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riassunto manuale diritto commerciale a cura di marco cian V edizione, Sintesi del corso di Diritto Commerciale

riassunto del libro limitatamente ai capitoli oggetto d'esame nell'a.a. 2023/ 2024

Tipologia: Sintesi del corso

2023/2024

In vendita dal 25/01/2024

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Scarica riassunto manuale diritto commerciale a cura di marco cian V edizione e più Sintesi del corso in PDF di Diritto Commerciale solo su Docsity! 1 RIASSUNTO MANUALE DI DIRITTO COMMERCIALE a cura di Marco Cian ( V edizione) INTRODUZIONE Per diritto commerciale s’intende l’insieme delle norme di diritto privato che disciplinano specificamente le attività produttive e il loro esercizio. Nelle proprie dinamiche, l'attività produttiva è un fenomeno che si colloca fondamentalmente sul piano dei rapporti interprivatistici tra le persone: sotto molti aspetti, tuttavia, il diritto civile, ossia il dirittto comune delle obbligazioni e dei contratti ( libro IV del codice) e il diritto degli enti associativi ( libro I) non è idoneo a mettere in campo una regolamentazione né adeguata, né sufficiente. Dal momento che l'attività produttiva interseca fatalmente anche momenti della vita sociale a rilevanza prettamente collettiva, anche il diritto pubblico in molte delle sue branche si interessa delle attività economiche con norme ed istituti più o meno complessi, ad esso specificamente dedicate. Il diritto commerciale disciplina l'azione imprenditoriale nel mercato e gli istituti che lo compongono sono accomunati dalla tensione a regolamentare le dinamiche dei rapporti che si svolgono nel mercato. E’ anche, all'interno della macro famiglia del diritto privato, un ordinamento speciale ispirato e retto da principi autonomi, poggiati si sulle specificità dell'attività economiche rispetto alle ordinarie relazioni privatistiche tra i componenti della comunità. I: la nascita e l’affermazione del diritto commerciale: cenni storici o Il diritto commerciale è il frutto del genio italiano ed europeo dell’epoca tardomedievale. È in quest'epoca che il continente si risolleva progressivamente dal declino culturale e sociale che aveva caratterizzato i secoli successivi alla caduta dell’Impero Romano d'occidente e che l'economia perde il suo carattere eminentemente rurale e curtense affrancandosi dal sistema feudale e sviluppando un vasto movimento di commerci sempre più fiorente e di respiro internazionale. In Italia è l’epoca dei Comuni, dove emerge una nuova classe sociale, quella dei mercanti. Siamo nei secoli XI-XIII: i centri urbani si ripopolano, i traffici animano la vita comunitaria, la cultura rifiorisce. I mercanti per la protezione e la promozione delle proprie iniziative si riuniscono nelle Corporazioni di arti e di mestieri. È al loro interno che si getta il seme del diritto commerciale. I mercanti hanno esigenze e interessi che il diritto comune non è in condizione di soddisfare, a causa del formalismo che lo caratterizza e dell’estraneità dei suoi principi informatori alle dinamiche degli affari. Si crea così, nella pratica del commercio, attraverso la formazione progressiva di usi osservati dai mercanti nei loro rapporti, un complesso di regole di portata e numero sempre crescenti, consuetudini spesso non scritte, che poi vengono raccolte e codificate negli Statuti delle corporazioni, i quali disciplinano minuziosamente l’esercizio delle rispettive attività. 2 Il diritto commerciale nasce dunque come diritto di classe, autonomo sia sul piano delle fonti, diritto creato dagli stessi mercanti nel proprio interesse, sia sotto il profilo dei destinatari e della potestà giurisdizionale, in quanto destinato a regolare i rapport tra i mercanti medesimi e ad essere applicato ed imposto da giudici speciali, di loro emanazione. La sua autonomia rispetto allo ius civile risalta nella novità delle soluzioni giuridiche e nella sua vocazione ad essere un diritto di applicazione sovranazionale, espressione dell'universalità delle esigenze mercantili e dell’estensione territoriale dei traffici. L'attività di produzione è svolta a livello ancora elementare, nelle botteghe, da numerosissimi, piccoli artigiani che si avvalgono dell'aiuto dei familiari o di pochi apprendisti; sono i mercanti, invece, ossia coloro che acquistano dagli artigiani per rivendere al minuto, i veri protagonisti della vita eco-nomica, la cui attività assume talvolta dimensioni accostabili a quelle di certe strutture distributive moderne, che investono capitali ingenti in ardite operazioni e si arricchiscono esponenzialmente, che espandono la propria attività in territori sempre più vasti. La frammentaria galassia degli artigiani (alla produzione della lana e delle pelli che il mercante rivende contribuiscono tessitori, tintori, lavatori, conciatori, pettina-tori, tiratori, filatori, ecc.) resta loro subalterna, economicamente, socialmente ed organizzativamente. È l'apogeo del commercio ed è per questo che il sistema normativo nascente prende il nome di "diritto commerciale" (ius mercatorum). o A partire dal XVI-XVII secolo lo scenario muta profondamente. Politicamente, il rafforzamento degli Stati nazionali fa emergere la tendenza all’accentramento del potere legislativo e all'attrazione delle iniziative mercantili sotto il controllo statale; socialmente, i centri propulsori dell'economia si spostano nel nord dell'Europa e le rotte dei traffici valicano i confini del Mediterraneo e dell'Europa cristianizzata per aprirsi ai territori d'oltremare, dove sono spagnoli e portoghesi, inglesi e olandesi a dominare. Nel 1673 la Francia di Luigi XIV e di Colbert emana l'Ordonnance du commerce, il primo passo verso il processo di codificazione. o Altri rilevanti cambiamenti avverranno durante il XVIII secolo: in primo luogo la Rivoluzione industriale cambierà drasticamente i mezzi di produzione, spostando l’attenzione dal commercio all’industria, e in secondo luogo la Rivoluzione francese abolirà ogni forma di privilegio fra ceti sociali, che porterà alla creazione di regole non basate su determinati soggetti, ma sugli atti: il sistema passerà da una base soggettiva ad una oggettiva. o Da qui partirà poi l’epoca delle codificazioni, prima le code de commerce napoleonico (1807), e poi largamente ispirato da questo, il Codice di Commercio italiano nel 1865, sostituito da quello successivamente emanato nel 1882. Nel 1942 avvenne l’unificazione dei codici (civile e commerciale), sia per motivi ideologici legati al fascismo (che esaltava il lavoro come mezzo per ottenere la pace sociale) sia per ragioni sociali ed economiche (la penetrazione del sistema economico in quello sociale a causa della massificazione dei processi produttivi). II: il contenuto del diritto commerciale e le traiettorie del suo sviluppo nell’era moderna Concetto di impresa ( articolo 2082) à è l’attività economica organizzata svolta professionalmente, diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi; dunque sia l’attività di chi crea nuovi beni per destinarli al mercato ( il produttore), o offre servizi ( di trasporti, custodia ecc..), sia quella di chi media nella circolazione degli uni o degli altri ( il rivenditore al dettaglio l’agente di viaggi ecc.). Il diritto dell’impresa non costituisce una disciplina organica dell’attività produttiva: non esiste cioè un corpus normativo dedicato, che copra con regole speciali ogni profilo privatistico del suo esercizio. Tale attività, infatti, ricade per molti aspetti nell’ambito di applicazione del diritto provato e dei suoi principi comuni. 5 manchi questa e i mezzi impiegati si semplifichino al solo lavoro di una persona nel processo produttivo, allora si tratta di lavoro autonomo. • ECONOMICITA’ Un primo orientamento afferma che l’economicità implica che si debba applicare il metodo lucrativo come nello svolgimento dell’attività, cioè che un metodo che abbia come fine il margine di profitto. I prezzi quindi dovrebbero essere fissati ex ante in modo non solo da consentire di recuperare i costi sostenuti nel corso del processo produttivo ma di conseguire anche un margine di profitto. Secondo un diverso orientamento (considerato prevalente), l’economicità è soddisfatta quando il metodo impiegato è quello economico in senso stretto, cioè che tende ad assicurare il pareggio tra ricavi e costi, essendo del tutto eventuale e irrilevante il profitto. Un fenomeno produttivo si qualifica come impresa se è un'attività nella quale i prezzi di vendita vengono fissati ex ante, in modo da consentire almeno di recuperare attraverso i ricavi i costi di produzione sostenuti. In altre parole, affinché un fenomeno produttivo possa qualificarsi come impresa, è sufficiente che il titolare sia in grado di riprendere nel mercato l'investimento di capitali risultato necessario per lo svolgimento del processo produttivo e che di conseguenza sia nelle condizioni di disporre di quanto occorre per rinnovare gli investimenti che sono richiesti nell'ottica di una prosecuzione regolare dell'iniziativa, senza ulteriori interventi da parte di terze economie. Deve trattarsi di un’economia capace di mantenersi in equilibrio economico, e quantomeno nel lungo periodo, autonoma da altre economie. Questa interpretazione sembrerebbe preferibile per alcune ragioni, in particolare: • Non sembra ragionevole ridurre la portata della qualificazione d’imprenditore al di là di quanto l’interpretazione letterale dell’articolo indurrebbe a fare, escludendo in questo modo alcuni fenomeni in tutto molto simili all’attività imprenditoriale; • L’investimento di risorse risulta in ogni caso imprescindibile, sia che l’obiettivo risulti di pareggio dei costi o di profitto: si interfacciano sempre sul mercato e quindi sono esposte al rischio d’impresa. Non sono in ogni caso configurabili come imprese le attività che non si prefiggono il pareggio dei costi: attività erogative (associazioni benefiche). Resta incerto se debba considerarsi imprenditoriale o erogativa l’attività svolta secondo una logica di perdita programmata, cioè che stabilisca un livello di prezzo-ricavo insufficiente a coprire i costi di produzione, ma che ottenga il differenziale attraverso il finanziamento di un ente terzo (generalmente pubblico). Sono situazioni che ricorono nel mondo no profit. Situazioni analoghe si ritrovano anche nelle iniziative mutualistico-consortili. Potrebbero dirsi compatibili col criterio di economicità qualora l’impegno a coprire il differenziale negativo per ogni unità di prodotto venduto venga tenuto in considerazione nella determinazione del prezzo. Quanto descritto dall’art.2082 può considerarsi esaustivo: contiene elementi necessari e sufficienti per identificare il modello imprenditoriale. Ci si può sbarazzare agevolmente di due questioni: - l’impresa per contro proprio cioè che non destina la produzione al mercato 6 - l’impresa illegale cioè che non osserva le condizioni di legge per l’iniziazione - l’impresa immorale o mafiosa che persegue una finalità illecita. La loro qualificazione come impresa dipende dalla presenza delle tre caratteristiche di professionalità, organizzazione ed economicità. 2:LE CATEGORIE DI IMPRESA Il disegno originario del codice del 1942 tentava di assoggettare alla disciplina dell’impresa qualsiasi fenomeno produttivo, in modo che uniformassero il loro svolgimento ai principi dell’ordinamento corporativo. Questo istituto fu poi abolito, ed oggi possiamo comunque individuare un corpo di leggi destinate all’impresa, definito Statuto generale dell’impresa, che consiste nelle seguenti discipline: Þ Azienda (art. 2555 – 2562) Þ Concorrenza e consorzi (art. 2596 – 2620 e l. 287/ 1990) Þ Segni distintivi (art. 2563- 2574 e c.p.i. à codice della proprietà industriale) L’impresa però risulta assoggettata anche ad ulteriori disposizioni sparse nel c.c. tra le quali giova ricordare l’art.230 bis (impresa familiare) e l’art. 1368 (criteri di interpretazione del contratto). Se ne deduce che l’impresa è per lo più assoggettata a singole disposizioni che nell’insieme costituiscono una disciplina poco organica. Lo stesso legislatore storico, se da un lato tratteggiava una nozione di impresa unitaria, dall’altro enucleava da tale nozione due sottofattispecie, sul presupposto che non tutti i fenomeni produttivi rientranti nella nozione generale dovessero essere assoggettati alla stessa disciplina. I fenomeni imprenditoriali a cui si attribuiva una ristretta rilevanza normativa erano: § In ragione della natura della produzione, impresa agricola; § In ragione della dimensione dell’organizzazione, la piccola impresa. àQueste due fattispecie rimangono sottratte ad serie di regole sulla pubblicità d’impresa e dirette a salvaguardare il creditor alla produzione ( obbligo di tenuta delle scritture contabili, procedure concorsuali ecc.). Impresa (né agricola né piccola) commerciale à è solo a queste ultime che, il diritto dell’impresa era indirizzato nella sua interezza. Scritture contabili (trasparenza) L’impresa agricola Art. 2135 àl’impresa agricola è l’attività di coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. Tradizionalmente le prime vengono definite “attività agricole essenziali”, mentre le attività connesse come “attività agricole per connessione”. Le ragioni per cui il legislatore del 1942 decise di creare una sottocategoria per queste attività sono da ricercarsi semplicemente nel fatto che questo fenomeno era incentrato principalmente sulla coltivazione del fondo: il fattore produttivo era rappresentato dalla terra e l’attività si compenetrava con l’esercizio del diritto di proprietà sul fondo. Per questo si decise di assoggettare l’impresa agricola ad una disciplina più circoscritta, sul presupposto che non presentava particolari esigenze di investimento, né per il fondo né per l’attività di trasformazione e di commercializzazione che aveva principalmente carattere accessorio. 7 Nella più ampia riforma di modernizzazione del settore agricolo, la versione originaria è stata integrata con altri due commi, che definiscono le attività essenziali e le attività per connessione. • Attività essenziali (c.2): attività dirette alla cura e allo sviluppo di un ciclo biologico ( o di una fase necessaria) di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque. L’elemento caratterizzante è rappresentato dalla cura e dallo sviluppo di un ciclo biologico, non è più l’utilizzo diretto del fondo. • Attività connesse (c.3) : attività di conservazione, manipolazione, trasformazione e commercializzazione che abbiano ad oggetti prodotti ottenuti prevalentemente da attività agricole essenziali, nonché attività dirette alla produzione e alla fornitura di beni o servizi ottenuti mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda agricola. Quindi ne è uscita una nozione di impresa agricola decisamente più ampia di quella del 42: § Per le attività agricole essenziali, il dato normativo stabilisce che queste utilizzano o possono utilizzare il fondo, con la conseguenza che il fondo diventa fattore produttivo eventuale. Nella nuova nozione l’elemento caratterizzante è la cura di un ciclo biologico, sicché può essere qualificata come agricola un’impresa la cui attività si sostanzia nella sua cura e sviluppo. L’elemento caratterizzante è rappresentato dalla cura e dallo sviluppo di un ciclo biologico, non è più l’utilizzo diretto del fondo. § L’ampliamento si coglie anche nelle attività connesse: sono connesse le attività che utilizzano come materia prima i prodotti derivati dall’attività di coltivazione o di allevamento del medesimo soggetto, ma a prescindere dal fatto che questa attività rimanga subordinata rispetto all’attività essenziale svolta dal medesimo soggetto. Oggi sono attività agricole per connessione le attività di manipolazione, trasformazione, commercializzazione di prodotti che vengono prevalentemente dall’attività agricola essenziale. Sono comunque connesse le attività di produzione e di fornitura di beni e servizi ottenuti impiegando principalmente le attrezzature o le risorse che costituiscono l’azienda agricola dello stesso soggetto, a prescindere dalla circostanza che tale attività resti subordinata all’attività essenziale e costituisca qualcosa di normale nell’agricoltura (cfr. agriturismo). La nuova disciplina ha indubbiamente destato alcune perplessità, perché ha esteso la definizione di impresa agricola a nuovi soggetti. o Ci si chiede ad esempio se sia corretto che fenomeni produttivi ormai industrializzati siano sottratti alla disciplina delle procedure concorsuali e delle scritture contabili, pur assumendo caratteristiche analoghe a fenomeni produttivi sottoposti allo statuto dell’imprenditore commerciale. o Inoltre, non pare corretto dire che la diversa disciplina sia dovuta al rischio d’impresa legato al rischio dello sviluppo di un ciclo biologico, perché in questo caso sarebbe a maggior ragione opportuno affidare meccanismi di tutela ancora più̀ efficaci. La piccola impresa Art. 2083 àLa piccola impresa è un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della sua famiglia e si specifica poi nelle figure soggettive del coltivatore diretto del fondo, l’artigiano e il piccolo commerciante. La scelta di attribuire alla piccola impresa rilevanza normativa più ristretta sta nella circostanza che il processo produttivo si incentra sul fattore produttivo rappresentato dal lavoro del titolare e dei 10 enti pubblici economici sono stati interessati da un processo di privatizzazione che ha comportato la trasformazione in società di capitali Þ ente pubblico non economico àente no che realizza i molteplici fini istituzionali attraverso un'azione dalla conformazione assai variegata che si articola in numerose iniziative, le quali tipicamente non presentano i caratteri dell'impresa, ma che talvolta possono essere vere e proprie imprese Þ società in mano pubblica àsono comuni società caratterizzate dal fatto che la partecipazione di controllo detenuta da un ente pubblico esempio casa da gioco comunale. Tra queste vi sono società a partecipazione interamente pubblica nelle quali tra l'ente- socio e la società intercorre una relazione talmente intensa da poter essere qualificata e interorganica più che intersoggettiva àsi parla intal caso di società in house providing. Tra le prestazioni più comuni offerte dalle attività intraprese da questi soggetti ci sono i servizi pubblici, che si distinguono in: • Servizi pubblici a rilevanza economica, cioè che possono essere configurati in modo che avvenga un margine di profitto e quindi vi è un mercato concorrenziale di riferimento. In questo caso la gestione sarà necessariamente affidata ad una società in house; • Servizi privi di rilevanza economica, cioè che vengono riforniti per pareggiare i costi e quindi non vi è un mercato concorrenziale (tipico dei servizi sociali). In questo caso la gestione può avvenire tramite società in house oppure tramite un’autonomia funzionale con soggettività giuridica (cosiddetta azienda speciale) o anche priva di soggettività giuridica (attività esercitata direttamente dall’ente pubblico economico). Per quanto riguarda l’applicazione della relativa disciplina, bisogna distinguere: • Nel caso in cui l’impresa assuma la forma di società, allora si applica indistintamente la disciplina • Nel caso in cui l’impresa assuma la forma di ente pubblico, bisogna fare una precisazione fra enti pubblici economici e non economici. Þ Enti pubblici economici: si applicano le disposizioni contenute nel libro V cc Þ Enti pubblici non economici: si applicano le disposizioni contenute nel libro V cc solo limitatamente alle imprese che questi esercitano Bisogna infine considerare quanto descritto dagli artt.2201 e 2221: • Art.2201: gli enti pubblici che esercitano un’impresa e hanno questa come oggetto esclusivo o principale devono sottostare all’obbligo d’iscrizione nel registro delle imprese • Art.2221: gli enti pubblici sono esclusi dalle procedure del fallimento e del concordato preventivo. 2- l’impresa privata Con questa espressione si fa riferimento ad un fenomeno produttivo imprenditoriale che assume la forma giuridica di diritto privato, vale dire la persona fisica,la società o un altro ente privato non societario. 11 • Se l’impresa assume la forma individuale, allora la disciplina applicabile è quella dell’impresa a prescindere dalla natura e dalla dimensione • Se l’impresa assume forma societaria, le conclusioni sono le medesime, ma qualora si tratti di società di forma commerciale (snc, in accomandita semplice, srl o spa), allora la disciplina è sempre sottoposta ad alcuni obblighi tipici dell’impresa commerciale, come l’obbligo di pubblicità e di tenuta delle scritture contabili. • Se l’impresa assume la forma di un ente privato non societario (quindi associazioni o fondazioni), la disciplina da applicare può essere più controversa. Una prima corrente di pensiero ritiene che la logica da applicare sia la medesima dell’impresa pubblica, condividendo con quest’ultima il carattere non speculativo e l’essere a servizio di interessi generali e collettivi. L’orientamento prevalente invece tende a pensare che debba applicarsi la disciplina dell’impresa anche alle associazioni e alle fondazioni, perché non vi sarebbe alcun motivo per giustificare l’esonero dall’obbligo di pubblicità o dalle procedure concorsuali di fallimento e di concordato preventivo, anche qualora l’attività d’impresa sia di tipo secondario. Recenti disposizioni (d.lgs.117/2017, codice del terzo settore) precisano tuttavia che la disciplina dell’impresa si applica in ogni caso qualora l’oggetto principale sociale sia l’impresa sociale, o anche quando sia in posizione secondaria negli enti ecclesiastici. 3;L’IMPRESA E LE PROFESSIONI INTELLETTUALI Nell’economia moderna vi è un altro grande fenomeno produttivo che per lungo tempo è rimasto ai margini della fattispecie impresa: la professione intellettuale. Le professioni intellettuali si distinguono in professioni protette e in professioni non protette: le prime sono regolate da una specifica disciplina, oltre a quanto disposto in generale dagli artt.2229 e seguenti, mentre le seconde non ha una specifica regolamentazione e possono derogare agli artt.2229 e seguenti. • Le professioni intellettuali sono un fenomeno produttivo che molto spesso si presenta nella forma di attività esercitata in modo occasionale, cioè si integra anche quando viene realizzato un singolo servizio professionale. È anche vero che, nell’ipotesi più frequente, si tratta di un fenomeno che può essere esercitato professionalmente (in modo non occasionale) e quindi sotto questo profilo assimilabile all’impresa; • Bisogna inoltre considerare che le professioni intellettuali esercitano un’attività produttiva che può essere svolta attraverso il solo lavoro del professionista, come peraltro può suggerire la posizione di queste all’interno del codice (capo II, titolo III, libro V, particolare tipo di lavoratore autonomo). Tuttavia, al giorno d’oggi è senz’altro più verosimile che moltissime professioni intellettuali possano essere “organizzate” nell’accezione di cui all’art.2082. Se ciò accade, si può ulteriormente valutare l’attività relativamente all’art. 2083: accertare se il lavoro del professionista è o meno prevalente rispetto agli altri fattori; • Le professioni intellettuali sono senza dubbio un’attività produttiva economica, come descritto dall’art.2082. trattasi di attività lucrativa: il servizio è ceduto ad un prezzo ben superiore rispetto al costo sostenuto. La professione intellettuale è un’attività produttiva che ormai può presentare tutti e tre i requisiti dell’art.2082. 12 Art. 2238. (Rinvio). Se l'esercizio della professione costituisce elemento di un'attivita' organizzata in forma d'impresa, si applicano anche le disposizioni del titolo II. In ogni caso, se l'esercente una professione intellettuale impiega sostituti o ausiliari, si applicano le disposizioni delle sezioni II, III e IV del capo I del titolo II. àNon troverà applicazione il titolo II nei casi in cui l'attività produttiva si esaurisca nella realizzazione di un servizio professionale, cioè nei casi in cui si tratti di una prestazione intellettuale tout court. In quest'ottica la norma in esame traccerebbe un confine dell'ambito di applicazione della disciplina dell'impresa, in particolare tenendo fuori da quest'ambito le professioni intellettuali comunque esse si configurino, a prescindere cioè dalle modalità di realizzazione della prestazione. Il che poteva avere un senso al tempo in cui la norma è stata scritta, ma appare oggi avere molto meno senso se si considera che le attuali professioni intellettuali possono essere fenomeni in tutto e per tutto coincidenti con l'impresa. L'articolo 2238 comma uno costituisce così una sorta di privilegio a favore dei professionisti. 4:L’INIZIO E LA FINE DELL’IMPRESA L’inizio dell’impresa è fatto dipendere dall’esercizio di atti che, per la loro significatività o il loro nu- mero, fanno desumere quale sia il fine dell’esercizio di un’attività imprenditoriale (CAMPOBASSO). In particolare, in presenza di un apparato organizzativo appositamente predisposto, anche il com- pimento di un unico atto di gestione è ritenuto idoneo all’esercizio dell’impresa; in mancanza del- la predisposizione di un’organizzazione di mezzi, sarà necessaria la reiterazione degli atti compiu- ti ovvero la loro sistematicità e il preordinamento all’esercizio di un’impresa. Con l'espressione inizio dell'impresa si fa riferimento al momento dal quale comincia a trovare applicazione la disciplina dell'impresa. Se tale momento deve essere accertato secondo il criterio di effettività, la sua individuazione deve prescindere da qualunque tipo di adempimento formale si associa allo svolgimento dell'impresa, come ad esempio l'iscrizione nel registro delle imprese. Infatti simili formalità finirebbero per far dipendere dalla volontà del soggetto che ha tenuto ad assolvere a tali adempimenti e l'applicazione di una disciplina che tutela anche altri soggetti Fine dell’impresa à momento al cui verificarsi cessa di trovare applicazione la disciplina dell’impresa. Anche in questo caso la fine dell’impresa deve essere accertata con il criterio di effettività, ossia deve essere identificata nel momento in cui la realtà concreta viene meno il fenomeno produttivo qualificabile come impresa senza che possano avere rilievo quantomeno generalmente gli eventuali adempimenti formali obbligatori. Ma bisogna escludere che questa si sia verificata solo nel momento della liquidazione (fase nella quale si monetizzano tutti i beni dell’azienda), anche perché la liquidazione non necessariamente deve avvenire. La fine dell'impresa non può essere determinata nemmeno dallo scioglimento della società. 15 E’ affidato alla gestione delle camere di commercio di ogni provincia e alla persona del segretario generale o ad altro soggetto con funzioni dirigenziali che finge da conservatore, sotto la vigilanza di un giudice delegato dal presidente del tribunale. È tenuto secondo tecniche informatiche ed è consultabile tramite il portale della camera di commercio. Prevede due sezioni: la sezione ordinaria e diverse sezioni speciali. La sezione ordinaria raccoglie le imprese commerciali non piccole, le forme giuridiche commerciali (cioè società commerciali e cooperative) e altre forme giuridiche per le quali il codice prevede l’obbligo d’iscrizione (come gli enti pubblici economici, i consorzi), oltre al gruppo europeo di interesse economico e la rete di impresa con fondo comune. L’iscrizione avviene attraverso la presentazione di una domanda, con la quale devono risultare alcune informazioni oggetto di pubblicità secondo la legge. Ex art.2196 le informazioni relative all’assetto organizzativo strutturale dell’impresa e cioè innanzitutto le generalità dell’imprenditore, ditta, oggetto dell’impresa, sede, eventuali institori e procuratori, oltre alla PEC. Oltre a queste si aggiungono anche altre informazioni nel corso dello svolgimento dell’iniziativa, come ad esempio l’autorizzazione alla continuazione dell’impresa di un incapace (art.2198). L’iscrizione deve essere richiesta entro 30 giorni a partire dal verificarsi un fatto oggetto di pubblicità, e deve essere invece precedente al concreto avvio dell’iniziativa d’impresa. Il pubblico ufficiale o l’ufficio del registro (nel caso di spa) inoltre effettueranno il controllo per accertare la sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l’iscrizione , oltre al controllo sulla regolarità formale della domanda. Qualora avvenga un’iscrizione senza le dovute condizioni, il giudice del registro può attuare una cancellazione d’ufficio tramite decreto. L’iscrizione ha efficacia dichiarativa, per cui una volta perfezionata si determina una presunzione di conoscenza. Oggi questa presunzione è relativa per i primi 15gg d’iscrizione solo per le società di capitali, mentre in tutti gli altri casi è da considerarsi assoluta. Al contrario invece qualora l’iscrizione sia stata omessa si verifica una presunzione di ignoranza dei fatti o degli atti che avrebbero dovuto essere iscritti; in questo caso la presunzione è sempre relativa. Talvolta l’efficacia può essere di tipo normativo, cioè l’obbligo pubblicitario costituisce una condizione per rendere applicabile una disciplina o un regime giuridico: è il caso della società di persone, per cui all’iscrizione potrà essere applicata la disciplina della società regolare. Si distingue dall’efficacia normativa l’efficacia costitutiva, riconosciuta alle società di capitali e alle modifiche dello statuto di queste. Tali iscrizioni hanno l’effetto di far venire ad esistenza la società come centro autonomo di imputazione ovvero rendere operative le modifiche apportate al codice organizzativo, cioè: l’atto produce effetti solo con l’iscrizione. Le sezioni speciali Sono state previste con l’obiettivo di razionalizzare le diverse forme di pubblicità gestite dalla camera di commercio prima dell’istituzione del registro delle imprese. L’obbiettivo è quello di far confluire le imorese e le forme giuridiche che trovavano collocazione in queste differenti fore di pubblicità che non potevano transitare nella sezione ordinaria in quanto imprese diverse da quelle commerciali non piccole o forme giuridiche per le quali non è previsto obbligo di pubblicità nelle norme del codice civile. Ad oggi vi sono 7 sezioni speciali: 16 1. Una (DPR.558/1999) comprende i titolari di imprese agricole, di piccole imprese, di società semplici, di imprese artigiane e i loro consorzi. 2. (d.lgs.96/2001) Un’altra è riservata alle società tra professionisti 3. (art.2497-bis) Un’altra è riservata alle società e enti che esercitano o sono assoggettati alla direzione e coordinamento di terzi (società e enti di gruppo) 4. (d.lgs.112/2017) Riservata alle imprese sociali 5. (art.2250 c.5) È riservata a società di capitali che hanno deciso di tradurre atti o fatti in un’altra lingua ufficiale dell’UE 6. Le ultime due (d.l.179/2012 e d.l.3/2015) sono riservate alle imprese start-up innovative e alle piccole imprese innovative L’iscrizione in ciascuna di queste sezioni ha efficacia di pubblicità notizia, ossia la mera conoscibilità di fatto delle informazioni rese disponibili,senza presunzioni di conoscenza o ignoranza, eccezione fatta per le imprese agricole, per cui ha efficacia dichiarativa (art.2193) SEZIONE TERZA: L’ORGANIZZAZIONE DELL’IMPRESA 7:LA SRTUTTURA DELL’ORGANIZZAZIONE Il diritto non fornisce specifici strumenti giuridici per l'organizzazione dell'impresa. L'imprenditore, per il procurarsi dei fattori produttivi e collaborativi, si avvale delle comuni fattispecie contrattuali a disposizione di ogni soggetto (compravendita, somministrazione, contratti di lavoro, ecc). È vero che della struttura organizzativa dell'impresa esiste una definizione giuridica: ex art. 2555 c.c., il “complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa” forma l’azienda. Questa non è disciplinata come tale. Viene in rilievo solo quando è oggetto di atti di disposizione, cioè quando, per il tramite della sua vendita o concessione in godimento, si realizza una sostituzione del soggetto che esercita l'impresa: che, così, diviene titolare. Si tratta di un istituto che non attiene all’organizzazione dell'impresa in senso proprio, ma a una vicenda concernente l'impresa stessa sotto il profilo soggettivo di chi la esercita. Il diritto commerciale non si occupa della “dimensione” costituita dalle componenti della struttura organizzativa. L’organizzazione della struttura decisionale Il diritto commerciale si occupa della “dimensione” funzionale e della struttura decisionale dell'impresa, cioè della struttura delle funzioni in cui si articolano i poteri decisionali e da cui promanano gli atti dell'impresa. L'imprenditore persona fisica (se si tratta di impresa individuale) o gli amministratori (se si tratta di società) non curano personalmente ogni atto, ma demandano taluni poteri a propri collaboratori. Viene a delinearsi una articolata piramide, di cui l'imprenditore (gli amministratori, nelle società) rappresentano solo il vertice, mentre, più a valle e su diversi livelli, le decisioni vengono prese e gli atti vengono compiuti da altri soggetti per conto e in nome del titolare dell'impresa. Il codice civile disciplina le figure funzionali che tipicamente compongono questa struttura, operano all'interno dell'apparato organizzativo e ne regola la posizione e i poteri: gli institori, i procuratori e i commessi. Anche altri collaboratori possono essere affidatari di poteri decisori, ma operano dall'esterno, cioè come i collaboratori autonomi che rimangono strutturalmente estranei all'impresa, alla quale sono legati da rapporti contrattuali di diritto privato che regolano anche i loro poteri decisori rispetto alla prima: mandatari (incaricati di curare specifici affari), agenti, mediatori. 17 Il fenomeno appena descritto non riguarda la piccola impresa e, neppure l'impresa agricola. I collaboratori interni di impresa. La disciplina generale Le tre tipologie dei collaboratori interni sono distinte a seconda del posto occupato nell’ambito dell’apparato organizzativo e dei poteri tipicamente attribuiti ad ognuna di esse per l’espletamento delle mansioni affidate. a) La prima è la figura dell’institore ài collaboratori che occupano il livello più alto nell’organigramma di impresa. Essi sono preposti all'esercizio dell'impresa, ad una sede secondaria o ad un ramo particolare, vale a dire al vertice dell'intera iniziativa o di una sua parte. Essi sono dei veri e propri alter ego dell'imprenditore o soggetti con qualifiche dirigenziali, che nel linguaggio comune sono noti come direttori generali, direttori di filiale o responsabili di uno specifico settore produttivo. <b) La seconda è la figura del procuratore, si identificano i collaboratori che occupano un livello intermedio nell'organigramma dell'impresa. Essi sono preposti al compimento di atti riconducibili ad uno specifico ambito funzionale, quale può essere il personale, gli acquisti, le vendite, il marketing, ecc. Essi sono soggetti con qualifiche dirigenziali rispetto ad uno degli ambiti funzionali, che nel linguaggio comune sono noti come direttori del personale, responsabili del servizio commerciale, responsabili della comunicazione. 1. c) La terza è la figura dei commessi, si identificano i collaboratori che occupano il livello più basso dell'organigramma di impresa. Sono preposti al compimento delle diverse operazioni che consentono all'impresa di interfacciarsi con i terzi e con il mercato, attraverso la cessione dei beni e dei servizi alla clientela. Si tratta di soggetti con qualifiche essenzialmente esecutive. Ciascuna di queste figure è investita dei poteri necessari al compimento delle mansioni ad essa tipicamente sottostanti. Non solo dei poteri decisori, ma anche dei poteri dichiaratori, che consentono di dare esecuzione alle decisioni prese, attraverso la stipulazione di atti negoziali e di contratti con i terzi (disporre un bonifico, ricevere un pagamento, stipulare un contratto). Ciascuno di essi è così un vero e proprio centro decisionale e, di conseguenza, commisura al potere decisionale così decentrato il potere di rappresentanza: nel senso che attribuisce ad ogni collaboratore poteri di gestione esterna (appunto, di rappresentanza) congrui rispetto ai poteri di gestione interna (cioè, decisori) che ad esso fanno capo tipicamente. Nell'eventualità in cui si voglia circoscrivere il potere che appartiene normalmente ad un collaboratore, cioè apportare limitazioni ai suoi poteri naturali, che possono essere limitazioni qualitative e/o limitazioni quantitative, occorre un atto specifico che formalizzi tali limitazioni. L'atto in questione prende il nome di procura. In quest’eventualità, si pone il problema di come rendere opponibili nei confronti dei terzi detti limiti. Problema che viene risolto attraverso l’assoggettamento della procura ad un regime di pubblicità: alla pubblicità di impresa mediante la sua iscrizione nel registro delle imprese, nel caso in cui essa sia rilasciata all'indirizzo degli institori o dei procuratori; alla pubblicità di fatto, rendendola conoscibile con mezzi idonei, nel caso in cui sia rilasciata all'indirizzo dei commessi. In assenza di tale pubblicità, la procura e, quindi i limiti che essa contiene, non può essere opposta a terzi, a meno che non si provi che questi ne erano comunque a conoscenza. L’institore 20 La disciplina dell'impresa stabilisce un obbligo di documentazione di impresa. In particolare, si tratta dell'obbligo di dare rappresentazione scritta dei diversi accadimenti relativi allo svolgimento dell'attività di impresa, che viene assolto attraverso l'obbligo di tenuta delle scritture contabili. Il legislatore rende obbligatoria una regola di condotta che, all'evidenza, è una regola di buona gestione. L'obiettivo è quello di creare le condizioni per una conduzione razionale ed efficiente dell’impresa e, di conseguenza, di accrescere il livello di tutela dei terzi coinvolti nell'attività e, soprattutto, di coloro che l'hanno finanziata a titolo di capitale di credito. Attraverso le scritture contabili, l’imprenditore può avere il riscontro ex post di come si è svolta l'iniziativa e accertare se i risultati che ci sono derivati siano in linea con quanto ex ante era stato programmato, così da poter decidere in maniera consapevole se è il caso di proseguire regolarmente la gestione ovvero riprogrammarla ovvero, al limite, arrestarla del tutto. In altre parole, le scritture contabili obbligatorie sono uno strumento di controllo finalizzato a far sì che l'attività venga gestita consapevolmente. Le scritture contabili obbligatorie Il codice civile fissa due scritture contabili obbligatorie minime, che vanno tenute quale che sia la natura e la dimensione dell'impresa, individuandole nel libro giornale e nel libro degli inventari (cc.dd. scritture contabili nominate, art. 2214, co.1). Il libro giornale è la scrittura contabile nella quale vanno indicate giorno per giorno tutte le operazioni relative all'esercizio dell'impresa (art. 2216). È, cioè, una scrittura contabile in cui devono essere riportate le operazioni di impresa secondo l'ordine con il quale si susseguono. Essa è, perciò, una scrittura che va tenuta secondo un criterio cronologico. Nel libro giornale vanno rilevati i fatti di gestione nel loro profilo patrimoniale e reddituale, cioè accertandone l'impatto sulla consistenza del patrimonio (d’impresa) e sulla formazione del risultato (di esercizio). Il libro degli inventari è la scrittura contabile nella quale vanno periodicamente indicate e valutate le attività e le passività relative all'impresa, nonché le attività e le passività estranee alla medesima (art. 2217, co. 1). Essa è, perciò, una scrittura che va tenuta secondo un criterio sistematico. Il libro degli inventari deve dare contezza di tutto il patrimonio dell'imprenditore. Infatti, gli elementi da cui è costituito devono essere indicati e valutati. C’è poi una valutazione dei soli elementi che si prestano ad essere valutati, cioè degli elementi la cui utilità può essere misurata ed espressa attraverso un valore. L'inventario deve essere redatto all'inizio dell'impresa (c.d. inventario iniziale) e poi con cadenza annuale (c.d. inventario annuale). L'inventario annuale si chiude con il bilancio e con il con il conto dei profitti e delle perdite. Il bilancio di esercizio L'espressione bilancio d’esercizio designa l'insieme di quattro documenti: lo stato patrimoniale, il conto economico, il rendiconto finanziario e la nota integrativa. Lo stato patrimoniale contiene gli elementi attivi e passivi suscettibili di valutazione economica e pertinenti all'impresa. Il conto economico contiene i componenti positivi (i ricavi) e negativi (i costi) di reddito. Il rendiconto finanziario evidenzia la composizione delle disponibilità liquide dell'impresa (il denaro in cassa) e la relativa variazione (in aumento o in diminuzione) avvenuta nell'esercizio per effetto della gestione caratteristica delle operazioni di investimento e di 21 finanziamento. La nota integrativa è un documento descrittivo, che chiarisce i documenti quantitativi. Nell'ordinamento giuridico italiano manca una disciplina giuridica generale sul bilancio d’esercizio. Una regolamentazione in proposito è prevista soltanto nel diritto delle società per azioni. Resta aperta la questione su quale disciplina debba applicarsi al bilancio d'esercizio delle imprese che assumono forma giuridica diversa, come, ad es., una società di persone, un ente non societario o una persona fisica. L'orientamento del tutto prevalente risponde in senso affermativo. La conclusione secondo cui sarebbe possibile generalizzare la disciplina delle s.p.a. suscita non poche perplessità, non essendo previsto alcun obbligo di pubblicità del bilancio nelle società di persone e nelle imprese individuali. Pertanto, in queste ultime realtà imprenditoriali non sembra azzardato ritenere che il bilancio possa avere una struttura diversa, atteso che tale documento non è destinato ad avere diffusione all'esterno dell'impresa. SEZIONE QUARTA:IL COMPLESSO ORGANIZZATIVO E LA “CIRCOLAZIONE” DELL'IMPRESA IL TRASFERIMENTO DELL'IMPRESA L'azienda è definita dal codice come il complesso dei beni che l'imprenditore (persona fisica o ente) organizza per l'esercizio dell'impresa (art. 2555). Essa appartiene al mondo degli oggetti di diritto. La disciplina che la riguarda è dedicata a regolare taluni aspetti della sua circolazione. La cessione o la concessione in godimento dell'azienda realizza il subentro di un nuovo soggetto nella sua gestione e dunque nell'esercizio dell'impresa che essa serve. Di qui l'opportunità di integrare la disciplina comune dell’atto traslativo posto in essere con una normativa di settore, volto ad assicurare la realizzazione di questo specifico obiettivo Il fenomeno disciplinato è dunque la sostituzione nella conduzione dell'impresa, che si attua tramite il trasferimento dell'unità operativa. La nozione di azienda a)Sotto il profilo economico, l'azienda rappresenta un'entità unitaria che trascende le singole componenti, sia sul piano del valore, sia su quello della funzione. È a questa caratteristica che fa riferimento anche la nostra giurisprudenza, quando individua tra i beni aziendali “un vincolo di interdipendenza e complementarietà per il conseguimento di un determinato fine produttivo”. Tale vincolo è dato dall'organizzazione, cioè dal coordinamento dei diversi elementi da parte dell'imprenditore. Alla base della sua attuazione vi è un progetto imprenditoriale. L’attitudine alla produzione di nuova ricchezza e alla maturazione di un reddito rappresenta l'avviamento dell'azienda. L'avviamento rappresenta una qualità immanente ad ogni azienda, insuscettibile di essere ceduto separatamente dal complesso, ma naturalmente computato nella determinazione del prezzo di quest'ultimo; almeno, è definibile in questi termini il cosiddetto avviamento oggettivo, cioè quello che dipende da fattori intrinseci allo stesso complesso (la sua obiettiva efficienza e collocazione sul mercato), mentre vi rimane estraneo l’avviamento soggettivo, ossia la componente dipendente dalle abilità e dalla reputazione personale dell'imprenditore. b)L'azienda può essere composta da un insieme assai vario di beni. Giuridicamente, ciascuno di essi conserva la propria autonomia e rimane oggetto di una posizione giuridica indipendente da quella degli altri beni. Non è necessario che l'imprenditore sia proprietario di ciascuno di essi, sufficiente essendo che egli abbia un titolo giuridico per poterne godere: ad es., i macchinari goduti in leasing. 22 L'azienda è inoltre complesso di beni mutevole, la cui composizione è destinata a variare pressoché quotidianamente, per effetto dell'ingresso di prodotti finiti, macchinari obsoleti). Essa è da ritenersi d'altra parte già costituita anche nel caso in cui debbano essere ancora inseriti taluni elementi, purché non si tratti di beni essenziali per l'identità dell'impresa. L'azienda non viene meno nel caso in cui l'attività sia interrotta, almeno sino a quando l’insieme non viene concretamente disgregato: ad es., un'azienda di trasporti non perde la propria identità per effetto dell'interruzione dell'impresa, finché permangono le vetture, una clientela potenziale, rapporti di lavoro con gli autisti. c) All'interno del complesso aziendale sono talora individuabili sottoinsiemi dotati di una funzionalità autonoma sul piano produttivo. Tali sono i rami d'azienda. L’art. 2112 ne contiene una definizione: ramo è una “parte dell'azienda, intesa come articolazione funzionale autonoma di un'attività economica organizzata, identificata come tale dal cedente e dal cessionario al momento del suo trasferimento”. La figura rileva poiché la circolazione autonoma del ramo è soggetta alle regole della cessione dell'azienda. d) L’art. 2556 fa riferimento all'esistenza di una “proprietà” dell'azienda. L'azienda è composta da beni di cui l'imprenditore può godere a svariato titolo, perciò la c.d. “proprietà” sul complesso si risolve nella titolarità delle diverse posizioni giuridiche (proprietà, usufrutto, diritto personale di godimento), aventi ad oggetto i singoli beni aziendali. 9: IL TRASFERIMENTO DELL’AZIENDA 1. Natura, causa, oggetto del negozio La fattispecie principale è quella del “trasferimento della proprietà” sul complesso, ossia della cessione del fascio di eterogenee posizioni giuridiche facenti capo all’alienante, su ciascuno degli elementi aziendali: trasferimento, rispettivamente, della proprietà dei beni appartenentigli, dei diritti reali o personali di godimento sui beni su cui vanti un diritto di usufrutto o di cui abbia la disponibilità in forza di un atto di un contratto di locazione. Il trasferimento dell'azienda “non costituisce un tipo negoziale autonomo, ma è una fattispecie trasversale”. La specificità dell'oggetto si riflette tuttavia nella stessa causa del negozio, in quanto questo è tipicamente finalizzato ad immettere l'acquirente nel concreto contesto imprenditoriale servito dalla medesima: si tratta dunque di un sottotipo contrattuale (vendita, donazione), il cui scopo non consiste esclusivamente nella cessione di uno o più beni, ma si spinge fino a comprendere l'introduzione dell'acquirente nel contesto relazionale e di mercato dell'attività servita dall'azienda. È sufficiente che le parti convengano di trasferire l'azienda, identificandola in base ad elementi estrinseci, perché l'effetto negoziale traslativo coinvolga tutti i singoli elementi che attualmente la compongono, a prescindere da una loro analitica elencazione. Peraltro, ciascuno dei beni aziendali, conservando la propria autonomia giuridica, può costituire l'oggetto di atti dispositivi indipendenti. Non è impedito alle parti, che intendono trasferire l'azienda, di escludere dal trasferimento uno o più dei suoi beni; per far ciò, è però necessario che esse specifichino quali sono quelli destinati a restare in capo all’alienante. In ogni caso, l'esclusione è possibile solo nella misura in cui non si tratti di elementi essenziali del complesso. È bene precisare che l'esclusione di un bene essenziale non comporta l'invalidità del negozio, ma semplicemente la sua non qualificabilità come “trasferimento d'azienda”. 2. La forma e la pubblicità del contratto Il contratto traslativo dell'azienda è a forma libera, a meno che una determinata forma non sia richiesta dalla natura del contratto stesso. L'azienda non ha una propria legge di circolazione. L’art. 2556 impone tuttavia la forma scritta ad probationem, quando il contratto abbia ad oggetto 25 L'azienda può essere oggetto anche di negozi costitutivi di un diritto di godimento sui beni che la compongono: • di un diritto reale, e in tal caso si avrà concessione in usufrutto dell'azienda; • di un diritto personale di godimento, e in tal caso si avrà affitto della medesima. Queste sono vicende giuridiche casualmente destinate a produrre, attraverso la costituzione di un diritto su un bene, la continuazione dell'attività, sia pure a titolo provvisorio, da parte del beneficiario. Centrale, nella disciplina è il profilo della gestione dell'azienda. Quest'ultima richiede infatti, perché ne siano conservati l’attitudine produttiva e l'avviamento, l'esercizio costante dell'attività. Pertanto, l'usufruttuario e l'affittuario devono esercitare l'impresa sotto la ditta che la contraddistingue, conservando “l'efficienza dell'organizzazione e degli impianti e le normali dotazioni di scorte”, senza modificare la destinazione del complesso. Si tratta di un vero e proprio obbligo, non limitato alla semplice manutenzione ordinaria dei beni, ma esteso ad ogni atto necessario per salvaguardarne l'avviamento. Ne segue che l'usufruttuario/affittuario è tenuto ad ammodernarne o sostituire gli impianti obsoleti, ad introdurre le nuove tecnologie di produzione, a rinnovare il ventaglio dell'offerta dei prodotti per stare al passo con le mutate esigenze del mercato, sostenendo anche spese. Collegato e strumentale al potere di gestione, è il potere di disposizione dei beni aziendali appartenenti al concedente, che si costituisce in capo all’usufruttuario/affittuario, quantunque costui non acquisti la proprietà di nessuno di tali beni. Analoga variabilità riguarda il patrimonio aziendale. Alla costituzione del rapporto l'usufruttuario/affittuario subentra nei contratti in corso di esecuzione, negli stessi limiti e secondo le stesse regole che valgono nel trasferimento dell'azienda. SEZIONE QUINTA: L’IMPRESA NEL MERCATO 10: CONCORRENZA E CORRETTEZZA IMPRENDITORIALE La concorrenza sleale 1. Fonti e sistema La tutela contro gli atti di concorrenza sleale è imposta a livello internazionale dall'art. 10-bis della Convenzione d'Unione di Parigi per la protezione della proprietà industriale (CUP), attuato all'interno del codice civile dagli artt. 2598 ss. L’art. 2598 tipizza alcuni atti di concorrenza sleale corrispondenti a quelli dell'art. 10-bis CUP: ed in particolare gli atti confusori (art. 2598, n. 1), quelli screditanti e di appropriazione di pregi (art. 2598, n. 2); e si chiude con una clausola generale di divieto di atti contrari ai principi di correttezza professionale (art. 2598, n. 3). 2. I soggetti. Il rapporto di concorrenza La disciplina della concorrenza sleale presuppone la qualità di imprenditore tanto del soggetto attivo (autore dell’atto di concorrenza) quanto di quello passivo (danneggiato). Ciò si desume dall'art. 2598, n. 3, che vieta gli atti contrari ai principi di correttezza professionale idonei a “danneggiare l'altrui azienda”, e che considera la titolarità di un’organizzazione aziendale in capo al danneggiato come elemento costitutivo dell'illecito. Esulano dalla disciplina della concorrenza sleale atti che pure possono danneggiare l'altrui azienda, ma compiuti da parte di non imprenditori. La disciplina presuppone inoltre l'esistenza di un rapporto di concorrenza, che in via generale sussiste quando le imprese si rivolgono ad una clientela comune. Il rapporto di concorrenza deve ricorrere tanto sotto il profilo merceologico (un produttore di software non è ad es. in concorrenza con un produttore di alimentari) quanto sotto il profilo territoriale (un’attività di rivendita di alimentari a Milano non è ragionevolmente in concorrenza con una analoga attività svolta a Palermo). Il rapporto di concorrenza è ritenuto sussistente anche a livelli economici diversi, ad es. fra produttore e distributore quando l’attività dell'uno incida sulla medesima clientela dell'altro. 26 3. La concorrenza sleale per confusione La prima fattispecie di concorrenza sleale disciplinata dall’art. 2598, n. 1, è costituita dall'utilizzazione di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione per i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri”, o più in generale dal compimento di “atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente”. L’ipotesi è riconducibile all'interesse generale alla trasparenza del mercato, e nella specie a potere identificare attraverso i segni distintivi l'impresa responsabile dell'organizzazione aziendale, o dell'offerta del prodotto o del servizio. L’art. 2598, n. 1, tutela perciò tutti i segni distintivi tipizzati dall'ordinamento: ed in particolare la ditta, la ragione e la denominazione sociale, l'insegna ed il marchio, titoli e testate di periodici, nonché il nome a dominio. La disciplina concorrenziale assume in particolare importanza centrale per definire i presupposti e l'ambito di protezione dei segni distintivi non registrati. In materia di marchi registrati, l'applicazione dell’art. 2598, n. 1, è invece sostanzialmente assorbita dalla protezione ben più ampia prevista negli artt. 7 ss. del codice della proprietà industriale. L’art. 2598, n. 1, ricomprende fra gli atti vietati anche il comportamento di chi “imita servilmente i prodotti di un concorrente”. 4. Denigrazione e appropriazione di pregi L’art. 2598, n. 2, prevede due ulteriori fattispecie di concorrenza sleale: • • gli atti di denigrazione; • • gli atti di appropriazione di pregi. La fattispecie della denigrazione ricomprende in particolare il comportamento di chi “diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito”. Nell'attuale contesto prevale un'interpretazione della norma che privilegia l'interesse alla trasparenza del mercato. In questo contesto la norma viene tendenzialmente riferita alle affermazioni screditanti false. La seconda fattispecie di concorrenza sleale riguarda l'approvazione “di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente”. Si tratta di un comportamento ancora una volta in contrasto con i principi di trasparenza del mercato, e che ricorre ad es. quando un imprenditore rappresenta nei propri cataloghi i prodotti del concorrente; o dichiara di aver ricevuto premi o riconoscimenti attribuiti invece ad altri. 5. I principi di correttezza professionale L’art. 2598 si chiude al n. 3 con una clausola generale di divieto di avvalersi “direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi di correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda”. La giurisprudenza ha elaborato una casistica di generali tipologie di comportamenti scorretti. a) La clausola generale è valorizzata per vietare comportamenti antitetici ai principi di trasparenza del mercato. Sono dunque vietate tutte le affermazioni ingannevoli relative al proprio prodotto o attività. L'ipotesi è normalmente definita in termini di mendacio. b) Emergono poi ipotesi che in ultima analisi riflettono una scorretta imputazione dei costi e dei benefici dell'attività imprenditoriale. La scorrettezza può derivare dalla violazione di norme di diritto pubblico che introducono limiti e costi allo svolgimento dell'attività di impresa. La violazione di queste norme consente di realizzare opportunità di guadagno o di sottrarsi a fattori di costo contrarie al modello di mercato che il legislatore riconosce e protegge. 27 c) In questa prospettiva appaiono scorretti gli atti intesi a trarre profitto da altrui iniziative imprenditoriali, o a scaricare sui terzi i costi delle proprie decisioni. Un primo esempio in tal senso è rappresentato dagli atti di spionaggio industriale, con cui un imprenditore cerca di venire a conoscenza dei segreti tecnici o commerciali di un concorrente, e così di risparmiare sui costi di investimento in ricerca, sviluppo o organizzazione della rete di fornitura e distribuzione. Più in generale la sottrazione di segreti può avvenire scorrettamente non soltanto attraverso atti di vero e proprio spionaggio, ma anche grazie alle rilevazioni di dipendenti e collaboratori del concorrente. d) Può in alcuni casi costituire illecito concorrenziale il c.d. storno di dipendenti, e cioè l'iniziativa diretta a sottrarre lavoratori al concorrente promettendo loro migliori condizioni di retribuzione e mansioni. 6. Sanzioni e processo La violazione della disciplina della concorrenza sleale comporta l'applicazione delle sanzioni degli artt. 2599-2600. Anche in materia di concorrenza riveste importanza centrale l'azione inibitoria, e cioè l'ordine del giudice di cessare dalla continuazione dell'illecito (art. 2599). Lo stesso ordine può disporre gli “opportuni provvedimenti” per eliminare gli effetti dell'atto. L’inibitoria prescinde dallo stato soggettivo di dolo e colpa dell'autore di atti di concorrenza sleale. Oltre che con sentenza definitiva, essa può inoltre essere pronunciata anticipatamente in via cautelare d'urgenza, in modo da prevenire tempestivamente attività che diversamente produrrebbero danni difficilmente quantificabili. Il risarcimento del danno può essere richiesto solo in caso di atti dolosi o colposi, ma la disciplina concorrenziale prevede da questo punto di vista un'agevolazione dell’onere probatorio, in quanto “accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume” (art. 2600, co. 3). Nelle ipotesi in cui può essere pronunciato il risarcimento del danno può inoltre essere ordinata la pubblicazione della sentenza. Le pratiche commerciali Queste regole si trovano nel d.lgs. 206/2005 c.d. codice del consumo (c.cons.). Il legislatore impone a chi offre beni o servizi di tenere un comportamento corretto in qualsiasi contatto instaurato con i consumatori, “prima, durante e dopo un'operazione commerciale relativa a un prodotto” (art. 19 c.cons.). La disciplina del comportamento delle imprese nei rapporti con i consumatori è ispirata a un generale divieto di “pratiche commerciali scorrette” (art. 20 c.cons.). La nozione di pratica commerciale è intesa come “qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto”. Il divieto si applica in via generale a tutti i professionisti, e cioè non soltanto agli imprenditori ma a “qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale artigianale o professionale”, compresi dunque anche i lavoratori autonomi e i professionisti intellettuali. La struttura della disciplina è particolarmente complessa. Il legislatore introduce una clausola generale di divieto di “pratiche commerciali scorrette”. Tipizza poi due tipologie di pratiche scorrette: e precisamente le pratiche ingannevoli e le pratiche aggressive. L’art. 20, co. 2, c.cons. definisce scorrette le pratiche commerciali contrarie alla diligenza professionale ed idonee a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del 30 iniziativa degli interessati ad accertare la nullità dei contratti conclusi in violazione della disciplina della concorrenza, o ad ottenere il risarcimento del danno subito. III. Soggetti e mercato rilevante La normativa sulla concorrenza si applica ai comportamenti delle imprese. Il diritto antitrust costituisce un settore in cui la nozione di impresa si è allargata fino a ricomprendere fenomeni in passato storicamente esclusi dalla definizione dell’art. 2082 c.c. Gli effetti restrittivi della concorrenza devono essere valutati relativamente ad un mercato, per il quale si ritiene opportuno preservare condizioni di competitività. Così ad esempio gli effetti di un'intesa fra produttori di auto di piccola cilindrata potrebbero sembrare scarsamente restrittivi da chi consideri questo mercato unitariamente a quello delle auto di media e grossa cilindrata, qualora nel settore delle auto medio grandi le maggiori quote di fatturato risultassero detenute da imprese non aderenti all'accordo. Occorre dunque determinare per ogni caso concreto il c.d. “mercato rilevante”. Questo viene circoscritto geograficamente e merceologicamente. Il mercato geografico è in particolare delimitato dal territorio in cui le condizioni di concorrenza sono omogenee. Il mercato merceologico è invece limitato dalla tipologia dei prodotti o servizi reciprocamente sostituibili. IV. Le intese La disciplina in materia di intese è contenuta nell’art. 101 TFUE e negli artt. 2 e 4 l.at. Il divieto di intese vuole in via generale impedire le pratiche di concentrazione dei comportamenti che ostacolano strategie individuali di abbassamento dei prezzi o di incremento delle qualità dei prodotti o servizi. L'intesa rappresenta un esercizio di potere di mercato in forma congiunta da parte delle imprese aderenti al mercato all'accordo, nel loro interesse ed in danno dei consumatori. Il divieto di intese colpisce gli “accordi tra imprese che abbiano per oggetto o per effetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza”. Il divieto ricomprende perciò tutte le forme di concentrazione, indipendentemente dal loro carattere giuridicamente vincolante. Rientrano nella nozione le pratiche concordate, costituite da accordi privi di valore contrattuale, ma di fatto osservati spontaneamente. Il divieto di intese restrittive della concorrenza si applicano non solo agli accordi fra imprese operanti allo stesso livello economico (c.d. intese orizzontali), ma anche a quelli fra imprese operanti a diversi livelli economici della catena di produzione e distribuzione (ad es. fra un venditore ed i suoi distributori, c.d. intese verticali). Gli artt. 101 TFUE e 2 l.at. contengono una elencazione delle tipologie di intese vietate, che ha tuttavia carattere esemplificativo. L'elenco ricomprende: le intese consistenti nel “fissare direttamente o indirettamente i prezzi di acquisto o di vendita”; le intese dirette a “limitare o controllare la produzione”; le intese dirette a “ripartire i mercati o le fonti di approvvigionamento”; le intese dirette ad “applicare condizioni dissimili per prestazioni equivalenti”; le intese dirette a “subordinare la conclusione di contratti all’accettazione di prestazioni supplementari, che non abbiano alcun nesso con i contratti stessi”. Alcune intese possono essere esentate dai divieti antitrust qualora risultino idonee a produrre effetti positivi di efficienza economica. Gli artt. 101.3 TFUE e 4 l.at. prevedono in particolare la possibilità di esentare dal divieto le intese che contribuiscono “a migliorare la produzione o la distribuzione dei prodotti o a promuovere il processo tecnico o economico”. L'intesa deve evitare restrizioni “che non siano indispensabili” al miglioramento della produzione, e non deve dare alle imprese partecipanti “la possibilità di eliminare la concorrenza per una parte sostanziale dei prodotti”. V. Gli abusi di posizione dominante La seconda fattispecie anticoncorrenziale disciplinata dall'ordinamento antitrust europeo e nazionale è costituita dallo “sfruttamento abusivo da una o più imprese di una posizione dominante sul mercato”. La posizione dominante consiste in un potere di mercato che consente al suo titolare di tenere 31 comportamenti indipendenti: cioè comportamenti (ad es., aumenti di prezzi) che non espongono al rischio di perdita di fatturato a vantaggio dei concorrenti. Gli artt. 102 TFUE e 3 l.at. contengono una elencazione di ipotesi di sfruttamento abusivo di posizione dominante, in larga parte corrispondente a quella contenuta nella norma sulle intese. Si tratta ancora una volta di un'elencazione di carattere esemplificativo, che comprende le ipotesi consistenti “nell’imporre direttamente od indirettamente prezzi d’acquisto, di vendita od altre condizioni di transizione non eque”; nel “limitare la produzione a danno dei consumatori”; “nell'applicare nei rapporti commerciali con gli altri contraenti condizioni dissimili per prestazioni equivalenti, determinando così per questi ultimi uno svantaggio per la concorrenza”; “nel subordinare la conclusione di contratti all'accettazione da parte degli altri contraenti di prestazioni supplementari”. VI. Le concentrazioni La terza fattispecie disciplinata dall'ordinamento antitrust europeo e nazionale è costituita dalle operazioni di concentrazione restrittive della concorrenza. La disciplina europea delle concentrazioni si ritrova nel Reg. 139/2004 del Consiglio. La disciplina nazionale si ritrova invece agli artt. 6-7 e 16 ss. l.at. Le concentrazioni rilevanti sul piano concorrenziale si realizzano attraverso qualsiasi operazione idonea a determinare una “modifica duratura del controllo”, per effetto della quale imprese precedentemente indipendenti vengono assoggettate ad un potere di direzione unitaria. La nozione concorrenziale di “controllo” fa leva sulla “possibilità di esercitare un'influenza determinante sull’attività di impresa”. Le operazioni di concentrazione possono realizzarsi attraverso fusioni societarie, acquisti di partecipazioni, trasferimenti di aziende o relativi rami. La disciplina di tutte queste operazioni risulta la medesima sul piano antitrust. Gli obiettivi giustificano la scelta del legislatore antitrust di intervenire solo quando il fatturato delle imprese coinvolte supera alcuni “valori critici”. Le soglie di fatturato che determinano l'intervento delle autorità antitrust sono fissate a diversi livelli dall'ordinamento europeo e dal legislatore nazionale. Il superamento dei livelli fissati dal legislatore europeo determina l'applicazione del Reg. 139/2004, e reciprocamente esclude l'applicazione della normativa italiana. Il superamento delle soglie fissate dal legislatore nazionale determina l'applicazione della legge italiana. Le operazioni che rientrano nelle soglie di rilevanza del diritto europeo o nazionale devono essere oggetto di una notificazione preventiva alla Commissione o all’AGCM. Il procedimento avviato dalla notifica si conclude con una decisione della Commissione o dell’AGCM che verifica la compatibilità dell'operazione con la disciplina della concorrenza, in tal caso autorizzandola. Nel sistema europeo la Commissione valuta se l'operazione ostacola “in modo significativo una concorrenza effettiva nel mercato di comune o in una parte sostanziale di esso”. VII. Profili procedimentali e sanzionatori La Commissione e l’AGCM esercitano i loro poteri sanzionatori attraverso l'applicazione di pene pecuniarie (ammende). Commissione e AGCM dispongono inoltre di poteri inibitori in ordine alla continuazione dell’illecito, nonché di ripristino della concorrenza. In alternativa le autorità di controllo della concorrenza possono accettare gli impegni proposti dalle imprese ed idonei ad eliminare gli effetti restrittivi del comportamento. Il procedimento giurisdizionale di applicazione del diritto antitrust si svolge davanti ai giudici dei paesi membri. L'azione giudiziaria mira ad ottenere l’accertamento della nullità delle intese restrittive della concorrenza. Può inoltre essere promossa azione di risarcimento del danno derivante da comportamenti anticoncorrenziali vietati. Il risarcimento del danno può essere richiesto da qualsiasi danneggiato, anche indiretto. Il danno è pari al sovrapprezzo praticato per effetto della restrizione. È da ritenere esercitabile in via giudiziale anche l'azione inibitoria. 32 12:I DIRITTI DI PROPRIETA’ INDUSTRIALE I. La nozione di proprietà industriale L'espressione “proprietà industriale” è utilizzata nel titolo del “Codice della proprietà industriale”, approvato con d.lgs. 30/2005. Il codice protegge un insieme eterogeneo di fattori di produzione che non si concretizzano in beni materiali: di qui la frequente espressione “beni immateriali”. Una prima tipologia di “beni immateriali” è costituita dai cosiddetti segni distintivi dell'impresa. Una seconda tipologia di “beni immateriali” è costituisca dai risultati dell’attività di ricerca in un campo tecnico-industriale. Il diritto sui risultati dell'innovazione tecnologica e come economicamente più importante è costituito dal brevetto d’invenzione (di durata ventennale), cui si affianca un brevetto su ritrovati “minori”, definiti come i modelli di utilità (di durata decennale). A queste tipologie di brevetto si aggiunge ulteriormente un diritto fondato sulla registrazione di modelli e disegni industriali: con funzione di protezione dell'innovazione del design del prodotto, di durata lunga (25 anni). II. La tutela dei segni distintivi L’opportunità di attrarre i diritti precedentemente elencati all’interno di un’unica nozione di proprietà industriale può apparire dubbia, data l’eterogeneità di fenomeni quali l'interesse ad evitare confusione sul mercato. L'interesse ad evitare situazioni confusorie è quello più facilmente riconducibile ai principi concorrenziali, in quanto consente ai consumatori di distinguere le imprese responsabili dell'offerta di prodotti o servizi, che permette così di realizzare un mercato maggiormente trasparente. Questo interesse è alla base di alcuni principi comuni applicabili trasversalmente a tutti i segni distintivi. La tutela della funzione distintiva presuppone in particolare che l’uso del segno venga riferito dal pubblico ad un unico imprenditore. Ciò non esclude l'esistenza di segni utilizzati da una pluralità di imprenditori e che hanno una funzione distintiva ulteriore, estranea all'ambito di protezione dell'ordinamento, e perciò insuscettibile di formare oggetto di diritti esclusivi. Si pensi ad es. al termine “lavanderia”, che spesso vediamo come “insegna” all'ingresso dei locali delle imprese del settore. Questo termine ha in senso ampio un significato distintivo di un'attività dotata di particolari caratteristiche. L'ordinamento vuole tuttavia che in questo significato il termine sia liberamente utilizzabile dalla generalità degli imprenditori, in quanto strumento necessario per comunicare al pubblico lo svolgimento di una tipologia di attività. Nel linguaggio giuridico l'espressione “capacità distintiva” denota perciò la capacità del segno di identificare scelte riferibili ad uno ed un solo imprenditore. La più importante categoria dei segni “privi di carattere distintivo” è costituita dai nomi generici e descrittivi di prodotti ed attività. La capacità distintiva costituisce il primo requisito di tutela di ditta, insegna e marchio e deve essere valutato relativamente alla tipologia di attività e prodotti per cui il segno viene utilizzato. Così ad es. il segno “diesel” non può costituire un valido marchio per automobili, rivestendo esso carattere descrittivo di una tipologia di motore che può essere prodotto da differenti imprenditori. Il medesimo segno può invece costituire valido marchio di prodotti di abbigliamento. La funzione distintiva assume rilievo dal punto di vista della valutazione del conflitto fra segni. Il legislatore tendenzialmente vieta l'utilizzazione di segni anche soltanto simili da parte di imprenditori diversi. Il concetto di somiglianza assume giuridico rilievo se ed in quanto idonea ad indurre il pubblico a credere erroneamente che segni simili siano utilizzati dal medesimo imprenditore. Il principio così ricostruito si esprime in termini di divieto di utilizzazione confusoria dei segni distintivi. Il principio di non confondibilità implica poi ulteriormente che segni simili o addirittura identici possono essere utilizzati da imprenditori diversi nell'ambito di attività a loro volta differenti, che i consumatori non riferiscono ad un unico imprenditore. La protezione del segno non è assoluta ma relativa al settore merceologico di utilizzazione àil principio di relatività della tutela è entrato in crisi nell'economia 35 Infine lo stesso art. 2563, co. 2, dopo avere imposto l'inserimento del cognome o della sigla all'interno della ditta, fa “salvo quanto è disposto dall’art. 2565”, che consente il trasferimento della ditta (c.d. ditta derivata). L’art. 2565 prevede comunque che “la ditta non può essere trasferita separatamente dall'azienda”. La legge non disciplina espressamente i requisiti della ditta che sono ricavabili dai principi generali precedentemente ricostruiti in materia di segni distintivi. La tutela della ditta presuppone l'esistenza di una capacità distintiva, e cioè la capacità del segno di identificare la responsabilità di scelte riferibili ad uno ed uno solo imprenditore. La ditta deve rispondere al requisito della novità, e cioè diversificarsi rispetto ad altri segni distintivi anteriori di terzi. L’art. 2564 disciplina in particolare l'ipotesi del conflitto fra ditte, stabilendo che “quando la ditta è uguale o simile a quella usata da altro imprenditore e può creare confusione per l'oggetto dell’impresa e per il luogo in cui questa è esercitata, deve essere integrata o modificata con indicazioni idonee a differenziarla”. La norma costituisce piana espressione del principio di confondibilità e sottintende quindi che la novità della ditta non deve essere assoluta, ma deve essere valutata relativamente al luogo dalla tipologia delle attività svolte. Analoghi principi valgono con riferimento all'ambito di tutela della ditta, da ritenere protetta solo a fronte di rischi concreti di confusione. Si tratta di un diritto relativo al territorio e al settore merceologico di utilizzazione. Il diritto è poi da ritenere estinto ove il titolare abbia cessato l'uso del segno ed il pubblico ne abbia perduto il ricordo, così da non poter incorrere in rischi di confusione con chi utilizzi analoghi segni. II. L'insegna Il codice civile dedica all'insegna un’unica norma di rinvio all’art. 2564, co. 1, in materia di ditta. Anche l'insegna rientra inoltre fra i segni distintivi. La nozione di insegna va ricavata dal significato del termine nel linguaggio comune. L'insegna è utilizzata all'ingresso dei locali e degli stabilimenti dell'impresa ed assume una funzione distintiva della responsabilità di un'organizzazione aziendale fisicamente collocata in un certo luogo. L'insegna (a differenza della ditta) può essere liberamente formata. Può essere costituita non solo da espressioni letterali, ma anche da disegni e figure; né qui è necessaria l'indicazione del cognome o della sigla dell'imprenditore. Anche l’insegna è protetta in base alla disciplina della concorrenza sleale, in quanto segno distintivo utilizzato e conosciuto dal pubblico, a fronte di un rischio di confusione concreto, da accertare relativamente al territorio e al settore merceologico di attività dell'imprenditore. III. Ragione e denominazione sociale La disciplina codicistica dei segni distintivi menziona ragione e denominazione sociale per rinviare da un lato alle norme in materia di società e dall'altro all’art. 2564 in materia di ditta. Il duplice rinvio riflette la duplice funzione di questi segni distintivi: che da un lato costituiscono uno strumento di spendita del nome della società rispettivamente di persone e di capitali; dall'altro ne costituiscono la ditta. L’art. 2567, co. 2, dichiara applicabile a ragione e denominazione sociale “le disposizioni dell’art. 2564”. La ragione e denominazione sociale sono tutelate dalla disciplina della concorrenza sleale, in quanto segni distintivi utilizzati e conosciuti dal pubblico, nei limiti di un rischio di confusione. 36 IV. Il marchio Il marchio è un segno distintivo utilizzato mediante apposizione materiale sul prodotto. L’ordinamento conosce tuttavia in realtà anche la categoria dei marchi di servizio, che non sono materialmente apponibili sul bene contraddistinto, e vengono utilizzati tipicamente nell'abbigliamento del personale dell'impresa (si pensi alle uniformi di lavoro), all'ingresso dei locali o sui mezzi di produzione, o nelle comunicazioni pubblicitarie. Un marchio può essere utilizzato per tipologie di prodotti estremamente diversificati (c.d. marchio generale à “Volkswagen), o per una singola tipologia di prodotti caratterizzata da precise caratteristiche merceologiche (c.d. marchio specialeà Golf). Con riferimento alla composizione del marchio, si distingue fra marchi denominativi (formati da parole), figurativi (formati da disegni o loghi) o misti (che contemporaneamente ricomprendono parole e disegni). Sono comunque proteggibili segni costituiti da lettere, cifre, suoni, colori e tonalità cromatiche, nonché dalla forma del prodotto o della sua confezione. In passato, il marchio assumeva una funzione distintiva della provenienza del prodotto o del servizio da un'organizzazione imprenditoriale unitaria. La giurisprudenza della Corte di giustizia ha puntualizzato che nell'attuale contesto il marchio deve intendersi protetto non solo nella essenziale funzione distintiva tradizionale, ma anche in quella di garanzia qualitativa, comunicazione, investimento e pubblicità. 1. Marchi registrati e non registrati Il marchio è l'unico segno distintivo per cui la legge prevede un apposito provvedimento amministrativo di registrazione davanti a pubblici uffici, caratterizzato da efficacia costitutiva della protezione, che si perfeziona ed è azionabile anche prima del successivo, concreto uso del segno ed è sempre estesa all'intero territorio nazionale o addirittura all'intero territorio della UE quando la registrazione avviene presso l’EUIPO. Il sistema dei segni distintivi riconosce e protegge anche i marchi che non siano stati oggetto di registrazione. L’art. 2571 prevede che “chi ha fatto uso di un marchio non registrato ha la facoltà di continuare ad usarne, nonostante la registrazione da altri ottenuta, nei limiti in cui anteriormente se ne è valso”. Il sistema di protezione dei marchi non registrati è ricostruibile sulla base di considerazioni analoghe a quelle svolte con riferimento alla ditta e all'insegna. Questa protezione ancora una volta si fonda sulla disciplina della concorrenza sleale, ed in particolare sul divieto di uso di “nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri”. 2. Impedimenti assoluti alla registrazione La tutela del marchio registrato richiede la presenza di vari requisiti, la cui mancanza può essere fatta valere davanti ad un giudice, all’UIBM o all’EUIPO quale causa di nullità della registrazione. Alcuni requisiti riflettono l'esistenza di interessi generali in conflitto con la tutela del marchio. La mancanza di questi requisiti può essere fatta valere con un’azione di nullità esercitabile da chiunque vi abbia interesse: si tratta perciò di una nullità assoluta. Il regolamento sul marchio UE utilizza l'espressione “impedimenti assoluti alla registrazione” proprio per elencare le ipotesi di mancanza dei requisiti in esame. 37 a) Un ruolo centrale svolge il requisito della capacità distintiva del marchio. L’interesse sottostante è quello a mantenere la libera disponibilità di strumenti di comunicazione utili a promuovere l'offerta del prodotto o del servizio. L'interesse sottostante è quello di mantenere la libera disponibilità di strumenti di comunicazione utili no a promuovere l'offerta del prodotto o del servizio. Nell'ordinamento italiano questo interesse si esprime attraverso il principio tradizionale che considera privi di carattere distintivo i segni costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità e la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio. L'assenza del requisito della capacità distintiva può essere sanata “se il segno che ne forma oggetto ha acquistato carattere distintivo” à “ secondary meaning”, che evidenzia l'acquisto da parte del segno di un significato secondario distintivo ulteriore rispetto al significato primario descrittivo. b) L’impedimento riguarda in primis la registrazione dei marchi di forma, ma si estende a caratteristiche quali ad es. trame di tessuto, odori e profumi, musiche e suoni. Sono escluse dalla registrazione le forme e le altre caratteristiche imposte “dalla natura stessa del prodotto”; le forme e le altre caratteristiche necessarie “per ottenere un risultato tecnico”, le forme e le altre caratteristiche che danno “un valore sostanziale al prodotto”. In questi casi la caratteristica intrinseca del prodotto può essere protetta attraverso la registrazione dei disegni e modelli per quanto attiene alle intrinseche caratteristiche di forma e colore. c) Ulteriori impedimenti assoluti sono costituiti dalla decettività e dall’illiceità, ossia dal divieto di registrare “i segni idonei ad ingannare il pubblico, in particolare sulla provenienza geografica, sulla natura o sulla qualità dei prodotti o servizi”, nonché i segni contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume. 3. Impedimenti relativi alla registrazione La protezione del marchio presuppone inoltre ulteriori requisiti previsti a tutela di interessi individuali: e precisamente di chi vanti diritti anteriori in conflitto con la registrazione. La mancanza di questi requisiti costituisce una causa di nullità della registrazione che può essere fatta valere soltanto dai titolari dei diritti anteriori. Si tratta di una nullità relativa, ricostruendo così una categoria di “impedimenti relativi”. La più importante categoria di impedimenti relativi deriva dall'esistenza di diritti di terzi su segni distintivi anteriori in conflitto con il marchio registrato. La presenza di segni anteriori fa venir meno il requisito della novità. Gli impedimenti fondati sull'esistenza di diritti su segni distintivi anteriori hanno una portata corrispondente all'estensione di questi diritti. Sono quindi privi di novità i marchi la cui utilizzazione rappresenterebbe una violazione dei diritti sui segni distintivi anteriori. Le ipotesi di assenza di novità possono essere classificate in relazione alle diverse tipologie di segni in conflitto. a) Una prima tipologia è costituita dai segni distintivi registrati con efficacia anteriore. L'anteriorità deve essere valutata in relazione alla data di deposito della domanda, così che la validità di un marchio può essere pregiudicata da qualsiasi segno depositato anteriormente, ancorché registrato successivamente. Le registrazioni anteriori fanno venir meno il requisito della novità nei limiti in cui attribuiscono al registrante la possibilità di vietare l'uso del marchio successivo. 40 prodotti, la tipologia e qualità dei prodotti o servizi. Fisiologica è poi la previsione di un limite di durata del contratto. La licenza è normalmente onerosa. Il corrispettivo della licenza è anche definito “canoni di licenza”. Attraverso la stipulazione di licenze il titolare può sfruttare il marchio per tipologie di prodotti che non sarebbe in grado di fabbricare direttamente. Il fenomeno è diffuso soprattutto per i marchi più famosi, dotati di un forte valore di richiamo pubblicitario per diversissime tipologie di beni. Si pensi all'uso del marchio automobilistico “Ferrari”, che l'impresa di automobili concede in licenza per prodotti fabbricati da terzi: ad es. per abbigliamento e accessori di moda. Le licenze si distinguono in esclusive e non esclusive. Le licenze esclusive si caratterizzano per l'impegno del licenziante a non utilizzare direttamente in proprio il marchio in concorrenza con il licenziatario, e a non concedere ulteriori licenze a terzi. La licenza non esclusiva consente al licenziante di accordarsi con altri licenziatari, nonché di sfruttare il segno direttamente in proprio. Il legislatore nazionale impone che “in caso di licenza non esclusiva, il licenziatario si obblighi espressamente ad usare il marchio per contraddistinguere prodotti o servizi eguali a quelli corrispondenti messi in commercio o prestati nel territorio dello Stato con lo stesso marchio dal titolare o da altri licenziatari”. Il licenziatario che viola detto obbligo compie un atto di contraffazione del marchio; il licenziante che lo tolleri o che ometta di imporre l'obbligo stesso incorre nella decadenza del marchio per ingannevolezza sopravvenuta. 7. Nullità e decadenza della registrazione L’accoglimento della domanda di registrazione non è di per sé sufficiente a far sorgere un diritto valido, incontestabile ed efficacemente opponibile ai terzi. È infatti possibile che la fattispecie costitutiva della tutela non si sia perfezionata: per la presenza di impedimenti alla registrazione che l'Ufficio non poteva rilevare, o che di fatto non ha rilevato. Il mancato perfezionamento della fattispecie costitutiva della tutela determina la nullità della registrazione. Esistono eventi successivi alla registrazione che privano ex nunc di efficacia la fattispecie costitutiva della protezione originariamente valida: questi eventi costituiscono cause di decadenza del segno. Nullità e decadenza determinano analoghe conseguenze sul piano dell'azionabilità del diritto. Esse sono d'altro canto disciplinate da alcuni principi comuni. Entrambe possono essere parziali, e cioè colpire la registrazione del segno per una parte soltanto dei prodotti o servizi. Entrambe vengono dichiarate con efficacia erga omnes, perciò con effetto anche nei confronti dei terzi che non siano stati parti del relativo procedimento giudiziario o amministrativo. Nullità e decadenza sono azionabili non solo davanti all'autorità giudiziaria ordinaria, ma anche quanti all'UIBM e all’EUIPO. La nullità del marchio UE è azionabile davanti al giudice solo in via riconvenzionale. A)Le cause di nullità assoluta colpiscono le registrazioni avvenute in violazione degli impedimenti assoluti. Le cause di nullità relativa colpiscono le registrazioni avvenute in violazione di diritti anteriori di terzi. La nullità relativa può però essere sanata (c.d. convalida del marchio) qualora il titolare anteriore tolleri consapevolmente per un periodo di 5 anni l'uso del marchio registrato. B1) La registrazione del marchio fa sorgere una protezione indipendente dall'uso del segno, e perciò eventualmente decorrente da un momento anteriore all'utilizzo di questo uso. L’utilizzazione del marchio costituisce un onere del titolare, che rischia di decadere dai suoi diritti quando il marchio non sia stato “oggetto di uso effettivo entro 5 anni dalla registrazione”, o quando questo uso sia stato 41 interrotto per 5 anni. La decadenza per non uso è sanabile attraverso la ripresa dell'utilizzazione anteriormente alla proposizione della domanda o dell’eccezione della decadenza. B2) Il titolare del marchio deve poi evitarne utilizzazioni idonee “ad indurre in inganno il pubblico, in particolare circa la natura, qualità o provenienza dei prodotti o servizi”. Queste utilizzazioni determinano a loro volta decadenza dei diritti sul segno per ingannevolezza (o decettività) sopravvenuta. L'inganno può derivare anche da vicende conseguenti al trasferimento o alla concessione di licenze sul marchio. B3) I diritti decadono infine se il marchio “per il fatto dell’attività o dell'inattività del suo titolare, sia divenuto nel commercio denominazione generica del prodotto o servizio o abbia perduto la sua capacità distintiva”. L'ipotesi è definita dal legislatore nazionale con il termine volgarizzazione, che riflette la relatività nel tempo della percezione di alcuni termini da parte del pubblico. Un esempio è costituito dal termine nailon, che era originariamente un marchio registrato, ma che ha assunto successivamente nei consumatori un significato descrittivo della particolare tipologia di fibra sintetica. V. I nomi a dominio La diffusione di internet ha posto il problema relativo all'esistenza ed al riconoscimento di una funzione giuridica dei nomi a dominio: e cioè delle espressioni letterali che consentono ad un computer (client) di indirizzare il proprio collegamento verso un altro computer (server) per ricevere informazioni da quest'ultimo. I nomi a dominio vengono assegnati ai gestori delle informazioni ospitate sui server dalle autorità preposte al funzionamento di internet, attraverso un procedimento di registrazione del domain name, che non va confuso con quello di registrazione del marchio. Qualora l'offerta di informazioni attraverso il client avvenga nell'esercizio di un'attività imprenditoriale, il nome a dominio svolge una funzione distintiva di questa attività. L’art. 22 c.p.i. attrae il nome a dominio di un sito usato nell'attività economica nel principio di unitarietà dei segni distintivi. La norma vieta l'utilizzazione (anche) di un nome a dominio “uguale o simile all’altrui marchio se, a causa dell'identità o dell’affinità tra l’attività di impresa dei titolari di quei segni ed i prodotti o servizi per i quali il marchio è adottato, possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico”. I nomi a dominio devono rispettare il divieto di utilizzazioni confusorie, o comunque dirette a sfruttare la fama di altrui marchi notori. Il nome a dominio può essere protetto secondo i principi generali dei segni distintivi, e perciò contro l'uso di marchi con esso confondibili. L’art. 12, co. 1, lett. b, c.p.i. ricomprende i nomi a dominio aziendali fra i segni che costituiscono impedimento alla registrazione di marchi successivi uguali o simili, in quanto idonei a produrre rischi di confusione. Analogamente il titolare del nome a dominio può lamentare l’illecita utilizzazione da parte di terzi di nome a dominio simili al proprio, e perciò idonei a determinare confusione in ordine all’identità dell'impresa responsabile delle informazioni del sito ospitate sul server. VI. I segni distintivi a uso plurimo 1. Il certificato collettivo e di certificazione L'ordinamento nazionale ed europeo riconoscono e proteggono ulteriori tipologie di segni distintivi. Si tratta dei segni destinati all’utilizzazione parallela di una pluralità di imprenditori. Una prima categoria di segni destinati ad una utilizzazione plurima è costituita dai marchi collettivi e di certificazione. I marchi collettivi sono registrati da associazioni di categoria imprenditoriali e per essere destinati all'uso dei membri dell'associazione. I marchi di certificazione sono destinati alla registrazione da parte di “persone fisiche o giuridiche” preposte a “garantire l'origine, la natura o la qualità di determinati prodotti o servizi”. Funzione giuridicamente proprietà del marchio di certificazione è perciò quella di garantire che i prodotti o servizi contraddistinti presentino 42 particolari caratteristiche qualitative (standard) “certificate” dal titolare. I marchi collettivi possono attestare una generica condivisione delle finalità istituzionali dell'associazione o ente registrante. L'utilizzazione dei marchi collettivi e di certificazione deve avvenire nel rispetto di appositi “regolamenti”, allegati alla domanda di registrazione (c.d. regolamenti d'uso). L'omissione “da parte del titolare delle misure ragionevolmente idonee a prevenire un uso del marchio non conforme alle condizioni del regolamento d'uso del marchio collettivo del marchio collettivo o del marchio di certificazione” costituisce motivo di decadenza dai diritti sul segno per sopravvenuta ingannevolezza. La disciplina di questi marchi corrisponde in linea di principio a quella del marchio individuale. 2. Le indicazioni geografiche Un'ulteriore tipologia di segni distintivi destinati all’utilizzazione da parte di una pluralità di imprenditori è costituita dalle indicazioni geografiche, che il c.p.i. disciplina agli artt. 29-30, da accordi internazionali e norme europee. La funzione giuridicamente protetta delle indicazioni geografiche consiste nella garanzia della presenza nel prodotto di caratteristiche qualitative riconducibili alla tradizione del territorio. La collocazione delle indicazioni geografiche nel sistema nazionale all'interno della categoria dei segni distintivi non registrati, e tutelati sulla base dell'esistenza in via di fatto di una tradizione produttiva riconosciuta dal pubblico. Le indicazioni geografiche hanno particolare importanza nel settore dei prodotti agroalimentari. Proprio nel settore agroalimentare la protezione delle indicazioni geografiche è disciplinata a livello europeo dal reg. (UE) 1151/2012. Il regolamento prevede la possibilità di tutelare le indicazioni geografiche mediante registrazione a titolo di denominazione d’origine protette (D.O.P.), o alternativamente di indicazioni geografiche protette (I.G.P.). I requisiti di tutela delle I.G.P. appaiono meno stringenti rispetto alle D.O.P. La protezione è identica. La registrazione è concessa sulla base di un complesso procedimento davanti alla Commissione, che deve verificare essenzialmente la possibilità che il pubblico percepisca l'indicazione geografica in funzione distintiva della provenienza del prodotto da una determinata zona. La registrazione conferisce alla D.O.P. o I.G.P. una totale unitaria estesa a tutti i paesi membri. La protezione si estende non soltanto alle utilizzazioni ingannevoli sotto il profilo della provenienza geografica del prodotto, ma qualsiasi tentativo di approfittamento della notorietà del nome. I diritti sulle D.O.P. e I.G.P. non decadono per effetto di volgarizzazione. 14:TECNOLOGIA E DESIGN I. I brevetti d’invenzione 1. La nozione di invenzione Il concetto di invenzione non trova espressa definizione né nel c.p.i. né nelle norme internazionali. Appare tuttavia corretta la definizione tradizionale di “soluzione di un problema tecnico”. La definizione così ricostruita pare confermata dalla elencazione legislativa (art. 45, co. 2, c.p.i.) di ciò che non si considera come invenzione: e cioè a) le scoperte, teorie scientifiche e metodi matematici; b) metodi e principi puramente intellettuale, giochi e metodi commerciali; c) le presentazioni di informazioni (non è brevettabile). 45 Il titolare del brevetto vanta un diritto esclusivo di sfruttamento di durata ventennale. Il termine ventennale decorre dal giorno di deposito della domanda, e può essere eccezionalmente prolungato per i prodotti medicinali, attraverso una complessa procedura di rilascio di un certificato complementare di protezione. La proroga è stata prevista dal legislatore europeo per compensare il periodo di tempo necessario ad ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio di questi prodotti: periodo durante il quale il titolare non può sfruttare la sua invenzione. Il diritto è azionabile solo dal momento in cui la domanda è stata resa accessibile al pubblico. L'accessibilità al pubblico avviene automaticamente al decorso di 18 mesi dal deposito, ma a richiesta del titolare può essere anticipata a 90 giorni. Il diritto di brevetto può essere fatto valere contro lo sfruttamento di prodotti o procedimenti in tutto identici a quelli rivendicati nella domanda, ma anche in presenza di modifiche apportate ad alcuni elementi dell'invenzione (c.d. contraffazione per equivalenti, si pensi alla sostituzione di una vite con una saldatura). È possibile che la modifica ad opera del terzo rappresenti un perfezionamento dell'invenzione a suo tempo brevettata, e che costituisca a sua volta un’invenzione brevettabile. L'invenzione di perfezionamento può essere in tali casi oggetto di brevetto dipendente, attuabile solo con il consenso del titolare del brevetto (se ed in quanto non scaduto) anteriore. Il diritto esclusivo si estende alla produzione, commercio e uso industriale in Italia del prodotto brevettato. Nei brevetti di procedimento, il diritto si estende all’attuazione del metodo industriale, ma anche al commercio ed uso dei prodotti che ne derivano. Il diritto di brevetto non si estende però agli atti compiuti in ambito privato o in via sperimentale. Accanto al diritto patrimoniale di sfruttamento esclusivo, l'inventore vanta un diritto morale ad essere riconosciuto autore dell'invenzione, e fra l'altro a venire menzionato nella domanda di brevetto. Il diritto morale non è alienabile, e spetta sempre e solo all'autore dell'invenzione. 5. Cessioni e licenze di brevetto I diritti patrimoniali di brevetto sono liberamente trasferibili, ed è previsto un sistema di trascrizione con effetti dichiarativi corrispondenti a quelli illustrati in materia di marchio. Il titolare (licenziante) può concludere contratti di licenza e consentire a terzi (licenziatari) di sfruttare il brevetto secondo le modalità e nei limiti di tempo stabiliti dall'accordo. La licenza può essere pattuita con clausola di esclusiva, e quindi contenere l'obbligo del licenziante di non sfruttare in proprio l'invenzione e di non concedere ulteriori licenze a terzi. Gli effetti della licenza non possono comunque contraddire il principio dell'esaurimento: per cui un licenziatario ancorché esclusivo di un brevetto italiano non può impedire le importazioni in Italia dei prodotti brevettati che il titolare ha commercializzato nello Spazio Economico Europeo direttamente o attraverso altri licenziatari paralleli. Il legislatore ha inoltre previsto alcune particolari ipotesi in cui titolare può essere obbligato a concedere licenze a terzi (c.d. licenza obbligatoria). La licenza obbligatoria può essergli imposta quando non abbiano ottemperato all'onere di attuale l'invenzione entro 3 anni dalla concessione del brevetto. Può essere imposta a favore del titolare di un brevetto dipendente che rappresenti un “progresso tecnico di considerevole rilevanza economica”. La licenza obbligatoria è concessa dietro pagamento di un “equo compenso” dal Ministero dello sviluppo economico. 6. Nullità e decadenza del brevetto 46 Il brevetto può essere sempre dichiarato nullo dall’autorità giudiziaria ordinaria. L'azione di nullità può essere esercitata da chiunque vi ha interesse. Spesso viene promossa in via riconvenzionale dal convenuto in contraffazione. La dichiarazione di nullità (così come quella di decadenza) ha efficacia erga omnes. Le cause di nullità derivano tipicamente dall'assenza dei requisiti di brevettabilità. È inoltre nulla l'invenzione non sufficientemente descritta. L'invenzione può poi essere dichiarata nulla se il brevetto è stato concesso al non avente diritto, e cioè ad un soggetto diverso dall’inventore e dai suoi aventi causa. Le ipotesi di decadenza, derivanti essenzialmente dal mancato pagamento delle tasse brevettuali e della mancata attuazione dell'invenzione nei due anni successivi al rilascio della prima licenza obbligatoria. II. I modelli di utilità I “modelli di utilità” sono definiti come “modelli atti a conferire particolare efficacia o comodità di applicazione o di impiego a macchine, o parti di esse, strumenti, utensili od oggetti di uso in genere”. La distinzione fra invenzioni e modelli non è realtà agevole. Certo i modelli sono circoscritti all'ambito della meccanica, mentre non sono concepibili nel settore della chimica o della biotecnologia. I modelli di utilità coprono tipicamente la valenza tecnica del design, e si contrappongono ai modelli e disegni industriali. La disciplina dei modelli industriali ricalca quella sulle innovazioni. La minore importanza tecnologica del trovato giustifica una durata del brevetto decennale, anziché ventennale. III. I modelli e disegni industriali L'ordinamento europeo e nazionale tutelano anche l'innovazione del design del prodotto (inteso dei disegni e colori) indipendentemente dalla sua valenza tecnica. È proteggibile come disegno o modello “l'aspetto dell'intero prodotto o di una sua parte quale risulta, in particolare, dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori e della forma”. La tutela dei disegni e modelli è data principalmente dalla registrazione, che può avvenire in sede nazionale e in sede europea. La protezione derivante dalla registrazione per il considerevole periodo di 25 anni. Disegni e modelli devono rappresentare il requisito della novità, e cioè differenziarsi dai modelli anteriormente accessibili al pubblico. Disegni e modelli devono inoltre presentare “carattere individuale”. Il carattere individuale del disegno o modello ricorre precisamente quando “l'impressione generale che suscita nell'utilizzatore informato differisce dall'impressione generale suscitata in tale utilizzatore” dai disegni e modelli divulgati anteriormente. L'originalità del disegno o modello dipende dalla percezione del destinatario acquirente (utilizzatore), non dallo sforzo inventivo del designer. I diritti sul disegno e modello si estendono “a qualunque disegno o modello che non produca nell'utilizzatore informato un'impressione generale diversa”. Il diritto sul disegno e modello si estende agli atti di fabbricazione, commercio ed uso, ferma restando l'applicazione del principio di esaurimento. Anche la validità della registrazione del disegno e modello può essere contestata attraverso l'esercizio di azioni di nullità. L'esercizio dell'azione segue regole tendenzialmente corrispondenti a quelle dei marchi europeo e nazionale. 47 SEZIONE NONA: LA NOZIONE DI SOCIETA’ E I PRINCIPI GENERALI 35: ORGANIZZAZIONE PRODUTTIVA: ELEMENTI COSTITUTIVI Le società sono strutture organizzative destinate all’esercizio di un’attività produttiva: organismi di diritto privato con una propria dotazione patrimoniale e un più o meno articolato apparato operativo, per mezzo dei quali viene svolta un’attività economica diretta alla produzione o allo scambio di beni o servizi. Esse nascono come fenomeni associativi, come collettività di persone che si aggregano per trarre un guadagno da un’iniziativa comune, quindi accanto alle imprese individuali, si sviluppano e si affermano le imprese collettive. Le società sono quindi enti che non fanno capo giuridicamente ad una persona fisica, ma in realtà è difficile tracciare una netta separazione tra il fenomeno societario e l’impresa collettiva, infatti oggi sono configurabili società che esercitano un’attività produttiva non imprenditoriale (società tra professionisti intellettuali), o che non svolgono un’attività collettiva perché all’organismo partecipa un unico socio (società unipersonali), ed esistono anche altri enti giuridici diversi dalle società che possono esercitare un’ impresa (associazioni, fondazioni, consorzi). Per questi motivi, la definizione generale del fenomeno societario li considera come organismi di diritto privato destinati all’esercizio di attività genericamente produttive e normalmente imprenditoriali; essi rappresentano ancora oggi le strutture tipicamente e ordinariamente utilizzate per l’esercizio di un’attività di questo tipo. Questo giustifica l’inserimento della relativa disciplina nel diritto dell’impresa: il diritto delle società è il complesso delle norme che regolano la vita e le modalità operative della struttura organizzativa a destinazione produttiva. L’attività svolta in questa forma è naturalmente soggetta alla disciplina generale delle attività produttive e a quella dell’imprenditore commerciale ma è anche necessario definire: le regole di costituzione, funzionamento e scioglimento dell’organismo a cui essa fa capo; le posizioni giuridiche assunte dai soci e dagli eventuali altri finanziatori che vi partecipano. La società non si esaurisce in un mero rapporto obbligatorio tra soggetti ma l’atto costitutivo dà vita ad un centro di interessi unitario, dotato di un patrimonio giuridicamente distinto da quelli personali dei soci e di autonomia soggettiva. Ciò pone la necessità di regolare l’ente sia sul piano interno (diritti, doveri e poteri dei partecipanti, le modalità di formazione degli atti) sia su quello esterno (rappresentanza dell’ente, responsabilità per le obbligazioni assunte in suo nome). A questo proposito, l’ordinamento giuridico definisce una pluralità di modelli organizzativi diversificati, ognuno dotato di regole proprie e tra cui i fondatori possono liberamente scegliere quello più vicino alle proprie esigenze. La società semplice, la società in nome collettivo (s.n.c.) e la società in accomandita per azioni (s.a.p.a.), appartengono alla famiglia delle società di persone che svolgono attività di dimensioni non particolarmente cospicue e partecipati da un numero ridotto di soci. La società per azioni (s.p.a.), la società a responsabilità limitata (s.r.l.) e la società in accomandita per azioni ( s.a.p.a.), formano invece la famiglia di società di capitali, che sono enti più complessi, che svolgono attività di dimensioni variabili e con un numero di soci più o meno ampio. Complessivamente questi sei modelli formano la classe delle c.d. società lucrative, denominate così per il fatto di perseguire uno scopo di lucro, cioè l’obiettivo di realizzare, attraverso l’esercizio dell’attività, un profitto da dividere tra i soci (art. 2247). A questi sei modelli si affiancano quelli delle società cooperative e delle mutue assicuratrici che perseguono uno scopo mutualistico, e le nuove figure della società europea e della società cooperativa europea. 50 viene svolta in nome della società; infatti chi agisce compie i relativi atti rappresentando la società stessa facendo così ricadere su di essa gli effetti giuridici che ne conseguono. Inoltre la società viene iscritta nel registro delle imprese. La spendita del nome sociale comporta, quindi, l’imputazione giuridica dell’attività all’ente come tale. Si parla di società non manifesta, o interna, o occulta, quando il contratto, pur contenendo tutti gli elementi costitutivi dell’art. 2047, prevede che l’esercizio dell’attività avvenga nel nome di uno solo dei soci che apparirebbe come imprenditore individuale. I partecipanti attribuiscono loro la disponibilità di beni strumentali attraverso somministrazione periodica di mezzi finanziari necessari (conferimenti) e si impegnano a concordare ogni decisione (esercizio comune), a suddividere utili e perdite (scopo di lucro), mentre l’attività resta imputabile al solo socio agente. Ci si domanda dunque se un simile patto sia valido e vincolante e quali sarebbero le conseguenze. La questione non si pone quando nell’accordo manca uno degli elementi costitutivi del contratto di società e in particolare quando manca la volontà di esercizio comune dell’attività come ad esempio il caso dell’associazione in partecipazione nelle quali la gestione resta propria ed esclusiva dell’associante e dove le attività rimangono disgiunte dai singoli associati. Il problema invece si pone quando i compartecipi condividono oltre al rischio anche la gestione d’impresa. In questo caso si parla di patto di occultamento invalido. L’art. 2552 mostra come l’ordinamento ammetta la compartecipazione al rischio di un’iniziativa imputata ad un terzo solo se essa non viene estesa al potere decisionale, altrimenti se l’attività fosse soggetta ad un potere di gestione collettivo, deve essere imputata al gruppo. Un patto di questo tipo dà vita ad una società atipica, vietata poiché l’art. 2249 non consente la creazione di società non riconducibili ad uno dei tipi previsti. Tutto questo non esclude che in concreto le parti osservino il patto e che quindi il gruppo operi rimanendo occulto. In questo caso il problema è quello di determinare se delle obbligazioni assunte dalla società risponda solo il prestanome o se la responsabilità si estenda anche al gruppo e quindi ai soci occulti. E’ intuitivo che le controversie non sorgeranno se uno dei compartecipi contesta la validità dell’accordo, ma perché i terzi creditori, rivelata la realtà, cercheranno di aggredire i patrimoni di tutti costoro. La compartecipazione dei soci all’interno della società può assumere gradi e forme diverse. Al livello più alto vi è la diretta attribuzione ai soci stessi del potere di amministrazione, cioè del potere decisionale in ambito della gestione. Questo è un modello proprio delle società di persone in cui tutti i soci sono amministratori. Ad un livello diverso si pone la compartecipazione dei soci nelle società di capitali nelle quali i soci esercitano il proprio potere attraverso il voto in assemblea con il quale nominano i soggetti preposti all’amministrazione dell’ente. Però l’atto costitutivo può escludere o limitare alcuni soci dalla compartecipazione, sottraendo loro o limitando, nelle società di persone, il potere di amministrazione; nelle società di capitali invece può sottrarre il diritto di voto e in particolare il diritto di nomina degli amministratori. Ogni modello che prevede la compartecipazione di più soggetti per l’assunzione di una decisione, deve fare i conti con la possibilità che le persone coinvolte abbiano orientamenti tra loro contrastanti. Quindi occorre fissare, in via preventiva, un criterio per attenuare tali confini. In alcuni tipi societari viene applicata la regola dell’unanimità, dove nessun atto può essere compiuto se non vi sia il consenso di tutti. Questo è il principio che viene attuato nelle società di persone per le modifiche del contratto sociale. Tale principio implica, per il buon funzionamento dell’ente, una perfetta armonia tra i soci e mette ciascuno di essi in condizioni di respingere qualunque scelta non condivisa. Quindi si può dire che tale modello rappresenta il massimo grado di esercizio collettivo dell’attività. Nelle società di capitali, invece, vige la regola maggioritaria, dove la posizione della maggioranza assembleare (calcolata in base alla dimensione delle partecipazioni), prevale sempre su quella della minoranza. Il principio maggioritario consente di superare gli ostacoli ma rimette comunque la minoranza a subire le scelte dei soci più forti. Nelle società che lo adottano, il rapporto tra i partecipanti si sviluppo innescando una dialettica tra maggioranza e minoranza che può risultare utile quando la prima sia capace di esprimere nel modo più efficiente l’interesse di tutti alla 51 massimizzazione del profitto o quando consenta, con il formarsi di volta in volta di maggioranze diverse in base alla proposta migliore, l’adozione di strategie ottimali. Questa però può generare anche clima di tensione e di pregiudizio per la minoranza quando una maggioranza stabile e consolidata abusi del proprio potere recando danni agli altri soci. In questo caso la legge prevede diverse prerogative di carattere difensivo, che variano nel contenuto e a seconda del tipo societario, che vengono accordate alla minoranza. Si tratta di poteri di vigilanza, poteri di attivare rimedi giudiziali di fronte ad atti di mala gestio e il diritto di recedere dalla società in presenza di giusta causa. Inoltre il principio di correttezza e buona fede funge da limite all’arbitrio del socio nell’esercizio dei suoi diritti, cioè egli non può esercitare questi ultimi per il perseguimento di interessi non meritevoli di tutela e che hanno il solo scopo di arrecare danno agli altri partecipanti, esponendosi al rischio che la sua azione risulti nulla e che questi possono chiamarlo a rispondere dei danni provocati. L’attività viene esercitata per mezzo delle unità economiche apportate dai soci, ossia da beni e servizi. Questi sono i c.d. conferimenti che formano il complesso delle risorse iniziali che i fondatori destinano all’esercizio dell’iniziativa economica. Ogni entità utile e suscettibile di valutazione economica può essere oggetto di conferimento come il denaro, la proprietà, il godimento di cose mobili o immobili, i crediti ecc. I conferimenti sono l’elemento essenziale dell’atto costitutivo della società. Infatti non esiste società se non si forma una dotazione iniziale di risorse per l’esercizio dell’attività; inoltre ciascun fondatore deve conferire qualcosa. Questo si deduce non solo dall’art. 2247 ma anche dalla causa del negozio societario e cioè che la partecipazione all’iniziativa economica presuppone necessariamente l’assunzione del rischio, perché altrimenti verrebbe meno la funzione stessa della partecipazione, decretando la nullità di ogni accordo che escluda un socio da qualsiasi partecipazione agli utili o alle perdite. Il conferimento, infatti, rappresenta proprio il valore del rischio: se l’attività sociale infatti si chiude in perdita, il valore di ciò che gli sarà rimborsato con la liquidazione dell’ente sarà inferiore rispetto al valore del suo conferimento. Questa definizione è però messa in crisi dall’attuale possibilità di costituire una s.r.l. con un capitale complessivamente pari a 1€. Le s.r.l. con un simile capitale sono società “senza conferimenti” e quindi senza assunzione iniziale del rischio da parte dei soci, che possono fondare la propria attività solo su risorse reperite esternamente. A fronte del conferimento, il socio acquista la quota di partecipazione che è proporzionale al valore che i contraenti attribuiscono al conferimento stesso. La legge, inoltre, non prescrive che le risorse patrimoniali debbano avere un determinato valore. Fissa solo dei minimi nelle società di capitali (10.000€ nelle s.r.l., 50.000€ nelle s.p.a. e nelle s.a.p.a e dei talvolta dei limiti più elevati a seconda dell’oggetto sociale. Queste però sono le uniche prescrizioni che devono essere osservate, infatti non esiste un principio generale in forza del quale i conferimenti debbano essere di dimensioni adeguate per consentire lo svolgimento dell’attività. Come abbiamo detto i beni conferiti sono destinati in via definitiva all’attività sociale. Quindi l’atto costitutivo impone su di essi un vincolo di destinazione, in forza del quale viene impedito che essi vengano sottratti all’iniziativa economica per tutta la durata della società. Il vincolo di destinazione impone delle regole: 1. a) il socio conferente non può mai chiedere la restituzione del bene. Anche quando gli è concesso di recedere dalla società, egli non può recuperare il bene conferito in proprietà, ma solo una somma di denaro corrispondente al valore attuale della sua partecipazione; allo stesso modo non ha diritto alla riconsegna immediata del bene conferito in godimento, il quale rimane alla società per tutto il periodo per il quale era stato concesso originariamente; b) il socio non è neanche libero di chiedere in qualsiasi momento la liquidazione, cioè non può recuperare il valore dell’investimento se non nelle ipotesi in cui gli è stato concesso il recesso. In questo senso egli con il conferimento vincola, non solo il bene, ma anche il suo 52 valore. Infatti per tutta la vita della società, può essere distribuito ai soci solo l’utile, cioè il maggior valore acquisito dal patrimonio netto rispetto ai conferimenti; c) i soci non possono individualmente servirsi dei beni per fini estranei a quelli della società; d) i beni sono destinati alla garanzia dei creditori sociali, in modo prioritario rispetto ai creditori individuali dei soci. Naturalmente il vincolo di destinazione non implica che i singoli beni conferiti debbano restare nel patrimonio della società per tutta la sua durata: infatti le materie prime potranno essere lavorate e vendute, le cose conferite in proprietà potranno essere cedute a terzi, il denaro verrà speso ecc. Quindi la società può disporre liberamente del proprio patrimonio come ogni altro soggetto. Un concetto collegato ma diverso è il vincolo di indisponibilità del capitale sociale, la cui definizione dipende da quella di capitale. Il capitale sociale (o capitale nominale) è una posta contabile che rappresenta il valore dei conferimenti e che viene indicata nell’atto costitutivo. Esso non va confuso con il patrimonio della società con cui si intende l’insieme degli elementi dell’attivo e del passivo che, concretamente, fanno capo all’ente in un dato momento. Il patrimonio è pertanto un complesso che varia continuamente (ad es. muta quando la società vende un prodotto in quanto questo esce dal suo patrimonio e vi entra il denaro o il credito). Il capitale sociale, invece, è un valore astratto, una posta numerica e ideale che rappresenta semplicemente il valore delle risorse iniziali della società, quindi è un’entità immutabile che può essere modificata solo modificando l’atto costitutivo della società (ad es. quando questa prevedi nuovi conferimenti da nuovi soci o dai vecchi, che incrementano la propria partecipazione – aumento di capitale). Tra le funzioni svolte dal capitale vi è la funzione produttiva, cioè rappresenta quel valore complessivo di risorse che i soci destinano irreversibilmente all’attività. Alla luce di questa funzione ha effetto il vincolo di indisponibilità che prevede che i soci non possano prelevare dal patrimonio della società le somme che eccedono il valore del capitale per distribuirsele. Solo se il patrimonio netto (differenza tra attività e passività) è superiore al capitale, allora può dirsi che l’attività sociale ha prodotto un utile che può essere distribuito; viceversa, se il valore del patrimonio netto coincide con quello del capitale o è addirittura inferiore, allora i risultati dell’attività sono nulli o negativi e l’attivo residuo non può essere distribuito tra i soci, proprio a causa del vincono di indisponibilità. In definitiva, quindi, il vincolo non riguarda specifici beni, ma un valore: infatti la società può assegnare ai soci solo il valore dell’eccedenza tra patrimonio netto e capitale, il che significa che i soci non possono ridurre il valore dell’investimento e quindi il rischio che hanno inizialmente accettato. La definizione dell’art. 2247 enuncia lo scopo negoziale, cioè la causa, dell’atto costitutivo: i soci esercitano l’attività per realizzare un guadagno (lucro oggettivo) da dividersi (lucro soggettivo) partecipando alla sua distribuzione secondo la propria quota di partecipazione. L’eventuale guadagno si definisce utile e, per effetto del vincolo di indisponibilità, rappresenta la sola porzione ideale del patrimonio che può essere distribuita tra i soci. Inoltre, alle società lucrative si affiancano anche le cooperative che perseguono scopi mutualistici. L’obiettivo di questi enti non è quello di realizzare un profitto da assegnare poi ai soci, ma quello di far avere a questi direttamente beni, servizi o occasioni di lavoro più favorevoli rispetto al mercato. La differenza tra società lucrative e mutualistiche emerge dal fatto che nelle prime il socio trae il proprio profitto per il solo fatto di essere socio, con la distribuzione dell’utile, mentre nelle seconde ricava il suo beneficio solo se e nella misura in cui acquisti prodotti e servizi dalla società o lavori per essa. Infine, l’art. 2615-ter consente di costituire ogni tipo di società di persone o di capitali (escluso la società semplice) per scopo consortile (art. 2602) cioè per uno scopo di natura mutualistica, a beneficio delle imprese dei soci. In tutti i casi, la società è una struttura costituita per il perseguimento di uno scopo egoistico. In generale, il criterio che consente di distinguere tra loro i negozi associativi è basato sulla causa, cioè sulla funzione a cui assolve la società progettata dai fondatori. A questa categoria appartengono anche 55 solo i soci accomandatari, mentre invece per quelli accomandanti la responsabilità è circoscritta al conferimento effettuato. Infine, sul piano dell’organizzazione dell’attività, viene lasciata ampia autonomia e le poche regole dettate determinano un modello organizzato “per persone”, cioè che tutti i poteri sono rimessi ai soci e non ad organi designati, nominati o delegati. LA SOCIETÀ IN NOME COLLETTIVO 37: PROFILI FORMALI E PROFILI FINANZIARI Secondo l’art. 2291, nella società in nome collettivo tutti i soci rispondono solidalmente e illimitatamente per le obbligazioni sociali. L’eventuale patto limitativo della responsabilità dei soci viene fatto valere solo nei rapporti interni tra soci e non sarà opponibile ai creditori della società; e tanto basta a differenziare la s.n.c rispetto alla società semplice, in cui viceversa è ammessa l’efficacia anche esterna delle limitazioni di responsabilità, e alla s.a.s, in cui non può mancare che rispondono per le obbligazioni sociali nei limiti del capitale dagli stessi sottoscritto. E’ poi previsto che la s.n.c. agisca sotto una ragione sociale, composta dal nome di uno o più soci con l’indicazione del rapporto sociale (art. 2292), che ha una funzione distintiva-identificativa dell’ente come soggetto di diritto. L’atto costitutivo della s.n.c. deve contenere: a. il cognome, il nome, il domicilio e la cittadinanza dei soci; b. la ragione sociale; c. i soci che hanno l’amministrazione e la rappresentanza della società; d. la sede della società e le eventuali sedi secondarie; e. l’oggetto sociale (cioè il settore in cui opererà); f. I conferimenti di ciascun socio, il valore ad essi attribuito e il metodo di valutazione; g. le prestazioni a cui sono obbligati gli eventuali soci d’opera; h. le norme secondo cui gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite; i. la durata della società. Per quanto riguarda la forma, viene richiesta la stipula per atto pubblico o scrittura privata autenticata (art. 2296), ma questo vale solo ai fini pubblicitari ossia per ottenere l’iscrizione nel registro delle imprese. L’iscrizione costituisce condizione di regolarità ma non di esistenza della società. L’unica conseguenza della mancata iscrizione è l’assoggettamento della s.n.c. alla disciplina della società semplice, cioè la s.n.c. non iscritta gode di minore autonomia patrimoniale propria della società semplice. In questo caso si parla di efficacia normativa dell’iscrizione. Ne consegue che la s.n.c. non iscritta (s.n.c. irregolare) è validamente costituita anche in assenza delle forme richieste ai fini dell’iscrizione. Quindi la s.n.c. può essere costituita indipendentemente dall’esternalizzazione della stipula del contratto di società. Si distingue allora tra s.n.c. irregolare, il cui atto costituivo viene stilato in forma scritta osservando le prescrizioni richieste (ma senza l’iscrizione nel registro), e la s.n.c. di fatto, in cui manca la documentazione dell’atto costitutivo e l’attività societaria viene effettuata per atti concludenti. Nella s.n.c. di fatto manca la scelta del tipo s.n.c. e nel caso in cui questo non venga 56 specificato e l’attività svolta è di tipo commerciale, si ritiene che vadano comunque applicate le norme della s.n.c. in quanto è l’unico tipo compatibile con la società di fatto, poiché per la costituzione degli altri tipi è richiesta la documentazione a pena di nullità. La partecipazione ad una s.n.c. è consentita non solo alle persone fisiche, ma anche alle società di capitali dal momento che sono dotate di personalità giuridica, per le quali è consentito che, previa autorizzazione dell’assemblea, assumano partecipazioni in altre imprese che comportano una responsabilità illimitata per le obbligazioni di queste. I soci sono tenuti ad indicare nell’atto costitutivo il valore attribuito ai conferimenti ed il modo di valutazione. Il valore dei conferimenti potrà essere concordato liberamente tra i soci all’atto della stipula dell’atto costitutivo o in sede di aumento del capitale. La somma del valore dei conferimenti dà luogo al capitale della società, per il quale non è prevista alcuna soglia minima. Per quanto riguarda l’entità conferibili, possono essere appunto conferiti tutti i beni e i servizi, ossia possono formare oggetto di conferimento qualsiasi entità suscettibile di valutazione economica, e quindi, oltre ai conferimenti in denaro, beni in natura, crediti, opera e servizi, anche quelli che hanno ad oggetto un obbligo di non fare o beni intangibili purché siano dotati di utilità per la società. Riguardo l’importo di ciascun conferimento, i soci possono fissarlo in piena autonomia. Tuttavia se l’entità dei conferimenti dovuti da ciascuno non risulta determinata, scatta una duplice presunzione: sul piano del quantum complessivo, i soci devono ritenersi obbligati a conferire quanto necessario per il conseguimento dell’oggetto sociale; sul piano delle parti interne si presume che esse siano uguali per tutti i soci. Come abbiamo detto, l’insieme dei conferimenti dei soci contribuisce a formare il capitale sociale della s.n.c. e i soci sono liberi di fissare la cifra del capitale sociale nominale e di valorizzare i beni diversi dal denaro nella misura tra loro concordata. La determinazione dell’importo del capitale in cifra monetaria è richiesta dall’art. 2295 che prescrive l’indicazione nell’atto costitutivo del valore attribuito ai conferimenti. Perciò deve ritenersi che nella s.n.c. il capitale è l’elemento essenziale dell’atto costitutivo, a cui alcune disposizioni assegnano una funzione vincolistica ed organizzativa. a) Sul piano vincolistico, nella s.n.c. una prima disciplina di tutela del capitale si ritrova nel divieto di restituire ai soci i conferimenti o di distribuire somme attinte dal patrimonio sociale, se non nella misura in cui vi sia eccedenza del patrimonio netto rispetto all’importo del capitale indicato nell’atto costitutivo. - Data la minore autonomia patrimoniale attribuita alla s.n.c. è previsto che la decisione di riduzione del capitale non è immediatamente efficace, ma lo diventa decorsi tre mesi dal giorno dell’iscrizione della società nel registro delle imprese. Nello stesso termine di tre mesi i creditori della società anteriori all’iscrizione che ritengano di subire un pregiudizio dall’esecuzione della riduzione, possono fare opposizione dinanzi al tribunale che può disporre che essa possa comunque avvenire, salva un’idonea garanzia da parte della società. Questo ha l’obiettivo di tutelare i creditori delle società di persone di tipo commerciale da riduzioni facoltative del capitale, effettuate in ragione di un’esuberanza del capitale rispetto al perseguimento dell’oggetto sociale, ma pregiudizievoli per i creditori. - Inoltre è vietato distribuire somme tra i soci se non per utili realmente conseguiti, che riflette il principio del divieto di distribuzione di utili fittizi (somme non corrispondenti ad un’eccedenza tra patrimonio netto e capitale sociale). La s.n.c. può quindi richiedere la restituzione degli utili fittizi eventualmente distribuiti. Da queste regole si ricava un obbligo a carico degli amministratori di conservazione del capitale. 57 E’ anche possibile decidere l’aumento del capitale, ad es. per far entrare un nuovo socio che apporterà nuovi conferimenti. Dunque, tutte le operazioni che incidono sul capitale vanno considerate come modifiche dell’atto costitutivo e quindi devono essere decise dai soci all’unanimità. b) Sul piano organizzativo invece, va ricordata la funzione del capitale di attribuire importanza alla partecipazione al capitale in quanto in base ad essa si misura la maggioranza per determinate decisioni. Nelle s.n.c. l’atto costitutivo può anche indicare espressamente le norme secondo cui gli utili devono essere ripartiti e la quota di ciascun socio negli utili e nelle perdite. Se la parte di ciascuno negli utili coincide con la quota di partecipazione al capitale, allora è possibile alterare tale simmetria tra conferimenti e partecipazione agli utili (ad es. un socio potrà partecipare al 30% del capitale e solo al 20% degli utili; così come il socio d’opera potrà avere il 10% degli utili anche se il suo conferimento non venga imputato a capitale). Nei rari casi in cui la partecipazione agli utili del socio d’opera non è determinata nell’atto costitutivo ex ante, è previsto un intervento del tribunale che dovrà giudicare secondo equità. Nel rapporto tra utili e perdite vi è un unico limite all’autonomia dell’atto costitutivo, in quanto l’art. 2265 dispone che è nullo il patto con cui uno o più soci sono esclusi da ogni partecipazioni agli utili e alle perdite. Si tratta del c.d. divieto del patto leonino, che mira ad evitare che si possano creare situazioni di particolare favore o svantaggio nei rapporti tra un socio e gli altri. La quota di partecipazione agli utili e alle perdite assume rilevanza in sede di liquidazione della società. La parte di ciascuno negli utili funge da criterio per la distribuzione del surplus di attivo al netto del rimborso dei conferimenti. Per converso, la parte di ciascuno nelle perdite determina la distribuzione tra i soci del peso dei debiti sociali, una volta che i fondi della s.n.c. si rilevano insufficienti. Infine il diritto del socio alla percezione degli utili sorge automaticamente, una volta che viene approvato il bilancio da cui risultano gli utili stessi. L’autonomia patrimoniale prevede che, a presidio della stessa rispetto alle potenziali aggressioni di coloro che abbiano di mira il patrimonio personale dei soci, i creditori particolari non possono chiedere la liquidazione della quota del socio loro debitore finché dura la società. I creditori particolari possono tutelarsi aggredendo solo gli utili che spettano al socio debitore e possono porre in essere atti conservativi sulla quota che spetta a questi in occasione della liquidazione della società. E’ invece sottratta loro la facoltà di provocare lo scioglimento del singolo rapporto sociale anche quando offrono la prova che gli altri beni del socio sono insufficienti alla soddisfazione del credito. Il termine di durata della società si traduce in un limite temporale ai poteri dei creditori particolari, tenuti ad attendere lo scioglimento della stessa per vedere incrementare le chances di soddisfazione. Ecco perché in capo agli stessi è riconosciuta la legittimazione ad opporsi alla decisione di proroga della società (proroga espressa) entro 3 mesi dall’iscrizione nel registro delle imprese; se l’opposizione è accolta, la società deve liquidare la quota del socio debitore dell’opponente. In caso di proroga tacita, poi, il creditore particolare del socio può chiedere in ogni momento la liquidazione della quota del suo debitore. 60 Per la revoca negoziale viene dettata una regola differenziata a seconda se gli amministratori sono nominati nell’atto costitutivo o con atto separato. Nel primo caso l’art. 2259, co.1, stabilisce che la revoca ha effetto solo se sussiste una giusta causa, cioè quando si verifica un fatto di inadempimento degli obblighi abbastanza gravi da legittimare la revoca dell’amministratore; e deve inoltre richiedere l’unanimità dei consensi (salvo che la società abbia introdotto una clausola di maggioranza). La revoca priva il socio solo del potere di amministrazione, ma non alla sua partecipazione sociale. Per gli amministratori nominati con atto separato, invece, la revoca è ammessa secondo quanto disposto dal mandato (art. 2259, co.2). Di conseguenza è efficace anche in assenza di giusta causa anche se questo espone la società al rischio di dover risarcire il danno. L’art. 2259, co.3, infine, riconosce in capo a ciascun socio il diritto di richiedere la revoca giudiziale per giusta causa. Gli amministratori hanno il compito di gestire l’impresa sociale. A questo fine essi hanno il potere di compiere tutti gli atti necessari o opportuni per il conseguimento dell’oggetto sociale come predisporre l’apparato strumentale, decidere le strategie imprenditoriali, organizzare le modalità di svolgimento dell’attività, operare secondo i criteri di economicità per ridurre i costi e massimizzare i profitti. Inoltre agli amministratori spettano compiti più specifici come tenere la contabilità, redigere il bilancio d’esercizio, iscrivere la società nel registro delle imprese mediante deposito dell’atto costitutivo presso il relativo ufficio. Inoltre sugli amministratori grava anche un obbligo di generale vigilanza sull’operato degli altri e di intervento quando si riscontri il pericolo del compimento di operazioni dannose. L’art. 2260 prevede che i diritti e gli obblighi degli amministratori siano regolati dalle norme sul mandato. L’obbligo degli amministratori di gestire l’attività è un’obbligazione di mezzi; infatti essi sono tenuti a svolgere le loro funzioni con la diligenza del buon padre di famiglia e non rispondono, in caso di andamento negativo, quando hanno adempiuto ai loro doveri; lo fanno solo quando non abbiano uniformato i loro comportamenti agli standard di diligenza imposti. Ne consegue che nelle scelte gestorie gli amministratori godono di un notevole margine di discrezionalità a patto che rispettino i canoni di prudenza e ragionevolezza che devono guidare le loro scelte per una sana e corretta gestione imprenditoriale della società. Per quanto riguarda la loro responsabilità, il codice si limita a sancire che “gli amministratori sono solidalmente responsabili verso la società per l’adempimento degli obblighi ad essi imposti dalla legge e dal contratto sociale” e che “la responsabilità non si estende a quelli che dimostrino di essere esenti da colpa” (prova di non avere colpa – art. 2260). Si tratta di un’azione di risarcimento danni. Uno dei problemi del diritto delle s.n.c. riguarda la possibilità di investire del ruolo di amministratore soggetti estranei alla compagine sociale. La questione prevede tre posizioni principali: quella dell’inammissibilità, fondata sul principio che il potere di amministrazione spetta solo ai soci a responsabilità illimitata; quella secondo cui è possibile conferire ad un soggetto esterno la direzione dell’impresa anche se questo non sarà un vero e proprio amministratore ma un institore; e quella dell’intera ammissibilità dell’amministratore non socio. Per determinare la posizione dei soci esclusi dall’amministrazione, va innanzitutto sottolineato che essi partecipano, così come gli amministratori, all’attività sociale, essendo coinvolti nelle decisioni che il codice rimette a tutti i soci. L’art. 2261 riconosce ai soci che non partecipano all’amministrazione dei poteri di controllo che consistono nel diritto di: 1) avere dagli amministratori notizia dello svolgimento degli affari sociali (diritto di informazione); 2) consultare i documenti relativi all’amministrazione (diritto di ispezione); 3) ottenere il rendiconto quando gli affari sono stati compiuti (diritto al rendiconto). Nelle prime due ipotesi si consente solo al socio di procurarsi le informazioni ed i documenti che reputa necessari per valutare sia l’andamento generale della società che quello delle specifiche 61 operazioni alle quali sia particolarmente interessato. Il principio all’accesso ai documenti, però, non può ritenersi esteso fino a comprendere l’ispezione di cose o luoghi. Il diritto al rendiconto è ancorato al termine di ogni anno o a diverso termine previsto nell’atto costitutivo. Il rendiconto va inteso come prospetto analitico delle operazioni realizzate (con espressa indicazione delle entrate e delle uscite) e andrà approntato solo su richiesta dei soci non amministratori. Tali diritti possono essere esercitati anche dopo la perdita della qualità di socio (dal socio receduto o escluso o dagli eredi del socio deceduto) nei limiti in cui le informazioni richieste riguardino affari sociali dal cui esito dipende la responsabilità dell’ex socio o la determinazione del valore della sua quota. Uno dei tratti tipi delle s.n.c. è l’assenza di una disciplina generale delle decisioni dei soci, in quanto in essa si riscontra solo la disciplina di singole decisioni rimesse ad essi. Tali decisioni prevedono due variabili già accennate: l’unanimità e la maggioranza. a) L’unanimità trova applicazione per le modifiche dell’atto costitutivo. Vi rientrano sia le modifiche soggettive che quelle oggettive, fatte salve le decisioni di trasformazione in società di capitali, fusione e scissione per le quali basta la maggioranza. b) Il principio di maggioranza, viene calcolato in base a tre diversi criteri: - Per la decisione sull’opposizione in regime di amministrazione disgiunta, così come per la decisione di trasformazione in società di capitale, fusione e scissione, i soci sono chiamati a decidere a maggioranza in base alla partecipazione agli utili (per quote di interesse). - Per la proposta di concordato a maggioranza in base alla partecipazione al capitale, la quale non necessariamente coincide con la partecipazione agli utili. - Per la decisione di esclusione del socio a maggioranza calcolata per teste (in base al numero dei soci). Sono poi contemplate decisioni senza indicazione del numero di consensi richiesti, rispetto alle quali la dottrina ha formulato diverse ipotesi. Una prima interpretazione è quello di ricercare nel sistema delle società di persone un principio generale valido per tutte le decisioni non regolate anche se si è riconosciuto da un lato il principio della regola unanimistica e dall’altro quello del criterio maggioritario. Una seconda interpretazione, invece, prende atto della convivenza nel sistema delle società di persone di questi due diversi principi applicabili a seconda del tipo di decisione. Così si deve distinguere tra decisioni inerenti all’attività gestorie che vanno assimilate al principio della maggioranza, e decisioni inerenti alla struttura organizzativa assimilabili all’unanimità. Nella prima categoria rientrano le decisioni di nomina e revoca degli amministratori nominati con atto separato e l’approvazione del bilancio da cui scatta il diritto agli utili; nella seconda categoria, invece, rientrano alcune decisioni che, sono assimilabili alle modifiche contrattuali e come tali sono assoggettate all’unanimità. Esse si riferiscono al consenso all’esercizio di attività concorrenziali da parte del socio. Inoltre, il codice non detta nessuna regola riguardo il procedimento da applicare alle decisioni dei soci di s.n.c. né per quelle degli amministratori. La mancanza di qualsiasi prescrizione ha alimentato la convinzione che le decisioni fossero del tutto svincolate da regole formali. Tuttavia la dottrina ha cercato di colmare questa lacuna per l’esigenza di articolare il procedimento decisionale 62 nel rispetto delle fasi tipiche del procedimento collegiale (convocazione, riunione, discussione, votazione e verbalizzazione). Anche con riferimento alla disciplina applicabile all’impugnativa della decisione viziata, non si riscontrano norme, ad eccezione di quella sull’esclusione. Questo infatti è l’unico caso in cui il legislatore applica una forma di impugnativa nella decisione viziata, individuando il soggetto legittimato (socio escluso), il termine (trenta giorni dalla comunicazione) ed un rimedio cautelare (potere del tribunale di sospendere l’esecuzione della decisione in pendenza del giudizio). Le modifiche dell’atto costitutivo vanno assunte all’unanimità dei soci (art. 2252). L’ambito di applicazione di questa regola ricomprende sia le modifiche avente ad oggetto elementi oggettivi che quelle relative ad elementi soggettivi. Possono rientrare nella categoria delle modifiche degli elementi tipici dell’atto costitutivo: le persone dei soci, la ragione sociale, gli amministratori o i rappresentanti, la sede sociale ecc. Nei rapporti tra soci le modifiche sono immediatamente efficaci, ma divengono opponibili ai terzi solo dopo l’iscrizione nel registro delle imprese, da effettuarsi a cura degli amministratori entro trenta giorni. Le modifiche non iscritte possono essere opposte solo fornendo la prova che i terzi ne fossero comunque a conoscenza. Il principio dell’unanimità, inoltre, tutela l’interesse dei soci di conservare nel tempo l’assetto originario dell’atto, ma è consentito derogare a tale principio solo se vi sono dei modelli alternativi che tutelano tale interesse. Tipo strumento alternativo è l’inserimento di una clausola di maggioranza, da cui scaturisce una dialettica tra soci di maggioranza e di minoranza molto simile a quella che caratterizza le s.r.l. Diversamente da quanto accade per le modifiche oggettive, la deroga non si realizza attraverso una clausola di maggioranza, ma attraverso la clausola di libera trasferibilità delle partecipazioni sociali, che rimuove ogni vincolo alla circolazione. 39: LO SCIOGLIMENTO DEL SINGOLO RAPPORTO SOCIALE. LO SCIOGLIMENTO DELLA SOCIETA’ Le norme in tema di scioglimento del singolo rapporto sociale (art. 2284-2290) governano il legame tra vicende personali dei soci e vincolo societario. Le singole cause di scioglimento (morte, recesso ed esclusione) si ricollegano ad eventi personali o patrimoniali che colpiscono la persona del socio o vanno ad incidere sulle relazioni interpersonali tra i soci; sono quindi eventi che impediscono, limitano o rendono sgradito il protrarsi della partecipazione di un determinato socio in società. Questi eventi non colpiscono direttamente l’organizzazione societaria salvo che l’attività sociale prosegue con gli altri soci. Possono influire qualora la società si ritrovi in stato di unipersonalità protratta per oltre sei mesi; in questo caso le cause di scioglimento, collegate all’inerzia dell’unico socio rimasto, comporta lo scioglimento della società. Fonte dello scioglimento del singolo socio può essere la sua volontà (recesso), o degli altri soci (esclusione facoltativa), per una previsione legale (esclusione di diritto) o un evento naturale (morte). Spesso le tensioni sociali tra soci hanno origine non tanto dalla gestione dell’impresa societaria, bensì da conflitti interpersonali di carattere coniugale o familiari. Infine si può notare che nella s.n.c. lo scioglimento del singolo rapporto sociale non tronca immediatamente ogni legame tra socio e società, infatti l’ex socio o i suoi eredi dovranno attendere un limite (fino a sei mesi) per vedersi liquidato il valore della quota; continueranno a rispondere illimitatamente alle obbligazioni sorte fino alla data dello scioglimento del rapporto; potranno essere dichiarati falliti entro un anno dallo scioglimento del rapporto e il nome del socio receduto o defunto potrà essere inserito nella ragione sociale, con il suo consenso o con quello degli eredi. 65 diritto di partecipazione agli utili, quindi si tratta di una sanzione molto penalizzante, sproporzionata rispetto all’infrazione addebitata al socio/amministratore. b) Il secondo gruppo di ipotesi comprende l’interdizione, inabilitazione o condanna del socio. • Le ipotesi di interdizione e inabilitazione assumono rilevanza in quanto incidono sulla composizione della base sociale. Infatti, di regola, tali eventi comportano il subingresso di un tutore nell’esercizio dei diritti sociali. Tale tipologia di evento è ritenuta insufficiente a porre gli altri soci nella condizione di decidere l’estromissione del socio interessato, e lo stesso vale nel caso in cui venga nominato un amministratore di sostegno. • Per contro, la condanna penale di un socio rischia di screditare la società, pregiudicando la sua immagine commerciale. Per condanna non si considerano sufficienti a considerare l’esclusione del socio le misure cautelari penali (sequestro penale o antimafia) che colpiscono il suo patrimonio, anche quando prevedono la nomina di un custode o un amministratore giudiziario della quota. c) Il terzo gruppo, invece, riguarda particolari tipologie di conferimento, sia di beni in godimento che d’opera i quali richiedono che per un determinato arco di tempo permangono determinate condizioni tali da assicurare alla società l’acquisizione dell’utilità promessa dal socio (ad es. se il socio si è impegnato a prestare una determinata opera per dieci anni dal suo ingresso in società, e dopo otto anni diviene fisicamente inabile a svolgere l’opera promessa, egli viene a trovarsi in una situazione di parziale inadempimento rispetto alla società). d) L’atto costitutivo della società può anche indicare ulteriori ipotesi di esclusione che si affiancano a quelle dell’art. 2286 mentre è preclusa la clausola che consente di escludere il socio senza alcuna motivazione, a discrezione assoluta degli altri soci. Sul piano procedimentale l’esclusione va decisa, come abbiamo detto, dai soci a maggioranza, definita come maggioranza per teste, nel senso che ciascun socio può esprimere un singolo voto, indipendentemente dalla partecipazione al capitale o agli utili; infatti sono ammessi al voto anche i soci “non di capitale” cioè quelli che partecipano agli utili e alle perdite senza aver conferito denaro o altri beni. Per la complessità della vicenda, la legge prevede che l’efficacia dell’esclusione decorre dopo trenta giorni dalla comunicazione della stessa al socio escluso, al quale viene offerta la possibilità di opporsi alla decisione stessa, sottoponendola allo scrutinio del giudice che verifica i presupposti fissati dall’art. 2286. Per il socio escluso vi è l’onere di agire tempestivamente per chiedere che venga sospesa l’efficacia della decisione in attesa che si concluda il giudizio di merito sulla validità dell’esclusione. Se viene accolta tale opposizione del socio, egli ha il diritto di essere reintegrato nella società e quindi parteciperà ai risultati positivi e negativi prodotti dalla società. Qualora, invece, la società si componga solo di due soci, non potendosi formare una maggioranza per teste, si concede a ciascuno dei soci la facoltà di richiedere direttamente al tribunale l’esclusione dell’altro. In questo caso l’esclusione acquista efficacia solo dopo che il tribunale si sia pronunciato al riguardo, ferma restando la possibilità però di richiedere un provvedimento di urgenza che assicuri provvisoriamente gli effetti della decisione, conferendo efficacia anticipata all’esclusione. Qualora il socio che richiede l’esclusione non ottenga il provvedimento d’urgenza, l’altro conserverà la qualità di socio, rendendo così estremamente conflittuale l’attività sociale. L’esclusione di diritto, invece, sussiste in due ipotesi: quando il socio venga dichiarato fallito perché titolare di un’impresa individuale o perché illimitatamente responsabile di un’altra società; e quando il creditore particolare del socio abbia ottenuto la liquidazione della quota del socio stesso. 66 In questi casi l’esclusione non è legata ad una decisione degli altri soci ma ad una valutazione effettuata direttamente dal legislatore rispetto ai quali ai soci è sottratta ogni discrezionalità. La perdita della qualità di socio nella s.n.c. comporta inoltre la perdita automatica della qualità di amministratore. L’esclusione di diritto è dettata a tutela di interessi esterni alla società (creditori del socio) e gode di piena autonomia, la cui disciplina è immodificabile dall’atto costitutivo. Regola comune a tutte le ipotesi di scioglimento del singolo rapporto sociale è quella dell’obbligo della società di liquidare in denaro la quota del socio. Il legislatore concede alla società un termine di sei mesi per provvedere al pagamento (tre in caso di esclusione di diritto). Resta però la possibilità che i soci superstiti preferiscano sciogliere anticipatamente la società e in questo caso il socio receduto o escluso, o gli eredi del socio defunto, dovranno attendere per il pagamento i tempi della liquidazione della società. Dopo il decorso di sei mesi il diritto può dirsi perfezionato. Là dove la società non rispetti tale termine semestrale, l’inadempienza esporrà la società ad azioni esecutive e gli amministratori a responsabilità. Situazione diversa si ha se la società si compone di due soli soci. In questo caso se la società permane per oltre sei mesi in stato di unipersonalità, si procede allo scioglimento. Inoltre non è mai consentito chiedere la liquidazione della quota agli altri soci illimitatamente responsabili in quanto la loro responsabilità opera solo nei confronti dei terzi. La domanda andrà indirizzata sempre ed esclusivamente alla società, anche quando questa sia rimasta unipersonale. L’art. 2289 identifica il diritto dell’ex socio ad una somma di denaro che rappresenti il valore della quota, quindi non fa riferimento alla restituzione del bene conferito in proprietà o in godimento. Per quanto riguarda i criteri di determinazione del valore della quota, lo stesso art. stabilisce che debba avvenire sulla base della situazione patrimoniale della società al momento dello scioglimento e che se vi sono operazioni in corso, il socio o i suoi eredi partecipano agli utili e alle perdite inerenti a tali operazioni. La data di riferimento per il calcolo è quella dello scioglimento, mentre il pagamento può avvenire entro sei mesi, decorsi i quali scatta l’obbligo di corrispondere gli interessi legali. Una volta liquidata la quota all’ex socio, il capitale della s.n.c. andrà corrispondentemente ridotto, mentre per quanto riguarda la quota di partecipazione agli utili e alle perdite dell’ex socio, si accresce proporzionalmente a quella degli altri soci. Lo scioglimento della s.n.c., invece, si ha in diversi casi: decorso del termine; volontà di tutti i soci; conseguimento dell’oggetto sociale o sopravvenuta impossibilità di conseguirlo; quando viene a mancare la pluralità dei soci, se entro sei mesi non è ricostituita; provvedimento dell’autorità governativa nei casi previsti dalla legge; dichiarazione di fallimento; altre cause previste dal contratto sociale. 1) La prima ipotesi di scioglimento, per decorso del temine, è automatica e si ricollega alla durata della società che costituisce uno degli elementi tipici dell’atto costitutivo della s.n.c. Nei casi diversi dal decorso del termine, si ha scioglimento anticipato, in ragione di un evento sopravvenuto che determina l’apertura della liquidazione. 2) La prima ipotesi è la volontà di tutti i soci di anticipare lo scioglimento rispetto al termine fissato nell’atto costitutivo; tale decisione è necessaria per porre in liquidazione del società a tempo indeterminato o la cui durata è decorsa tacitamente. 3) La seconda ipotesi comprende due eventi: il conseguimento dell’oggetto sociale che presuppone un tipo di attività circoscritta (ad es. la società che ha per oggetto la costruzione e la vendita di un centro commerciale); e l’impossibilità di conseguimento che può essere vista sia come impossibilità oggettiva (talvolta causata dall’illiceità sopravvenuta dell’attività) che come impossibilità soggettiva, 67 dovuta o al venir meno di una partecipazione essenziale o all’incrinarsi dei rapporti tra i soci. In questo caso di parla di insanabile dissidio nelle società di persone, in grado di condurre allo scioglimento della società, a meno che non si escluda il socio opponente che abbia un atteggiamento ostruzionistico. 4) Infine, come abbiamo detto, la società può sciogliersi per sopravvenuta unipersonalità, che si verifica per lo più nelle società di soli due soci, in caso di morte o recesso di uno di essi. Il verificarsi di una causa di scioglimento determina automaticamente l’ingresso della s.n.c. in stato di liquidazione. L’attività residua deve essere preordinata a liquidare il patrimonio sociale, a pagare i creditori della società e a ripartire l’eventuale residuo attivo tra i soci. Solo dopo il compimento di tali operazioni si potrà procedere alla cancellazione della s.n.c. dal registro delle imprese ed alla conseguente estinzione. Con l’entrata in stato di liquidazione, però, non viene meno l’organizzazione societaria in quanto questa cessa solo con la successiva cancellazione dal registro delle imprese. In questo caso potrebbe essere ammessa la revoca della liquidazione, purché adottata con il consenso di tutti i soci. Lo stato di liquidazione prevede anche una limitazione dei poteri degli amministratori, che scatta al momento dello scioglimento della società. Da questo momento essi conservano il potere di amministrare, ma limitatamente agli affari urgenti, e fino a che siano presi i provvedimenti necessari per la liquidazione. Agli amministratori si applica il divieto di nuove operazioni ossia di evitare che possa perseguirsi l’attività produttiva in fase di liquidazione come se lo scioglimento non si fosse verificato. Tale norma non va intesa però in senso rigido in quanto si ammettono operazioni che mirano esclusivamente a salvaguardare il valore del patrimonio. La riduzione dei poteri e la correlata responsabilità spingono gli amministratori ad avviare in modo tempestivo il procedimento formale di liquidazione, che si articola nella nomina dei liquidatori, passaggi di consegne tra questi e gli amministratori, pagamento delle passività, riparto delle attività tra i soci e infine la cancellazione della s.n.c. dal registro delle imprese. Le modalità di liquidazione possono essere indicate nell’atto costitutivo ma in mancanza, i soci possono adottare una decisione ad hoc sulla base del principio dell’unanimità. Se l’atto costitutivo non dispone nulla in merito alla liquidazione del patrimonio ed i soci non trovano un accordo al riguardo, si aprirà allora il processo di liquidazione previsto dal codice. a) In primo luogo occorrerà nominare, sempre all’unanimità, uno o più liquidatori. b) Essi succedono agli amministratori della società nella gestione del patrimonio e dell’attività sociale. La legge impone agli amministratori l’obbligo di collaborare con i liquidatori fornendo loro beni e documenti sociali e presentando il conto della gestione per il periodo successivo all’ultimo bilancio. Ai liquidatori è fatto obbligo di prendere in consegna i beni e i documenti sociali e di redigere, insieme agli amministratori, l’inventario dal quale risulta lo stato attivo e passivo del patrimonio sociale. Essi devono sottoscrivere congiuntamente l’inventario che determina il subingresso dei liquidatori nella gestione della società. c)Gli obblighi e le responsabilità dei liquidatori sono gli stessi degli amministratori. I liquidatori, sia se nominati dai soci o dal tribunale, possono essere revocati per volontà di tutti i soci e dal tribunale per giusta causa su richiesta di uno o più soci. Sul piano dei poteri, ai liquidatori è consentito il compimento degli atti necessari per la liquidazione, ossia quegli atti che consentono di trasformare in denaro il patrimonio della società. I liquidatori hanno poi la rappresentanza della società, sia sostanziale che giudiziale a tutela del patrimonio della società nei confronti dei terzi. Allo stesso tempo i liquidatori non possono prescindere da tali poteri per difendere la società dalle eventuali aggressioni dei creditori sociali. In capo ai liquidatori sorge inoltre un duplice divieto, ossia quello di 70 Una volta che si realizzi una violazione del divieto di immistione, si producono conseguenze sia in termini negoziali che sul principio della responsabilità limitata e comporta la possibilità dell’esclusione dell’accomandante. Per quanto riguarda gli effetti sugli atti gestori, se essi sono stati compiuti senza procura, non impegnano la società, ma comportano una sanzione per l’accomandante che tutela sia la controparte che tutti i terzi. Inoltre, la violazione del divieto di immistione comporta anche l’assunzione di responsabilità illimitata per tutte le obbligazioni sociali (art. 2320, co.1). Lo stesso comma stabilisce che il socio può essere escluso a norma dell’art. 2286, infatti la violazione rappresenta una grave inadempienza che quindi legittima l’esclusione. Ciò però deve avvenire con il pieno consenso dei soci accomandatari. Per quanto riguarda le cause di scioglimento della s.a.s. a quelle comuni alla s.n.c. si aggiunge quella rappresentata dal venir meno di una delle due categorie di soci. Quindi anche se la s.a.s. conserva una pluralità si soci, ma questi appartengono tutti alla stessa categoria, la società non può proseguire per via dell’essenzialità di entrambe le categorie. C’è da dire però che lo scioglimento non opera automaticamente, ma l’art. 2323 concede un termine di tolleranza di sei mesi nei quali è consentito ricostituire le due posizioni. In particolare, se viene meno la categoria degli accomandatari, la società può rimanere operativa per i sei mesi di tolleranza mediante la nomina di un amministratore provvisorio che è legittimato a compiere atti di ordinaria amministrazione ma che però non assume la qualifica di socio accomandatario. La s.a.s. irregolare ricorre nel caso di mancata iscrizione dell’atto costitutivo nel competente registro delle imprese. In questo caso, e fino a quando non avvenga l’iscrizione tardiva per regolarizzare la società, questa può godere solo di autonomia patrimoniale. La qualità di accomandante rimane comunque anche in questo caso opponibile ai creditori; tuttavia, l’art. 2317, co. 2, accentua le limitazioni alla partecipazione degli accomandati all’attività gestoria. A questi ultimi, infatti, è preclusa anche la possibilità di operare come procuratori per i singoli affari, pena la responsabilità illimitata per tutte le obbligazioni sociali. Di conseguenza per conservare la responsabilità limitata, il socio accomandante dovrà astenersi da tali atti. In difetto di un’adeguata pubblicità della struttura societaria, non è garantita ai terzi la possibilità di verificare a priori la posizione e il ruolo assunto da ciascun socio agente e, pertanto, il loro affidamento viene tutelato con il sorgere di un vincolo non solo a carico della società, ma anche a carico dell’agente stesso. 41: SOCETA’ SEMPLICE La società semplice rappresenta l’unico tipo di società non commerciale, cioè che essa esercita solo un tipo di attività d’impresa e consortile. Ad essa è consentito esclusivamente l’esercizio in comune di attività d’impresa agricola (art. 2249), professionali o di mero godimento nei casi eccezionali previsti dalla legge. La tecnica legislativa dei rinvii rende la società semplice il prototipo normativo delle società di persone, quindi la costruzione di società semplici solo per l’esercizio di attività agricola gli ha conferito scarsa diffusione. Tale situazione è rimasta immutata anche dopo le recenti modifiche legislative che hanno consentito di sfruttare la società semplice anche per attività non agricola. La disciplina della costituzione di una s.s. è improntata su una massima libertà formale, infatti il contratto non è soggetto a forme speciali, salvo quelle richieste dalla natura dei beni conferiti (art. 2251); l’atto costitutivo può essere anche concluso verbalmente o per fatti concludenti (c.d. società di fatto). 71 Questa semplicità emerge dal fatto che l’art. 2251 omette qualsiasi prescrizione di contenuto dell’atto costitutivo. Infatti non è previsto che il contratto debba menzionare un capitale sociale o i conferimenti e manca anche una norma che prescriva il valore ad essi attribuito e il metodo di valutazione. Anzi, la nozione di capitale sociale è completamente assente nella disciplina della società semplice e la destinazione all’esercizio di un’attività non commerciale la esclude anche dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili e della redazione annuale del bilancio. Comunque sia, il legislatore provvede a colmare l’eventuale mancanza degli elementi essenziali del contratto per effetto di norme suppletive. Inoltre, il codice del 1942 non prevedeva neanche l’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese, ma tale condizione è mutata nel tempo, prima con la riforma del registro delle imprese che ha previsto l’iscrizione delle s.s. in una sezione speciale al solo scopo di certificazione anagrafica e pubblicità, successivamente l’art. 2 del d.lgs. 228/2001 ha riconosciuto efficacia dichiarativa all’iscrizione delle s.s. che esercitano attività agricola. Per quanto riguarda la responsabilità dei soci per le obbligazioni sociali resta fermo il principio proprio delle società di persone secondo cui almeno uno dei soci deve assumere la responsabilità illimitata per le obbligazioni sociali anche se, di regola, tutti i soci sono illimitatamente responsabili (a differenza della s.a.s.), ma tale regola è parzialmente derogabile. Infatti, nella s.s. è possibile che i soci stipulino un accordo finalizzato a limitare la responsabilità di alcuni di essi, che sarà opponibile ai terzi solo se: i soci beneficiari dell’accordo non hanno il potere di rappresentanza e quindi non agiscono in nome e per conto della società e che il patto sia portato a conoscenza dei terzi con mezzi idonei, in quanto, in mancanza, tale limitazione non è opponibile (art. 2267). Ne consegue che i creditori sociali, oltre la garanzia del patrimonio sociale, godono anche della garanzia personale e solidale dei soci che hanno agito in nome e per conto della società, a cui si aggiunge quella degli altri soci per i quali non sussiste alcuna limitazione o esclusione. Vi sono differenze con le s.n.c. e le s.a.s. anche sul piano delle modalità di attuazione della responsabilità. Il beneficio di escussione, opera infatti in termini meno rigidi nelle s.s. in quanto il socio può essere il destinatario diretto dell’azione esecutiva promossa dai creditori sociali e può sottrarsi solo in via di eccezione, indicando i beni societari su cui il creditore può agevolmente soddisfarsi. In mancanza, il socio subisce l’iniziativa esecutiva. Per quanto riguarda invece la posizione dei creditori personali del singolo socio, essi possono colpire, anche in questo caso, gli utili spettanti al socio debitore tramite il pignoramento e procedere al sequestro conservativo della quota spettante allo stesso in sede di liquidazione. Nella s.s. il creditore particolare può chiedere in ogni momento la liquidazione della quota del socio debitore, purché dimostri che gli altri beni sono insufficienti a soddisfare i suoi crediti. La quota deve essere liquidata entro tre mesi dalla domanda, salvo che sia stato deliberato lo scioglimento della società, e il socio debitore è escluso di diritto dalla stessa. Mentre la disciplina della partecipazione del socio agli utili e alle perdite è uguale a quella della s.n.c., l’esonero dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili incide sulla contabilità societaria. Nella s.s. manca un vero e proprio bilancio d’esercizio, tuttavia l’art. 2262 prevede il diritto del socio nella s.s. di percepire la sua parte di utile, nasce con l’approvazione del rendiconto che deve essere redatto dai soci amministratori al termine di ogni anno. Questo documento, che rappresenta i costi e i ricavi dell’attività, è diverso da quello che invece rappresenta lo strumento incaricato a tenere informati i soci non amministratori sull’andamento della società, il quale andrà approntato solo su loro richiesta). Il rendiconto contabile non prevede alcun obbligo di pubblicità e per il solo effetto del principio di buona fede e correttezza, esso deve essere comunicato ai soci in termine utile per consentirne una valutazione e la successiva approvazione a maggioranza (tutti, amministratori e non). Mentre per l’amministrazione della società trova applicazione la stessa disciplina esposta con riferimento alla s.n.c., vi è una disciplina particolare in merito alla rappresentanza della società. La società acquista diritti e assume obblighi per mezzo dei soci che hanno la rappresentanza e sta in giudizio attraverso essi; in mancanza di diversa previsione contrattuale, la rappresentanza spetta a ciascun socio amministratore e si estende a tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale. Diverso dalla s.n.c. appare il regime dell’opponibilità dei limiti originari del potere. 72 Quando l’iscrizione della società è dotata di mera efficacia notiziale i limiti originari saranno sempre opponibili ai terzi e questi hanno a propria tutela la c.d. verifica dei poteri, cioè il diritto di ottenere dal socio con cui contratta i documenti che giustificano il suo potere di rappresentanza. Sono regolati dalla stessa disciplina anche le limitazioni successive e l’estinzione del potere di rappresentanza con la conseguenza che potranno essere opposti solo se verranno portate a conoscenza dei terzi con mezzi idonei. Quando invece l’iscrizione è fornita per legge di efficacia dichiarativa, troverà applicazione la disciplina relativa all’efficacia dell’iscrizione nel registro delle imprese, sia per le limitazioni originarie, che per quelle successive che per l’estinzione del potere, e l’opponibilità sarà sempre condizionata all’iscrizione nel registro delle imprese. 42: LA SOCIETA’ PER AZIONI: FATTISPECIE ECONOMICA E RILEVANZA GIURIDICA La società per azioni (artt. 2325 ss.) è oggi il tipo più importante di società disciplinata dall’ordinamento, sia per il suo diffuso utilizzo da parte di operatori economici per l’attuazione di attività imprenditoriali, sia per la sua rilevanza sul piano economico. Il successo della s.p.a. si deve soprattutto all’efficace “formula negoziale” come efficiente strumento di reperimento e di utilizzo di risorse in vista della produzione d’impresa. In questa prospettiva possono evidenziarsi diversi elementi. a) Innanzitutto, l’idea che rappresenta il cuore della s.p.a. è quela di uno strumento che consente di raccogliere risorse finanziarie, al servizio di un’attività, presso degli investitori di rischio “anonimi”, cioè soggetti interessati a non essere personalmente coinvolti nella gestione dell’iniziativa e nelle responsabilità, che quindi viene affidata a amministratori/ manager diversi dagli investitori che sono incaricati di sfruttare gli investimenti e di permettere agli investitori di ottenere un lucro. Questi ultimi invece mantengono una legittimazione a operare un controllo di merito sugli atti posti in essere con le risorse da essi investite, inteso cioè ad impedire che i fiduciari traggano personale profitto dai mezzi che sono stati loro consegnati per la gestione o che siano negligenti nello svolgimento dell’incarico a loro assegnato. b) In secondo luogo, tale modello organizzativo prevede un meccanismo di assegnazione delle “quote d’interesse” collegato al fatto della contribuzione a una provvista finanziaria “di rischio” e alla misura di tale contribuzione. Nella s.p.a. il titolare dell’iniziativa è colui che ne fornisce il capitale da utilizzare immediatamente nella gestione e che non può essere restituito in caso di esito negativo, ed infatti la contribuzione al rischio identifica questo finanziatore come socio rispetto all’eventuale creditore, cioè che solo a lui competono, oltre che i dividendi, anche poteri di nomina e revoca degli organi sociali e le ulteriori prerogative azionarie. Inoltre la misura dell’apporto di ciascuno serve anche come parametro di distribuzione dei risultati e del potere all’interno della società, concretizzando il c.d. potere plutocratico secondo cui, tra i soci, il potere è strettamente proporzionale alla ricchezza investita e capitalizzata. Questo implica la necessità che si adotti una regola di esatta e rigorosa predeterminazione, oltre che dell’investimento del singolo, anche del rischio d’impresa e quindi di delimitazione della garanzia patrimoniale. Ciò spiega appunto il fatto che la responsabilità del socio è limitata alla quota conferita e, dunque, le società per azioni si dicono caratterizzate dalla c.d. autonomia patrimoniale perfetta. c) In terzo luogo, l’investimento di mezzi finanziari in questo tipo di società è favorita anche dall’opportunità offerta a chi vi contribuisce di operare un disinvestimento anticipato rispetto alla conclusione dell’iniziativa, e ciò grazie alla possibilità di cedere a terzi delle quote dell’investimento di cui si è titolare, e cioè del loro collocamento nel c.d. mercato secondario, offerta dal meccanismo di suddivisione delle quote in “azioni”. La s.p.a. è destinata alla realizzazione di importanti progetti imprenditoriali, e per questo motivo il vincolo di destinazione delle risorse investite deve essere stabile e duraturo, perciò vi è la possibilità di cedere quote d’interesse in quanto questo consente di 75 Dal primo punto di vista, la legge detta una serie di regole relativa alla forma e al contenuto dell’atto; prevede la necessità di ulteriori adempimenti materiali che vengono qualificati come “condizioni per la costituzione” e stabilisce due procedimenti diversi per integrare gli elementi formali e sostanziali. Per quanto riguarda la pubblicità, invece, oltre a prevedere il procedimento attraverso il quale avverrà l’iscrizione della s.p.a. nel registro delle imprese, vengono dettate anche ulteriori norme che riguardano i problemi che derivano dalla particolare efficacia della pubblicità sui fatti che intervengono nel periodo che intercorre tra la stipulazione dell’atto costitutivo e l’iscrizione. Ai sensi dell’art. 2328, co.1, la s.p.a. può essere costituita per contratto o per atto unilaterale. In entrambi i casi si deve però redigere un formale atto costitutivo, i cui contenuti sono specificati nel co. 2 dello stesso articolo. a) Un primo gruppo di elementi attiene alle caratteristiche identificative dell’attività economica che la società si propone di svolgere. Possono ricondursi a questo insieme i punti 2,3,4 e 13 dello stesso articolo, che impongono di dover specificare denominazione, sede, oggetto, capitale e durata. L’essenzialità di questi elementi è dimostrata dalla loro irrinunciabilità a pena di nullità della società. b) Un secondo gruppo riguarda gli elementi previsti dai punti 5,6,7,8 e 12 che impongono l’inserimento nell’atto costitutivo del numero e delle caratteristiche delle azioni e della loro emissione, del valore attribuito a crediti e conferimenti in natura, norme secondo le quali gli utili devono essere ripartiti, i benefici eventualmente accordati ai promotori o ai soci fondatori e l’importo globale, anche approssimato, delle spese per la costituzione della società. Questi elementi caratterizzano l’attività su un piano dinamico, in quanto si tratta di prestazioni individuate ex ante, ma destinate a incidere nel tempo sui modi di approvvigionamento delle risorse da parte della società o sul relativo conto economico. c) Infine, un ultimo gruppo di elementi è formato da previsioni che incidono sulla struttura di governo della società, essendo rivolti a determinare a quali soggetti e con quale ordine dei rapporti spetterà di stabilire come le risorse investite o reperite verranno gestite per realizzare l’attività comune. Di questo insieme fanno parte le indicazioni ai numeri 9 e 10 che riguardano il sistema di amministrazione adottato e la quantità di poteri degli amministratori e il numero dei componenti dell’organo di controllo. Possono integrarsi a tale categoria anche gli elementi indicate nei numeri 1 e 11 che riguardano l’individuazione nominativa dei soci fondatori e dei primi soggetti incaricati della gestione della società e del relativo controllo. L’art. 2328, co. 3, tratta dello statuto precisando che esso contiene le norme relative al funzionamento della società. Questo documento ha per oggetto le regole rivolte a stabilire come la s.p.a., una volta costituita, sia destinata ad operare: cioè esso è composto dalle formalità sul modo di emissione e circolazione delle azioni e le procedure sul funzionamento degli organi sociali. Con riferimento ai rapporti tra atto costitutivo e statuto, va precisato che lo statuto costituisce parte integrante del primo, anche se è oggetto di atto separato, ed insieme concorrono a comporre le regole dell’organizzazione. Infine si stabilisce che in caso di contrasto tra le clausole dell’atto costitutivo e quelle dello statuto, prevalgono le seconde. Importante condizione in materia di costituzione della s.p.a. è quella secondo cui l’atto costitutivo deve essere redatto per atto pubblico (art. 2328, co.2). La forma dell’atto pubblico è stabilita dalla legge come requisito di regolarità ed è rivolta a soddisfare una duplice esigenza: quella di certificare la dichiarazione con cui viene fondata la s.p.a. e vengono destinati i conferimenti a capitale; e a operare una verificadel notaio circa l’effettiva conformità a legge di tale dichiarazione. La redazione per atto pubblico implica che al notaio sia affidata una funzione di controllo. I contenuti del controllo notarile sono contenuti nell’art. 28 l.not. ai sensi del quale è vietato al notaio ricevere 76 atti “espressamente proibiti dalla legge o contrari al buon costume e all’ordine pubblico”. La forma notarile deve essere osservata anche per lo statuto dal momento che esso è parte integrante dell’atto costitutivo. L’art. 2329 stabilisce che, affinché si possa procedere alla costituzione della s.p.a., debbano essere rispettate tre condizioni: 1) che il capitale sociale sia sottoscritto per intero; 2) che siano rispettate le previsioni relative ai conferimenti; 3) che sussistano le autorizzazioni e le altre condizioni richieste dalla legge per la costituzione della società, in relazione al suo oggetto. La prima condizione riguardante l’integrale sottoscrizione del capitale sociale, corrisponde al c.d. principio di effettività in senso lato. Tale principio implica che l’intero conferimento di mezzi di rischio che risulta destinato al servizio degli scopi sociali sia oggetto di un impegno individuale da parte dei soci, e cioè che il capitale sia un’entità reale ed attuale. La seconda condizione, riguarda il rispetto delle norme sui conferimenti ed è ispirata alle regole di effettività in senso stretto e di integrità del capitale sociale che impongono, almeno in parte (per il 25% dei conferimenti in denaro e della totalità dei conferimenti di tipo diverso), che la società abbia immediata e sicura disponibilità delle risorse ad essa destinate e che il loro valore corrisponda interamente alla cifra del capitale sottoscritto. Questo si realizza in base ad un’esigenza di solidità della dotazione, rilevante per il raggiungimento di un corretto equilibrio economico - finanziario nei rapporti con i creditori e il mercato. La terza condizione riguarda tutte quelle ipotesi in cui la rilevanza dell’attività induce il legislatore a subordinarne lo svolgimento al rilascio di autorizzazioni (ad es. per l’attività bancaria la costituzione della società è subordinata all’autorizzazione della Banca d’Italia). Tale formalità, però, riguarda solo quelle autorizzazioni che devono pervenire prima della stipula dell’atto costitutivo (o prima dell’iscrizione nel registro delle imprese) affinché si possa esercitare l’attività in cui consiste l’oggetto sociale. Al fine di integrare la fattispecie costitutiva, il codice civile prevede due diversi procedimenti: quello della c.d. costituzione istantanea e quello della c.d. costituzione per pubblica sottoscrizione. La costituzione istantanea è la più immediata e diffusa nella prassi. Essa prevede che i contenuti dell’organizzazione vengano decisi istantaneamente dai sottoscrittori del capitale al momento della stipula dell’atto costitutivo presso il notaio. Quindi vi è una contestualità tra la determinazione del programma di attività, la sua adozione con la destinazione dei conferimenti, la formulazione delle clausole e la formale volontaria costituzione. La fattispecie della costituzione per pubblica sottoscrizione, invece, è più articolata. Infatti da un lato prevede che le fasi precedenti avvengano in momenti diversi; dall’altro invece prevede che le sottoscrizioni siano sollecitate presso il “pubblico” e quindi tra investitori sconosciuti. Questo si ha con la presentazione di un progetto di s.p.a. da parte dei “promotori” che invitano gli interessati ad aderire e a sottoscrivere quote di capitale, in modo che quando sia stata raggiunta la cifra da raccogliere, si perviene alla stipulazione dell’atto costitutivo fra gli aderenti. Tale procedimento però ha avuto scarso successo nella prassi, la quale ha preferito il sistema della costituzione istantanea tra un numero ristretto di fondatori e con una prima contribuzione di risorse, per farla poi seguire da una fase di raccolta ulteriore da attuare presso un maggior numero di risparmiatori tramite un aumento di capitale. Affinché il procedimento di costituzione della s.p.a. si completi, è necessaria l’iscrizione della società nel registro delle imprese. In funzione alla procedura di iscrizione, l’art. 2330 impone innanzitutto al notaio che ha ricevuto l’atto costitutivo di depositarlo entro 20 giorni presso l’ufficio del registro delle imprese. Al deposito vanno allegati i documenti che provano la sussistenza delle condizioni previste dall’art. 2329. Là dove il notaio o gli amministratori, non provvedono a depositarlo nel termine stabilito, possono provvedere i singoli soci. Contestualmente al deposito si dovrà presentare la richiesta di iscrizione, su cui 77 l’ufficio del registro effettua un controllo di regolarità formale della documentazione; se l’esito sarà positivo, l’ufficio iscriverà la società nel registro. Una volta iscritta, la s.p.a. acquista la personalità giuridica. In questo caso la pubblicità ha un rilevo costitutivo, cioè determinante per la produzione degli effetti dell’atto. Ciò implica che l’atto costitutivo e lo statuto divengono efficaci nel momento in cui vi sia stata l’iscrizione: a partire da questo momento le clausole statutarie fungeranno da parametri dai quali dipende la validità degli atti di utilizzo delle risorse sociali e l’esistenza dell’ente societario come soggetto in grado di entrare in rapporto con i terzi. Rimane da capire quali sono gli effetti che la stipula dell’atto costitutivo produce nel periodo antecedente l’iscrizione. A questo proposito, non ci si può limitare a constatare che da tale stipula discende un irrevocabile vincolo dei sottoscrittori ai conferimenti, che potrà sciogliersi solo se entro 90 giorni dalla redazione dell’atto costitutivo l’iscrizione non abbia avuto luogo. Bisogna anche chiedersi quale sia il regime applicabile agli atti che in questo periodo vengono eventualmente posti in essere. Nel codice civile si fa riferimento principalmente agli atti che ricadono sulla sfera soggettiva di coloro che partecipano alla fase di costituzione della s.p.a. In particolare, l’art. 2331, co. 2, stabilisce che “per le operazioni compiute in nome della società prima dell’iscrizione sono illimitatamente e solidalmente responsabili verso i terzi coloro che hanno agito”. Alla responsabilità di questi soggetti si aggiunge poi quella dell’unico socio fondatore e di quelli che hanno autorizzato il compimento dell’operazione. Il co. 3, invece, si limita a precisare che la società è responsabile quando, in seguito all’iscrizione, abbia approvato un’operazione compiuta precedentemente all’iscrizione, essendo in questo caso tenuta a rilevare coloro che hanno agito. Dalle norme però non risulta né se vi sia un criterio in base al quale la s.p.a. debba o no reputarsi obbligata a procedere a ratificare gli atti compiuti antecedentemente nel suo interesse, una volta che viene iscritta; né quale sia la sorte degli atti compiuti nell’interesse della s.p.a. che non vengono approvati successivamente. Solitamente si affrontano tali quesiti chiedendosi se si tratti o meno di una società in formazione. Se la risposta è affermativa, già prima dell’iscrizione può identificarsi un interesse sociale all’operazione e si possono individuare i soggetti a cui si richiede il perseguimento di tale interesse; pertanto una volta costituita, la società ha il dovere di ratificare gli atti che, posti in essere da questi soggetti, risultano rispondenti a tale interesse. Dopo la costituzione della società, vi è l’opportunità di apportare modifiche all’assetto originario della s.p.a. Trattandosi di un’organizzazione il cui obiettivo è quello di formulare un apparato di regole per il raggiungimento dello scopo lucrativo, è possibile che con il passare del tempo le clausole statutarie originarie risultino insufficienti e quindi suscettibili di modifica, soppressione, sostituzione o che possono essere affiancate da altre che rispondono meglio al nuovo bisogno del mercato. Tale modifica può riguardare sia le clausole dello statuto in senso stretto, cioè quelle relative al funzionamento dell’apparato organizzativo; sia le regole dell’atto costitutivo che identificano la società. Il legislatore le qualifica entrambe come modificazioni dello statuto e prevede una disciplina generale con l’art. 2436. Le previsioni contenute in questa disciplina, però, non riguardano tutti gli elementi indicati nell’art. 2328, infatti alcuni di essi non possono considerarsi come vere e proprie clausole suscettibili di modifica secondo le formalità previste in questa norma. Tali punti non sono quelli indicati nell’atto costitutivo come dati storici dell’organizzazione come i nomi dei soci che sono destinati a variare in seguito ai trasferimenti azionari e i nomi degli amministratori e dei sindaci o dei componenti del consiglio di sorveglianza che sono destinati a cambiare con il rinnovo degli organi sociali. In coerenza con l’autonomia che l’organizzazione acquista rispetto al suo atto costitutivo, le modifiche statutarie sono sottratte alla regola dell’approvazione all’unanimità dei soci e sono affidate alla competenza degli organi sociali, cioè alla competenza dell’assemblea straordinaria, tranne che per i casi di riduzione di capitale per perdite dove la competenza è dell’assemblea ordinaria o del consiglio di sorveglianza. Sono salve anche le ipotesi riguardanti le mere funzioni tecnico – esecutive, tenendo conto della rilevanza della fattispecie in relazione alla gestione della società, in base alla quale la legge consente che nello statuto sia prevista l’attribuzione o una delega della competenza all’organo amministrativo o al consiglio di sorveglianza. Come abbiamo detto le modifiche dello 80 La questione si è posta soprattutto con riguardo ai c.d. sindacati di voto, cioè ai patti che hanno ad oggetto l’esercizio del voto da parte dell’azionista. Dopo un intenso dibattito che ha visto opporsi diverse posizioni, il legislatore ha preso posizione in favore della validità degli accordi parasociali dedicando due disposizioni del TUF, gli art 122 e 123, ai patti che riguardano le azioni quotate nei mercati regolamentati, e poi ha inserito nel codice civile due articoli, 2341-bis e 2341-ter, che riguardano gli accordi parasociali che hanno ad oggetto la partecipazione in s.p.a. Queste norme introducono alcuni elementi di disciplina dei patti parasociali. In particolar modo l’art. 2341- bis considera rilevanti ai fini della disciplina non tutti i tipi di patti che incidono sull’esercizio dei diritti del socio, ma solo quelli che hanno un dato oggetto e determinate finalità, vale a dire quegli accordi che hanno per oggetto l’esercizio del diritto di voto nelle società per azioni o nelle società che le controllano; pongono limiti al trasferimento delle azioni o delle partecipazioni in società che le controllano; hanno per oggetto o per effetto l’esercizio di un’influenza dominante su tali società. La norma si pone anche per disciplinare anche l’ampiezza temporale degli accordi, stabilendo che essi non possono avere durata superiori a cinque anni e si intendono stipulati per questa durata anche se le parti hanno previsto un termine maggiore. Dove non sia previsto espressamente un termine, ciascun socio può anche recedervi con un preavviso di centottanta giorni. Invece, l’art. 2341-ter si occupa della pubblicità dei patti parasociali, che riguardano società che fanno ricorso al mercato del capitale di rischio. Tali patti devono essere comunicati dalla società e dichiarati in apertura di ogni assemblea con l’obbligo di trascrizione della dichiarazione nel verbale e del relativo deposito presso il registro delle imprese. 44: IL CAPITALE SOCIALE E I CONFERIMENTI Lo svolgimento dell’attività di una s.p.a. presuppone la raccolta nel mercato dei finanziamenti ad essa destinati. A fronte della partecipazione a favore della società, gli investitori ricevono strumenti rappresentativi della posizione che essi rivestono nei confronti della stessa società, che a sua volta dipende dal tipo di operazione effettuata per l’investimento. Si distingue, quindi, la raccolta nel mercato di tipo essenziale, cioè necessaria per la sua esistenza, da una raccolta eventuale. a) E’ essenziale quella raccolta effettuata al momento della creazione delle azioni. In questa circostanza la società riceve il c.d. capitale “di rischio” a cui lega le sorti degli azionisti, indispensabili al funzionamento dell’organizzazione e titolari di diritti di tipo patrimoniale ed amministrativo. Gli azionisti, in quanto soci, non solo partecipano alla distribuzione degli utili e dell’avanzo di liquidazione, ma hanno voce in capitolo anche per quanto riguarda l’esercizio dell’impresa comune. Le azioni sono, inoltre, destinate a circolare: in questo modo si realizza la possibilità di disinvestimento che costituisce un’altra caratteristica della s.p.a. Per rendere più agevole tale circolazione, è stabilita l’emissione dei titoli azionari i quali, essendo titoli di credito, rendono più sicuro l’acquisto della partecipazione nel mercato e consentono di realizzare sia gli interessi dei soci che della società. b) E’ eventuale, invece, la raccolta di risorse sul mercato effettuata tramite la creazione e l’assegnazione dei c.d. altri strumenti finanziari partecipativi, i quali possono essere emessi anche a fronte di una contribuzione non finanziaria (ad es. una prestazione d’opera) e attribuiscono ai titolari gli stessi diritti patrimoniali di quelli degli azionisti e diritti di tipo amministrativo anche se in misura ridotta. Lo stesso vale per l’emissione di obbligazioni, cioè strumenti con cui la s.p.a. si procura risorse “a debito”, impegnandosi alla restituzione a una data scadenza delle somme ricevute e a effettuare pagamenti aggiuntivi a titolo di interessi nei confronti dei finanziatori. I titolari delle obbligazioni, proprio in ragione del fatto che non contribuiscono a creare il “capitale di rischio” bensì 81 quello “di debito”, non godono degli stessi diritti partecipativi dei soci. Tuttavia è stabilita una disciplina volta alla tutela della loro posizione nei confronti della società e tale disciplina è estesa anche ai titolari degli strumenti finanziari assimilabili alle obbligazioni. Con “capitale sociale” si intende l’insieme dei mezzi originariamente prestati dai soci e stabilmente destinati alla società allo svolgimento dell’attività produttiva che costituisce l’oggetto sociale. Tale concetto riguarda anzitutto un “fatto”, vale a dire che il capitale sociale è ciò che è stato effettivamente prestato dai soci e posto a disposizione dell’attività; in secondo luogo la destinazione dello stesso corrisponde ad una “regola”, cioè la prestazione del capitale avviene in conformità di una previsione dei soci i quali stabiliscono che la società deve avere un certo capitale. Dal primo punto di vista il codice civile prevede che il capitale sia integralmente sottoscritto, cioè che i soci abbiano già assunto, con le dichiarazioni di sottoscrizione, l’impegno ad effettuare i conferimenti in misura pari alla cifra che si intende raggiungere come capitale. Tale cifra esprime un dato storico e consente di effettuare in ogni momento un raffronto dei finanziamenti operati dai soci. Dal secondo punto di vista, invece, occorre sottolineare la stabilità. Infatti all’originaria sottoscrizione corrisponde un vincolo della società al mantenimento nel corso del tempo di entità di pari ammontare. Così viene adottata una regola di costante autodestinazione all’attività di mezzi per un importo pari, al netto dei debiti sociali, alla cifra che risulta dalla somma delle stesse sottoscrizioni. Tale regola è rigida in quanto è previsto che la previsione dell’adozione di un certo capitale avvenga con una clausola statutaria. Ne consegue, quindi, la c.d. fissità del capitale sociale, e cioè la tua invariabilità nel tempo. Infatti affinché sia modificata la cifra del capitale sociale non basta una decisione ordinaria di tipo gestorio, assunta dagli amministratori, ma occorre che si proceda ad una formale modifica dello statuto che dovrà essere decisa dall’assemblea straordinarie. Da tale regola discende un vincolo di non distribuzione presso gli azionisti di risorse, che si manifesta nel: divieto di ripartizione di utili in caso di perdita del capitale sociale, “fino a quando il capitale non sia reintegrato o ridotto in misura corrispondente”; nella previsione secondo cui la restituzione dei conferimenti ai soci e la conseguente riduzione del capitale sociale non è libera, ma è condizionata a un giudizio di concreta sostenibilità dell’operazione da parte della società. La regola della stabilità è poi all’origine dell’inserimento di un’apposita voce relativa al capitale nel passivo del bilancio, nella classe del “patrimonio netto”. Nelle s.p.a., la scelta del capitale sociale da sottoscrivere non è completamente libera. Infatti, l’art. 2327 prevede che essa deve costituirsi con un capitale non inferiore a 50mila euro (capitale minimo). Il notaio, infatti, non può procedere alla stipula dell’atto costitutivo dove verifichi che il capitale sottoscritto è inferiore alla soglia minima. Essa poi è vincolante anche in seguito alla costituzione della s.p.a., lungo tutto il corso dell’esistenza dell’ente. Infatti è previsto che il capitale sociale non può mai ridursi al di sotto della misura minima prevista, pena lo scioglimento. Come già detto, la cifra del capitale sociale coincide con quella risultante dalle sottoscrizioni dei soci. Infatti non è possibile che la società dichiari un capitale per una somma superiore o inferiore a quella sottoscritta. In Italia non è neanche contemplato il meccanismo tipico dei sistemi anglosassoni, ossia il c.d. capitale autorizzato, ai sensi del quale i soci si limitano a stabilire nell’atto costitutivo la quota massima di capitale da potersi raccogliere nel corso della vita della società, mentre compete agli amministratori la decisione di emettere e azioni e raccogliere così il nuovo capitale. Un sistema simile, nel nostro ordinamento, è ammesso solo a proposito della c.d. delega agli amministratori all’aumento del capitale. Con la dichiarazione di sottoscrizione del capitale, chi la emette si assume l’impegno ad effettuare una prestazione in favore della s.p.a., il conferimento, il cui valore è determinato tenendo conto del capitale rappresentato dalle azioni da emettere a nome del sottoscrittore e corrisponde a una quota del complessivo capitale della società. In relazione ai conferimenti, la legge detta una disciplina articolata che va dall’art. 2342 a 2343- quater, la quale forma il sistema del c.d. “capitale reale”, volte alla realizzazione del c.d. principio di effettività del capitale sociale, cioè che viene effettivamente conferito e non rimane solo sulla carta. 82 A tale proposito si prevede che “se nell’atto costitutivo non è stabilito diversamente, allora il conferimento deve farsi in denaro”. La legge però ammette una deviazione subordinandola al consenso dei soci espresso nell’atto costitutivo o nella delibera di aumento del capitale sociale mediante conferimenti in natura. Poi è richiesto dall’art. 2342, co.2, che un quarto dei conferimenti in denaro deve essere versato dai soci immediatamente, alla sottoscrizione dell’atto costitutivo, per poi rimanere depositato presso una banca fino al momento dell’iscrizione della s.p.a. nel registro delle imprese. Con questa disposizione, da un lato, si prevede che la società disponga da subito di una parte dei mezzi destinati, per ricoprire almeno in parte i costi di start-up, dall’altro si ottiene una sorta di impegno cauzionale dei soci, garantendosi così la serietà del loro impegno preso con la società. Spetta poi agli amministratori richiedere ai soci i versamenti ancora dovuti. Per i conferimenti diversi dal denaro il legislatore prevede un’ampia serie di previsioni, ispirate ai principi di “effettività in senso stretto” e di “integrità” del capitale. Cioè si vuole assicurare che il capitale sociale sia certo nel “se” e nel “quanto” imponendosi che la società consegua la sicurezza della disponibilità delle prestazioni promesse a copertura del capitale sociale e che il valore di tali risorse sia pari alla quota di capitale sociale individualmente assunta dal conferente. Al principio di effettività “in senso stretto” fa riferimento la norma dell’art. 2342, co. 3, secondo la quale le azioni corrispondenti ai conferimenti di beni in natura e di crediti “devono essere integralmente liberate all’atto della sottoscrizione”. In questo modo il legislatore evita che il rinvio nel tempo dell’adempimento della prestazione comporti il rischio successivo di una mancata acquisizione del conferimento da parte della s.p.a. Tale esigenza non si riferisce tanto all’acquisizione immediata di tutte le utilità della cosa conferita, ma all’assunzione da parte degli amministratori della sicura e irrevocabile disponibilità della fonte produttiva di tali utilità. Per questo è ammissibile il conferimento di un bene è solo in proprietà, ma anche in godimento in quanto l’esecuzione immediata della prestazione consisterà nel mettere a disposizione della società il bene, anche se poi le utilità verranno percepite successivamente. Inoltre è previsto il divieto dell’art. 2342, co.5, ai sensi del quale “non possono formare oggetto di conferimento le prestazioni d’opera o di servizi”; infatti il concorso di tali prestazioni alla formazione del capitale è impedito dal fatto che esse sono inidonee a fornire agli amministratori il controllo del fattore di produzione rappresentato dal singolo conferimento. Con riferimento invece all’esigenza di integrità del capitale, ad esso è dedicato l’art. 2343, ai sensi del quale l’emissione e la consegna di azioni a fronte del conferimento di beni in natura o di crediti avvengono solo a seguito di un procedimento complesso che prevede: la stima del valore del bene o del credito apportati, in una relazione giurata di un esperto; il successivo controllo di tale stima da parte degli amministratori e infine la proporzionale riduzione del capitale sociale nell’ipotesi in cui da una revisione degli amministratori risulta che il valore dei beni o dei crediti conferiti era inferiore di oltre un quinto a quello per cui è avvenuto il conferimento, a meno che il conferente non decida di integrare con versamento in denaro la propria prestazione o di recedere del tutto dalla società. In quest’ultima ipotesi, è stabilito che egli ha il diritto alla restituzione del conferimento solo quando sia possibile in tutto o in parte in natura. Abbiamo detto che per formare il capitale sociale occorrono gli apporti dei soci, ma non è vero il contrario; infatti non è vero che ad ogni apporto del socio corrisponde l’imputazione in capo a questi di una quota del capitale sociale. Deve infatti tenersi presente la possibilità che tutti o alcuni dei soci effettuino in favore della società delle prestazioni aggiuntive rispetto a quelle necessarie a formare il complessivo capitale sociale. Così è possibile che al socio possa essere richiesto, oltre al suo conferimento, anche di operare una prestazione ulteriore che favorisce lo scopo comune, accrescendo il patrimonio della società, senza però aumentare il capitale. i. Tale possibilità può essere rappresentata dal soprapprezzo, la cui prestazione è prevista dalla legge nell’aumento di capitale sociale ma è considerata ammissibile (facoltativa) nell’ambito di costituzione della s.p.a. Il soprapprezzo costituisce un “apporto” del socio, da considerarsi come pagamento di una sorta di corrispettivo a carico del singolo sottoscrittore per l’accesso alla società. 85 legge connesse ad una decisione dei soci di modifica dello statuto, o allo scioglimento del rapporto sociale limitatamente ad un socio. Riepilogando, i presupposti della creazione delle azioni sono: la sottoscrizione delle azioni rappresentative del capitale, che interviene al momento della stipula dell’atto costitutivo (artt. 2328, 2329) e il versamento presso una banca del 25% del valore nominale delle azioni, con divieto degli amministratori di operare un prelievo fino a quando la società non sia iscritta (art. 2342, co. 2). Nel caso in cui abbia ad oggetto beni in natura, allora il conferimento va effettuato per intero. Questi fatti sono necessari e sufficienti per la creazione delle azioni e alla relativa assegnazione al sottoscrittore, il quale ne acquista la titolarità senza che occorra altra formalità. Inoltre è possibile che le azioni siano assegnate a un socio, mediante apposita clausola dell’atto costitutivo, in modo non proporzionale alla sottoscrizione effettuata: ciò si ha quando altri azionisti prestino conferimenti in surplus rispetto alla propria sottoscrizione, in modo “da coprire” la parte di capitale non apportata da questo socio. La mancanza di uno di questi presupposti, determina la nullità della partecipazione ma questa non ha efficacia retroattiva (cioè non legittima una pretesa alla restituzione del conferimento effettuato), ma comporta il diritto dell’azionista alla liquidazione in denaro della propria quota. E’ possibile che i soci, spontaneamente o sollecitati dagli amministratori, nel corso della vita della società ritengano di dover aggiornare l’originaria cifra del capitale sociale: o perché la considerano non adeguata all’attività che si sta svolgendo, o per uno sviluppo qualitativo o dimensionale futuro dell’iniziativa. Da questa decisione, la società trae spesso beneficio in termini di maggiore credibilità rispetto al mercato e ai creditori, i quali potranno dirsi maggiormente “garantiti” rispetto al passato circa la solvibilità del proprio debitore. Questa operazione può assumere due configurazioni: aumento di capitale sociale gratuito e aumento di capitale sociale a pagamento. L’aumento di capitale gratuito consiste in una mera operazione contabile di imputazione a capitale di valori patrimoniali già esistenti in società, senza incremento, quindi, del patrimonio, concretandosi in una sorta di “compensazione” tra le poste presenti al suo interno (ad es. posto un capitale di 200 euro e riserve statutarie per 100, un eventuale aumento gratuito del capitale fino a 300 potrà consistere nell’azzeramento di tale riserva e nell’aumento della posta del capitale). Questo si fonda sulla “pura e semplice” decisione organizzativa. Condizione necessaria perché si possa effettuare tale aumento, è che la società già possieda “fondi propri” in misura superiore rispetto a quelli corrispondenti all’importo del capitale sociale stabilito precedentemente, e che li detenga come fondi disponibili e cioè non vincolati per legge ad un determinato utilizzo. Con la decisione di aumento del capitale cessa tale situazione di “disponibilità” e le riserve vengono assoggettate al precetto della non restituibilità, tipico del capitale sociale. L’aumento del capitale gratuito è previsto dall’art. 2442, secondo cui “l’assemblea può aumentare il capitale, imputando ad esso le riserve e gli altri fondi disponibili iscritti in bilancio”. L’operazione si concreta in una deliberazione dell’assemblea straordinaria con cui si decide di “imputare” a capitale risorse patrimoniali che la società ha già acquisito. L’operazione può concretarsi anche nell’emissione di nuove azioni e in tale evenienza, queste azioni devono avere le stesse caratteristiche di quelle già in circolazione e devono essere assegnate gratuitamente agli azionisti in proporzione di quelle già possedute. Alternativamente all’emissione di nuove azioni, l’aumento del capitale gratuito può attuarsi anche “mediante aumento del valore nominale delle azioni in circolazione”. L’emissione di nuove azioni successiva alla costituzione della s.p.a. ricorre in collegamento ad un’operazione di aumento di capitale sociale tramite nuovi conferimenti o, come si dice anche, a pagamento. Anche in questa fattispecie la decisione della società di modificare il capitale sociale dipende dalla 86 volontà di adeguare le risorse destinate all’attività ai suoi volumi effettivi o da un piano di sviluppo della stessa attività: tuttavia la società, per supportare tale progetto, ricorre a nuovi apporti provenienti dall’esterno, o perché priva di mezzi propri, o perché, anche quando ne abbia la disponibilità, preferisce comunque procurarsi nuovi mezzi finanziari e destinare le riserve accumulate precedentemente per altri usi. L’aumento di capitale sociale “a pagamento”, trattandosi di una modifica dell’atto costitutivo, prevede un organo competente che è l’assemblea dei soci che delibera in sede straordinaria. Nell’aumento di capitale tramite nuovi conferimenti, la delibera non è sufficiente per il mutamento della cifra del capitale sociale, e perché tale mutamento si produca, occorre che intervengano nuove sottoscrizioni, cioè dichiarazioni degli investitori con le quali vengono espressi gli impegni a conferire il denaro o altri beni necessari a coprire il capitale nominale aggiuntivo. L’art. 2439, co. 2, si preoccupa di coordinare la delibera di aumento del capitale e le successive sottoscrizioni. In tale proposito, il legislatore prevede che vada determinato il termine finale entro il quale devono intervenire le sottoscrizioni, stabilendosi che, qualora allo scadere di quel termine il capitale raccolto sia inferiore a quello deliberato, allora l’aumento di capitale non può avere luogo nemmeno in parte e i sottoscrittori sono liberati dal vincolo che avevano assunto. La precisazione del termine massimo per la raccolta delle nuove adesione è un elemento essenziale della delibera di aumento del capitale ed da esso dipende il momento in cui si produce la modifica dell’organizzazione. Come abbiamo detto, l’aumento del capitale sociale tramite nuovi conferimenti si caratterizza perché la modifica della cifra del capitale sociale nominale avviene in conseguenza di una nuova destinazione di risorse finanziarie. Per tale motivo il codice si preoccupa di dettare una serie di regole volte ad assicurare l’effettività del capitale. i. Anzitutto, l’art. 2438, prevede che è vietata la realizzazione di un aumento di capitale fino a quando non vi sia l’integrale liberazione delle azioni precedentemente emesse; infatti, è incoerente agli occhi del legislatore, che si provveda a raccogliere nuova finanza in un momento in cui una parte del finanziamento a cui la società abbia già diritto, non sia stata ancora riscossa. Nulla vieta però solo di programmare la nuova raccolta di capitale prima del completamento dell’operazione di riscossione della vecchia. ii. In relazione all’impegno dei sottoscrittori, l’art. 2439, co. 1, stabilisce che, in caso di conferimenti in denaro, il 25% di questi debba essere versato al momento della sottoscrizione come nel caso della costituzione. iii. Come avviene per il caso delle azioni originarie, le azioni di nuova emissione dovranno liberarsi tramite conferimenti in denaro, a meno che si stabilisca di accettare dai nuovi sottoscrittori degli apporti in natura. Tale decisione deve essere presa in assemblea straordinaria e in questo caso, le azioni devono essere liberate integralmente al momento della sottoscrizione e occorre depositare la relazione di un perito. Inoltre la stima deve essere depositata prima della delibera di aumento di capitale e deve essere conosciuta dai soci almeno al momento di tale decisione, la quale dovrà avere per oggetto, non solo l’identità del bene che si intende apportare, ma anche il relativo valore. L’aumento di capitale tramite nuovi conferimenti potrebbe alterare le precedenti percentuali di partecipazione alla società da parte degli azionisti. Infatti, da una parte si incrementa il numero di azioni in circolazione e aumenta la misura complessiva di azioni su cui calcolare le percentuali partecipative di ciascun socio; dall’altra, non si verifica un automatico aumento proporzionale alla misura delle azioni possedute da ciascun socio. Là dove accada che i nuovi obblighi di conferimento siano stati assunti da terzi, o che i precedenti soci siano indotti a sottoscrivere le nuove azioni in modo non proporzionale alle azioni possedute anteriormente, la misura dei relativi diritti e obblighi cambierà in corrispondenza delle nuove sottoscrizioni (ad es. immaginata una società con capitale sociale di 200.000€ diviso in 200 azioni di 1.000€ ciascuna e distribuito paritariamente tra quattro soci, Tizio, Caio, Sempronio e Mevio, e amministrata da Tizio, un aumento di capitale reale di 100.000€ sottoscritto solo dai primi due soci conferirebbe a questi la maggioranza del nuovo capitale 87 ai danni della precedente partecipazione degli altri due, che a quel punto sono ridotti a una posizione di comprimari). La possibilità che l’aumento di capitale realizzi un mutamento delle precedenti partecipazioni è fonte di pregiudizi degli interessi individuali dei soci, dato che la maggioranza potrebbe approfittare di tale occasione in modo abusivo. Inoltre la possibilità di un’alterazione non concordata della distribuzione delle partecipazioni potrebbe provocare un conflitto tra gli azionisti tale da incidere sulla continuità della gestione dell’attività sociale. A questo proposito è fondamentale la previsione dell’art. 2441, co. 1, ai sensi del quale “le azioni di nuova emissione e le obbligazioni convertibili in azioni devono essere offerte in opzione ai soci in proporzione al numero delle azioni possedute”. In questo modo il socio può decidere autonomamente se accettare o meno l’offerta rivoltagli dagli amministratori o se mantenere la precedente quota di partecipazione. Per assicurare il rispetto del diritto di opzione dei soci, la legge determina il procedimento di raccolta delle nuove sottoscrizioni, stabilendo che l’offerta va pubblicata presso il registro delle imprese ad opera degli amministratori e dal momento di tale pubblicazione, decorre un termine per l’esercizio del diritto di opzione, da precisare nell’offerta stessa, non inferiore a quindici giorni. Inoltre, il legislatore stabilisce che le azioni inoptate (cioè quelle che rimangono non sottoscritte allo scadere dell’offerta in opzione) non possono essere collocate liberamente; infatti, l’art. 2441, co. 3, dispone che coloro i quali abbiano esercitato tempestivamente il diritto di opzione, dove ne esprimono richiesta, hanno diritto di prelazione nell’acquisto delle azioni e delle obbligazioni convertibili in azioni che siano rimaste inoptate. Pertanto solo nel caso in cui restino azioni non sottoscritte anche dopo che si sia esercitato il diritto di opzione, queste possono essere collocate dagli amministratori presso eventuali terzi. Il vincolo imposto dalla società all’esercizio del diritto di opzione, però, potrebbe determinare dei limiti in quanto molto spesso accade che per l’attuazione di programmi che potrebbero arrecare vantaggi alla s.p.a. si necessita, appunto, dell’ingresso di un terzo in società tramite la sottoscrizione di un aumento di capitale. Quindi in questo caso, l’obbligo di offrire opzione ai soci per le azioni di nuova emissione, potrebbe impedire tale questione e allora, per evitare che ciò si verifichi, la legge stabilisce che il diritto di opzione può essere escluso, solo in determinati casi (art. 2441): a) quando le azioni “devono essere liberate mediante conferimenti in natura”; b) quando “l’interesse della società lo esige”; c) quando le azioni “sono offerte ai dipendenti della società o di società che la controllano o che sono da essa controllate”; d) o nei limiti del 10% del capitale sociale preesistente. Operazione opposta è la riduzione del capitale sociale che consiste nell’abbassamento della soglia di investimento destinata all’attività sociale, rispetto a quella precedentemente prevista dai soci con la determinazione del capitale sociale. Occorre distinguere due ipotesi. La prima è la c.d. riduzione reale del capitale che presuppone un corrispondente impoverimento della società, con restituzione ai soci di parte delle risorse precedentemente apportate; la seconda, è la c.d. riduzione nominale che la legge disciplina in seguito al verificarsi di perdite di capitale e realizza semplicemente un riallineamento tra l’importo del capitale statutariamente programmato e l’importo del patrimonio di cui la società dispone effettivamente in un dato momento storico. La riduzione reale è di competenza dell’assemblea straordinaria ed è regolata dall’art. 2445, co. 1, che prevede due possibili modalità dell’operazione: i soci possono stabilire o il rimborso del capitale versato, o la liberazione dei soci dall’eventuale debito residuo ai versamenti. Con la riforma del diritto societario del 2003, tale disciplina ha subito una modifica rispetto al passato, in quanto è stata abrogata la previsione del requisito di esuberanza del capitale rispetto all’oggetto sociale per poter applicare la riduzione. Nell’attuale testo dell’art. 2445, si sono quindi ampliati gli spazi di discrezionalità della maggioranza assembleare sulla decisione dell’operazione da attuare. Questa può essere presa non solo se giustificata da una sovrabbondanza delle risorse interne della società rispetto all’attività in corso, ma anche se queste risorse non sono eccessive. L’eliminazione del requisito dell’esuberanza del capitale non significa tuttavia che può deliberarsi una riduzione senza che siano offerte spiegazioni al riguardo. Infatti, l’art. 2445, co.2, stabilisce che “l’avviso di convocazione deve indicare le ragioni e le modalità di riduzione”. La riduzione del capitale, infine, è soggetta a un importante vincolo, vale a dire che essa “può essere eseguita solo 90 però che le azioni debbano essere tutte identiche, in quanto la legge consente, nel co.2 dello stesso articolo, la creazione di categorie diverse di azioni, che attribuiscono diritti particolari. Semplicemente non è ammissibile che la diversità della partecipazione azionaria sia legata, anziché al tipo di azione posseduta, alla persona o al “tipo di persona” che venga a possederla. Una differenziazione tra azionisti può determinarsi solo in correlazione con l’eventualità che essi possiedano diverse quantità di azioni emesse da una s.p.a. Ciò sia perché in conformità con il c.d. criterio plutocratico (il potere è direttamente proporzionale alla ricchezza posseduta) la maggior parte dei diritti sociali spettano in base al numero di azioni possedute; sia perché alcuni diritti sociali sono condizionati ex lege, o per statuto, al possesso di una certa quota partecipativa. Inoltre, sotto il profilo organizzativo, le azioni si caratterizzano del c.d. principio di autonomia, secondo cui ognuna di esse attribuisce al proprio possessore dei diritti esercitabili in modo autonomo, con la possibilità di esercitare in modo diversificato prerogative sociali fondamentali da parte dello stesso soggetto. Tale possibilità potrebbe essere temperata dal principio di buona fede o dal divieto di abuso del diritto, ossia istituti che rendono lecito l’esercizio diversificato dei diritti solo dove giustificato da ragioni obbiettive, come nel caso di esercizio dei diritti sociali da parte di un fiduciario per conto di più fiducianti. Dalla titolarità delle azioni discende l’attribuzione di situazioni soggettive previste dalla legge che prendono il nome di diritti sociali. In particolare, all’azionista spettano diritti di tipo patrimoniale e amministrativo. Appartengono alla categoria dei diritti patrimoniali, il diritto agli utili e il diritto alla quota di liquidazione della società in sede di scioglimento generale o parziale. Il socio ha diritto alla quota di liquidazione per il caso di scioglimento parziale del vincolo sociale solo nel caso in cui sia avvenuto il pagamento dei creditori sociali, poiché gli azionisti, in quanto soci, sono titolari di una pretesa residuale, vale a dire che possono pretendere un pagamento dalla società, che corrisponda al finanziamento effettuato, solo dopo che siano stati soddisfatti tutti coloro che vantano verso la società un diritto. Per quanto riguarda invece la riscossione agli utili prodotti dalla società, non occorre attendere il momento della conclusione dell’affare sociale o la fine dell’attività. Infatti al socio spetta il diritto al dividendo, il quale matura di anno in anno nella misura in cui la società produca un utile di esercizio distribuibile. Tuttavia, purché tale diritto sorga, l’art. 2433, co.2, stabilisce che la società non può pagare dividendi sulle azioni se non per utili realmente conseguiti e che risultano da un bilancio regolarmente approvato. Pertanto occorre: a) che risultino effettivamente utili d’esercizio dal conto economico relativo all’anno considerato; b) che gli utili da distribuire trovino capienza nello stato patrimoniale della società, al netto delle perdite eventualmente prodottesi negli anni precedenti, in quanto viene salvaguardato il principio della postergazione dei diritti degli azionisti al soddisfacimento degli altri creditori. Inoltre va sottolineato che non basta che nella società residui un patrimonio sufficiente al soddisfacimento dei creditori, ma occorre anche che residui un patrimonio netto di valore almeno pari al capitale sociale. Perciò la distribuzione è impedita dove le perdite pregresse intaccano il capitale, questo perché altrimenti la distribuzione dell’utile si tradurrebbe in un rimborso di capitale ai soci, contro il principio dell’irreversibilità della sua destinazione all’attività sociale. Inoltre, tale diritto per sorgere, non basta neanche che un utile distribuibile risulti dal bilancio approvato di anno in anno, ma è necessario che l’assemblea dei soci deliberi espressamente con riferimento alla distribuzione dei dividendi, dedotti gli accantonamenti previsti ex lege o per statuto. Infine va notato che la maggioranza dei soci detiene un potere ampiamente discrezionale, poiché davanti ad un bilancio che registra utili, può anche decidere di trattenere le relative somme, istituendo un’apposita riserva o rinviare ad esercizi successivi ogni decisione circa la loro distribuzione, salvo eventuali previsioni 91 statutarie. Il successo della s.p.a. è legato alla circostanza che la sua disciplina accorda l’esigenza che all’organizzazione di attività commerciali sono destinati stabilmente capitali di rischio, e l’interesse di chi li ha apportati a poter operare il disinvestimento anche prima della fine di tali attività. Questo accordo si realizza soprattutto grazie alla possibilità che ha il socio di trasferire la propria partecipazione in un mercato adeguato agli interessi degli azionisti, cioè che i titoli possono essere scambiati a un prezzo che riflette il valore effettivo della partecipazione all’attività, il quale dipende da una percezione esterna delle potenzialità della s.p.a. di produrre e distribuire utili. La legge si preoccupa proprio di tutelare tali interessi dei soci che possono essere pregiudicati da modifiche dell’organizzazione decise dalla maggioranza degli azionisti, là dove egli non vi abbia acconsentito. Per evitare il rischio che egli subisca un abbassamento del valore di mercato delle azioni, al socio è attribuito il diritto di recesso: cioè il potere di sciogliersi dalla società, per mezzo di una propria, volontaria e unilaterale manifestazione di volontà, e di ottenere anticipatamente la quota di liquidazione, da calcolare sulla base di criteri che tengono conto dei valori che potevano essere attribuiti alla partecipazione prima delle modifiche. Ai sensi dell’art. 2437, tale diritto è concesso al verificarsi di particolari ipotesi che incidono sul programma produttivo originario. I. L’articolo prevede, come cause inderogabili di recesso, le deliberazioni di: a) modifica dell’oggetto sociale; b) trasformazione della società; c) trasferimento della sede sociale all’estero; d) revoca dello stato di liquidazione; e) eliminazione di una o più cause di recesso previste dallo statuto; f) modifica dei criteri di determinazione del valore delle azioni in caso di recesso; g) modificazioni dello stato riguardanti i diritti di voto o di partecipazione. La tutela della posizione del socio in relazione a queste ipotesi è garantita in modo assoluto, infatti “è nullo ogni patto volto a escludere o rendere più gravoso l’esercizio del diritto di recesso” in relazione a tali cause. II. A queste fattispecie si affiancano poi quelle derogabili, cioè quelle in cui il recesso opera solo dove lo statuto non disponga diversamente. Tali ipotesi sono: a) la proroga del termine della società; b) l’introduzione o la rimozione di vincoli alla circolazione dei titoli azionari. III. E’ anche consentito che la tutela del socio venga rafforzata con l’inserimento nello statuto di ulteriori cause di recesso. Tuttavia tali ipotesi atipiche di recesso devono comunque essere collegate a importanti mutamenti del programma organizzativo e non a vicende economiche della società. IV. Tuttavia, è riconosciuto al socio anche un diritto di recesso ad nutum, cioè non collegato al verificarsi di particolari ragioni, nel caso in cui la società sia costituita a tempo indeterminato e questo per evitare che il socio rimanga per sempre “prigioniero” dell’affare intrapreso. Per questa ipotesi è previsto però un preavviso di 180 giorni che può essere modificato in aumento dallo statuto, fino a un anno. La stessa possibilità di recesso non è offerta in caso di società quotata nei mercati regolamentati essendo escluso per definizione il rischio che il socio rimanga “imprigionato” nel suo investimento. Le modalità di esercizio del diritto sono previste dall’art. 2437-bis, che stabilisce che il recesso viene esercitato, per tutte o alcune azioni, con lettera raccomandata, da spedire entro 15 giorni dall’iscrizione nel registro delle imprese della delibera che lo legittima. Tuttavia il recesso può derivare anche da un fatto diverso dalla delibera e in questo caso il termine di legge è di 30 giorni dalla conoscenza del fatto da parte del socio. Dal momento dell’esercizio del recesso le azioni del socio recedente devono rimanere depositate presso la sede sociale, per evitare la circolazione che sarebbe incompatibile con la procedura di liquidazione. Tuttavia la comunicazione della dichiarazione di recesso e il deposito delle relative azioni non bastano affinché la partecipazione del socio cessi, ma occorre aspettare il completamento del rimborso della quota di liquidazione. Per il calcolo della quota di liquidazione, invece, la legge fissa dei criteri precisi volti a proteggere il valore dell’investimento azionario e l’interesse del socio alla sua monetizzazione al momento 92 dell’uscita dalla s.p.a. In particolare è disposto che il valore di liquidazione venga stabilito dagli amministratori “tenuto conto della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, oltre che dell’eventuale valore di mercato delle azioni”. Dunque si procede ad una valutazione del patrimonio sociale in base ai suoi valori reali attuali. L’art. 2437-ter detta una procedura volta alla tutela del socio in vista di una corretta determinazione della quota di liquidazione da parte degli organi sociali. Si stabilisce che coloro che sono interessati a recedere possono visionare anticipatamente la determinazione del valore delle azioni ai fini del recesso. Dove i soci intendono contestare tale determinazione, possono farlo con la stessa dichiarazione di recesso e sollecitare così la stima da parte di un esperto nominato dal tribunale, il quale è chiamato a effettuarla tramite relazione giurata. Infine, con apposite norme viene definita la procedura di liquidazione al socio della quota. E’ stabilito in particolare che le azioni del socio receduto vengano offerte in opzione agli altri soci proporzionalmente, e che ai soci che esercitano il diritto di opzione, spetta anche un diritto di prelazione per le eventuali azioni non optate dagli altri azionisti. Le azioni residue, se non vengono collocate nel mercato, devono essere rimborsate direttamente dalla società, attingendo alle riserve disponibili o agli utili. Se questi fondi non sussistono, occorrerà che si deliberi una riduzione del capitale sociale. Qualora venga presentata opposizione da parte dei creditori, la delibera di scioglimento diverrà inevitabile a meno che non si privi di efficacia il recesso del socio revocando “a monte” la delibera: tale revoca dovrà avvenire entro 90 giorni da questa deliberazione. Per diritto di tipo “amministrativo” si intendono le prerogative che esprimono modi e termini di partecipazione del socio alla realizzazione dell’attività sociale. Tra questi vanno ricordati i diritti che rispondono ad un interesse riferibile alla generalità dei soci, strumentali alla formazione delle delibere assembleari, dunque i diritti di interventi e di voto. Attraverso il diritto di voto gli azionisti hanno la possibilità di incidere sulla vita della società, sia direttamente, concorrendo alle scelte in materia di organizzazione dell’attività sociale; sia indirettamente influendo nei confronti della gestione, specie con la nomina e la revoca degli amministratori. Quindi tale interesse al “controllo” dell’impresa comune rappresenta l’altro fondamentale profilo che giustifica l’investimento azionario individuale. In relazione alle regole riguardanti la spettanza del voto, il codice civile prevede il c.d. sistema “un’azione- un voto” disciplinato dall’art. 2351, co.1, che stabilisce che “ogni azione attribuisce il diritto di voto”. L’unità di investimento rappresentata dall’azione, quindi, va considerata anche come unità di potere azionario cosicché, per aumentare la propria capacità di incidere sulle sorti della società, il socio deve incrementare proporzionalmente la propria quota di investimento nel capitale sociale. Viene in questo modo favorita la c.d. democrazia azionaria e quindi la possibilità di frammentare il potere in misura del possesso delle azioni. Un’importante deviazione a questa regola è oggi rappresentata dalla previsione di cui al d.l. 91/2014 e contenuta nell’art. 2351, co.3, ai sensi del quale “salvo quanto previsto dalle leggi speciali, lo statuto può prevedere la creazione di azioni con diritto di voto plurimo per particolari argomenti o subordinato al verificarsi di particolari condizioni”. Si precisa, inoltre, che “ciascuna azione a voto plurimo può avere un effetto di massimo tre voti”. In tal modo è stato cancellato il divieto di emissione di azioni a voto plurimo, in precedenza previsto dallo stesso articolo al comma 4, ispirato all’esigenza di evitare concentrazioni di potere. Tale divieto è però ancora in vigore per le società quotate che mantengono le azioni a voto plurimo solo se emesse anteriormente alla quotazione. La s.p.a. può però essere sede di tensioni tra soggetti portatori di interessi diversi. Così, all’interesse degli amministratori alla gestione dell’impresa si contrappone quella dei soci al controllo della stessa, per evitare o ridurre il rischio che gli amministratori approfittino della propria posizione di detentori esclusivi della gestione e la indirizzino verso scopi contrari a quelli per la quale è stata loro conferita. In vista di proteggere tale esigenza, sono previste le competenze dell’assemblea dei soci e le loro prerogative. La s.p.a. è anche sede di un ulteriore contrapposizione di interessi, cioè quella tra maggioranza e minoranza dei soci, in vista dell’esistenza, in capo ai primi, del potere di determinare o indirizzare le 95 In altre parole, l’assemblea generale degli azionisti può, con le consuete maggioranze, anche modificare i diritti delle azioni speciali e non occorre che ricerchi il consenso individuali dei loro titolari, ma non può neppure farlo in modo autonomo imponendo la propria decisione su quella dei soci di categoria: dovrà invece ottenere il consenso della maggioranza di questi espressa in forma di delibera dell’assemblea speciale. 47: I TITOLI AZIONARI. LEGITTIMAZIONE DEL SOCIO E CIRCOLAZIONE DELLE AZIONI Uno degli elementi fondamentali che spiega l’ampia diffusione delle s.p.a. è la possibilità offerta agli azionisti di poter disinvestire prima della conclusione dell’affare utilizzando la via del “mercato secondario”, cioè tramite il trasferimento delle azioni a terzi. Per garantire la circolazione delle azioni, il legislatore ha approntato un sistema di regole rivolto a rendere possibile la creazione di un efficiente mercato secondario delle azioni. a) A questo scopo è previsto che la s.p.a. si possa avvalere dello strumento di emissione dei titoli azionari, la cui trasmissione è governata dalle regole sui titoli di credito. Questa operazione di emissione è accompagnata dalla consegna al socio di documenti che rappresentano tali azioni: essi diventeranno un mezzo necessario per permettere la cessione della partecipazione e l’esercizio dei relativi diritti. Tali documenti hanno un contenuto tipico, previsto dall’art. 2354, co. 3, ai sensi del quale le azioni devono indicare: 1) la denominazione e la sede della società; 2) la data dell’atto costitutivo e della sua iscrizione e l’ufficio del registro delle imprese dove la società è iscritta; 3) il loro valore nominale o, se si tratta di azioni senza valore nominale, del loro numero complessivo e l’ammontare del capitale sociale; 4) l’ammontare dei versamenti parziali sulle azioni non interamente liberate; 5) i diritti e gli obblighi ad esse inerenti. Si tratta di indicazioni che permettono la conoscenza, da parte dell’acquirente, delle caratteristiche essenziali dell’affare in cui investe. b) L’art. 2354, co. 6, fa salve le “disposizioni delle leggi speciali in tema di strumenti finanziari negoziati o destinati alla negoziazione nei mercati regolamentati”. Tali strumenti finanziari non possono essere rappresentati da documenti, quindi ne consegue che per le azioni negoziate in mercati regolamentati non può avvenire un’emissione di titoli in forma cartacea. Infatti, il trasferimento e l’esercizio dei diritti derivanti da tali azioni, devono effettuarsi in conformità alla c.d. dematerializzazione degli strumenti finanziari, vale a dire che le azioni saranno rappresentate da titoli scritturali, le cui regole di circolazione sono analoghe a quelle dei titoli di credito. Si tratta però di un sistema non esclusivo in quanto è stabilito dal TUF che “l’emittente degli strumenti finanziari può assoggettarli a tale disciplina” ma deve essere contemplata nello statuto. L’emissione dei titoli azionari consente l’applicazione di una disciplina volta a permettere a dare velocità e certezza a due momenti fondamentali nella vita dell’organizzazione societaria: l’esercizio dei diritti sociali e la circolazione delle azioni. Il possesso dei titoli azionari da parte dell’azionista consente, anzitutto, di riconoscergli la c.d. legittimazione all’esercizio dei diritti attribuitagli dalle azioni possedute. Il concetto di legittimazione va distinto da quello di titolarità in quanto, quest’ultima, riguarda solo la spettanza del diritto, mentre la prima riguarda l’individuazione del soggetto a cui compete di fatto il potere di esercitarlo nei rapporti con i terzi. Nell’ipotesi dei titoli di credito, legittimato all’esercizio del diritto è il possessore del titolo. Il possesso però non attribuisce di per sé la titolarità del diritto ma a farlo è la legittimazione, che consiste nel potere di pretendere la prestazione dal debitore senza dover provare la titolarità del diritto stesso, e il debitore, a sua volta, sarà liberato dal suo obbligo se pagherà al legittimato senza dolo o colpa grave. 96 La separazione tra legittimazione e titolarità realizza efficienza: in quanto consente il velocizzarsi dell’azione connessa all’esercizio di un diritto, specie dove questo è sottoposto ad una serie di trasferimenti. Infatti da una parte l’acquirente potrà esercitare le proprie pretese senza essere soggetto a contestazioni circa l’effettività del proprio acquisto; dall’altra parte, la persona soggetta alla pretesa altrui, potrà a sua volta effettuare la prestazione richiestagli dal legittimato, senza dover operare verifiche sull’esistenza e validità del rapporto sottostante. E’ per questo che l’emissione di un titolo azionario, nella misura in cui attribuisce la legittimazione all’esercizio dei diritti sociali a chi assuma il possesso legittimo del titolo, conferisce allo stesso modo i caratteri di certezza e rapidità all’attività sociale. Certezza e rapidità caratterizzano anche la circolazione delle azioni rappresentate da titoli. Infatti, chi acquista un titolo azionario ne può prontamente assumere la legittimazione e quindi con essa la possibilità di un efficiente esercizio delle proprie prerogative. In secondo luogo, il possesso legittimo del documento conferisce pure la titolarità dell’azione nel senso di non poter essere contestato un suo eventuale acquisto a non dominio. Pertanto, l’investitore che decida di acquistare azioni, non dovrà investigare circa la reale titolarità dell’ipotetico veditore, essendo sufficiente, ai fini dell’acquisto della titolarità, che gli sia garantita l’assunzione del possesso legittimo dei titoli stessi. Ai sensi dell’art. 2354, co.1, “i titoli possono essere nominativi o al portatore a scelta del socio, se lo statuto o le leggi speciali non dispongono diversamente”. Tale previsione risale all’emanazione del codice civile; tuttavia vi è un altro provvedimento che smentisce l’originaria scelta del codice e che è ancora vigente, che stabilisce che “le azioni delle società aventi sede nello Stato devono essere nominative”. Vi è quindi l’obbligatorietà delle azioni nominative; fanno eccezione solo i rari casi in cui la legge ha espressamente autorizzato l’emissione di azioni al portatore che oggi è prevista solo per le azioni di risparmio e per le azioni delle Sicav (società destinate allo svolgimento di attività di gestione del risparmio). La nominatività azionaria comporta anzitutto l’applicazione di un particolare regime in tema di circolazione che si articola in due diverse modalità di trasferimento. L’art. 2355, co.4, rinvia al sistema del c.d. transfert. Ai sensi di questa disposizione, il trasferimento azionario si opera con la c.d. doppia annotazione del nome dell’acquirente sul titolo e sul registro dell’emittente, o con rilascio in un nuovo titolo intestato al nuovo socio. Queste formalità sono a cura dell’amministratore e possono avvenire su richiesta: a) dell’alienante, che deve provare la propria identità e capacità di disporre mediante un’apposita certificazione; b) dell’acquirente, il quale deve esibire il titolo e dimostrare il suo diritto mediante atto autentico. Alternativamente al transfert, l’art. 2355, co.3, stabilisce che il trasferimento delle azioni nominative può avvenire anche “mediante girata autenticata dal notaio o da altro soggetto secondo quanto previsto dalle leggi speciali”. La girata deve essere piena e, dove le azioni non siano interamente liberate, deve essere sottoscritta anche dal giratario. La circolazione mediante girata non elimina però la rilevanza del libro dei soci; infatti il giratario ha il diritto di ottenere l’annotazione del trasferimento nel libro dei soci. In relazione poi alla disciplina della legittimazione all’esercizio dei diritti incorporati nel titolo azionario, la speciale disciplina dettata per le s.p.a. contiene una deroga a quanto previsto per i titoli nominativi nell’art. 2021. Infatti la regola contenuta in questa disposizione, secondo cui il possessore consegue la legittimazione “per effetto dell’intestazione a suo favore contenuta nel titolo e nel registro dell’emittente”, per le azioni vale solo per il caso di circolazione tramite transfert. Nel trasferimento mediante girata, infatti, l’art. 2355 prevede che il giratario che si dimostri possessore in base ad una serie continua di girate “è comunque legittimato ad esercitare i diritti sociali” ma non occorre che il possessore del titolo chieda e ottenga l’iscrizione nel libro dei soci. Solo in seguito all’esercizio dei diritti da parte dell’azionista, la società dovrà iscrivere il nome del giratario nel libro dei soci. Con riferimento, invece, alla trasparenza della titolarità di azioni, essa è disposta solo per il caso in cui il socio non rimanga un investitore inerte ma si attivi esercitando i diritti sociali. Per le azioni al portatore, invece, si applica un regime più snello e, premesso che la loro emissione può avvenire solo nel momento in cui le azioni sono interamente liberate, esse si trasferiscono con la consegna del titolo. L’esercizio dei diritti sociali, pertanto, avverrà con la sola dimostrazione del possesso del documento. Nel tempo, di fronte all’evoluzione del contesto economico, la forma cartolare si è rivelata non più 97 adeguata ai suoi scopi. In primo luogo, soprattutto con l’avvento della tecnologia, il ricorso alla chartula si è rivelato un fattore di rallentamento della circolazione; in secondo luogo, l’affermarsi dell’intermediazione finanziaria ha favorito il fenomeno dell’integrale affidamento fiduciario delle negoziazioni a persone ed entri professionalmente dedicati a tale attività, soggetti a vigilare e a garantire l’autenticità degli scambi riuscendoci in misura maggiore rispetto al vecchio sistema della c.d. incorporazione del diritto nel titolo. Per queste ragioni sono state elaborate tecniche più efficienti per realizzare gli scopi di circolazione e legittimazione che evitano o riducono la necessità del ricorso allo scambio fisico del documento, grazie al coinvolgimento di intermediari professionali, chiamati a raggiungere tali obiettivi attraverso una serie di contabilizzazione delle emissioni e degli scambi. Il legislatore ha riservato la possibilità di emettere titoli azionari cartacei solo dove si tratta della circolazione di azioni non quotate in mercati regolamentati. Invece, gli strumenti negoziati o negoziabili in tali mercati, non possono essere rappresentati da documenti: dunque per le azioni che rientrano in questa categoria è stabilito un regime caratterizzato dalla c.d. dematerializzazione dell’emissione (dematerializzazione totale), dove la creazione e circolazione dei documenti azionari è stata sostituita integralmente da un sistema di iscrizioni e annotazioni dei nomi degli azionisti su registri tenuti da appositi intermediari. Pure le azioni non quotate però, dove previsto dallo statuto, possono essere assoggettate a tale sistema o a quello della c.d. dematerializzazione della circolazione (dematerializzazione parziale) in cui l’affidamento della circolazione delle azioni agli intermediari è soggetto al deposito dei titoli presso un “gestore”. Il sistema di dematerializzazione totale degli strumenti finanziari prevede la necessaria scelta da parte dell’emittente di una società di gestione accentrata, a cui affidare il ruolo di contabilizzare l’emissione e sovraintendere alle operazioni di trasferimento. Questa società deve essere unica “per ciascuna emissione di strumenti finanziari” (in Italia la sola società che svolge tale attività è la Monte Titoli s.p.a.). Una volta scelta la società di gestione accentrata, ad essa l’emittente comunica “l’ammontare globale dell’emissione di strumenti finanziari, il suo frazionamento e gli intermediari a cui accreditare i titoli emessi”, i quali saranno banche, sim, agenti di cambio che per conto dei singoli clienti comunicheranno alla s.p.a. le dichiarazioni di sottoscrizione. La società di gestione accentrata: a) apre per ogni emissione un conto a nome dell’emittente; b) accende, per ogni intermediario che gliene faccia richiesta, un conto destinato a registrare tutte le disposizioni azionarie operate. Quindi le operazioni originarie sono state sostituite, nel sistema della dematerializzazione, da una serie di scritturazioni contabili. In particolare, la prima consegna dei titoli ai sottoscrittori è sostituita dall’iscrizione sia presso la società di gestione accentrata, in un “conto titoli” a nome della s.p.a. emittente e in più conti a nome dei vari intermediari incaricati alla trasmissione degli ordini di sottoscrizione, sia presso gli stessi intermediari presso i vari conti intestati ai sottoscrittori. Il successivo trasferimento delle azioni, invece, avverrà tramite l’addebito e l’accredito dei conti tenuti dai titolari delle azioni presso gli intermediari e il corrispondente addebito e accredito dei conti che gli intermediari stessi hanno aperto presso la società di gestione accentrata (operazione di giro). Si è detto che il titolare dei conti, ossia colui il quale ha ottenuto la registrazione in suo favore, in base a titolo idoneo e in buona fede, non è soggetto a pretese o azioni da parte dei precedenti titolari. Lo stesso vale anche in caso di dematerializzazione in quanto è protetto anche l’acquisto azionario a non dominio, purché sia avvenuto in buona fede e con l’osservanza delle formalità di legge. Il titolare di azioni dematerializzate, inoltre, gode di una posizione equivalente a quella del possessore di un titolo cartaceo, ossia quella della c.d. autonomia obbligatoria: infatti, a chi risulta titolare del conto presso l’intermediario, l’emittente può opporre solo le eccezioni personali al soggetto stesso e quelle comuni a tutti gli altri titolari degli stessi diritti. Quanto infine alla legittimazione dell’azionista, il titolare del conto presso l’intermediario ha la legittimazione piena ed esclusiva all’esercizio dei diritti relativi agli strumenti finanziari in esso registrati. Per l’esercizio di tali diritti, tale legittimazione è attestata da apposite certificazioni rilasciate dall’intermediario o da una comunicazione trasmessa da questo direttamente all’emittente. Inoltre, l’esercizio dei diritti sociali può avvenire sia personalmente, sia tramite lo stesso intermediario, con apposito mandato. Per i diritti patrimoniali, il mandato all’intermediario opera ex
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