento della vita giudiziaria e commerciale) con esigenze di natura celebrativa. I portici che la circondavano contenevano nicchie con statue marmoree e basi epigrafiche con elogi di uomini illustri e dei trionfatori della storia di Roma, fra i quali spiccavano gli appartenenti alla Gens Iulia (mitici antenati come Enea), la famiglia di Giulio Cesare e del suo figlio adottivo Augusto. Le iscrizioni erano controllate dal principe, al quale era dedicata al centro del foro una statua trionfale su quadriga. L’ideologia militare del potere augusteo riceveva così una commemorazione solenne e perpetua davanti al popolo romano. L’adiacente tempio di Marte Ultore (da ultor, ‘vendicatore’) era il simbolo della vendetta operata da Augusto contro i cesaricidi, i congiurati delle “Idi di marzo” del 44 a.C. Cura di Roma = attenzione prestata alle concrete esigenze amministrative di una metropoli che di molto superava il mezzo milione di abitanti. Pag. 56 a 113 Contro i frequenti incendi (uso del legno e caos dei quartieri popolari) fu costituito un corpo di vigili e poliziotti notturni che si occupavano di controllare i quartieri romani (o meglio le ‘regioni’ di Roma, essendo stata Roma ripartita in 14 regiones comprendenti più quartieri o vici sotto la guida di un prefetto di rango equestre (praefectus vigilum). Augusto migliorò il funzionamento del trasporto e della distribuzione degli approvvigionamenti (responsabilità del prefetto annonario). Le distribuzioni di frumento ai cittadini romani, istituzione che risaliva già a Gaio Gracco, avevano un significato simbolico in quanto il principe era responsabile dell’alimentazione di una plebe che così riconosceva la propria privilegiata identità. In caso di assenza da Roma, il principe doveva essere rimpiazzato da un supplente, il senatorio prefetto urbano (praefectus urbi) che aveva ai suoi ordini 3000 uomini. Questa carica (presto attiva anche quando il principe risiedeva in città) col passare del tempo sarebbe divenuta la massima autorità amministrativa dell’Urbe e tale sarebbe rimasta fino al tardo impero. Due prefetti al pretorio equestri (praefecti praetorio), di nomina imperiale, furono preposti ad una forza di circa 10000 uomini, suddivisa in coorti (reparto militare più prestigioso, considerato guardia personale del principe). Reclutati, almeno in età giulio-claudia, tra i giovani delle notabilità romano-italiche, i pretoriani percepivano uno stipendio ben più alto di quello degli altri soldati, compresi i legionari. I prefetti al pretorio assumeranno presto influenza a corte e diventeranno determinanti nelle vicende politiche e nelle lotte per le successioni al potere. Il primo emblematico esempio fu quello di Seiano, sotto Tiberio. 10.7 Italia Con la guerra sociale e la concessione della cittadinanza romana agli italici (90-89 a.C.), nel 49 a.C. estesa anche agli abitanti della Gallia Transpadana (“terra di Saturno”), l’Italia peninsulare (terra Italia, antica nozione da cui erano escluse le isole) aveva acquisito una precisa unità politica ed era ormai da tutti riconosciuta come patria del popolo conquistatore dell’impero . Dell’Italia durante la prima fase dell’impero si elogiavano la collocazione geografica e l’ecologia, che si riflettevano sulla disciplina e semplicità incorrotta degli abitanti (legate alle radici agrarie della società), e sulle loro attitudini alla cultura e alla guerra. Questi motivi trovarono interpreti altissimi come Virgilio (Georgiche). Ideologia filoitalica sostenuta da Augusto. Augusto fu autore di un’apposita ricerca geografica (descriptio di tutta l’Italia), dalla quale scaturì una ripartizione dell’Italia in undici regioni: una documentazione più tarda rende chiaro che le regiones (costruite sulla base di apparentamenti etnici) vennero a costituire circoscrizioni per la gestione della rete viaria, la riscossione dei tributi sulle eredità o le altre imposizioni fiscali straordinarie della Penisola introdotte nel 6 d.C. per rinvigorire le casse pubbliche. All’inizio dell’impero permaneva la posizione privilegiata dell’Italia rispetto alle province: essa era smilitarizzata, non pagava da tempo le imposte dirette, non era sottoposta a governatori, i suoi prodotti venivano esportati nelle province che a quel tempo erano incapaci di competere sul piano economico. Le città italiche godettero per buona parte del principato in ordinaria amministrazione di una relativa autonomia, finanziaria e giudiziaria. Soltanto in caso di conflitti tra città Roma procedeva con azioni repressive, e per gravi discordie interne i processi erano celebrati da magistrati dell’Urbe, come consoli o pretori. Non si arrivò mai ad una equipollenza totale della Penisola e delle province, ma durante il II sec furono istituite istanze intermedie (non governatori) che per conto della corte controllavano da più vicino le finanze municipali (curatores rei publicae) e il sistema giudiziario (iuridici). Solo con il tardo III sec vi sarebbe stato introdotto un pieno e inequivoco sistema provinciale. 10.8 Cambiamenti nell’organizzazione delle province Da Augusto, i principi ottennero il controllo della maggioranza dei territori romani, ed ebbero sempre la possibilità di intervenire ovunque ritenessero opportuno (rottura definitiva con il sistema amministrativo precedente cap.7). Pag. 57 a 113 precedenti in Italia e nel resto dell’impero). Augusto stesso affidò al mezzo epigrafico il resoconto autocelebrativo della sua attività di statista: Res Gestae Divi Augusti (le imprese del divino Augusto), di cui copie contemporanee sono state trovate in città dell’Anatolia, sia in latino che in traduzione greca. Gli studi di Paul Zanker (Augusto) sul programma politico-culturale di Augusto mostrano come il principe stesse attento a dare l’impressione di rispettare il ruolo sociale di ciascuno – famiglia imperiale, gruppi e ordini, sacerdoti e divinità, istituzioni, popolo – con l’imperatore come cerimoniere antiautocratico. Il consenso da lui ottenuto fu molto largo, ma non unanime. Dopo il 23 a.C., Mecenate risulta emarginato conseguenza di una cospirazione orchestrata da un suo congiunto. Dal 31 a.C. ce ne sono state diverse contro Augusto e la corte: esse crebbero in ambienti dell’aristocrazia senatoria che volevano ancora rifondare la repubblica ma anche per iniziative di singoli contro Augusto e il suo potere (Svetonio, Vita di Augusto). Anche negli ambienti intellettuali (seconda parte del regno e sotto Tiberio) crebbe la consapevolezza dei limiti posti alla libertà d’espressione (Cassio Dione, Storia romana): oratori e storiografi non allineati al governo subirono processi e gravi forme di censura. Il poeta OVIDIO nell’8 d.C. fu relegato in una lontana località del Mar Nero con l’accusa ancora a noi oscura, ma probabilmente era legata alla leggerezza della sua poetica che era mal compatibile con l’ordine morale e sociale fondato sull’esempio della classe di governo del ‘duplice ordine’ (uterque ordo). L’oratore e storico LABIENO non volle sopravvivere alla condanna al rogo delle sue opere, emessa alla fine del regno augusteo, e si fece chiudere nella tomba di famiglia, e a sua volta l’annalista Cremuzio Cordo vide i suoi libri bruciati in età tiberiana. Anche le campagne di propaganda a tema militare incontrarono alcuni ostacoli, e seri dubbi vennero posti alla primazia di Augusto in questo campo. 10.10 La famiglia imperiale e il problema della successione Quale era il progetto di governo augusteo per il dopo di sé? L’assetto istituzionale non era una monarchia dichiarata ma il principe, che sapeva di aver dato origine ad un nuovo modello di regime (Augusto fu davvero “architetto dell’impero”) si preoccupò fin dall’inizio di assicurarne la sopravvivenza, usando lo schema dell’alleanza matrimoniale o dell’adozione degli eredi prescelti. Uno dei problemi più spinosi che dovette affrontare fu l’investitura del suo successore: difficoltà dovuta alla novità di un ordine imperiale strettamente vincolato alla persona del suo autore. Poi Augusto apparve disgraziato nell’individuazione di eredi che gli premorirono sistematicamente. Oltre agli attentati, si preoccupò della scelta del suo erede. Nel 38 a.C. Augusto aveva sposato in seconde nozze Livia Drusilla, matrona della più alta nobiltà romana, consorte del pompeiano e patrizio Tiberio Claudio Nerone. Appartenente alla gens repubblicana dei Livii Drusi, era la madre del futuro imperatore Tiberio, ma non dette figli ad Augusto. L’assenza di figli maschi divenne un urgente affare politico. Morirono in sequenza Marcello (marito dell’unica figlia di Augusto Giulia), Agrippa (fidato braccio destro e marito anch’egli di Giulia), Druso maggiore (fratello di Tiberio), e infine gli adorati nipoti Gaio e Lucio Cesari, figli di Agrippa e Giulia (nel 2 e 4 d.C., lutto pubblico iustitium di grande solennità). Augusto non aveva particolare affetto per Tiberio, ma rimaneva solo lui. Messosi in luce in guerra in Illirico e Germania, Tiberio aveva sposato Giulia, dalla quale poi aveva divorziato per volontà del principe. “La vita di Giulia venne condizionata completamente dalle necessità politiche del padre” (Eck, Augusto), esiliata a Ventotene, morì a Reggio nel 14 d.C., dove era segregata (Tacito, Annali). Dopo un periodo di ritiro volontario dalla vita pubblica, Tiberio era stato finalmente adottato da Augusto (4 d.C.) e designato per la successione. Nel 13 d.C. il conferimento dell’imperium maius e il rinnovamento della tribunicia potestas, ponendolo quasi su un piano di parità formale col principe, sancirono la sua definitiva investitura. Augusto, il cui nome personale divenne epiteto di tutti i suoi successori, morì nel corso di un viaggio in Campania il 19 agosto del 14 d.C., all’età di 76 anni. Si dice che sul letto di morte si Pag. 60 a 113 fece sistemare i capelli, chiamò gli amici e chiese loro se avesse recitato bene la ‘farsa della vita’ ( mimum vitae), morendo tra le braccia della moglie (Svetonio, insiste sulla serenità della morte di Augusto, Vita di Augusto). Come per suo padre Giulio Cesare, il senato ne proclamò l’apoteosi e la divinizzazione: fu sempre chiamato Divus Augustus. Egli aveva creato, dopo la distruzione e la crisi delle guerre civili, un sistema politico e sociale interamente nuovo, riuscendo a restituire ai romani una identità collettiva e una speranza per il futuro. 11: Principi e senato Nel periodo compreso fra l’ascesa di Tiberio (14 d.C.) e la fine della dinastia Flavia (96 d.C.) assistiamo ad un consolidamento della forma di governo della quale Augusto era stato artefice. Nuova distribuzione del potere per cui l’aristocrazia senatoria e l’istituzione a cui faceva capo, il senato, dovette reinventarsi una funzione all’interno dello stato, dal momento che il princeps fu da subito rappresentato come autentico delegato del popolo romano. Da quando Tiberio ha assunto sulle sue spalle, su richiesta del senato, il ‘corpo dell’impero’, il principato si avviò ad essere una realtà incontrovertibile, dato che l’accentramento del potere nelle mani di uno solo prescindeva dall’eccezionale personalità di Augusto. Alla morte di un principe sarebbe subentrato un altro principe, secondo uno schema di ereditarietà. La prima dinastia imperiale fu quella Giulio-Claudia (dalle due stirpi Gens Iulia e Gens Claudia), alla quale seguì quella Flavia da Flavius, nome di Vespasiano). Il massimo studioso mai esistito della storia giuridica e istituzionale di Roma, Theodor Mommsen (1817- 1903), interpretava in termini di divisione dei compiti di governo e paritari i rapporti tra principato e senato in epoca augustea, oggi, sebbene non ci sia dubbio che il regime del principato sia nato sul tracciato della res publica, nei due secoli che stiamo per trattare l’intero quadro presenta il predominio del principe, in grado di indirizzare le scelte politiche dell’impero e di intervenire anche nelle sfere di competenza, a Roma e in provincia, teoricamente riservate al senato. 11.1 La dinastia giulio-claudia LA PRIMA SUCCESSIONE: TIBERIO (14-37 d.C.) Il nuovo principe sarebbe stato all’altezza della situazione? La nobiltà senatoria, in parte ancora filorepubblicana, avrebbe cercato si sovvertire la politica indicata da Augusto o la avrebbe sostenuta? L’obiettivo prioritario di Tiberio era riuscire a svolgere il compito di continuatore dell’eredità augustea e ci riuscì: il suo regime durò 23 anni, e fu caratterizzato da una prudente finezza (virtù della moderatio, ostentata con la rinuncia ai titoli di imperator e di pater patriae) e da una energia portata talvolta al limite della spietatezza. Nonostante il suo passato di grande conduttore di eserciti, Tiberio fondò il suo potere soprattutto sulla componente civile delle attribuzioni imperiali, ossia sulla tribunicia potestas. Cercò l’appoggio del senato, avallando le proposte della curia e arrivando a trasferire la prerogativa di eleggere i magistrati dai comizi ai senatori (Tacito, Annali). Non sempre però Tiberio riuscì a stabilire con il senato (nella storiografia succube e ostile) una vera intesa. Nella direzione degli affari esteri, Tiberio si allineò complessivamente agli indirizzi dichiarati da Augusto poco prima di morire: mantenere l’impero entro i confini da lui lasciati, evitare avventurismi. Egli non si impegnò in offensive importanti: usò la diplomazia e rafforzò le difese alle frontiere. L’unica nuova provincia fu la Cappadocia (nell’attuale Turchia). Delle pericolose insurrezioni antiromane costrinsero i suoi eserciti al combattimento: contro i berberi lungo la frontiera nordafricana e contro le tribù federate dei treviri e degli edui. Da notare che, come per la vicenda di Arminio, furono ex comandanti di stirpe indigena delle forze ausiliarie romane e dotati della cittadinanza a sollevare la ribellione = difficoltà della romanizzazione senza benessere dei sudditi o, parallelamente, Pag. 61 a 113 asprezze dell’amministrazione romana nelle province con popolamento tribale organizzato in società guerriere. GERMANICO, nipote e poi figlio adottivo di Tiberio (dal 4 d.C., per ordine di Augusto) = scrittore erudito e comandante in area renana (parziale senso di riscatto dopo le clades Variana) fu inviato dal principe in Oriente con un imperium maius che avrebbe dovuto consentirgli di sistemare la situazione, visto che i romani avevano anche perso il controllo sul regno di Armenia. Parte della tradizione antica (tra cui Tacito) insiste sulla rivalità tra Tiberio e Germanico, che sarebbe risultato concorrente temibile per i progetti politici e il prestigio stesso del principe. Il soggiorno egiziano di Germanico suscitò polemiche per i suoi atteggiamenti ‘cosmocratici’ tra cui il solenne ingresso in Alessandria, forse non autorizzato dall’imperatore. Durante una missione in Oriente Germanico morì (10 ottobre 19 d.C.). Calpurnio Pisone, governatore di Siria ufficialmente adiutor di Germanico, gli si era mostrato così ostile da essere ritenuto colpevole di averlo avvelenato. Onori pubblici resi alla memoria di questo personaggio carismatico amatissimo dalla gente comune. Gli anni dal 23 al 31 d.C. sono caratterizzato dalla figura intrigante e ambiziosa di Lucio Elio Seiano. Abile a rendersi gradito dal principe, prefetto al pretorio a corte, Seiano nel 27 d.C. indusse Tiberio a ritirarsi a Capri, da dove non sarebbe più tornato nella capitale, ritagliandosi così ampi margini d’azione. Il prefetto fungeva da portavoce del principe presso il senato, ma andava anche acquisendo una crescente influenza politica. Tiberio non aveva rinunciato a dirigere il governo da fuori Roma, ma dopo alcuni anni, allertato da consiglieri e timoroso di essere alla vigilia di una congiura di palazzo, riuscì a condannare Seiano col sostegno del senato: seguirono la damnatio memoriae (31 d.C.) e vendette sui seguaci. L’attività amministrativa di Tiberio, ormai settantenne, non si interruppe, ed egli fronteggiò situazioni difficili come la “crisi del 33”, ma sul versante politico presero il sopravvento gli intrighi di palazzo, orchestrati dal prefetto pretoriano Macrone, fra gli artefici della caduta di Seiano. Delazioni e processi per colpa di lesa maestà (crimen maiestatis) imperversarono nell’ultima fase del suo regno. Tiberio morì nel 37 d.C., e la sua personalità rimane sfuggente e contraddittoria (Tacito, Svetonio: ipocrisia e simulazione di Tiberio), pur avendo avuto innegabili qualità di statista. La successione non era stata da lui definita. CALIGOLA (37-41 d.C.) Ottenne il trono 25enne Gaio CALIGOLA, figlio di Germanico. La sua nomina avvenne per acclamazione delle milizie e con l’iniziale consenso di tutta Roma. Ricevette dal senato l’investitura imperiale con i diversi poteri a fondamento: il titolo di imperator, potestà tribunizia e insieme pontificato massimo, poco dopo padre della patria. Dopo pochi mesi giudicati persino con entusiasmo dalla storiografia antica (probabilmente anche per le prospere condizioni economiche lasciate da Tiberio) il suo regno cominciò a fallire. Stravaganze e crudeltà gratuite saranno tipiche di despoti, megalomani, imitatori dei sovrani ellenistici come anche Nerone, Domiziano e Commodo. Linee programmatiche del suo regno: rapporto privilegiato con la plebe romana, cui il principe pagò subito la ricchissima donazione lasciata da Tiberio e altre personalmente elargì e a favore della quale (e contro il senato) propose una riattivazione del ruolo degli antichi comizi, cui spettavano solo residuali attività di ratifica degli eletti. In ambito religioso, Caligola optò per la divinizzazione della sua monarchia (Svetonio, Vita di Caligola). Favorì rituali cruenti, si fece costruire templi e statue, lasciando cadere l’associazione prudenziale con la Dea Roma, entrò in conflitto con il popolo ebraico per il suo progetto di farsi onorare nel Tempio di Gerusalemme, tentò di valorizzare la cultura e i riti egizi, esaltando il culto della divinità femminile egizia di Iside (relazione incestuosa attribuitagli con la sorella Drusilla). In politica “internazionale” preparò una campagna per la conquista della Britannia (sbeffeggiata da Svetonio, Vita di Caligola), ma la spedizione sarà attuata solo da Claudio. La perdita di consenso di Caligola si accompagnò a tentativi di cospirazione: nel gennaio del 41 il principe fu assassinato, ed i principali artefici furono i Pag. 62 a 113 Plutarco confrontò Nerone con la dichiarazione dell’Istmo di Flaminino: in quel tempo lontano, i romani liberavano la Grecia dalla minaccia macedone. Nerone, in qualche modo, con il suo gesto liberava la Grecia anche dai romani. Il filellenismo venato di anticlassicismo e aperto a suggestioni di matrice plebea di Nerone, l’attrazione esercitata su di lui oltre che dalla Grecia dall’Egitto, alimentava il fenomeno (insieme un’estetica e un programma politico) comunemente chiamato NERONISMO e di cui furono partecipi un po’ tutti gli ambienti vicini al principe, i suoi gruppi dirigenti composti in buona parte da ‘uomini nuovi’ indulgenti verso gli aspetti più dispotici dell’ideologia politica di Nerone. Di ritorno a Roma nel marzo 68, seppe di una grave rivolta in Gallia e nel resto dell’Occidente, guidata dal governatore provinciale Vindice. Ne seguirono altre. Dichiarato nemico pubblico dal senato, fuggì e si suicidò nel giugno del 68 d.C. La guerra civile che porterà al potere Vespasiano era già iniziata. 11.2 La dinastia flavia Fra la seconda metà del 68 e la fine del 69, la lotta per il potere si scatenò violenta nelle province. In effetti, le legioni dei diversi settori provinciali (già meno romano-italici di un tempo) acclamarono i loro comandanti come imperatori e divennero decisive per la scelta del nuovo sovrano. Dagli scontri fra quattro generali, il patrizio Galba, Otone, Vitellio e Tito Flavio Vespasiano, emerse vittorioso quest’ultimo. Verso la fine del 69 d.C. le forze di Vespasiano ebbero la meglio su Vitellio, e Vespasiano il 22 dicembre del 69 fu riconosciuto imperatore dal senato. L’anniversario ufficiale del regno (dies imperii) non fu questo, ma per la prima volta fu quello del pronunciamento dell’esercito, ad Alessandria d’Egitto, l’1 luglio del 69. Fu un anno lungo, rivelatore (come ci dice Tacito) che ormai il ‘segreto dell’impero’ (arcana imperii), creare di fatto un imperatore, stava nelle mani degli eserciti e poteva avvenire lontano dalla capitale. VESPASIANO (69-79 d.C.) E TITO (79-81 d.C.) Flavio Vespasiano era stato esponente del potere neroniano. Nell’anno 66 era scoppiata in Giudea un’insurrezione mobilitata da correnti ebraiche intransigenti e animata anche da componenti di tipo sociale che si opponevano al dominio romano in nome della loro identità religiosa. A Vespasiano fu affidato il comando delle operazioni, e più tardi le truppe di suo figlio Tito assediarono e presero Gerusalemme (settembre del 70). La città fu saccheggiata, il Tempio distrutto, i denari destinati al Tempio confiscati dai romani (fiscus Iudaicus). Nasce qui la seconda diaspora del popolo ebraico, dopo quella conseguente alla vicenda babilonese. Tito, tornato a Roma, celebrò col padre il trionfo, che fu pubblicizzato e ricordato come uno degli eventi mirabili dell’impero flavio: il cosiddetto Arco di Tito, nella parte occidentale del Foro Romano, commemora questo evento. (L’aristocratico ebreo Flavio Giuseppe, mediatore fra i romani e gli insorti, è principale fonte di informazioni con la sua opera storica La guerra giudaica). Nato a Rieti, in Sabina, da una famiglia di affaristi e speculatori finanziari, Vespasiano era riuscito a far carriera e a entrare in senato. Valente militare che amava presentarsi come uomo semplice, sincero e volitivo, valorizzava su tutti i livelli (religioso, ideologico, pratico) le sue radici italiche e le sue qualità migliori. Politicamente obbligata fu la sua rottura con la memoria di Nerone, sotto il quale aveva fatto carriera. Smantellò la Domus Aurea, e vi fece costruire l’Anfiteatro Flavio (Colosseo). Uscito dalle lotte civili come Augusto, esattamente un secolo dopo, Vespasiano ebbe come Augusto il culto della Pax, alla quale dedicò un tempio per eternare la vittoria sul popolo ebraico. Si fece confermare da un senatoconsulto votato dai comizi (la lex de imperio) le attribuzioni militari e civili dei “migliori” fra i suoi predecessori, Augusto Tiberio e Claudio. Esemplare epigrafico in bronzo del provvedimento fu scoperto da Cola di Rienzo nel 1347, contenente una clausola discrezionale di notevole importanza perché formalizzava l’aumento delle prerogative dell’imperatore. Pag. 65 a 113 Come amministratore, Vespasiano mirò soprattutto a consolidare il bilancio statale, gravemente danneggiato dalle recenti vicende politico-militari. Fu severo nella concessione delle immunità fiscali, procedette a nuovi catasti e censimenti e recuperò a vantaggio del demanio pubblico i beni ottenuti indebitamente da privati. Regolamentò lo sfruttamento delle miniere e ne migliorò il rendimento. Politica tesa a sviluppare l’urbanizzazione, concesse a tutte le comunità della Penisola Iberica il diritto latino (Plinio il Vecchio, Storia naturale) per preparare il passaggio su larga scala al diritto romano dei ceti dirigenti locali, che lo avrebbero ricevuto automaticamente all’atto dell’esercizio delle magistrature (nella lex Flavia municipalis). Quando Vespasiano morì, il potere passò (nel giugno del 79 d.C.) nelle mani di suo figlio Tito, già associato ai sommi poteri e nelle attività di governo: la successione dinastica appariva nell’ordine delle cose. Pochi mesi dopo che era salito al trono, vi fu l’eruzione del Vesuvio che distrusse Pompei, Ercolano e Stabbia. Tito poté esercitare subito il suo senso organizzativo e la benevolenza per le quali fu molto amato (di lui sono tramandati anche delitti efferati). Il suo governo si differenziò da quello del padre: Tito fu più incline a svolgere una politica di apertura al mondo orientale, soprattutto sotto il profilo religioso (onorò divinità egizie come Iside e Apis) e fu meno avaro nella gestione delle risorse pubbliche. Concluse i lavori del Colosseo, iniziati dal padre, e nell’80 lo inaugurò con uno spettacolo di 100 giorni, durante i quali vennero uccise migliaia di fiere. Morì l’anno successivo. IL ‘NERONE CALVO’: DOMIZIANO (81-96 d.C.) Domiziano, l’altro figlio di Vespasiano, pur fruendo della qualifica ufficiale di Caesar (che assegnava un posto di primo piano nella gestione della cosa pubblica, si ricordino i nipoti di Augusto, Gaio e Lucio) era tenuto in disparte dalla gestione diretta della cosa pubblica. Svetonio lo definisce il “Nerone calvo”, alludendo ad una sua caratteristica fisica e allo stesso tempo al suo modo dispotico di interpretare il ruolo di principe. Ebbe una concezione religiosa dell’autorità politica e ricercò (senza che il senato gliela conferisse mai ufficialmente) la denominazione ancora trasgressiva per la sensibilità comune di ‘signore e dio’ (dominus et deus, Svetonio, Vita di Domiziano). Tra le documentazioni spesso pregiudizialmente ostili, si intravedono valide iniziative amministrative in ambito economico con un occhio di riguardo all’Italia, verso cui sembra aver attuato una politica di tipo protezionistico, onde evitare rischi di sovrapproduzione. La politica estera è il settore dove anche i principi dalla fama più triste hanno ottenuto i migliori risultati, probabilmente per l’abilità dei comandanti che li supportavano o per gli ambienti militari senatorio- equestri in grado di garantire una rete protettiva ad azioni sconsiderate. In campo militare, Domiziano ottenne parziali successi: in Germania respinse le incursioni delle bellicose tribù dei catti, mentre in Britannia la frontiera fu spostata più a nord (Tacito, Vita di Agricola – protagonista, invidiato da Domiziano, di tali vicende belliche). In Dacia (attuale Romania), invece, la popolazione indigena capeggiata da un vigoroso personaggio, il re Decebalo, costituiva una minaccia per le province danubiane, perciò nell’89 d.C. i romani furono costretti ad un patteggiamento a loro sfavorevole. A partire dal 93 tornò ad esplodere la pratica delle delazioni verso presunti cospiratori e colpevoli di lesa maestà, con la conseguente applicazione arbitraria della pena di morte, la persecuzione di filosofi stoici (Elvidio Prisco) o di personaggi dalle simpatie cristiane (Flavio Clemente cugino dell’imperatore). Nell’antichità si configurò il regno di Domiziano come quello di uno spietato autocrate, e l’ordine di persone da lui fatte eseguire è ignoto. Nel settembre del 96 d.C. Domiziano perì a seguito di un complotto. 11.3 Donne e potere La componente femminile ebbe in epoca giulio-claudia un ruolo spiccato nella storia della corte e del potere: Livia, madre di Tiberio e moglie di Augusto, la figlia di Augusto Giulia, Agrippina Maggiore nipote di Augusto e moglie di Germanico e sua figlia, sposa di Claudio e già madre di Nerone, Giulia Drusilla sorella amata che Caligola volle divinizzare dopo la morte, Messalina altra moglie di Claudio, Poppea amante e Pag. 66 a 113 moglie di Nerone, la dotta liberta Atte, che fu insegnante dell’ultimo dinasta giulio-claudio ma anche suo più fedele amore. Col primo principato, la centralità della scena pubblica era occupata dalla famiglia imperiale, dalla domus Augusta, e tutto ciò che la riguardava era automaticamente fatto politico: denominatore comune che spiega l’importanza politica di queste donne, che parteciparono direttamente alle vicende della famiglia imperiale e a trame di corte. Ciascuna, con la propria personalità, usò le sue armi migliori: Livia fu nobile matrona e lunga vita da osservatrice intelligente e protagonista dell’intera genesi del principato; Agrippina Maggiore fu avvenente donna di cultura che ereditò la popolarità e il carisma del suo uomo Germanico e cercò di metterlo a frutto fino all’esilio e morte sotto Tiberio. Come nel caso di Claudio, particolarmente sensibile al fascino femminile, con erotismo e seduzione alcune donne esercitarono con audacia il controllo di fatto del governo, e ciò in funzione delle crisi dei passaggi di regime: simili transizioni erano rese più complesse da alleanze matrimoniali e manovre che avevano portato all’impero giovani principi inesperti come Nerone e Caligola. Le donne furono protagoniste indirette di prese di posizione esemplari, in quanto dai loro comportamenti poteva dipendere l’immagine del governo: si pensi a Giulia o alla principessa ebrea Berenice, allontanata da Roma a malincuore da Tito (erano innamorati), e di vendette di nemici politici degli uomini a loro legati, ammantate da accuse di adulterio che le condussero a morte o esili. Uno scontro diretto fra donne fu quello durante il regno di Claudio tra Agrippina e Messalina, conclusosi con l’esecuzione di quest’ultima nel 48 d.C. L’anno successivo, Agrippina ricevette il titolo di Augusta, ed era la prima volta che ciò accadeva essendo vivo il principe. L’opposizione a Nerone si manifestò nel 62 d.C. con il rovesciamento delle statue di Poppea Augusta e l’esaltazione della moglie dalla quale aveva divorziato, Ottavia. 11.4 Despoti megalomani: un problema storico Caligola dissipatore di ricchezze, incestuoso, imprevedibile in ogni suo atto, psicopatico. Nerone narcisista, crudele, egocentrico. Domiziano tirannico e privo di scrupoli (damnatio memoriae). “Follia al potere”, “crudeltà nell’esercizio del potere”, “orientalizzazione del potere”, tutti imperatori bramosi di farsi onorare come dei in terra, ma anche abili nell’utilizzare cariche e titoli tradizionali per accumularli con più sobrio pragmatismo. Protagonisti della letteratura antica e moderna, ma anche di teatro e cinema, persino di letture psicanalitiche, come per i presunti traumi infantili di Caligola. Senza procedere necessariamente con repressioni sanguinose, essi suscitarono odio e repulsione nei ceti sociali elevati, e in primo luogo nei senatori, con i quali, a un certo punto del loro regno, entrarono regolarmente in conflitto. Furono da subito considerati “cattivi principi” dalla storiografia romana repubblicana e imperiale di impronta senatoria (anche quando a scrivere gli historia non erano senatori, ma funzionari equestri o dignitari di corte). Il compito si intrica quando dallo stereotipo moralistico si cerca di enucleare un giudizio più libero per capire chi furono realmente queste personalità e quale fu la loro politica. Un rischio in cui incorre talora la critica storica è quello di smussare fino al loro annullamento le componenti di follia megalomane di questi imperatori, attribuendole alle invenzioni malevole delle fonti. Elemento comune a Caligola, Nerone e Domiziano fu una concezione eroica e sublime del potere imperiale cui erano stati chiamati. Passione per gli eventi spettacolari e gusto della prodigalità (costruzioni, distribuzioni e spese per l’organizzazione dei giochi) che li avvicinava alle folle e in primo luogo alla plebe romana, e il modo di interpretare le azioni di governo sulla base delle proprie convinzioni: modo innovativo fino ad eccessi che potevano anche muoversi nella direzione di un eccessivo tradizionalismo (punizioni di Domiziano alle vestali colpevoli di reati sessuali, Svetonio, Vita di Domiziano). Ciascuno di questi principi si impegnò in interventi in più campi: da quello costituzionale a quello finanziario, alla politica militare e Pag. 67 a 113 titolo di Ottimo aveva anche implicazioni di natura religiosa: Traiano era visto come rappresentante in terra di Giove Ottimo Massimo, riportato anche nel Panegirico a Traiano recitato da Plinio il Giovane. La nuova età dell’oro era fondata sul ritorno a una normalità della libertas senatoria. TRAIANO: POLITICA AMMINISTRATIVA E NUOVO SLANCIO IMPERIALE Plinio il Giovane, amico e collaboratore di Traiano, ci fornisce con il suo epistolario una preziosa testimonianza dei primi lustri del II secolo. Il X libro, contenente il carteggio fra i due durante il governatorato pliniano in Bitinia nel triennio 111-113 d.C., mostra i meccanismi concreti di funzionamento delle comunicazioni fra corte e amministratori provinciali. Un marchio specificatamente traianeo fu la gestione dell’Italia: Traiano implementò il controllo dei bilanci delle città provinciali, ma con intensità particolare di quelle italiche attraverso appositi delegati (curatores rei publicae) e prese iniziative importanti per promuovere la ripresa demografica ed economica della Penisola (il cui primato nel mondo romano mediterraneo era indebolito dalla concorrenza delle province sia per la produzione agricola che per quella manifatturiera). A lui è attribuibile lo sviluppo di una speciale forma di prestito ipotecario proporzionale alla dichiarazione del valore dei fondi e delle costruzioni ivi presenti, a proprietari terrieri peninsulari, i cui interessi vennero devoluti al sostentamento e all’educazione dei ragazzi bisognosi. L’istituto è noto come Alimenta, e delle operazioni gestionali si occupavano appositi funzionari di alto rango. Finalità del programma? Ostentare indulgentia per propaganda? Volontà di incrementare la demografia dell’Italia anche per rinvigorire le forze dell’esercito legionario? Rilanciare lo sviluppo di un’agricoltura peninsulare in crisi? L’unica cosa certa è la sollecitudine particolare verso l’Italia. La fama di Traiano è data in primo luogo dalle sue campagne militari che condussero, sia pure per una stagione effimera, alla massima espansione territoriale mai raggiunta dall’impero. I fregi della Colonna di Traiano, visibile nel Foro dello stesso principe alle spalle della valle del Colosseo, forniscono una dettagliata narrazione delle campagne daciche: attraversamenti del Danubio, discorsi imperiali alle truppe, battaglie, sottomissioni di barbari, scene di sacrifici. Traiano, pur non avendo partecipato direttamente agli scontri militari, risalta come protagonista assoluto delle due guerre (tra il 101 e il 106) combattute contro i daci del re Decebalo, popolazione che aveva già messo in difficoltà Domiziano. Tutta la regione, ricca di giacimenti minerari, fu assoggettata e ripartita in tre province transdanubiane. Il tesoro dei daci servì alla preparazione delle altre campagne militari. Traiano ottenne l’annessione del regno arabo dei nabatei, che fu trasformato nella provincia di Arabia Felix (odierna Giordania), e a partire dal 113 d.C. si avventurò in un’offensiva contro i parti. Roma aveva esigenze strategiche, il migliore controllo e l’avanzamento del confine mesopotamico, e i suoi principi avevano l’ambizione di ripercorrere le gesta orientali di Alessandro il Grande. Furono prese varie città fra le quali Ctesifonte, capitale del regno partico, e Babilonia, e venne progettata la creazione delle province di Assiria e Mesopotamia. Lo scoppio di una serie di rivolte nell’area vicino-orientale ne rese difficile il pieno assoggettamento. Data una sistemazione piuttosto precaria all’Oriente, nell’agosto 117 d.C. Traiano morì in Cilicia, sulla via del ritorno. ADRIANO (117-138 d.C.): VIAGGI ED ELLENISMO Forse adottato dal predecessore in punto di morte (affermato da Plotina, moglie di Traiano, per legittimare le sue riuscite trame della successione), col quale era imparentato, Adriano fu acclamato ad Antiochia di Siria, provincia della quale era governatore. La sua carriera anteriore a questo incarico è riportata da un’iscrizione tipica, con cursus honorum senatorio di alto livello e significative responsabilità militari. Adriano dette subito un indirizzo di risparmio e sicurezza al suo governo: sostanziale abbandono delle recentissime conquiste mesopotamiche, perché per mantenerle si sarebbe dovuto incrementare fortemente la pressione fiscale, mentre Adriano ambiva all’opposto. L’Arabia e la Dacia rimanevano invece sotto il controllo di Roma e si procedette al rafforzamento delle difese. Atteggiamento di prudenza nel settore militare era anche alla base della costruzione del Vallo di Adriano, un lungo e articolato muro fortificato costruito da mare a mare in Britannia ai confini con l’antica Caledonia, e del quale rimangono Pag. 70 a 113 poderosi resti nell’odierna Inghilterra settentrionale al confine con la Scozia. Questo complesso difensivo, lungo oltre 120 km, aveva uno spessore di 2,5 m e un’altezza di 5-6 m. Fu costruito tra il 122 e 130 in parte in pietra, in parte in terra e legno, con fortini a intervalli regolari e fossati. La sua notevole e variegata opera di statista si caratterizzò per l’impulso dato al settore agrario e alla regolamentazione dei rapporti fra manodopera e proprietari e per la valorizzazione della scienza giuridica, nel quadro più ampio di una ristrutturazione degli organici e dei comparti di corte, con posti di nuova istituzione riservati all’ordine equestre e aumento numerico e razionalizzazione dei posti di procurator. Suggestivo ed efficace fu il ruolo dell’imperatore concepito da Adriano: il governatore aveva il dovere di essere il più vicino possibile ai provinciali, dunque di viaggiare. Durante i suoi spostamenti, accompagnato dall’apparato di corte, aveva modo di rendersi conto con i propri occhi della situazione delle periferie dell’impero. Pratiche quali l’adventus (arrivo solenne del sovrano a cavallo) furono moltiplicate. Poco dopo la nomina al soglio imperiale, rientrato dall’Oriente a Roma, si trattenne nella capitale dal 118 al 121 d.C. Nell’estate di quell’anno si recò nelle Gallie e di lì nelle Germanie e in Britannia. Si trasferì nella Penisola Iberica e partì per la Siria. Visitò nel 125 l’Asia Minore e fu nell’amata Atene, nel Peloponneso, a Delfi. Il 126-127 viaggiò in Italia, e dal 128 al 131 fu prima in Africa, Grecia, Anatolia e Siria, Egitto e di nuovo Atene. In Egitto trovò la morte nel Nilo il suo giovane favorito Antinoo, forse sepolto a Tivoli o nella città nuova chiamata col suo nome, Antinoupoli. Al 132 risale l’evento più drammatico dell’impero di Adriano: una grave rivolta giudaica guidata da Bar-Kokhba, durata sino al 135. Fra le cause della rivolta ci sono state la rabbia dinanzi al progetto di trasformare Gerusalemme in una città romano-ellenistica, centrata anziché sul Tempio sul santuario di Giove Capitolino (nominata colonia Aelia Capitolina), e l’insofferenza per un divieto di riti religiosi che prevedevano mutilazioni genitali esteso alla pratica ebraica della circoncisione. Adriano si spinse in Palestina, prima di rientrare a Roma e stabilirsi per gli ultimi anni nella sua villa di Tivoli. Un elemento di questi anni fu il filellenismo imperiale, che tradusse una vocazione culturale in iniziative politiche e finanziarie. Adriano ultimò e costruì ex novo edifici civili e religiosi in varie città della Grecia, mentre spesso si vide conferire denominazioni celebrative e assimilazioni a divinità di salvezza e liberazione secondo lo schema dei monarchi e gli evergeti ellenistici. Ebbero inizio col suo regno “i grandi giorni dell’Atene romana” (J. Oliver). Di Atene l’imperatore fu cittadino e magistrato onorario, benefattore. Nella città, l’imperatore ebbe gradito onere di ginnasiarca perpetuo, col quale assicurava cospicui finanziamenti alla città, una tribù ateniese gli fu intitolata, e volle ricollegarsi al progetto di Pericle di organizzazione panellenica formata da delegati di tutte le città greche. I suoi gusti estetizzanti all’estremo, contrastanti con l’immagine di uomo semplice fornita dalla tradizione, impregnati di ellenismo, si ritrovano nella ritrattistica ufficiale del tempo (Adriano fu il primo imperatore con “la barba da greco” folta, in contrasto deliberato con la rasatura perfetta e i capelli ordinati di Traiano) e nella sua residenza tiburtina. Dopo che la malattia lo colpì nel 136, Adriano cominciò a pensare all’eredità dell’impero, affidandosi in un primo momento ad un nobile di talento Elio Cesare, ma questi gli premorì e Adriano adottò Antonino, un rispettabile senatore nato nel Lazio, da una famiglia di Nimes (Gallia meridionale), già console nel 120 e proconsole d’Asia tra il 133 e il 136 che gli subentrerà alla morte, avvenuta il 10 luglio del 138. 12.2 La dinastia degli Antonini (138-192) ANTONINO PIO (138-161), REGNO “FELICE” MA “SENZA STORIA”? La stagione di cinquant’anni che si inaugurò con Antonino corrisponde alla dinastia Antonina, sebbene per abitudine se ne allarghi la periodizzazione risalendo sino a Nerva: designazione all’impero stabilita per adozione e sostanziale buongoverno, sino all’inizio del declino. La fase postadrianea è tradizionalmente considerata la più pacifica, armonica e prospera dell’intera storia dell’impero romano. Giudizi favorevoli e a tratti persino euforici delle fonti letterarie antiche: encomio A Roma, pronunciato nell’Urbe nel 144 dal retore asiano Elio Aristide. Pag. 71 a 113 Antonino Pio (nuovo nome dopo l’adozione) invertì nello stile di governo (sedentarietà e amore per le antichità romane e italiche) un dato tipico di quello adrianeo: tanto Adriano era cosmopolita e amava il contatto con il mondo provinciale, quanto Antonino fu statico, al punto da non spostarsi mai da Roma e dall’Italia. Nei suoi ventitré anni di potere l’impero non operò iniziative espansionistiche (aspettative di tipo identitario e culturale: concezione storiografica antica la guerra era ritenuta materia grazie alla quale si poteva scrivere in modo elevato di storia, Tacito Annali). In Antonino, una politica militare dimessa si accompagnava all’immobilismo personale, e questo suscitò ammirazione ma anche diffidenza e fastidio. Persino la campagna più efficace, condotta in Britannia da Urbico, fu oggetto di polemiche riaccese nel III sec, poiché ad Antonino ne conseguirono meriti bellici non suoi, in quanto egli non si era mosso da Roma. Il suo regno, dunque, per mancanza di eventi epocali e insoddisfacente stato della storiografia antica che lo riguarda, ha ricevuto modeste trattazioni storiografiche moderne, ma non fu però senza storia, e la figura di A è stata tramandata come equilibrata, abile a mediare, rispettosa verso il senato, attaccata ai culti tradizionali, affascinata dalle tendenze di tipo dionisiaco – misterico – solare, alto senso della funzione imperiale a cui lui si dedicava. Manteneva i migliori dei suoi magistrati e funzionari in carica ben oltre i tempi abituali, era proclive a una politica economica di risparmio in grado di favorire una diminuzione del carico fiscale, restauratore piuttosto che costruttore ex novo, scrupoloso nel sorvegliare conti di province e città, legiferò per frenare atti di evergetismo eccessivi, ambascerie inutili, salari sovrabbondanti agli impiegati municipali. Ampliò il progetto degli Alimenta traianei agendo anche a nome di sua moglie l’augusta Faustina, intervenne per ricostruire aree colpite da calamità naturali, specialmente anatoliche. La liberalitas della coppia imperiale divenne uno dei temi distintivi dell’iconografia del potere. DIFFICOLTA’ SOTTO MARCO AURELIO (161-180 d.C.): ESERCITO, CONFINI, BARBARI Antonino Pio morì nella proprietà suburbana di Lorium nel marzo del 161. Una necessità operativa di tutti gli imperatori, alla quale neppure Antonino si era sottratto, era il rafforzamento delle fortificazioni ai confini: Britannia (dove il Vallo Antonino, costruito nel 142, avanzò il fronte difensivo romano sino alla Scozia centro-settentrionale), l’area renana e l’area danubiana. Debolezza della strategia difensiva romana: ai confini, durante il principato, era stanziata una fortissima concentrazione di truppe legionarie e ausiliarie, ma questa rimaneva inadeguata per tamponare eventuali attacchi simultanei in più punti del limes . Con l’apertura contemporanea di almeno due fronti di guerra, quello danubiano e quello orientale, verranno fatte riforme, da Settimio Severo e da più tardi imperatori del III sec, secondo il principale criterio della difesa dislocata anche all’interno di territori provinciali e della progressiva formazione di riserve e raparti mobili. LIMES = lunghissima linea di diversa profondità – edificata, costituita da barriere naturali, comunque sistematicamente militarizzata – che dava sicurezza fisica e identità morale ai romani, ed era spazio di collegamento e interazione culturale, economica e diplomatica con le realtà sociali ed etniche non sottomesse all’impero e che costituivano il composito mondo dei barbari. Fra questi, le ultime minacce all’Italia, da parte di popolazioni germaniche, risalivano all’epoca delle incursioni dei cimbri respinte vittoriosamente da Caio Mario, successivamente c’era stata espansione, sfruttamento, controllo (che nel settore transdanubiano era garantito dopo Traiano dalla conquista della Dacia), e mai si era trattato di impaurito contenimento difensivo. GUERRE Con Marco Aurelio, adottato da Antonino Pio nel 138 e marito di sua figlia Faustina Minore, saliva al potere un filosofo stoico, autore di un libro di Ricordi o A se stesso, con riflessioni su come avrebbe dovuto adempiere alla missione affidatagli dalla sorte, mantenendo la libertà interiore e agendo con benevolenza, spirito di eguaglianza e scrupolo per il bene di Roma e del mondo. Proprio i Ricordi furono scritti durante alcune campagne militari: infatti il governo del principe-filosofo coincise con un periodo di inediti impegni bellici dell’impero. Marco Aurelio associò subito al potere come secondo augusto il fratello per via di Pag. 72 a 113 Antico aneddoto indicativo della percezione del ruolo che spettava agli imperatori e dell’accessibilità che la gente comune desiderava da loro: Adriano durante un viaggio venne apostrofato da un’anziana donna che gli domanda udienza, alla risposta negativa dell’imperatore, ella rispose con impudente vivacità popolana “allora cosa regni a fare!” Adriano, conscio dei propri doveri, si dedicò subito a lei. (Cassio Dione, Storia romana). Fonti abbondanti mostrano come la funzione imperiale implicasse incessanti attività prevalentemente in prima persona: assistenti, consiglieri, governatori provinciali compivano parte considerevole del lavoro ma non potevano sostituire il monarca. Infinità di pratiche: esame di incartamenti di casi giudiziari, emanazione di sentenze, lettere, partecipazione a cerimonie religiose, sedute del senato, manifestazioni pubbliche. Svaghi, esercizio fisico, banchetti, studio, attività aristocratiche per essere culturalmente all’altezza dei suoi compiti. I pasti erano non di rado occasione di discussione con i collaboratori, “pranzi di lavoro”. Le biografie forniscono le informazioni più esplicite sulla giornata di un imperatore, giacché ciascuno si regolava a modo suo (Cassio Dione, Storia romana, Settimio Severo lavora da prima dell’alba a tarda sera, bagno e frugale pasto con i membri del suo entourage). Tutto questo vale dalle origini del regime imperiale sino alla tarda antichità, e alla tarda antichità romano- germanica e cristianizzata, ne è esempio epistola di Sidonio Apollinare senatore gallo-romano che nel 455 d.C. descrive nel dettaglio la giornata di Teodorico II re dei visigoti. 13: La “globalizzazione” romana Il mondo romano deve essere interpretato soprattutto a partire da Augusto in una chiave globale, con l’avvertenza che alle interdipendenze culturali, ai fenomeni forti di romanizzazione, ai commerci su larga scala si contrapponevano o si affiancavano permanenze delle tradizioni locali e chiusure dei circuiti economici. Strabone, Elio Aristide e altri osservatori antichi rielaborarono idea di Roma come “patria comune”, impero che nel II sec dovette raggiungere gli 80 milioni di abitanti. Nel corso del I sec e agli inizi del II, Roma aveva conquistato altri territori esterni e creato nuove province. Fra Claudio e Vespasiano anche gli ultimi piccoli principati ‘amici e alleati’ erano stati incorporati nel sistema provinciale (Giudea, Tracia, Armenia Minore). L’impero romano aveva senza dubbio nel Mediterraneo il suo cuore pulsante, politicamente ed economicamente, ma era ormai ben più di un “impero mediterraneo”: aree interne e impervie della Spagna e delle Gallie oltre l’Oceanus Britannicus (la Manica) sino all’attuale Scozia (dove era stato disposto il Vallo di Adriano), nella Germania renana e nelle regioni balcaniche alle quali faceva da confine il composito mondo delle popolazioni barbariche. A sud, l’impero penetrava dalla Mauretania alla Libia orientale, ma dall’Egitto il dominio romano scendeva sino a regioni oggi corrispondenti al Sudan settentrionale, lasciandosi a Oriente il Mar Rosso; a oriente erano romane l’Anatolia più interna, la fascia armena a meridione del Caucaso e la Mesopotamia, a seguito delle campagne di Traiano fino al Tigri (oggi fiume dell’Iraq) di frontiera con il grande regnum Parthorum; infine tutta la fascia medio-orientale dal mare alle aree desertiche siriaca e arabica. 13.1 Vie di comunicazione Queste regioni così distanti tra loro erano attraversate, sulla terraferma, da un reticolo di viae lastricate, che il governo romano curò sempre con speciale sollecitudine e ancora oggi utili. Alle antiche piste aperte dall’opera umana e alle strade consolari repubblicane periodicamente risistemate gli imperatori aggiunsero in Italia e soprattutto nelle province numerose arterie di comunicazione, il cui controllo e manutenzione erano affidati alla giurisdizione di appositi responsabili di rango equestre o senatorio, i curatores viarum. Nell’età imperiale c’erano circa 400 grandi strade, per uno sviluppo totale calcolato in circa 53000 miglia. Le strade furono realizzate là dove erano più presenti e attive le legioni. In settori regionali quali le Gallie o la Pannonia la viabilità era in molti casi legata a finalità strategiche e operative, ma anche per collegare centri Pag. 75 a 113 di rilievo amministrativo ed economico. Impulso al sistema stradale giovò tutto il sistema delle comunicazioni e dei commerci. Gli spostamenti di persone e merci erano relativamente liberi, sebbene esistessero luoghi il cui passaggio era riservato a trasporti organizzati a livello statale ai quali non era consentito accedere senza speciali permessi (cursus publicus) e sottoposto a controlli per ragioni fiscali. I miliari (pietre cilindriche con iscritte distanze e informazioni dei cantieri di costruzione o restauro), le prospezioni archeologiche, la fotografia aerea, consentono di avere quadri abbastanza precisi delle strade romane, delle tecniche di costruzione, delle tappe. Per conoscere i tragitti attingiamo ad un’importante tipografia documentaria, gli Itineraria, corredati talvolta da disegni e rappresentazioni dipinte (Tabula Peutingeriana, copia medievale di antica mappa delle strade ufficiali del mondo di Roma e dei popoli con cui Roma aveva rapporti nel III sec). Il mare fu il simbolo dell’impero globale (Plinio il Vecchio, Storia naturale). Anche le infrastrutture marittime e fluviali (porti, moli, fari..) furono allargate nel corso del principato, con finalità di difesa delle coste o per favorire ingressi nei maggiori empori mediterranei e dell’entroterra. Per favorire il rifornimento di Roma, gli imperatori Claudio, Nerone e Traiano riorganizzarono e ampliarono il porto di Roma. Altri porti maggiori durante il principato furono Tarragona, Pozzuoli, Cadice, Cartagine, Alessandria, Arles. 13.2 L’integrazione dell’economia I trasporti terrestri avvenivano con lentezza e implicavano costi assai elevati, dato l’impiego di animali da traino, carri pesanti su selciati non sempre in buone condizioni.. L’uso delle direttrici fluviali e marittime comportava alti livelli di rischio d’impresa, perché ogni viaggio era una vera e propria scommessa per l’incolumità di persone e beni. Nonostante questo la vitalità dei traffici commerciali fu tale da assicurare durante il principato, a coloro che ne sfruttarono la potenzialità, prosperità e ricchezza rimarchevoli e superiori alle epoche precedenti e successive. “L’ampliarsi del settore del mercato e lo sviluppo dell’economia imperiale romana sono prodotto diretto della conquista ma anche prodotto del persistere dell’unità politica dell’organismo imperiale” (Lo Cascio, Caratteri). Questa persistenza dell’unità imperiale non si accompagnava a politiche economiche nell’accezione odierna: nei primi secoli era sufficiente che esistesse un quadro statale organizzato in grado di mantenere assetto funzionante in ambiti chiave (approvvigionamento della metropoli, versamenti tributari, controllo del metallo fino per le monete e meccanismi di circolazione monetaria) perché ne derivassero positive conseguenze macroeconomiche. Alcuni autori antichi sottolineavano gli scambi dei prodotti tra una zona e l’altra e il confluire dei beni di tutto il mondo nella grande capitale romana. Sul fenomeno degli spostamenti delle merci abbiamo informazioni grazie alle anfore e ai relitti di navi naufragate. Nell’interno un mercato molto capiente (all’inizio dell’impero esportazioni di prodotti dall’Italia, poi dalle regioni più vicine al limes) era costituito dalle zone di confine, dove erano installate le legioni e i corpi ausiliari: ciò significava decine di migliaia di uomini da rifornire in prodotti di prima necessità, e in più le baraccopoli a pochi km di distanza dove vivevano le loro donne, figli, e dove si decentralizzeranno lavorazioni industriali, soprattutto di ceramica per gli usi quotidiani. Gli scambi commerciali superarono anche il limes, per quanto esso mantenesse per i romani il valore di linea ideale di demarcazione tra il mondo civile e il mondo extraromano, il barbaricum. Cospicui ritrovamenti di monete romane testimoniano i contatti economici e diplomatici di Roma con varie regioni dell’Asia centrale e meridionale, e una via carovaniera da Antiochia di Siria e da Palmira si inoltrava verso l’India – la “via della seta”, prodotto prestigioso dell’Estremo Oriente, insieme con balsami cosmetici perle spezie e aromi che giungevano sino alla Cina. Il grano, il vino, il corallo rosso egiziano erano apprezzatissimi dagli indiani, che accettavano anche i pagamenti monetari, se non altro per procedere a successive fusioni del metallo. Postazione militari proteggevano la via del deserto e suo uso sottoposto a controlli sul movimento delle persone. I negotiatores via terra si trovarono spesso indotti a evitare l’impero dei parti (dal III sec dei persiani sassanidi). Si capiscono perciò le frequenti spedizioni imperiali verso la Pag. 76 a 113 Partia e i tentativi di controllare i transiti caucasici. Descrizione, in greco di un mercante, il Periplo del Mar Rosso, guida i trafficanti e viaggiatori che si imbarcavano dal Mar Rosso verso est. Con l’impero si ebbe una larga integrazione monetaria. Sopravvivevano, in molte città greco-orientali, emissioni funzionali solo all’economia locale e che contribuivano a dare identità e senso di appartenenza. Tuttavia era la moneta prodotta nei primi secoli in alcune zecche ufficiali, gli aurei, il denario argenteo e il sesterzio bronzeo con i loro rapporti (1 aureo = 25 denari, 1 denario = 4 sesterzi) e sottomultipli la cosiddetta moneta divisionale, che primeggiava nelle transizioni e che era richiesta ai contribuenti come mezzo di pagamento. Secondo modello storiografico elaborato da Hopkins nel 1980 il bisogno di procurarsi liquidità per i versamenti tributari avrebbe dato un forte impulso alla produzione dei provinciali di beni da commercializzare. Aspetti internazionali dell’economia romana imperiale, ma essa continuava ad avere nell’agricoltura il fattore maggioritario di produzione delle ricchezze nel quale gli imperatori legiferarono spesso. La terra restava sempre il modo caratteristico in cui le ricchezze accumulate venivano investite (dibattito tra “modernisti” e “primitivisti” riguardo l’essere inclini o meno ad applicare schemi moderni riferiti alle società industriali per interpretare l’economia antica, ritenuta più o meno evoluta). 13.3 La circolazione del sapere e la diffusione del latino Lo storico ed enciclopedista Plinio il Vecchio, perito in occasione della terribile eruzione del Vesuvio del 79, sembra posizionarsi come un fautore della “mondializzazione” sotto l’egida della maiestas populi romani. Egli esaltava per vera convinzione il nesso tra natura e dei, pace, legami fra popoli e nazioni tenuti saldi da un potere politico centrale, e i grandi momenti di progresso dei suoi tempi: “(..) grazie alla sconfinata maestà della pace romana, che conoscere tra loro non solo gli uomini di terre e stirpi diverse, ma anche le montagne e le loro cime che sconfinano nelle nubi, e i loro prodotti, e anche le erbe! Che questo dono degli dei, di grazia, possa essere eterno! Sembra davvero che essi abbiano donato all’umanità i romani, quasi fossero una seconda luce” (Storia naturale). Plinio insiste anche sul tema dello scambio dei saperi, ma non mancano critiche morali ai suoi tempi, all’importanza del denaro, gli eccessi del lusso, la crisi della cultura. Plinio era specialmente ingeneroso con i medici, cui in generale attribuiva incompetenza e furba cupidigia. Se fosse vissuto più tardi, avrebbe fatto fatica a negare le potenzialità della scienza di Ippocrate, duffusasi a Roma grazie alla conoscenza greca. Se la cultura greca accresceva in certi ambiti il suo impatto ed il greco come lingua aveva funzione veicolare in tanta parte del mondo mediterraneo – si può parlare di un impero bilingue greco-romano – il latino conobbe a partire da Augusto una diffusione senza precedenti. Esso era la lingua del potere e dell’amministrazione: l’organizzazione scolastica, almeno in Occidente fondata sul latino, si diffuse nei centri urbani anche di medie dimensioni e le arti liberali, la retorica, il diritto, divennero patrimonio di un numero relativamente significativo di giovani (maggioranza analfabeta), ai quali i genitori consentivano con sacrifici di studiare. Il mestiere dell’insegnante assunse nuovo peso nella società (municipalità dovevano retribuire le loro attività), e le leggi erano emesse ed esposte in pubblico in latino (Oriente tradotte in greco) e con le autorità romane si poteva comunicare solo in latino direttamente oppure usando interpreti. Nell’esercito gli ordini erano trasmessi in latino. Questo fatto, unito ai criteri della leva, che prevedevano che tutte le forze reclutate al di fuori delle strutture legionarie fossero tratte da elementi peregrini privi di cittadinanza romana e spesso privi di qualunque istruzione che non fosse la conoscenza di tecniche di combattimento esotiche, rappresentò uno straordinario tramite per la latinizzazione linguistica. I soldati imparavano bene il latino nei cinque lunghi lustri del servizio per i non- legionari, se ne tornavano spesso nelle terre d’origine forniti della cittadinanza romana e ciò finiva col favorire la romanizzazione a vari livelli. In una località dell’attuale Scozia, parte dell’antica Britanna da poco provincializzata, gli scavi hanno restituito una stratigrafia con cinque periodi, nei decenni prima della costruzione del Vallo di Adriano, relativi al fortino di Vindolanda, fornendoci alcune centinaia di sottili tavolette lignee scritte in corsivo Pag. 77 a 113 Romanizzazione spontanea (accanto a quella dalle forme più forzose e violente) dettata dalla possibilità di attingere a vantaggi materiali garantiti da Roma, e dalla sincera convinzione che quello romano fosse il “meno peggiore” dei mondi possibili. La crescita delle aristocrazie provinciali si tradusse in un costante e progressivo loro ingresso nei posti di responsabilità pubblica. Nel II sec la percentuale dei membri dei due principali ordini (equestre e senatorio) né provenienti da Roma né dall’Italia era a livelli decisamente rilevanti. Durante il regno dei Severi e nel corso del III sec i senatori (dal II sec dotati del titolo di viri clarissimi) erano in maggioranza ex equestri pervenuti al senato da un paio di generazioni al massimo e di origine provinciale: iberici, nordafricani, greci, orientali. Tutti naturalmente ricchi e in parte latinizzati. Senatori occidentali con Vespasiano, senatori greci e orientali con Traiano, ancora prima che con il suo filellenico successore Adriano. I cambiamenti nella composizione del senato furono in parte necessari a seguito dell’estinzione naturale delle famiglie senatorie repubblicane e augustee, delle rovine patrimoniali, mentre meno si ritiene incidessero le persecuzioni politiche che colpirono il senato. La preoccupazione imperiale di lasciare all’Italia un suo spazio tutto sommato privilegiato si manifestò comunque nei provvedimenti che obbligavano i senatori a possedere terre nella Penisola (con Traiano) e anche nel costante afflusso di neosenatori italici nella curia. 13.6 Un aspetto della romanizzazione: pantheon classico, divinità indigene, sincretismi La religione di età imperiale fu atomizzata in tanti culti nativi, ma interamente avvolta dalla religione imperiale, ossia la religione classica fondata sui collegi sacerdotali romani, il culto imperiale, una serie di astrazioni personificate in forma soprannaturale, un preciso calendario delle festività. Elemento accomunante, del resto tipico delle pratiche religiose pagane, era il sacrificio. Se si eccettuano casi come quello dei celtici druidi, soppressi in età giulio-claudia, Roma fu incline ad accogliere e organizzare diverse religioni in un sistema, che affiancava culti pagani ufficiali e dominanti a una serie di culti civici e rurali, spesso assimilati a quelli delle divinità maggiori (su iniziative dei provinciali romani, accolte dalle autorità romane che utilizzavano anche la religione come mezzo di romanizzazione). Per definire l’assimilazione nella pratica liturgica o nel nome di deità provinciali si parla di interpretatio romana, pratica già attiva nell’Italia romana dei tempi antichi nell’associazione fra divinità greche e romane. Le cerimonie che coinvolgevano la vita rituale di intere società cittadine continuarono sempre, ma presero una notevole diffusione culti di carattere misterico e iniziatico o nei quali erano elementi forti il coinvolgimento individuale o di piccoli gruppi, il rapporto con la morte e la resurrezione (esigenze simili a quelle del cristianesimo) come avvenne per l’egiziana Iside, il dio iranico solare Mitra, Cibele e altre divinità egemoniche e spesso assimilate a Zeus/Giove. L’epigrafia dà conto di epiclesi attribuite agli dei e diffuse in Anatolia e nelle province occidentali. Addirittura circa 35 sono i teonimi di Marte, e Iside assommava praticamente tutte le virtù e i principii del femminino (Apuleio, Le metamorfosi, interessante testimonianza letteraria del sincretismo religioso imperiale). C’erano poi anche divinità sovraregionali, come il celebre Zeus Panellenio, al quale Adriano riservò un tempio ad Atene. La sincretizzazione non era sistematica: di molti dei indigeni si hanno poche informazioni, altri non sono giustapponibili a quelli greco-romani. I romani non rinunciarono ad esercitare un controllo su riti e sacerdoti dei culti più distanti dalla loro esperienza religiosa. Per le religioni “orientali” questo controllo era affidato in un primo luogo al collegio dei quindecemviri sacris faciundis, e l’integrazione di tali culti avvenne in Occidente senza creare disagi, come accadde per le nuove superstizioni e le speculazioni, anche di natura magico-filosofica, cosmogonica, ermetico-oracolare, che si svilupparono a partire dal II sec. 13.7 La cittadinanza romana nei primi due secoli L’impero non perse mai del tutto un carattere binario: da una parte sempre Roma, con i suoi modelli di “patria comune”, in grado di usare bastone e carota, dall’altra i contesti provinciali, dove permaneva sul piano giuridico e culturale un grado di specificità identitaria, sia per le popolazioni urbanizzate che per quelle legate a strutture tribali. Soprattutto nella comunità meno romanizzate, la convivenza tra cives Pag. 80 a 113 Romani e peregrini poteva anche esprimersi come mantenimento di una separatezza nella dislocazione degli insediamenti. Il possesso della civitas romana lasciava spazio ai provinciali per ricoprire magistrature nelle loro città di origine ma non era garanzia di fare carriera nelle strutture dello stato imperiale: caso noto della Gallia Comata (area della Transalpina prima della conquista romana, popolata solo da “capelloni”) ai quali era preclusa l’ammissione al senato, sicché l’imperatore Claudio non riuscì a far passare la sua politica di ampliamento delle aree geografiche da cui si potevano trarre i ceti dirigenti. L’attitudine di Claudio collegata all’estensione del conferimento della cittadinanza romana come presupposto per l’ammissione alle attività pubbliche fu oggetto di critica e derisione (Seneca, Apokolokyntosis), ma rifletteva una prospettiva lungimirante di una civitas che per essere davvero efficace strumento di governo e integrazione non poteva subire alcuna restrizione ideologica. Il senato e l’imperatore naturalizzavano coloro che erano privi alla nascita della cittadinanza romana attraverso tutta una serie di procedure e meccanismi: rivestitura per i singoli di cariche amministrative nelle città di diritto latino, cittadinanza concessa a intere comunità che avevano militato lealmente a fianco di Roma, a chi aveva svolto attività di mediazione fra la città di appartenenza e Roma, ai soldati ausiliari che si congedavano. Nell’ultimo caso la prassi divenne obbligatoria, e fu proprio il premio di congedo per i membri dei reparti ausiliari dopo la leva di 25-26 anni che ebbe alla lunga l’impatto numericamente più significativo, visto che erano moltissimi i soldati che ogni anno ricevevano i diplomata militaria, vere e proprie certificazioni individuali incise su lamine bronzee (procedura elaborata di consegna da Roma alla caserma dove erano installati). Si enuncia talvolta che la contrapposizione fra honestiores e humiliores sin dagli inizi del II sec soppiantò per importanza quella fra chi era civis e chi non lo era, ma è incontestabile che il diritto di cittadinanza – che prima e dopo l’Editto di Caracalla conservò un profondo valore onorifico – andò estendendosi in particolare nell’Occidente latino, verso il quale Roma fu più prodiga e che era meglio disposto ad inserirsi nel corpo imperiale. Nel mondo greco la situazione era più complessa: qui i romani usarono prevalentemente forme di concessione individuali della cittadinanza a chi aveva acquisito meriti speciali dinanzi a Roma. Anche le comunità di fondazione romana – cesariane o augustee, e poi di altri principi – furono poleis di struttura greca in tutto e per tutto, le quali non preludevano “per statuto” all’ingresso nella civitas , come avveniva per i municipi o le colonie latine occidentali. Particolarismo di città, regioni, leghe regionali, antiche glorie che generavano orgoglio locale che inevitabilmente contrastava con l’assorbimento pedissequo nelle strutture politiche romane. Personalità greche o aree dell’Asia Minore prive di cittadinanza, segnale di assenza: mancanza dei tria nomina del cittadino romano (prenome, nome di famiglia, soprannome ufficiale, e sino al III sec il possesso della cittadinanza era segnalato nei documenti con l’indicazione della tribù di appartenenza). Caso più sorprendente: Opramoas, licio di Rhodiapolis (Turchia) vissuto nel II sec d.C., nonostante avesse le caratteristiche per ottenere la cittadinanza (buone relazioni con il potere romano, ricchezza, attività nell’assemblea provinciale licia, fondazioni benefiche) non la ottenne mai. 14: Le città Economia, società, amministrazione, cultura: di ogni aspetto del mondo antico, sino alla più lontana tarda antichità, la città costituiva un fattore decisivo come simbolo di civiltà e ingranaggio fondamentale del governo, per questo definibile come la ‘cellula’ di un impero romano immaginato come organismo vivente (Cracco Ruggini). Le città costituivano, nel tessuto territoriale dell’impero, una fitta rete: nel mondo greco- romano una città poteva anche essere di modeste dimensioni purché avesse un consiglio comunale, un’elite dirigente (con cariche politiche e religiose locali, espletava servizi fondamentali come la raccolta dei tributi o la manutenzione delle strade e decoro urbanistico), un foro, luoghi di culto, luoghi di spettacolo, strutture acquifere, ginnasi (romano di inizio principato: Vitruvio, L’architettura). Pag. 81 a 113 Città grandi e piccole vivevano secondo uno stesso stile di vita. Una città aveva alle sue dipendenze un territorio dal quale essa traeva il sostentamento per la sua popolazione di proprietari, artigiani, bottegai; era nella città che in gran parte si commercializzava la produzione agricola e si tenevano i mercati. Spesso la riorganizzazione dell’impianto urbano avveniva insieme con la ristrutturazione dei contesti agrari. Le aree rurali avevano talvolta un proprio sistema organizzativo e magistratuale che però godeva di un’autonomia limitata rispetto alla città di riferimento. La politica degli imperatori fu da Cesare in poi una missione di regalità: dare impulso al sistema cittadino, controllando di esso la funzionalità e l’efficienza, fondando nuove città (Cesarea, Traianopoli, Sebastopoli = in greco ‘città augusta’, Adrianopoli), e procedere in alcune aree con una sedentarizzazione più o meno forzata, senza preludere però alla costituzione di un sistema urbano. Due sezioni, concepite seguendo una distinzione di massima tra contesto occidentale latinofono e contesto greco-orientale: la prima, la descrizione degli assetti istituzionali e organizzativi; la seconda, di descrizione della vita sociale. 14.1 Istituzioni e organizzazione politico-amministrativa. La nascita di una città Costantino da Orcistus in Frigia, egli dichiara di voler fondare nuove città e ripristinare quelle decadute, intermortuas reparare. Comunità che desideravano ottenere lo statuto di città o città decadute che chiedevano il reintegro nello status municipale e lo ottenevano dalla generosità imperiale. Sempre intensità di urbanizzazione e prosperità dei tempi sono andate di pari passo. Sempre era cura delle autorità romane verificare che non mancassero popolo, magistrati, decurioni ed elementi necessari all’acquisizione del prestigio e dello stato legale (dignitas e ius) di una città. Immagine del sovrano come fondatore e ordinatore di città si richiamava al modello del monarca ellenistico, ma anche poi all’esempio per i suoi successori di Augusto come rifondatore dell’Urbe. Nei casi di nuove fondazioni, un rilancio di colonizzazione di popolamento con concessione di lotti di terreno, in Grecia, Macedonia, zone dell’Anatolia interna, coste del Mar Nero, si ebbe in età cesariano- augustea e ancora più tardi con Traiano. Gli elementi minimi per dar vita ad una città erano precostituiti, oppure maturavano, come gli agglomerati che crescevano pochi chilometri alle spalle di insediamenti militari e raggiungevano una articolazione organizzativa tale da ottenere la promozione (molto in epoca antonina): alcune importanti città dell’Europa sorsero a ridosso di accampamenti militari = Colonia, Vienna (Vindobona), Belgrado, Budapest. Vicino ai campi legionari preesistevano villaggi dipendenti da città più distanti (vici, stesso nome delle realtà di villaggio sottoposte anch’esse – adtributae – al controllo delle città romane vicine) e lì presero corpo dei borghi di commercianti e artigiani, si svilupparono servizi, nacquero famiglie dei soldati: in latino, tali installazioni si chiamavano canabae, ossia abbaraccamenti. Le canabae, costituite da civili, erano amministrate da incaricati spesso veterani, ed erano sottoposte al controllo di militari sino a quando ottenevano lo statuto ufficiale e le istituzioni cittadine con il titolo di colonia o di municipium. Le città romane possedevano degli ordinamenti statutari scritti, dei quali ci sono pervenuti vari esemplari epigrafici (municipi latini della provincia iberica di Baetica di età flavia). Documenti ripartiti in rubriche, contenenti prescrizioni relative ai diversi comparti: reclutamento dei decurioni, magistrati, sacerdoti e patroni locali, comizi popolari, finanze municipali, tribunali. Al di sopra di tutto, Roma, rappresentata dai governatori provinciali. 14.2 Istituzioni e organizzazione politico-amministrativa. Consigli, magistrature locali, popolo CURIA (boulè) = piccolo senato funzionante come organismo direttivo delle città. Il numero dei suoi componenti era fisso e i vuoti dovevano essere colmati. Di norma i consiglieri (decurioni, dal latino decuriones) erano 100, ma aumentavano nelle città greche più popolose e importanti, mentre in realtà minori ne bastavano 50 per una curia giuridicamente valida. I decurioni erano nominati per cooptazione da Pag. 82 a 113 avevano avuto comportamenti infausti potevano essere punite col declassamento da città a villaggio o da uno statuto ad un altro inferiore. Fenomeno peculiare del mondo greco-orientale fu la rivalità tra città, che si mettevano in antagonismo su ogni piano, materiale e culturale. Solitamente era tra due o più poleis per il primato in una stessa provincia: città vicine che gareggiavano per ottenere promozioni di rango o titolature solenni, per riuscire a catalizzare i favori imperiali (gestire il culto degli imperatori). In una metropoli di provincia sede di uno o più templi imperiali (neocoria, in greco ‘custodia del tempio’) si svolgevano importanti frequentati festival, spettacoli, cerimonie religiose e sportive. Competizione tra Antiochia e Laodicea, Tiro e Berito in Siria, Nicomedia e Nicea in Bitinia. Anche in Occidente sono attestati episodi di rivalità intracittadina, come in Italia nella seconda metà del I sec. Tacito, eventi del 69 dopo morte di Nerone in Storie: “mescolavano l’emulazione tra città con le guerre civili”: rivalità descritta come pratica normale. Rispetto alle sfide orientali, sottilmente giocate sul piano culturale e della capacità di accattivarsi le simpatie del potere, essa assomigliava più a rozzi scontri di campanile, catalizzati in qualche caso da eventi sportivi: i tifosi di Pompei e Nocera Inferiore nel 50 d.C. si trovarono addirittura coinvolti in una zuffa che lasciò nell’anfiteatro numerosi morti e feriti e che spinse il senato a “squalificare l’anfiteatro” per dieci anni. Per Roma, la concordia (greco homonoia) interna o esterna era un elemento da salvaguardare ad ogni costo. 14.5 La società. Cittadinanze e assetto monumentale Roma fece in modo che il suo tradizionale modello istituzionale e architettonico di città venisse ripreso nella Penisola italica e nelle province: ancora una volta lo schema funzionò in prima istanza nell’ambito latino occidentale (dove pure si assiste talvolta a fusioni con schemi di culture locali urbanizzate); d’altra parte nelle aree greco-orientali l’urbanizzazione ex-nihilo progredì molto in età imperiale, e anche nelle regioni di più antica tradizione urbana (Grecia propria, Asia Minore costiera) vi fu una qualche forma di adattamento alle esigenze romane, di imitazione spontanea, di tipi urbanistici romano-italici o di specifici monumenti dell’Urbe. Aspetti salienti dell’edilizia pubblica e dell’arredo urbano della città secondo il modello romano: foro (corrispondente all’agorà greca anche per le attività commerciali che vi si svolgevano), come baricentro della vita civica, all’estremità del quale erano installate le curiae, come edifici nei quali in via ordinaria si riunivano le assemblee dei decurioni; una basilica, nel senso secolare classico di sede di negozi pubblici, quasi foro coperto spesso usato come palazzo di giustizia. Spazi politici possono essere giudicati i luoghi dello spettacolo, anfiteatri, teatri, odeon: politici perché indispensabili alla vita associata della città, e perché da un certo momento vi si manifestava l’opinione popolare (sia pure con le procedure irregolari delle acclamazioni). All’altezza del foro, verso il centro, si incrociavano le due principali arterie ortogonali (il cardo massimo, asse con orientamento nord-sud, e il decumano massimo, est-ovest); grandi vie colonnate erano prevalentemente diffuse nell’Oriente greco, ma si trovavano anche in città come l’africana Leptis Magna; situato di solito all’estremità del foro si trovava il tempio spesso dedicato alla Triade Capitolina, come emblema del Pantheon romano. Ogni città aveva poi acquedotti, macella, porte, terme e ninfei, abitazioni private, fondi commerciali, mura difensive o ornamentali divennero necessarie nella tarda antichità quando caratterizzarono l’iconografia e la simbologia urbana. 14.6 La società. Mestieri Le iscrizioni denotano l’esistenza di una grande varietà di associazioni professionali (collegia, corpora, sodalicia) che fa immaginare le città come una realtà animata, fatta di servizi pubblici (trasporto merci o sorveglianza antincendio) e attività economiche e commerciali. Suggestivo episodio da Atti degli Apostoli relativo a Efeso, la città sede del più celebrato tempio di Artemide del mondo antico: “Un orefice di nome Demetrio faceva in argento dei tempietti di Artemide, e dava un notevole guadagno ai suoi operai. Ora, egli li radunò insieme ad altri del medesimo mestiere e disse: “Uomini, voi sapete che il nostro benessere dipende da questa industria..” Pag. 85 a 113 Svolgimento di attività di club con quote d’iscrizione e tesoreria, comitati direttivi, patroni, calendario delle iniziative. I membri delle associazioni (fulcro = appartenenti alla plebe urbana), condividevano forme di ricreazione, culto religioso e operavano anche in ambito funerario. Queste funzioni talvolta erano affidate a specifici collegi che si formavano per via privata prima di essere riconosciuti dallo Stato. Come in epoca tardorepubblicana, essi potevano destare sospetti come gruppi sovversivi ed essere sorvegliati speciali. L’atteggiamento degli imperatori verso di loro è riassunto da Traiano, che, rispondendo al governatore Plinio che voleva accordare il permesso a Nicomedia di un collegium fabrorum come corpo antincendi, definisce factiones quel tipo di associazioni, e suggerire di allestisce un servizio di pronto intervento in caso di incendi, fatto da volontari privati. Fra i mestieri più importanti a livello cittadino c’era quello degli insegnanti, in concorrenza per procurarsi allievi, ma erano pochi e non organizzati in sodalità. In epoca imperiale, ogni città aveva una sua scuola “pubblica”: non tanto per gli spazi utilizzati nelle lezioni, quanto per l’esistenza nelle città (a partire dall’età flavia e antonina) di professori di fama stipendiati dalle casse municipali, e ad essi spettavano privilegi quali l’esonero dalla milizia e immunità varie (valeva per l’istruzione “secondaria” e superiore). Le scuole cittadine potevano fruire di biblioteche e libri: Plinio il Giovane donò una biblioteca a Como, sua città natale. 14.7 La società. La funzione sociale dell’evergetismo privato Si definisce evergetismo (dal greco euerghetes, euergheteo, ‘fare/agire bene’) una pratica di dono diffusa nei municipi italici e dell’impero, che assunse un ruolo ineguagliato in altre società per dimensioni, coinvolgimento emotivo, incidenza sulla vita sociale e sulla facies dei paesaggi urbani sino ai nostri giorni. I notabili locali dell’impero spendevano parte cospicua delle loro sostanze in gesta liberali a favore delle città di origine o di altre realtà con le quali erano legati; grazie ad esso si accedeva più facilmente alle cariche pubbliche e si intrattenevano rapporti col centro del potere ottenendo nei casi fortunati benemerenze presso i principi e l’ascesa agli ordini maggiori. La tipologia delle benemerenze denotava un’inventiva eccezionale: banchetti comunitari, finanziamento di cacce e spettacoli di varia natura, distribuzioni a getto di denaro sonante, fondazioni con le quali si preparava la commemorazione postuma di sé, copertura delle spese di viaggio delle ambascerie, pagamento di ospitalità alla corte e ai soldati che accompagnavano l’imperatore nei suoi viaggi (evitare gravami per la popolazione). L’oggetto di maggior rilievo anche simbolico della generosità furono le costruzioni pubbliche – desiderio di perpetuare nei millenni tracce di sé. L’evergetismo rifletteva profonde esigenze sociologiche e antropologiche. In età imperiale, molte famiglie (l’evergetismo, come il patronato, era pratica che spesso passava di padre in figlio) dilapidarono i loro beni a seguito di promesse pubbliche al cui adempimento erano poi tenute per motivi sia morali che legali. Quando un aristocratico-magistrato municipale entrava in carica era buona norma che ob honorem ringraziasse la città per questo suo conseguimento con atti di pubblica liberalità (divenuti poi praticamente obbligatori), i costi stabiliti come summae honorariae a seconda della carica e dell’importanza della località di esercizio; in queste circostanze la componente spontanea dell’evergetismo finiva col tradursi nelle promesse di ampliare le cifre previste. La funzione sociale della munificenza classica consisteva dunque nel coltivare una pratica amata dagli abitanti delle città perché sfociava in kermesse (grandiose manifestazioni pubbliche) suggestive che catalizzavano l’orgoglio civico. Non era un tipo di funzione sociale assimilabile a quella che stava nelle aspettative dell’elemosina cristiana, che, sin dalle origini del cristianesimo, insegnava a fornire assistenza con spirito altruistico e volontà di preservare l’anonimato a una serie di categorie sociali ben identificate: poveri, malati, stranieri, viandanti. La civiltà greco-romana sembrava piuttosto insensibile verso la povertà. La munificenza era normalmente un fenomeno civico: di essa fruivano le persone che appartenevano a una specifica comunità e addirittura, nei casi di distribuzioni di alimenti o denaro, Pag. 86 a 113 esistevano differenziazioni per gruppi che garantivano di più ai più abbienti, confermando così le differenze sociali. 14.8 La lunga via verso il declino della città romana: appunti sul dibattito Dalla fine del II sec – analisi incrociata di fonti letterarie, epigrafiche, giuridiche, archeologiche – i fattori costitutivi della città sembrano caratterizzati da una perdita di forza propulsiva: alla disaffezione rispetto alla partecipazione alle attività politiche locali (appesantimento delle responsabilità fiscali delle curie) si univa una flessione all’evergetismo; una involuzione monumentale dei fori è segnale della lenta mutazione degli impianti urbanistici che in epoca più tarda andarono cristianizzandosi, mentre i vescovi e le istituzioni ecclesiastiche assumevano un peso crescente per prestigio sociale, mediazione con i poteri secolari, compiti politico-amministrativi che furono chiamati a svolgere a livello cittadino. Crisi delle curie: diminuzione del loro ruolo direttivo a vantaggio di una centralizzazione attuata dai funzionari imperiali e di una militarizzazione delle autorità in epoca romano-germanica. La cronologia di questo processo è controversa e si lega al problema più generale della periodizzazione della tarda antichità. Dibattito tra studiosi inclini all’analisi delle continuità (nozione chiave di ‘trasformazione’) e studiosi sensibili alle rotture storiche (nozione di ‘declino’). Comunque: distinguere tra la sopravvivenza della città come sede della vita associata (si verificò in tanti luoghi) e la sopravvivenza della città di tipo romano, che subì un’involuzione sia di cambiamenti lenti che mutazioni rapide, che la portò ad allontanarsi da quella identità. Dunque, la città romana, declinò e infine cadde, ma questo processo non si era compiuto né in Occidente né in Oriente prima della fine del VI sec. PARTE QUARTA Tardo impero e tarda antichità (III – IV sec) Nel 476, con la caduta dell’ultimo augusto d’Occidente (il solo per questo celebre Romolo Augustolo) fu vergata la parola ‘fine’ su un’ipotetica carta dei fondamenti costituzionali dell’impero romano d’Occidente. Da questo momento il nome ‘tardo impero romano’ perde la pienezza della sua identità storica e storiografica. Invece, indipendentemente dal momento nel quale lo si faccia iniziare (Marco Aurelio, la “crisi” del III sec..) il concetto di ‘tarda antichità’ persisterà sia nell’Occidente dei cosiddetti regni romano- barbarici o romano-germanici sia in Bisanzio. Più avanti, sviluppi sociali e culturali interni, guerre e nuovi imperialismi renderanno quasi irriconoscibili i segni dell’antichità greco-romana nella sua peculiare forma data dall’impero mediterraneo di Roma e allora anche la tarda antichità sarà finita. Tarda antichità o tardoantico ha quasi sostituito del tutto quella tradizionale ma impropria e fuorviante di ‘basso impero’ (tardo impero ha implicazione cronologica, basso impero esprime una scala di valori e confronta una fase aurea e alta della storia imperiale di Roma con una fase declinante e qualitativamente bassa). Il dibattito teorico degli ultimi decenni ha investito le seguenti questioni: la periodizzazione della tarda antichità, in rapporto alla cesura tra antichità e medioevo (problema legato alle rotture e continuità), ed entrano in conto le periodizzazioni minori a seconda degli ambiti presi in considerazione; l’originalità della società tardoantica/tardoromana, epoca di trasformazioni rapide in una direzione regressiva, critica alle analisi di taglio nostalgico (confronti con età aurea del principato) o finalistico (cogliere le anticipazioni della società medievale). Pag. 87 a 113 Minore e Grecia, seguì dopo il 52 un soggiorno a Gerusalemme. Accusato dagli ebrei di avere provocato tumulti, rivendicò lo status di civis romanus dalla nascita e chiese di essere giudicato dalla giustizia imperiale dell’Urbe, dove rimase per due anni in “libertà vigilata”, continuando a svolgere la sua attività apostolica. Notizie degli anni a Roma incerte, come quelle della sua morte, forse verso il 60 o poco dopo, mentre l’altro apostolo Pietro, sin dall’antichità associato a Paolo, morì probabilmente durante gli eventi posteriori all’incendio del 64. Propagazione del cristianesimo fra il I e II sec = minoranza religiosa che agiva in semiclandestinità, ma tale propagazione fu favorita dalla capacità di adattamento di questa religione alla struttura cittadina, nella prima fase soprattutto di città portuali e centri di traffici commerciali. Aggregazioni già esistenti come le associazioni di mestiere potevano diventare la base delle assemblee cristiane, o esserne modello, ma il luogo/ragione del successo della nuova religione erano i nuclei domestici: le case private erano il principale luogo di riunione per le preghiere, le prediche, la celebrazione del pasto rituale (agape), la raccolta di elemosine (a fondamento della “economia” cristiana). Le prime comunità presero presto coscienza della necessità di distribuire attività e funzioni e, accanto ai laici, un clero andò pian piano articolandosi in ruoli liturgici e ruoli amministrativi: vescovi, presbiteri, diaconi, e altre funzioni (come quella dei fossores, che si occupavano dell’inumazione dei defunti dei gruppi dei cristiani). Rete di gallerie sepolcrali note come catacombe non erano state realizzate solo per la difesa dell’identità religiosa dal potere nemico, ma soprattutto avevano carattere funzionale, in quanto ricerca di spazi sotterranei per una tecnica di sepoltura molto ingombrante. Ruoli istituzionali erano previsti anche per le donne, che sentivano in modo accentuato la fascinazione del messaggio evangelico e la cristianizzazione di molte famiglie ricevette da loro il primo impulso: nelle chiese del III sec, le donne erano sicuramente un numero più elevato dei maschi (nel tardo impero la conversione di tradizionali casate senatorie avvenne a partire da quella della componente femminile). Di ogni rango e professione, le donne vennero a far parte integrante di queste comunità ed ebbero una considerazione e uno spazio d’azione superiori a quelli avuti dalla donna della società classica. Il messaggio del cristianesimo prevedeva, e nei fatti operava, una parziale rottura delle barriere sociali: con la conversione l’individuo entrava a far parte di una ecclesia fraterna e solidale, nella quale erano smussate le gerarchie di ceto e la coesione tra i membri andava al di là dei legami di sangue. Interessante la panoramica del grande medico Galeno (II sec d.C.) sul coraggio, ascetismo, disciplina morale che egli riconosceva ai cristiani: “E’ così che nella nostra era abbiamo visto quegli uomini, chiamati cristiani, attingere la loro fede dalle parabole. Abbiamo sotto gli occhi il loro sprezzo della morte (..) altri che per la loro dirittura spirituale, per la disciplina dell’anima e per una rigorosa applicazione morale, non hanno nulla da invidiare ai veri filosofi.” Vertenza storiografica: ceti inferiori forza propulsiva del cristianesimo delle origini e componente preponderante del movimento? In realtà, fra le polemiche indirizzate dai pagani ai loro avversari c’era la modesta estrazione dei primi cristiani, che configurava il movimento come di scarso prestigio sociale, culturalmente “rustico”, e gli stessi cristiani indubbiamente vantavano fra le prerogative del loro messaggio l’eguaglianza fra gli uomini, l’umiltà dello stile di vita, il ruolo educativo della semplicità anche del loro linguaggio ‘da pescatori’ (sermo piscatorius). Diverso è il discorso se analizziamo la composizione interna delle comunità: (anni 80 del XX sec, ricerche di W. Meeks, accuratezza delle indagini prosopografico-onomastiche) se nelle comunità sin dal I sec erano presenti anche schiavi e liberti, piccoli negozianti, lavoratori salariati, la funzione principale sul piano organizzativo e direttivo del movimento la avevano uomini e donne di condizione e cultura più elevata, che dovettero costituire una percentuale significativa dei neofiti. L’allusione ai ceti elevati vale per ambienti di spicco delle città, non per i vertici dell’aristocrazia equestre-senatoria, la quale (nel suo complesso) ancora nel II sec avanzato non aveva abbracciato la nuova religione. Pag. 90 a 113 15.4 Il confronto tra impero e cristiani nei primi due secoli Subito dopo la metà del III sec i cristiani subirono aspre persecuzioni da parte degli imperatori Decio e Valeriano, ma già nel 312/313 avevano ripreso a tal punto la loro capacità attrattiva che resero storicamente possibile la conversione al cristianesimo dell’imperatore Costantino. Sino al III sec i rapporti tra minoranza cristiana e potere imperiale furono sempre piuttosto conflittuali. I cristiani riconoscevano la legittimità del potere di Roma. L’evangelista Marco racconta che Gesù, sollecitato sull’atteggiamento da tenere verso Roma, si fece porgere un denario, e dopo averne mostrato l’effigie e la legenda imperiali rispose con il celebre detto “date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel ch’è di Dio”, esortazione all’obbedienza verso l’autorità politica, ma al tempo stesso a tenere ben distinta la realtà terrena da quella, più alta, spirituale. Anche Paolo riteneva che il potere politico, buono o cattivo che fosse, faceva parte di un ordine voluto da Dio e per questo doveva essere rispettato (Epistola ai romani). Nonostante la lealtà allo Stato, i cristiani con le loro pratiche e modalità di vita rappresentavano un corpo difficile da integrare: il loro movimento veicolava un messaggio ecumenico (privo della rispettabilità “nazionale” dell’ebraismo) e non ammetteva una serie di principii politico-religiosi sui quali si incardinava l’autorità imperiale: i cristiani non partecipavano ai riti sacrificali e alle altre cerimonie pagane, non frequentavano le terme e gli spettacoli ed ostentavano indifferenza alle forme di culto verso gli imperatori, e potevano prevedere l’obiezione di coscienza al servizio di leva. Letteratura e scuola: singole personalità e circoli cristiani contrapponevano ai contenuti e tecniche espositive della paideia classica le Sacre Scritture e la necessità di un linguaggio semplice e poco elaborato, adatto per toccare i sentimenti del volgo. Proprio per la scarsa assimilabilità di questa realtà emergente a Roma e specialmente nelle province i governanti iniziarono a domandarsi come fronteggiarla. Prime polemiche scritte tra pagani e cristiani: presso la gente comune si sviluppò una crescente cristianofobia. Le accuse loro rivolte riguardavano delitti di vario genere (simili a quelli rivolti agli ebrei dai loro nemici): delitti contro la morale (sessualità contro natura per la promiscuità tra “fratelli” e “sorelle”, cannibalismo legato al rito dell’eucaristia, ateismo e blasfemia per il rifiuto degli dei protettori dell’impero) e reati comuni. L’atteggiamento di Roma verso i cristiani e le loro comunità fu per un lungo periodo improntato ad una generale prudenza: linea da sempre tenuta di fronte ai culti più diversi, fino a che non divenivano problema politico o veri e propri reati. Tiberio, notizie problematiche, ma presunta iniziativa nel 35, a cui il senato si oppose, di formalizzare la liceità del culto della divinità di Cristo, proteggendolo dai primi rischi di aggressione. Nerone nel 64, approfittando dell’ostilità della plebe urbana contro di loro, accusò i cristiani dell’incendio di Roma, senza attuare una persecuzione mirata. Sotto Traiano venne condannato per attività criminose e subì la pena capitale a Roma Ignazio, vescovo di Antiochia. Plinio il Giovane, durante il suo governo in Bitinia, si trovò di fronte a numerose delazioni contro cristiani: esitando a mandare a morte un sempre maggiore numero di accusati che si rifiutavano di sacrificare agli dèi dell’impero, Plinio chiese all’imperatore Traiano se dovesse condannarli solo per il loro nome o per i delitti commessi. Epistole X: “(..) li interrogavo direttamente se fossero cristiani. Se confessavano, li interrogavo minacciando loro la pena capitale, e se perseveravano ordinavo che fossero messi a morte. Mi parve conveniente rimandare in libertà quelli che negavano di essere cristiani o di esserlo stati, quando invocavano gli dèi ed inoltre quando lanciavano imprecazioni contro Cristo. Ho aggiornato l’istruttoria e mi sono affrettato a chiedere il tuo parere, soprattutto in considerazione del gran numero di coloro che sono coinvolti in questo pericolo.” In risposta Traiano, come farà Adriano con il quesito del proconsole d’Asia, si espresse contro le denunce anonime e la repressione d’ufficio dei cristiani. Problema dei fondamenti giuridici degli sparsi ma ripetuti episodi di messa a morte di cristiani è di centrale importanza: visione difficile da raggiungere è quale fosse il rapporto tra le dinamiche e le iniziative penali Pag. 91 a 113 che si verificavano nelle province e le intenzioni del governo centrale, la responsabilità politica oggettiva dei poteri imperiali dinanzi agli eventi nelle periferie dell’impero. Rispetto a Traiano e Adriano (situazione di relativa tolleranza), più ambiguo fu Antonino Pio, e forse sotto il suo regno, al 155, potrebbe risalire il martirio di Policarpo vescovo di Smirne (da altri datato 168 o 177). Nel 177 vi fu episodio di violenta esplosione di rancore contro i cristiani avvenuto a Lione, quando la pressione popolare e dei ceti elevati locali spinse gli amministratori provinciali a esibire un gruppo di condannati cristiani nei giochi gladiatori mandandoli incontro a morte certa. L’imperatore-filosofo Marco Aurelio pare fosse informato della vicenda o si mostrò incapace di dissuadere l’impresa; va tenuto presente che il diffuso ritratto positivo del suo regno ha fatto sì che gli aspetti più intolleranti delle sue iniziative risultassero occultati o ribaltati nella tradizione storiografica. Altri episodi di ostilità verso i cristiani avvennero nel 180, con i contadini martiri originari di Scillium e decapitati a Cartagine, e sempre a Cartagine nel 202/203 il martirio di Perpetua con la compagna Felicita (conservata ‘passione’ in forma di diario, tema della militia Christi e del vero trionfo dei cristiani, confronto tra imperium del “re eterno” e imperium del “re temporale”). Siamo negli anni di regno dell’imperatore Settimio Severo (197-211 d.C.): alcuni ne fanno un persecutore e gli attribuiscono l’emissione di un editto contro il proselitismo cristiano del 202. Che Severo fosse un protettore del cristianesimo è invece stabilito dallo scrittore cristiano Tertulliano, e ciò sarebbe coerente con le testimonianze di simpatia e apertura con cui i Severi si atteggiavano verso le nuove tendenze filosofiche e religiose. Nel II sec avanzato nacque e prese sviluppo la letteratura apologetica cristiana, altra fonte di conoscenza sia sul culto cristiano sia sui rapporti politici e culturali tra impero e cristianesimo. In questi scritti veniva difesa la religione cristiana attaccata dal fanatismo degli intellettuali pagani o dalle episodiche iniziative intolleranti dei poteri pubblici, ai quali spesso gli autori si rivolgevano direttamente per ribatterne l’ingiustizia. Gli apologeti, con argomentazioni di carattere polemico o filosofico, che non risparmiavano critiche sferzanti al politeismo tradizionale ma con un atteggiamento di almeno apparente apertura al dialogo, avevano lo scopo di far capire che essi accettavano l’ordine politico romano e che non volevano abbattere i valori sui quali si poggiava, ma solo essere rispettati come comunità e come persone e godere della libertà del loro culto. Fra i maggiori esponenti vi furono il greco Giustino, vissuto a Roma e martirizzato con alcuni compagni verso il 165; Ireneo, anatolico vissuto in Occidente, facente uso della lingua vernacolare (nel suo caso il celtico) e divenuto vescovo lionese; tra i latini Tertulliano, vissuto tra II e III sec, autore della Apologia del cristianesimo, probabilmente lo scritto più politico della letteratura cristiana, che presentava il problema del nomen christianum come oggetto delle persecuzioni giudiziarie, nomen che bastava abiurare per vedersi assolti o confessare per avere la pena capitale. Chi ne fosse stato colpito avrebbe ottenuto il martirio, che ebbe una posizione centrale nella teologia e nel pensiero politico cristiani, e il martire fu figura dal ruolo decisivo per l’efficacia del processo di conversione. 16: La crisi del III secolo 16.1 Perché si parla di ‘crisi’ Per una parte degli studiosi, è sin dall’età di Marco Aurelio che inizia la ‘crisi’ dell’impero. Peraltro, sotto Settimio Severo (193-211) e sotto i suoi immediati successori, alcune fragilità del sistema imperiale furono fronteggiate con una politica di governo originale e incisiva. E’ a partire dal regno di Severo Alessandro (222-235 d.C.: spartiacque individuato già dallo storico di IV sec Aurelio Vittore, I Cesari) che fattori di destabilizzazione causarono rallentamento dei processi espansivi e frammentazione a vari livelli, con usurpazioni, separatismi, e la flessione di quella che era stata la piena integrazione socioeconomica dell’impero. Le fonti letterarie antiche testimoniano in misura incontestabile di aver percepito questo periodo come di declino dei costumi e di pericolo per le sorti dell’impero, e anche archeologia numismatica Pag. 92 a 113 aveva regnato affiancato dalla madre Giulia Domna, di notevole spessore culturale e autorevolezza politica. Dopo il breve intermezzo del prefetto al pretorio divenuto imperatore Macrino (217 inizio 218), mandante dell’omicidio di Caracalla, ascese al trono il quattordicenne Elagabalo (218-222): il suo nome era un omaggio a Baal, divinità solare siriana. A corte presero campo le stravaganze e le devianze sessuali di Elagabalo, dal travestimento alla depilazione e prostituzione. In realtà le redini del governo furono largamente nelle mani della madre del sovrano, Giulia Soemia (figlia di Giulia Mesa), ed è a lei forse che dobbiamo attribuire il tentativo di introdurre il culto di Baal a Roma al posto o al di sopra di Giove. Nel 221 Giulia Mesa (sorella di Giulia Domna, nonna materna di Elagabalo) e l’altra sua figlia Giulia Mamea indussero il principe ad attribuire la qualifica di cesare al giovinetto Alexianus, figlio di Mamea. Era un modo per preservare la dinastia, giacché Elagabalo era detestato dalla popolazione e dalle forze che più contavano. Alexianus lo soppiantò e, dopo l’uccisione di Elagabalo e della madre Soemia nel 222, ottenne l’impero col nome di Severo Alessandro (222-235). Prima reggenza femminile, poi Severo A assunse le responsabilità dello Stato e fu apprezzato tanto da essere idealizzato dalla storiografia più tarda come modello di principe tradizionalista, scrupoloso nella gestione della cosa pubblica e garante delle prerogative del senato, in un quadro di compromesso con le esigenze dei cavalieri. Nel 231-232 in risposta ad un attacco persiano, Alessandro combatté in Mesopotamia: nel 234 avviò una campagna militare oltre il Reno contro la popolazione germanica degli alemanni (già combattuta da Caracalla), ma l’anno dopo le sue preferenze per le pacificazioni diplomatiche crearono malcontento presso le milizie, che si ammutinarono e assassinarono il principe, trascinate da un rude ufficiale tracio di nome Massimino. LA CORTE DEI SEVERI: CULTURA, DIRITTO, ISTITUZIONI Durante l’intera età severiana, la corte imperiale si aprì ad esperienze e influssi diversi: filosofi come Laerzio, sofisti come Filostrato, sapienti come Galeno, collaborarono con i cenacoli animati da Giulia Domna e dalla famiglia imperiale. A partire da questi anni dediche epigrafiche, costruzioni e statue mostrano le tendenze al sincretismo filosofico e religioso e favore verso i culti orientali, quindi anche curiosità e tolleranza (con l’eccezione di Settimio) verso il cristianesimo. Sotto i Severi, il potere fece un passo in avanti verso la simbiosi fra autoritarismo e sacralizzazione: il principe non solo era detto spesso Dominus, Sacer, ma era ormai compiutamente ritenuto fonte del diritto al punto da coniare la formula “ciò che piace al principe ha forza di legge” (Ulpiano, Digesto). Diritto quasi ispirato dalla divinità e sovrano che stava al di sopra delle leggi. Un bilanciamento con tendenze assolutiste venne dalla chiamata di eminenti giureconsulti come membri del consilium principis e come alti dignitari politico-amministrativi (Papiniano fu prefetto al pretorio di Settimio Severo, e il grande Ulpiano lavorò con Papiniano prima di dedicarsi alla sua prestigiosa carriera). I grandi giuristi di quest’epoca contribuirono con il loro apporto dottrinario e teorico alla stabilizzazione del potere severiano, alla elaborazione teorica e alla realizzazione pratica dei programmi in ambito amministrativo e fiscale (ideale dell’aequitas). Dal punto di vista istituzionale, la trasformazione più significativa riguardò la prefettura al pretorio, che oltre alle attività di consulenza legale si vide riconosciuta autorità per intervenire nella giurisdizione criminale in Italia: primo passo, da carica militare a carica senatoria che nel tardo impero avrebbe assunto funzioni di più stretta collaborazione civile e amministrativa col sovrano. 16.3 Un impero fuori controllo? Minacce barbariche, usurpazioni, recessione Il trentennio che inizia con il 235 d.C. è spesso designato con la formula di ‘anarchia militare’ per rendere l’idea di un periodo considerato negativo sotto ogni profilo, contrassegnato dalla morte violenta di quasi tutti gli imperatori, da colpi di stato legati ad acclamazioni delle milizie, da continui attacchi barbarici al limes, da dissesto socioeconomico. Il successore di Severo Alessandro, Massimino detto il Trace (235-238), è quasi simbolo dei mutamenti in corso: esponente del ceto militare emergente nel III sec e proclamato augusto esclusivamente dall’esercito, Pag. 95 a 113 violento anche se coraggioso, poco romanizzato. Nei tre anni di potere allentò con successo la morsa di germani e daci sul Reno e sul Danubio. Non andò mai a Roma per il riconoscimento ufficiale nella capitale dell’impero. La sua fiscalità oppressiva gli mobilitò contro i medi e grandi contribuenti, ed ebbe contro anche i senatori, che nel 238 organizzarono una resistenza armata contro quello che appariva tiranno illegittimo, procedendo poi a nomine di una serie ravvicinata di altri principi, in un contesto di guerra. Nel 238 Massimino assediò Aquileia, città alle porte dell’Italia così da aprirsi, se presa, la strada per occupare Roma, ma la formidabile difesa degli aquileiesi agli inizi dell’estate del 238 bloccò il tentativo e Massimino finì ucciso dai suoi uomini. Dal 238 al 268 furono proclamati oltre 15 tra imperatori e più o meno effimeri usurpatori (‘imperatori senatorii’), ai quali si aggiungono capi di stato finti. Perdita di autorità del senato che raramente ormai ha la forza di designare gli imperatori; l’esercizio del potere avviene lontano da Roma, ed il ruolo determinante lo svolgono eserciti spesso in rivalità tra loro. Principi con identità storica di rilievo perché hanno governato più a lungo: ex prefetto al pretorio Filippo detto l’Arabo (244-249), senatore generale danubiano Decio (249-251), consolare Valeriano (253-260) e suo figlio Gallieno. Dopo la metà del secolo, le difficoltà esterne giunsero a proporzioni davvero gravi: da un lato il confine renano delle Gallie fu tenuto sotto pressione per molti anni dalla confederazione di stirpi dei franchi – prima loro apparizione nella grande storia – e dagli alemanni, dall’altro le incursioni dei carpi e dei goti, che cominciano allora ad essere distinti fra “goti dell’Est” (ostrogoti) e “goti dell’Ovest” (visigoti), e costituirono una costante minaccia lungo il confine danubiano; anche nell’Africa occidentale si assisteva a movimenti di popolazioni berbere. Lo spostamento delle energie belliche nei settori interni indebolì il controllo del mare: il Mediterraneo tornò ad essere infestato da episodi di pirateria. Da anni inoltre avevano preso corpo nuove gravissime tensioni tra Roma e il regno partico, che aveva subito un cambio di regime con la presa del potere da parte dei persiani sassanidi. L’anno 260 segna con drammaticità momenti di guerra e crisi del sistema politico in questo periodo: usurpazioni di breve durata seguirono una sconfitta di Edessa e all’imprigionamento di Valeriano da parte dei persiani, bloccati però nella loro avanzata in Siria settentrionale e in aree dell’Anatolia già nell’estate; si verificarono inoltre le discese pericolosissime in Italia di alemanni e iutungi, anch’essi sconfitti. Le minacce ai territori e agli abitanti dei settori alpini, porta dell’Italia, furono illustrate nell’iscrizione su base di statua proveniente da Augusta Vindelicorum (odierna Augsburg): “Alla santa dea Vittoria, per l’uccisione e la messa in fuga – ad opera dei soldati della provincia di Rezia e anche di quelle delle Germanie e ugualmente con l’aiuto di popolani – dei barbari della gente dei semnoni o iutungi, il 24 e 25 aprile..” Travagli politico-militari, andamenti recessivi in economia e degrado sociale si alimentavano reciprocamente. La popolazione subì un calo a seguito di violenze, carestie e pestilenze, e la produttività agricola e mineraria globalmente decrebbe. L’aumentato fabbisogno di mezzi per mantenere una compagine militare efficiente e motivata, unito al calo delle entrate doganali (circolazioni, trasporti, traffico delle merci), determinò un aumento delle aliquote tributarie. Sul piano sociale si può ipotizzare un crescente divario fra abbienti e non abbienti ed emarginati (honestiores e humiliores), un peggioramento delle condizioni di lavoro degli agricoltori non proprietari (dovevano produrre di più per consentire ai loro padroni il versamento di tasse più alte). Svalutazione: la scarsità di merci sul mercato e la diminuita riscossione dei tributi, insieme all’aumento delle spese, spinsero gli imperatori ad attuare misure in tale direzione (moneta dotata di valore nominale “superiore” all’intrinseco di metallo prezioso, coniata in grande quantità) in modo da rispondere alle richieste di pagamenti più urgenti. Sepoltura di tesoretti di monete che gli scavi continuano a portare alla luce = segno dei tempi, corrispondenza tra zone di saccheggi e violenze e aree di reperimento. Rapporto tra crisi politico-militare e stato delle città: nelle regioni dove si spostavano gli eserciti, gli abitanti di città e i lavoratori delle campagne subivano, al di là degli obblighi di ospitalità ai quali erano tenuti, Pag. 96 a 113 soprusi dalle soldatesche e dai funzionari che li accompagnavano. I munera, prestazioni annuali di servizi dovute alla res publica locale a nome della res publica romana imperiale, iniziavano ad appesantirsi per singoli o gruppi di cittadini, mentre i decurioni erano considerati responsabili anche patrimonialmente delle mancate riscossioni dei tributi. Progressivo calo delle iscrizioni onorarie, tuttavia in numerosi centri la vitalità civica nel III sec non dette affatto segni di arretramento. 16.4 Mutamenti ai confini: l’emergere della “nuova” Persia Intorno al 226 d.C. fu rovesciato il regno iranico dei parti che aveva capitale a Ctesifonte. Dopo una lunga crisi interna, un vassallo ribelle sconfisse il re in battaglia e assunse il titolo di Re dei Re, Shahanshah. Così l’antica dinastia degli Arsacidi fu sostituita al potere da una famiglia originaria della Perside (nell’odierno Iran meridionale), quella dei Sassanidi, dal nome del capostipite Sasan. Profonde mutazioni ideologiche, organizzative e religiose caratterizzarono il nuovo assetto. Esaltazione delle radici nazionali = progetto di ripetere espansione verso l’Occidente greco della Persia achemenide di VI-IV sec a.C., dalla quale i Sassanidi dichiaravano di discendere. Il potere monarchico e gli apparati burocratici furono fortemente centralizzati, riducendo le divisioni feudali del regno partico. L’esercito era un’arma temibile. La religione divenne un fattore di unità spirituale e politica quando riprese particolare diffusione lo zoroastrismo, sino ad essere organizzato in Chiesa ufficiale legata alla corte. Roma patirà a lungo le conseguenze di questa rinascita dell’impero confinante, particolarmente aggressivo dal 241 d.C., anno dell’ascesa al trono di Sapore (Shapur) I (241-272/273 d.C.). Le imprese del divino Sapore (Res Gestae Divi Saporis) = il re presenta se stesso in una iscrizione trilingue (medio-persiano, partico e greco) incisa nel 270 e collocata sulla Qu’bah di Zoroastro vicino a Persepoli: “io, l’adoratore di Mezda, il divino Sapore, Re dei Re degli iraniani e dei non-iraniani, della stirpe degli dèi, figlio (..) io sono il signore e possiedo i seguenti paesi..” Suo padre lo definisce soltanto “re degli iraniani”, superiorità del committente. Punto di vista persiano su tre guerre combattute nella metà del secolo con l’impero romano e che si erano concluse in modo poco glorioso per gli imperatori Gordiano, Filippo l’Arabo e Valeriano, fatto prigioniero e mai restituito, e forse abbandonato senza tentare riscatti dal figlio Gallieno. 16.5 Il livello religioso della crisi e le persecuzioni anticristiane Le traumatiche vicende che attraversarono quest’epoca favorirono un diffuso disagio interiore (desperatio animi, Aurelio Vittore, I Cesari) che costituiva un impulso alle pratiche oracolari, alla ricerca della salvezza individuale e di un contatto più diretto fra uomo e divinità di quanto non consentisse il ritualismo piuttosto istituzionale della religione greco-romana. Le religioni “orientali” a carattere iniziatico e soteriologico (idea di salvezza) - per esempio Cibele, Iside, Sole, Mitra: anatoliche, egiziane, persiane, siriane – gnosi e sincretismi, da tempo radicati nella società romana, incrementarono la presa. Il successo dalle maggiori ripercussioni storiche lo ebbe il proselitismo cristiano (accogliere chi perdeva fiducia verso i propri tempi e l’imperatore). Decio, poco dopo il suo accesso al trono, nel 250 emise un editto col quale chiamò l’intera popolazione a sacrificare alle divinità tradizionali e a svolgere i riti del culto per l’imperatore : necessità di creare un clima di coesione generale della società romana. E’ difficile dire con certezza se il provvedimento riflettesse una deliberata volontà di provocare e colpire i cristiani (suo predecessore e nemico Filippo aveva simpatia verso la fede cristiana), che peraltro una parte dell’opinione pubblica riteneva superstiziosamente responsabili delle epidemie e di altre rovine del tempo. Vennero nominate commissioni apposite che organizzavano i sacrifici ed emettevano dei certificati (libelli) distribuiti come prova di corretti comportamenti religiosi e dell’avvenuta partecipazione alle cerimonie pagane. I cristiani dovettero così venire allo scoperto: una parte Pag. 97 a 113
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