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Riassunto manuale "Diritto del mercato unico europeo", L. Daniele, ultima edizione, Sintesi del corso di Diritto dell'Unione Europea

Riassunto dettagliato del manuale "Diritto del mercato unico europeo" di L. Daniele, ultima edizione (2019). Capitoli riassunti: - Capitolo I: Nozioni generali - Capitolo II: La libera circolazione delle merci - Capitolo III: La libera circolazione delle persone - Capitolo IV: Il diritto di stabilimento e la libera prestazione di servizi - Capitolo VI: Le regole di concorrenza applicabili alle imprese - Capitolo VII: La disciplina degli aiuti pubblici alle imprese

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

In vendita dal 14/05/2020

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Scarica Riassunto manuale "Diritto del mercato unico europeo", L. Daniele, ultima edizione e più Sintesi del corso in PDF di Diritto dell'Unione Europea solo su Docsity! RIASSUNTI DEL MANUALE “DIRITTO DEL MERCATO UNICO EUROPEO E DELLO SPAZIO DI LIBERTA’, SICUREZZA E GIUSTIZIA”, L. DANIELE (2019) CAP. I: NOZIONI GENERALI IL MERCATO UNICO EUROPEO: STRUMENTO DI CRESCITA ECONOMICA E DI INTEGRAZIONE POLITICA terminologia: il termine mercato unico europeo in realtà non figura nei trattati istitutivi delle tre comunità europee, che parlano invece di mercato comune. a partire dall'entrata in vigore dell'atto unico europea (AUE) nel 1986 al mercato comune viene affiancato il termine di mercato interno. con il trattato di lisbona del 2007 viene eliminato dal testo del TUE e del TFUE ogni riferimento al mercato comune, sostituendovi il termine di mercato interno. l'uso del termine mercato unico è invece diffuso nel dibattito intorno all'integrazione europea e viene usato in documenti ufficiali redatti dalle istituzioni dell'UE: mario monti ha sostenuto che dal punto di vista concettuale il termine mercato unico sarebbe il più corretto e ha intitolato "una nuova strategia per il mercato unico" il rapporto preparato per l'allora presidente della commissione europea nel 2010. risulta pertanto che nonostante il tentativo di uniformazione effettuato con il trattato di lisbona ancora oggi sono in suo una pluralità di termini intercambiabili per indicare lo stesso concetto. evoluzione dell'ideale del mercato unico: • il progetto di integrazione europea prende avvio con la dichiarazione schuman del 1950, con la quale si decide di puntare a un progetto di integrazione economica e di liberalizzazione degli scambio, il mercato comune europeo. schuman e i suoi collaboratori sono convinti che la completa apertura dei mercati nazionali e la loro interprenetazione in un mercato comune avrebbe portato: a una grande opportunità di crescita per le economie nazionali; a un miglioramento del tenore di vita delle loro popolazioni. si delinea una solidarietà di fatto tra le nazioni e i popoli europei, che avrebbe dovuto condurre a lungo termine a una vera e propria europa unita. l'idea del mercato comune nasce quindi come un progetto con finalità economiche, ma in un contesto in cui è presente anche l'obiettivo di unificazione politica. • lo strumento del mercato comune trova una prima applicazione settoriale con il trattato di parigi del 1951, che istituisce la comunità europea del carbone e dell'acciaio (CECA), nel cui ambito è previsto un mercato comune del carbone e dell'acciaio. successivamente, con i due trattati di roma del 1957 nell'ambito della comunità europea dell'energia atomica (CEEA) viene creato un secondo mercato comune settoriale, cioè il mercato comune dell'energia atomica per uso pacifico, e nell'ambito della comunità economica europa (CEE) si dà vita a un mercato comune generale, esteso a tutti i settori industriali e agricoli. in particolare il mercato comune del carbone e dell'acciaio si limita a prevedere una zona di libero scambio tra gli stati membri, mentre il mercato comune generale si fonda su una vera e propria unione doganale. • nel corso della storia dell'integrazione europea, il progetto tendente a realizzare il mercato unico europeo ha sempre svolto un ruolo centrale, in quanto fondamento stesso del progetto di integrazione. nell'ambito del TCE il mercato comune assume la funzione di principale strumento di cui la comunità dispone per raggiungere i suoi scopi: l'art 2 del trattato da un lato definisce gli obiettivi della comunità e dall'altro indica gli strumenti attraverso cui tali obiettivi vanno perseguiti, ovvero: a. l'instaurazione di un mercato comune: questo strumento è il più importante, infatti l'instaurazione del mercato comuen rappresenta un traguardo sufficientemente definito dal trattato attraverso una serie di divieti chiari e precisi. b. il graduale ravvicinamento delle politiche economiche degli stati membri: questo strumento mantiene un carattere intergovernativo e resta soggetto alla variabile volontà degli stati membri. • la centralità del mercato unico è dimostrata anche dal fatto che la maggior parte delle azioni e politiche volte a migliorare le condizioni di instaurazione e funzionamento del mercato inerno, sicchè per giustificare l'adozione di tali misure è normalmente sufficiente che si riconstrino divergenze tra le normative nazionali tali da costituire ostacolo alle libertà fondamentali di circolazione o da creare distorsioni della concorrenza. il ricorso a questa disposizione è anche possibile per prevenire uno sviluppo eterogeneo delle legislazioni nazionali, purchè il loro insorgere appaia probabile e la misura di cui si tratta abbia per oggetto la loro prevenzione. su questo punto la corte è intervenuta con la sentenza vodafone del 2010 avente a oggetto l'azione con cui alcune imprese di telefonia mobile contestavano la validità di un regolamento del parlamento europeo e del consiglio relativo al roaming sulle reti pubbliche di telefonia mobile all'interno della comunità, che impone un tetto massimo alle tariffe del c.d. roaming intracomunitario. la coret giudica che le istituzioni hanno validamente utilizzato l'art 114 come base giuridica per l'adozione del regolamento, dicendo che il legislatore comunitario si è trovato di fronte a una situazione in cui appariva probabile l'adozione di misure nazionali volte a risolvere il problema connesso all'elevato livello dei prezzi al dettaglio dei servizi di roaming intracomunitario mediante regole relative alla calmierazione dei prezzi al dettaglio, misure che avrebbero potuto condurre a una evoluzione eterogenea delle legislazioni nazionali. secondo la corte, alla luce del funzionamento dei mercati del roaming, una evoluzione eterogenea delle legislazioni nazionali volta a far scendere i prezzi al dettaglio sarebbe stata tale da causare sensibili distorsioni della concorenza e da perturnare il buon funzionamento del mercato del roaming intracomunitario. si noti che l'attenzione con cui la corte verifica la correttezza dell'individuazione nell'art 114 della base giuridica dell'atto è legata alla considerazione che il mercato interno è oggetto di una competenza concorrente dell'UE e quindi è soggetto ai principi di sussidiarietà e proporzionalità.] dal momento che il contenuto e la portata del mercato unico non dipende solo da regole già presenti nel TFUE ma anche dagli interventi legislativi presi dalle istituzioni sulla base del TFUE, si può dire che il mercato unico consista in una realizzazione in divenire, il cui contenuto dipendenrà dalle misure che l'UE sarà riuscita ad approvare in un determinato momento storico. • nel corso dei primi anni dopo l'entrata in vigore del TCE la realizzazione del mercato unico era affidata quasi esclusivamente agli strumenti di integrazione negativa: le istituzioni hanno concentrato la loro azione sulla messa in opera delle libertà di circolazione, ottenendo l'abolizione da parte degli stati membri dei maggiori ostacoli agli scambi comunitari. meno incisiva fu l'attività di tipo legislativo, soprattutto a causa delle difficoltà di ottenere l'unanimità da parte del consiglio per l'approvazione delle proposte della commissione, come richiedevano allora le sole basi giuridiche utilizzabili a questo fine. • a metà degli anni 80 viene fatto il libro bianco sul completamento del mercato interno (1985): esso conteneva un lungo elenco di azioni di tipo legislativo, da adottare rapidamente per portare a compimento l'apertura dei mercati nazionali. questo programma poneva però il problema dell'inefficienza delle procedure decisionali che le istituzioni avrebbero dovuto seguire e in particolare dell'unanimità. • per ovviare a questi problemi gli stati membri approvano l'atto unico europeo (AUE) che per quanto riguarda il mercato unico europeo contiene 2 novità: a. l'art 14 TCE (ora art 26 TFUE) che al par.1 dice che la comunità adotta le misure destinate all'instaurazione del mercato interno nel corso di un periodo che scade il 31 dicembre del 1992. b. l'art 95 TCE (ora art 114 TFUE) che consente alle istituzioni di adottare misure per il ravvicinamento delle normative nazionali che hanno per oggetto l'instaurazione e il funzionamento del mercato interno, senza necessità che il consiglio voti all'unanimità. stabilendo che la comunità deve adottare entro un termine prestabilito le misure necessario all'instaurazione di un mercato interno, l'art 14 si lega all'idea propugnata nel libro bianco secondo cui il mercato interno non era stato completato ma richiedeva numerosi interventi legislativi da adottare rapidamente (questo si legava all'art 95 che rendeva più agevole l'adozione di misure miranti all'instaurazione del mercato interno). inoltre l'art 14 al par.2 contiene anche una definizione di mercato interno: il mercato interno comporta uno spazio senza frontiere interne, in cui è assicurata la libertà di circolazione; tuttavia il par.2 non si limita a richiamare tali libertà, che erano previste sin dalla versione originaria del TCE, ma pone alle istituzioni una missione, ovvero fare in modo, attraverso l'adozione delle opportune iniziative legislative, che il mercato interno sia davvero un mercato senza frontiere interne. -- > la portata dell'art 14 TCE, ora art 26 TFUE, è dunque quella tipica di una norma programmatica. [questa conclusione è confermata dalla non perentorietà del termine previsto dal par.1 art 14, affermata dagli stati membri in una apposita dichiarazione allegata all'AUE, in cui si dice che la fissazione della data del 31 dicembre 1992 non determina effetti giuridici automatici: la mera scadenza del termine non avrebbe comportato effetti di liberalizzazione dei mercati maggiori di quelli previsti dai provvedimenti adottati fino a quel momento. in questo senso si era espressa la corte nella sentenza baglieri del 1993: si trattava di una lavoratrice italiana che aveva prestato un'attività di lavoro dipendente in germania e, una volta rientrata in italia, chiedeva all'INPS di poter continuare a versare i contributi pensionistici che aveva cominciato a versare all'ente previdenziale tedesco. la domanda però veniva respinta perchè la signora baglieri non era mai stata iscritta a un regime pensionistico in italia. in passato la corte aveva negato che un tale rifiuto fosse contrario al diritto dell'UE, in particolare alla libera circolazione dei lavoratori. la corte di cassazione italia domanda alla corte se la scadenza imminente del termine per l'istituzione del mercato interno non debba imporre un mutamento della giurisprudenza. la corte risponde negativamente per il motivo suddetto]. tuttavia il disposto dell'art 14 ha comunque avuto l'effetto di mobilitare l'attenzione generale e di orientare la volontà politica degli stati membri e delle istituzioni verso l'obiettivo dell'unificazione dei mercato. questa rinnovata volontà politica ha consentito la rapida adozione di atti che attendevano di essere approvati da anni. • ci si chiede invece se oggi il traguardo del mercato interno possa dirsi ragginuto: la risposta è che l'unificazione dei mercati è un obiettivo dinamico, che necessiterà sempre l'attenzione delle istituzioni. la commissione infatti non ha mai abbassato la guardia nei confronti degli stati membri, intervenendo, con lo strumento del ricorso per infrazione, contro le normative nazionali che ostacolano la libertà di crcolazione o la concorrenza; allo stesso modo la commissione non ha mai smesso di avanzare proposte per consolidare o migliorare il mercato unico. l'ultimo programma di lavoro per migliorare il mercato unico è costituito dalla comunicazione del 2015 intitolata "migliorare il mercato unico: maggiori opportunità e per le imprese": le azinoi previste nella comunicazione consistono in un piano di investimenti per l'europea e un fondo europeo per gli investimenti, l'unione europea dell'energia, la strategia per un mercato unico digitale, ecc. un'altra nozione cui ricorrono i trattati è quella di spazio di libertà, sicurezza e giustizia (SLSG), che si trova al titolo V TFUE, la quale presenta alcuni tratti comuni rispetto alla nozione di mercato unico. lo SLSG è elencato nell'art 3 tra gli obiettivi dell'UE ed è ripreso nell'art 67 TFUE, da cui si ricava che il SLGL è la somma di alcune azioni apparentemente eterogenee tra loro, il cui obiettivo comune è di rendere più piena e sicura la libera circolazione delle persone all'interno del mercato unico. le politiche rientranti nel SLSG consistono in: • controlli alle frontiere esterne, asilo e immigrazione. • cooperazione giudiziaria in materia civile. • cooperazione giudiziaria in materia penale. • cooperazione di polizia. il legame di tali azioni con la libertà di circolazione delle persone è indiretto, ma certo. la rimozione delle frontiere interne tra stati membri previsto tanto nell'ambito del mercato unico quanto in quello dello SLGL: • rende necessario adottare una politica comune o almeno misure di coordinamento in materia di immigrazione, visti e asilo per quanto riguarda l'ingresso dei cittadini degli stati terzi. • richiede misure di cooperazione giudiziaria e di polizia in materia penale per fronteggiare fenomeni di criminalità transfrontaliera o per assicurare alla giustizia criminali che si spostino da uno stato membro all'altro. • necessita misure di cooperazione giudiziaria in materia civile per garantire ai cittadini e alle imprese la tutela dei loro diritti ovunque essi si trovino o operino all'interno del mercato unico. è interessante notare che nell'art 3 TUE tra gli obiettivi dell'UE lo SLGL viene indicato prima dello stesso mercato interno, il che riflette l'importanza che i temi oggetto delle azioni rientranti nello SLGL hanno assunto oggi per l'UE. L'UNIONE DOGANALE l'art 28 TFUE dice che l'UE comprende un'unione doganale che si estende al complesso degli scambi di merci. una definizione di unione doganale è già contenuta nell'accordo generale sulle tariffe e sul commercio (GATT) concluso a ginevra nel 1947 e ora ripreso in allegato all'accordo istitutivo dell'organizzazione mondiale del commercio (OMC) firmato a marrakech nel 1994. secondo il GATT l'unione doganale si caratterizza per 2 aspetti: • un aspetto interno che consiste nell'abolizione dei dazi doganali negli scambi di merci tra territori facenti parte dell'UE. • un aspetto esterno che è rappresentato dalla sostituzione della protezione doganale di ciascun territorio facente parte dell'UE con un'unica tariffa doganale. il contenuto dell'unione doganale prevista dal TCE e ora dal TFUE corrisponde a questa definizione e anzi la travalica, infatti come risulta dall'art 28 essa si applica al complesso degli scambi di merci. • l'aspetto interno è assicurato dal divieto di dazi doganali tra stati membri sia all'importazione che all'esportazione, divieto esteso alle tasse di effetto equivalente (inoltre l'art 110 vieta agli stati membri di applicare ai prodotti importati da altri stati membri tributi interni discriminatori o protezionistici) + dal divieto di restrizioni quantitative cfr artt 34 e ss che proibiscono tra gli stati membri le restrizioni quantitative sia all'importazione sia all'esportazione, nonchè le misure di effetto equivalente (per quanto il citato divieto non rientri tra gli elementi costitutivi del'unione doganale, esso svolge comunque un ruolo centrale per la liberalizzazione degli scambi di merci tra gli stati membri, soprattutto grazie alla sopressione delle misure di effetto equivalente). questi divieti si applicano sia ai prodotti originari degli stati membri sia ai prodotti provenienti dai paesi terzi che si trovano in libea pratica negli stati membri. - -> il divieto dei dazi doganali e tasse di effetto equivalente e il divieto di restrizioni quantitative e misure di effetto equivalente sono il fondamento della libera circolazione delle merci. • l'aspetto esterno è disciplinato dall'art 31 che prevede che negli scambi con i paesi non appartenenti all'unione doganale si applichino i dazi della tariffa doganale comune (TDC) che sono stabiliti dal consiglio su proposta della commissione. considerato il suo contenuto si può dire che l'unione doganale si trovi a metà strada tra mercato unico e espressamente le discriminazioni in base alla nazionalità • nelle disposizioni relative alla libera circolazione delle merci sono vietate implicitamente le discriminazioni in base all'origine o alla destinazione delle merci. • nelle disposizioni relative alla libera circolazione dei capitali sono vietate le discriminazioni basate sull'origine dei capitali o sul loro luogo di collocazione. questo uso del divieto di discriminazione nella disciplina del mercato unico rivela che i trattati considerano i trattamenti discriminatori come la causa più importante di ostacoli alla libera circolazione in quanto impediscono al fusione dei mercati nazionali in un mercato unico. essi vanno quindi eliminati prima di ogni altra cosa. secondo la dottrina e la giurisprudenza della corte, le discriminazioni vietate dalle dipsosizioni in materia di libera circolazione sono di più tipi: • la prima distinzione è tra discriminazioni dirette e indirette, a seconda del criterio attraverso cui l'ordinamento giuridico definisce le situazioni che beneficiano di un determinato trattamento e quelle che non ne beneficiano affatto o beneficiano di un trattamento deteriore. a. se il criterio è quello della cittadinanza nazionale, l'origine delle merci o altri criteri vietati dai trattati, ci si trova davanti a una discriminazione diretta. b. se il criterio non è tra quelli espressamente vietati dai trattati, vi può comunque essere discriminazione indiretta, qualora soltanto o prevalentemente i cittadini nazionali o, secondo i casi, le merci nazinoali riescano a soddisfarlo, mentre ciò è impossibile o estremamente raro per i cittadini o le merci provenienti da altri stati membri, un'importante differenza tra discriminazioni dirette e indirette è che per le seconde è possibile addurre una giustificazione, infatti è possibile dimostrare che la differenza di trattamento tra situazioni comparabili è giustificata da motivi obiettivi. [nella sentenza gottwald del 2009 la corte è chiamata a pronunciarsi sulla legislazione austriaca che esenta i portatori di handicap dal pagamento della tassa di circolazione autostradale. tale legislazione viene messa in dubbio per la sua compatibilità con il divieto di discriminazioni in base alla nazionalità nel campo di applicazione dei trattati previsto dall'art 18 TFUE. l'esenzione è infatti concessa solo a coloro che hanno il proprio domicilio in austria. la questione si pone riguardo al signor gottwald portatore di handicap residente in germania che pretende di utilizzare la propria autovettura in austria per un periodo di vacanze senza corripondere la dovuta tassa di circolazione. in quanto soggiornante in austria, il signor g ricade nel campo di applicazione dei trattati e può invocare l'art 18, quindi la corte ammette che una tale legislazione come quella austriaca costituisce una tipica discriminazione indiretta, infatti si tratta di una misura che prevede una distinzione basata sul criterio del domicilio e tale criterio rischia di operare per lo più a danno dei cittadini di altri stati membri, considerato che il più delle volte le persone che non hannno il domicilio nel territorio dello stato sono cittadini stranieri. la corte però ricorda che una tale disparità di trattamento può essere giustificata solo se basata su considerazioni oggettive, indipendenti dalla nazionalità delle persone interessate e adeguatamente commisurate allo scopo perseguito dall'orginamento nazionale. nel caso di specie la corte giudica che tanto la promozione della movilità e dell'integrazione delle persone portatrici di handicap quanto la volontà di garantire l'esistenza di un certo rapporto di collegamento tra la società dello stato membro interessato e il beneficiario di una prestazione quale quella oggetto della causa principale sono motivi idonei a giustificare la disparità di trattamento, a condizione però che sia rispettato il principio di proporzionalità rispetto agli scopi di interesse generale perseguiti]. il test applicato dalla corte per stabilire se sussite una discriminazione indiretta vietata consiste di più fasi. bisogna stabilire: a. se vi è trattamento differenziato; b. se le situazioni trattate differentemente sono simili o comparabili; c. se la differenziazione di trattamento è giustificata da motivi obiettivi di interesse generale; d. se è rispettato il principio di proporzionalità. • la seconda distinzione è tra discriminazioni formali e materiali: e. si ha discriminazione formale se l'ordinamento per esempio tratta diversamente i cittadini degli altri stati membri rispetto ai cittadini nazionali. f. si ha discriminazione materiale se l'ordinamento tratta nella stessa maniera gli uni e gli altri, senza tenere conto delle situazioni di partenza. una discriminazione materiale in base alla nazionalità è accertata nella sentenza garcia avello del 2003: dopo aver riconosciuto che i figli minori del signor garcia avello, in quanto cittadini spagnoli oltre che belgi, esercitano il diritto di soggiorno nel territorio belga ai sensi dell'art 21 e possono invocare il divieto di discriminazione in base alla nazionalità ai sensi dell'art 18, la corte ricorda che il divieto di discriminazione impone di non trattare situazioni analoghe in maniera differente e situazioni diverse in maniera uguale e che un trattamento del genere potrebbe essere giustificato solo se fondato su considerazioni oggettive, indipendenti dalla cittadinanza delle persone interessate e adeguatamente commisurate allo scopo legittimamente perseguito. nel caso dei figli del signor garcia avello, che richiedono la registrazione del porprio cognome con il patronimico seguito dal matronimico, la corte conclude che essi, in ragione della loro doppia cittadinanza belga e spagnola, non si trovano in una situazione identica rispetto a coloro che hanno solo la cittadinanza belga. la corte rileva infatti che contrariamente alle persone che possiedono unicamente la cittadinanza belga, i cittadini belgi che hanno anche la cittadinanza spagnola portano conomi diversi sotto il profilo dei due sistemi giuridici interessati e che una simile situazinoe di diversità di cognomi è tale da generare per gli interessati seri inconvenienti di ordine sia professionale che privato. di conseguenza tali persone hanno diritto a essere trattate diversamente per quanto riguarda la trascrizione del loro cognome da parte delle autorità belghe. anche per le discriminazioni materiali possono essere addotte delle giustificazioni alle stesse condizioni di quelle che si sono viste a proposito delle discriminazioni indirette, cioè è possibile invocare motivi di interesse generale tali da giustificare il trattamento uguale di situazioni dissimili. per esempio nella sentenza garcia avello la corte si chiede se la discriminazione materiale in termini di determinazione del cognome nei confronti di soggetti come i figli del signor garcia avello possono essere giustificati da motivi di interesse generale, come il principio dell'immutabilità del cognome in quanto strumento destinato a prevenire i rischi di confusione in merito all'identità o alla filiazione delle persone, giungendo tuttavia a conclusione negativa al riguardo. posto che il divieto di discriminazioni svolge un ruolo fondamentale al fine di assicurare la libera circolazione nel mercato unico, ci si chiede se i divieti imposti agli stati membri dalle disposizioni in materia di libera circolazione valgano anche nel caso di normative nazionali che, pur indistintamente applicabili, per esempio, alle merci di origine nazionale e a quelle provenienti da altri stati membri, ostacola di diritto o di fatto la libera circolazione (normative indistintamente applicabili). di questo problema la corte ha cominciato a occuparsi a partire dalla fine degli anni 70 del secolo scorso: a partire da quell'epoca la corte ha individuato una serie di normative nazionali indistintamente applicabili che possono ostacolare la libera circolazione e rientrano quindi nel campo di applicazione dei divieti previsti dal TFUE. • questo è avvenuto dapprima con riferimento ai c.d. ostacoli tecnici agli scambi di merci, causati dalla diversità delle normative tecniche in vigore negli stati membri. la corte afferma che l'applicazione sistematica di tali normative ai prodotti provenienti da altri stati membri causa un ostacolo alla libera circolazione di tali prodotti e va quindi esaminata alla luce dell'art 34 TFUE, per verificare se non si tratti di una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa all'importazione. • successivamente la possibilità di considerare normative nazionali indistintamente applicabili alla stregua di ostacoli agli scambi è stata estesa a tutte le libertà di circolazione. la giurisprudenza è ormai consolidata in questo senso: sono frequenti le osservazioni della corte secondo cui le varie libertà di circolazione non impongono solo l'abolizione delle discriminazioni ma anche di qualsiasi restrizione che nonostante si applichi indistintamente impedisce, ostacola o rende solo meno agevole l'esercizio della libera circolazione. per giudicare se una determinata normativa, pur non essendo discriminatoria è da considerarsi vietata dalle disposizioni relative alla libertà di circolazione, la corte ha sviluppato nel tempo un test che non comporta varianti da libertà a libertà per cui è lecito parlare di un approccio globale alla nozione di ostacolo alla libera circolazione. questo test consta di 4 fasi successive. bisogna stabilire: • se la normativa è indistintamente applicabile; • se costituisce un ostacolo alla libera circolazione; • se l'ostacolo può essere giustificato da un motivo superiore di interesse pubblico o generale; • se l'ostacolo rispetta il principio di proporzionalità. l'ampliamento del concetto di ostacolo alla libera circloazione attuato dalla giurisprudenza ha poi posto il problema di stabilire se la contrarietà di una normativa nazionale alle regole della libera circolazione possa essere fatta valere anche in una situazione puramente interna. • per situazione puramente interna si intende una situazione in cui la libertà di circolazione non è in gioco in quanto tutti gli elementi che caratterizzano la situazione sono confinati all'interno di un unico stato membro. • col termine situazione transfrontaliera invece ci si riferisce a una situazione in cui i soggetti, le merci o i capitali coinvolti sono entrati in contatto con più di uno stato membro e in cui può pertanto dirsi che vi sia o vi sia stato l'esercizio di uno dei diritti di libera circolazione. adottando una prospettiva formalistica, la risposta dovrebbe essere negativa. le normative degli stati membri che ricadono nel campo di applicazione delle regole relative alla libera circolazione sono vietate non di per sè ma nella misura in cui provocano ostacoli ai movimenti di persone, merci, servizi o capitali. di conseguenza, la loro applicazione in situazioni puramente interne, in cui non c'è alcuna circolazione degli elementi della fattispecie e quindi nessun rischio di ostacoli al libero movimento, non dovrebbe essere vietata. su questo punto si è espressa la corte nella sentenza gouvernment de la communautè francaise del 2008: il caso si riferisce a un regime di assicurazione contro la mancanza di autonomia finanziato dalle regioni belghe di lingua olandese e bilingue di bruxelles. il regime copre tutti i residenti nel territorio delle due regioni, senza distinzione in base alla nazionalità, ma esclude le persone che lavoravano nel territorio di quelle regioni ma sono residenti in una delle altre regioni belghe. la corte rileva che nella misura in cui l'esclusione riguarda cittadini belgi residenti in altre regioni belghe che non hanno mai esercitato la propria libertà di circolazione all'interno della comunità europea, il diritto dell'UE CAPITOLO II: la libera circolazione delle merci QUADRO NORMATIVO la disciplina della libera circolazione delle merci all'interno dell'UE è interamente disciplinata dal TFUE: • artt 28 e 30: vietano tra gli stati membri i dazi doganali all'importazione e all'esportazione, nonchè le tasse di effetto equivalente + art 110: vieta l'applicazione ai prodotti importati da altri stati membri di imposizioni interne discriminatorie o protezionistiche. • artt 34-35: vietano le restrizioni quantitative tra gli stati membri sia all'importazione sia all'esportazione, oltre che le misure di effetto equivalente + art 36: a titolo di eccezione, consente le restrizinoi quantitative o le misure di effetto equivalente giustificate dai motivi di interesse generale ivi previsti + art 37: riordinamento dei monopoli nazionali avente carattere commerciale. tutte queste norme prevedono a carico degli stati membri dei divieti assoluti, rispetto a cui non è richiesta l'adozione di norme integrative di diritto derivato da parte delle istituzioni. invece importanti compiti di normazione derivata spettano alle istituzioni nel settore del ravvicinamento delle legislazioni di cui agli artt 114- 115 TFUE, che mirano a rimuovere gli ostacoli alla circolazione delle merci derivanti dalla disparità delle varie legislazioni nazionali. la circostanza che le norme del TFUE relative alla circolazione delle merci siano redatte in termini precisi e assoluti spiega perchè siano considerate come dotate di efficacia diretta. IL DIVIETO DI DAZI DOGANALI E TASSE DI EFFETTO EQUIVALENTE gli artt 28 e 30 TFUE vietano tra gli stati membri i dazi doganali, tanto all'importazione quanto all'esportazione, nonchè le tasse di effetto equivalente. il motivo per cui, nell'ambito di una unione doganale, sono aboliti, è legato agli effetti che dazi del genere produrrebbero: la loro riscossione provoca infatti un aumento del costo dei prodotti importati o esportati che ne sono colpiti e sfavorisce tali prodotti rispetto alle merci nazionali corrispondenti che ne sono esenti. quanto alla portata del divieto, questo si applica solo negli scambi di merci tra gli stati membri e riguarda quindi sia le merci originarie degli stati membri sia i prodotti originari di stati terzi una volta che siano stati immessi in libera pratica nel territorio di uno stato membro (non invece i prodotti importati direttamente dal di fuori dell'UE). DAZI DOGANALI quanto alla nozione di dazi doganali costituiscono tributi di tipo particolare dotati di propria denominazione, calcolati in percentuale rispetto al valore del bene e riscossi al momento dell'attraversamento delle frontiere. inoltre i dazi doganali previsti da ciascuno stato membro erano generalmente elencati in un unico strumento normativo cioè la tariffa doganale. la loro abolizione non ha quindi richiesto interventi interpretativi di rilievo (a differenza dell'applicazione del divieto delle tassi di effetto equivalente). TASSE DI EFFETTO EQUIVALENTE lo scopo del diveto è di impedire agli stati membri di percepire sulle merci importate o esportate prelievi fiscali che, sebbene rispondenti alle denominazioni e alle tecniche di imposizione più diverse, abbiano gli stessi effetti di un vero e proprio dazio doganale. il divieto di tasse di effetto equivalente ha quindi una funzione complementare rispetto a quello relativo ai dazi doganali, in quanto serve a rendere più piena la portata di quest'ultimo divieto. cfr sentenza steinike del 1977: l'ufficio federale tedesco per l'alimentazione e le foreste reclamava da un'impresa, in relazione alla trasformazione del succo di agrumi importato dall'italia, il pagamento di un contributo obbligatorio destinato ad alimentare un fondo per la promozione della vendita dei prodotti agricoli. il contributo veniva riscosso anche per determinate operazioni di trasformazione, indipendentemente dall'origine dei prodotti impiegati. steinile si opponeva alla pretesa dell'ufficio, sostenendo che il contributo costituiva una tassa di effetto equivalente, perchè gravante su un prodotto (il succo di agrumi) di cui non esisteva alcuna produzione nazionale. nozione di tassa di effetto equivalente: secondo la corte la tassa di effetto equivalente deve rispettare le seguenti caratteristiche: • deve trattarsi di un onere pecuniario: la prestazione richiesta al soggetto obbligato deve consistere in un versamento di denaro a favore del soggetto autorizzato per legge alla riscossione; sono escluse prestazioni dal contenuto differente, anche se il loro adempimento comporti dei costi a carico del soggetto obbligato. questa precisazione permette di distinguere una tassa di effetto equivalente da una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa ai sensi degli artt 34-34 TFUE. • deve trattarsi di un onere imposto alle sole merci che varchino la frontiera nazionale: questo esclude dal campo di applicazione del divieto le imposizoni interne, cui si riferisce l'art 110 TFUE che invece colpiscono anche le merci nazionali corrispondenti. • deve trattarsi di un onere imposto al soggetto obbligato al pagamento: questo esclude dalla nozione di tassa di effetto equivalente gli oneri pecuniari riscossi in occasione del passaggio attraverso la frontiera di determinate merci, qualora tali oneri costituiscano il corrispettivo di un servizio effettivamente prestato all'interessato in occasione delle operazioni di importazione o esportazione. • deve trattarsi di un onere imposto unilateralmente dallo stato membro di importazione o di esportazione: questo esclude che vadano considerati come tasse di effetto equivalente gli oneri pecuniari riscossi solo su prodotti importati o esportati qualora risultino direttamente previsti o implicitamente autorizzati da norme di diritto dell'UE per favorire gli scambi tra stati membri. cfr sentenza ligur-carni del 1993: la corte era stata chiamata a pronunciarsi sulla normativa italiana che imponeva, all'ingresso nel territorio comunale di carni fresche provenienti dal territorio di altri comuni o dall'estero, la sottoposizione a controllo sanitario e il pagamento di un diritto di visita. la corte precisa che, in virtù di una direttiva applicabile al settore, le carni fresche provenienti da altri stati membri e munite del certificato sanitario prescritto dalla direttiva non possono essere sottoposte, nello stato di importazione, a nuovo controllo. di conseguenza la corte conclude che la direttiva osta a una normativa nazionale in materia di ispezioni sanitarie che assoggetti le merci importate a controlli sanitari obbligatori nel comune di transito o di destinazione delle merci e imponga agli operatori economici interessati il pagamento di un diritto come corrispettivo. una volta stabilito che ci si trova di fronte a una tassa di effetto equivalente, le concrete modalità di percezione sono ininfluenti, per esempio anche una tassa riscossa non alla frontiera, ma all'interno del territorio di uno stato membro è vietata (cfr sentenza ligur carni); nemmeno rileva che la tassa non persegua scopi protezionistici, ma interessi di ordine generale come la protezione del patrimonio artistico nazionale o serva a finanziare l'organizzazione di un servizio di pubblico interesse (cfr diritti per controlli sanitari nella sentenza ligur carni). la portata del divieto di tasse di effetto equivalente di cui agli artt 28 e 30 riguarda solo gli scambi tra stati membri. DIVIETO DI IMPOSIZIONI INTERNE DISCRIMINATORIE O PROTEZIONISTICHE gli artt 28 e 30 vanno letti in combinazione con l'art 110, secondo cui: nessuno stato applica diretatmente o indirettamente ai prodotti degli stati membri imposizioni interne, di qualsiasi natura, superiori a quelle applicate direttamente o indirettamente ai prodotti nazionali similari. inoltre nessuno stato membro applcia ai prodotti degli stati membri imposizioni interne intese a proteggere indirettamente altre produzioni. questo art ha un duplice scopo: • da un lato riconosce che ciascuno stato membro può tassare i prodotti provenienti da altri stati membri (se non fosse possibile i prodotti importati, godendo di una sorta di esenzione fiscale, risulterebbero avvantaggiato rispetto a quelli nazionali). • dall'altro la norma limita questo potere, vietando agli stati membri di colpire i prodotti importati in maniera discriminatoria o protezionistica: senza questa limitazione, la liberalizzazione degli scambi tra stati membri non sarebbe completa, in quanto gli stati potrebbero continuare a ostacolare le importazioni attraverso lo strumento fiscale. possiamo dire che questo art ha quindi una funzione complementare rispetto agli artt 28 e 30. in quanto complemento del divieto di dazi doganali e tassi di effetto equivalente, questo divieto ha la stessa portata di questi ultimi: esso riguarda quindi gli scambi tra stati membri e si applica sia ai tributi che determinano una discriminazione fiscale a danno dei prodotti importati, sia ai tributi che determinano una discriminazione riguardo ai prodotti destinati all'esportazione rispetto a quelli destinati a essere commercializzati nel territorio dello stato membro. nozione di imposizione interna: bisogna distinguere un'imposizione interna da una tassa di effetto equivalente a un dazio doganale, in quanto le tasse di effetto equivalente sono vietate sic et simpliciter, menter le imposizioni interne sono vietate solo nella misura in cui sono discriminatorie nei confronti di prodotti importati o hanno effetti protezionistici in favore della produzione interna. la differenza consiste nel fatto che la tassa di effetto equivalente colpisce esclusivamente il prodotto importato in quanto tale, mentre una imposizione interna grava allo stesso tempo sulle merci importate e su quelle nazionali. [cfr sentenza schul del 1982: il signor schul aveva importato nei paesi bassi un'imbarcazione d'occasione acquistata in francia. le autorità dei paesi bassi avevano applicato all'operazione l'IVA all'importazione, usando come base imponibile il prezzo d'acquisto. schul riteneva che la stessa IVA all'importazione, se applicata a beni di occasione provenienti da altri stati membri, costituisse una tassa di effetto equivalente, nella misura in cui una tale imposta non veniva riscossa sull'acquisto di beni d'occasione effettuato all'interno del medesimo stato. la corte respinge questa tesi, osservando che l'IVA all'importazione fa parte del sistema comune dell'IVA, che colpisce sistematicamente sia le operazioni effettuate all'interno degli stati membri sia le operazioni all'importazione. la corte conclude quindi che l'IVA all'importazione costituisce un'imposizione interna ai sensi dell'art 110]. il criterio dettato da questa formula però non è sempre sufficientemente preciso: il caso più emblematico è dato da quelle imposizioni che colpiscono prodotti esclusivamente importati da altri stati membri per il fatto che non esiste alcuna produzione nazinoale corrispondente. in questo caso la giurisprudenza afferma che ci si trova di fronte a una imposizione interna ai sensi dell'art 110 a condizione che l'imposizione rientri in un regime generale di tributi interni che gravano sistematicamente su categorie di prodotti secondo criteri obiettivi applicati indipendentemente dall'origine dei prodotti. per quanto riguarda il contenuto dell'art 110 bisogna distinguere: • il primo comma vieta agli stati membri di applicare, direttamente o indirettamente, imposizioni interne superiori a quelle applicate, direttamente o indirettamente, ai prodotti nazionali similari: a. perchè questo divieto trovi applicazione è necessario che ci si trovi in presenza di prodotti similari, dove tale nozione va interpretata non in base al criterio della assoluta identità, ma a quello dell'analogia o della comparabilità dell'impiego. nella sentenza commissione c. danimarca del 1986 acquistato in francia, dove era il libera pratica, e importato in belgio. l'importatore opponeva che, date le condizioni di acquisto, gli era impossibile procurarsi l'attestazione richiesta. la corte afferma che lo stato membro che richieda un certificato di origine più facilmente accessibile dall'importatore diretto di un prodotto, che da chi abbia acquistato il medesimo prodotto in un altro stato membro, diverso dal paese di origine, dove esso si trovava in libera pratica, pone in essere una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa incompatibile con il trattato]. questa definizione, nota come definizione dassonville, appare ampia e severa: • per far scattare il divieto dell'art 34 è sufficiente che la normativa di uno stato membro possa provocare un ostacolo agli scambi: basta che vi sia una normativa nazionale tale da rendere meno agevola la commercializzazione di un prodotto in modo da scoraggiarne l'importazione da altri stati membri. • nemmeno è possibile limitare la portata della definizione in relazione al tipo di misura, in quanto il qualificativo "commerciale" è molto generico. • anche l'entità dell'effetto restrittivo sembra irrilevante: da ciò discende che misure che ostacolano gli scambi in maniera minima sono comunque soggette al divieto (non vale quindi il principio del de minimis, a differenza di quanto avviene per le regole di concorrenza applicabili alle imprese). • inoltre l'ostacolo agli scambi può avere carattere indiretto o potenziale: non occorre dimostrare che la normativa riguardi espressamente le importazioni o abbia a oggetto la disciplina degli scambi trasnfrontalieri nè che abbia effettivamente provocato una diminuzione delle importazioni, in quanto, una volta accertato che una misura statale può costituire ostacolo agli scambi, questa è soggetta al divieto dell'art 34. • soprattutto, sebbene il caso della sentenza dassonville avesse a oggetto una normativa nazionale relativa alle sole merci importate dall'estero cioè avesse carattere discriminatorio, la formula dassonville non fa riferimento a tale aspetto, lasciando intendere che il carattere discriminatorio o meno della misura non rileva ai fini della qualificazione come misura di effetto equivalente. il test articolato nella sentenza dassonville è formulato in modo talmente ampio che, di fronte a una qualsiasi misura adottata da uno stato membro, la presenza di un effetto equivalente a una restrizione quantitativa è quasi data per scontata. tuttavia la corte, senza mai rinnegare tale formula, ha finito per adottare un approccio meno severo a seconda dei vari tipi di misure da esaminare, elaborando test diversi per alcune categorie di misure. in particolare occorre distinguere tra: a. misure restrittive che si applicano ai soli prodotti importati, c.d. misure discriminatorie: tali misure sono costituite da provvedimenti statali che sottopongono l'importazione o la commercializzazione di merci provenienti da altri stati membri a requisiti non previsti per le merci corrispondenti di produzione nazionale. in questa nozione rientrano anche quei provvedimenti, che, pur applicandosi alle merci indipendentemente dalla loro origine, stabiliscono condizioni meno severe o più favorevoli, per i soli prodotti nazionali. --> queste misure sono considerate come vietate dall'art 34 anche quando l'effetto restrittivo provocato sia minimo. in questi casi l'unica possibilità per sfuggire al divieto consiste nell'invocare la deroga prevista dall'art 36, dimostrando che ricorrono i presupposti per l'applicazione di tale norma. b. misure restrittive che sono previste per qualsiasi merce che circoli o sia commercializzata nel territorio dello stato membro a prescindere dall'origine, c.d. misure indistintamente applicabili: inizialmente sembrava che tali misure sfuggivano per definizione al divieto dell'art 34, in quanto il carattere discriminatorio sembrava connaturato nell'idea stessa di restrizione quantitativa e perciò sembrava che dovesse costituire requisito indispensabile anche per la nozione di effetto equivalente. in seguito però la giurisprudenza ha mostrato come, in alcuni casi, anche una misura indistintamente applicabile può produrre effetti restrittivi sulle merci importate da altri stati membri ed essere considerata rientrante nel divieto dell'art 34. • un esempio di misure di effetto equivalente indistintamente applicabili è venuto in rilievo rispetto al problema dei c.d. ostacoli tecnici agli scambi: questa nozione copre quegli ostacoli alla libera circolazione delle merci che sono provocati dalla diversità delle normative con cui ciascuno stato membro disciplina le modalità di fabbricazione, composizione, imballaggio, ecc (c.d. norme tecniche). in genere tali normative si applicano a tutti i prodotti posti in commercio nel territorio dello stato membro indipendentemente dall'origine nazionale o straniera. la diversità tra normative nazionali di questo tipo fa sì che il prodotto fabbricato e confezionato secondo le norme tecniche vigenti nellos tato di produzione non possa essere posto in vendita nel territorio di un altro stato, se non previo adattamento alle norme vigenti in quest'ultimo. questo problema è stato affrontato nella sentenza cassis de dijon del 1979 [il caso riguardava un liquore francese che era regolarmente in commercio nello stato di produzione ma la cui importazione e vendita in germania erano impedite dalla sua non conformità alla legislazione tedesca sul contenuto alcolico minimo delle bevande]. in questa sentenza la corte ha riconosciuto che, in mancanza di una normativa comune in materia di produzione e commercio dell'alcool, spetta agli stati membri disciplinare tutto ciò che rigaurda la produzione e il commercio dell'alcool. questo però non significa che esista un potere assoluto degli stati di imporre il rispetto delle proprie norme anche ai prodotti importati da altri stati membri. ha invece affermato che gli ostacoli per la circolazione intracomunitaria derivanti da disparità delle legislazioni nazionali relative al commercio dei prodotti vanno accettati qualora tali prescrizioni possano ammettersi come necessarie per rispondere a esigenze imperative attinenti a: efficacia dei controlli fiscali, protezione della salute pubblica, lealtà dei negozi commerciali, difesa dei consumatori. [con riferimento al caso di specie la corte giudica che le autorità tedesche non erano state in grado di dimostrare che la legislazione sul contenuto alcolico minimo delle bevande potesse dirsi giustificata dall'esigenza di tutela della salute pubblica o di protezione dei consumatori]. la corte conclude che in questo caso non sussiste alcun valido motivo per impedire che bevande alcoliche vengano introdotte in qualsiasi altro stato membro senza che possa essere opposto un divieto legale di porre in vendita bevande con gradazione alcolica inferiore al limite determinato dalla normativa nazionale. il pensiero della corte è dunque che la normativa di uno stato membro riguardante i requisiti tecnici dei prodotti può essere applicata anche a prodotti importati dagli altri stati membri alle seguenti condizioni (test cassis): 1. la normativa deve essere giustificata da esigenze imperative relative alla protezione di interessi di ordine generale del tipo di quelli indicati dalla sentenza. 2. la normativa deve rispettare il principio di proporzionalità e pertanto deve: a) essere idonea allo scopo di interesse generale perseguito e b) non comportare restrizioni eccessive, nel senso che non esistano altri mezzi meno restrittivi per conseguire lo stesso risultato. in caso contrario il divieto di cui all'art 34 impone allo stato membro di importazione di consentire la commercializzazione di prodotti non conformi alla propria normativa tecnica, che siano legittimamente fabbricati e venduti nello stato membro di origine. in quest'ottica lo stato membro di importazione avrà l'onere di valutare se la normativa tecnica in vigore nello stato d'origine del prodotto offra garanzie equivalenti a quelle richieste dalla propria normativa: in caso affermativo e sempre che il prodotto sia conforme alla normativa dello stato d'origine, lo stato di importazione non potrà imporre allo stesso prodotto il rispetto anche della propria normativa tecnica, perchè così facendo lo sottoporrebbe a due normative tecniche (c.d. doppio onere normativo). [il divieto riguarda non solo l'imposizione di requisiti tecnici ulteriori, ma anche la sottoposizione di prodotti importati a controlli tecnici pervisti da norme indistintamente applicabili dello stato membro di importazione quando tali controlli siano supplementari rispetto a quelli già svolti nello stato d'origine]. di conseguenza, nel campo delle normative tecniche, può parlarsi un obbligo di mutuo riconoscimento delle legislazioni nazionali derivante dal divieto di cui all'art 34. la giurisprudenza di questo caso è anche detta giurisprudenza delle esigenze imperative. • il test cassis è stato inizialmente concepito in funzinoe della sua applicazione a normative tecniche relative ai prodotti. ben presto però la corte si è trovata a farne applicazione anche a un tipo diverso di normativa nazionale, ovvero le disposizioni che disciplinano in ciascuno stato membro le condizioni secondo cui i prodotti possono essere venduti oppure i metodi di promozione delle vendite ammessi (norme sulle modalità di vendita dei prodotti). a differenza delle norme tecniche, queste disposizioni non riguardano il prodotto in sè, ma le modalità con cui il prodotto può essere posto in venita o la sua vendita può essere promossa. tuttavia la giurisprudenza considera che, alla stessa stregua delle normative tecniche, le norme sulle modalità di vendita sono capaci di produrre un effetto restrittivo sulle importazioni. questo effetto viene individuato nel restringimento delle opportunità di vendita dei prodotti in generale e dei prodotti importati in particolare. inconsiderazione di questo effetto, la corte aveva inizialmente sottoposto queste norme a un test simile al test cassis: queste normative erano considerate vietate dall'art 34 in quanto misure di effetto equivalente a una restrizione quantitativa: a. a meno che non fossero giustificate da esigenze imperative legate alla necessità di tutelare un interesse di ordine generale. b. sempre che fosse rispettato il principio di proporzionalità. invece con la sentenza keck la corte ha precisato che non sempre una normativa relativa alle modalità di vendita è in grado di produrre un effetto restrittivo sulle importazioni. secondo la corte, solo eccezionalmente le norme sulla modalità di vendita dei prodotti producono un effetto restrittivo sulle importazioni e costituiscono qunidi una misura di effetto equivalente a una restrizione quantitativa ai sensi dell'art 34. ciò avviene qualora sia dimostrato che la normativa: a. non è applicabile a tutti gli operatori interessati e questo avviene anche ove un solo operatore sia esentato dal rispetto di tale normativa. b. impedisce l'accesso al mercato nazinoale da parte dei prodotti importati o lo rende più difficile di quanto non lo sia per i prodotti nazionali. il test keck consiste quindi nel verificare se la normativa comporta una discriminazione indiretta a danno dei prodotti provenienti dagli altri stati membri in termini di accesso al mercato. la giurisprudenza keck ha suscitato diverse difficoltà: a. la prima difficoltà ha riguardato la distinzione tra norme tecniche e norme sulle modalità di vendita: questa distinzione è importante, perchè le norme tecniche sono vietate dall'art 34, salvo che ricorrano le condizioni indicate dalla giurisprudenza delle esigenze imperative, mentre le norme sulle modalità di vendita sono, in linea di principio, sottratte del tutto all'art 34, salvo che ricorrano le condizioni indicate dalla giurisprudenza keck. con il passare del tempo la giurisprudenza si è mostrata alquanto restrittiva nel qualificare la normativa nazionale in esame come norma sulla modalità di vendita, mostrando invece di preferire la qualificazione come normativa tecnica. b. una seconda difficoltà si è posta per stabilire se una normativa relativa alle modalità di vendita dissimulata al commercio tra gli stati membri. la logica di questo art è che la protezione degli interessi generali può richiedere in determinati casi l'imposizione alle merci importate o esportate di misure di salvaguardia, nonostante da ciò possa derivare una restrizione degli scambi. in quanto permette una eccezione al principio della libera circolazione delle merci, la corte ha chiarito che l'art 36 deve essere oggetto di una interpretazione restrittiva e non bisogna intendere che gli stati membri godano di un potere illimitato per quanto riguarda la scelta delle misure necessarie per salvaguardare tali interessi generali; al contrario le loro scelte sono soggette al controllo della commissione e al giudizio della corte. l'interpretazione restrittiva porta ad escludere che l'art 36 possa essere invocato per giustificare misure di tipo diverso da quelle elencate dalla norma: per esempio la riscossione di tasse di effetto equivalente a dazi doganali non può mai beneficiare di una deroga ai sensi dell'art 36; allo stesso modo tale art non può essere invocato riguardo a misure miranti a tutelare esigenze nazionali di carattere economico, come i provvedimenti destinati a risanare a bilancia dei pagamenti. la corte considera infatti l'elencazione degli interessi generali contenuta nell'art come tassativa, di conseguenza gli stati membri non possono invocare la norma per giustificare misure restrittive che perseguano obiettivi, pur qualificabili come interessi di ordine generale, ma diversi da quelli menzionati. possiamo supporre che proprio il rifiuto di estendere l'art 36 in modo da coprire la protezione di altri interessi di ordine generale ha indotto la corte a elaborare la giurisprudenza delle esigenze imperative. innegabilmente l'art 36 e tale giurisprudenza presentano delle analogie, infatti anche ai fini dell'applicazione dell'art 36 bisogna dimostrare che la misura restrittiva: • è necessaria per proteggere uno degli interessi di ordine generale. • rispetta il principio di proporzionalità. tuttavia alcune delle condizioni di applicazione di tale giurisprudenza e quelle necessarie perchè possa essere invocata la deroga dell'art 36 restavano inizialmente distinte dal punto di vista concettuale: • la giurisprudenza delle esigenze imperative aveva una portata circoscritta, in quanto valeva solo nel caso di normative indistintamente applicabili tanto ai prodotti importati quanto ai prodotti corrispondenti di origine nazionale. • la deroga prevista all'art 36 trova applicazione indipendentemente dal carattere discriminatorio o meno della misura in esame. questo tratto distintivo è venuto meno col passare del tempo, infatti la corte ha accettato di verificare l'esistenza di un'esigenza imperativa tale da giustificare una misura restrittiva anche nel caso di misure discriminatorie. ciò spiega perchè accada con una certa frequenza che la corte, nel chiedersi se una misura già giudicata come restrittiva possa non essere considerata vietata, afferma che una misura del genere può essere giustificata da uno dei motivi di interesse generale indicati dall'art 36 oppure da una ragione imperativa. tuttavia va osservato che questo modo di provvedere sembra per ora limitato ai casi in cui, essendo le misure indistintamente applicabili, sarebbero comunque invocabili tanto i motivi previsti dall'ar 36 quanto quelli corrispondenti alle esigenze imperative di cui all'omonima giurisprudenza. nell'ambito della giurisprudenza delle esigenze imperative, la corte ha riconosciuto un novero molto ampio di interessi di ordine generale capaci di giustificare l'applicazione ai prodotti importati della normativa in vigore nello stato di importazione: oltre a quelli richiamati nella sentenza cassis, anche la promozione della produzione cinematografica, la tutela dell'ambiente, la promozione della diversità dei mezzi di informazione, la tutela del diritto alla libera manifestazione del pensiero, la libertà di associazione, la tutela dei consumatori, ecc. la giurisprudenza ha avuto altresì modo di applicare in diverse occasioni dei motivi di interesse di ordine generale espressamente pervisti dall'art 36, in particolare soluzioni originali sono state raggiunte dalla corte in materia di protezione della proprietà industriale e commerciale. • la corte ha accolto una nozione alquanto ampia di proprietà industriale e commerciale, includendovi non solo i diritti di brevetto per invenzioni industriali e i marchi di impresa, ma anche i diritti d'autore, i diritti di brevetto per modelli industriale e disegni ornamentali e le denominazioni di origine geografica. • in mancanza di misure di armonizzazione a livello dell'UE, o diritti di proprietà industriale e commerciale hanno carattere territoriale: ciascuno stato membro accorda diritti del genere per quanto riguarda il proprio territorio nazionale e il titolare di un diritto di proprietà industriale o commerciale ha il potere esclusivo di sfruttarlo economicamente sul territorio dello stato membro. • tra i diritti che spettano al titolare vi è quello di opporsi all'importazione di prodotti provenienti da altri stati membri in violazione del suo diritto esclusivo, il che ostacola la libera circolazione di determinate merci. l'art 36 prevede una deroga al divieto di cui all'art 34, la quale va interpretata in senso restrittivo, infatti la corte distingue tra esistenza del diritto e esercizio dello stesso. lo scopo di tale distinzione è stato chiarito dalla corte nella sentenza keurkoop del 1982: la corte ricorda che, ai sensi dell'art 36, il contemperamento delle esigenze della libera circolazione delle merci con il rispetto dovuto ai diritti di proprietà industriale e commerciale va realizzato in modo da tutelare il legittimo esercizio dei diritti attribuiti dagli ordinamenti nazinoali, rifiutando la tutela di ogni abuso di tali diritti, atto a conservare o creare suddivisioni nell'amito del mercato comune. per distinguere tra forme di esercizio legittimante e abusive, la giurisprudenza fa perno sull'idea di oggetto specifico e di funzione essenziale del diritto di proprietà industriale e commerciale. qualora la forma di esercizio del diritto di privativa ecceda il suo oggetto specifico, la deroga di cui all'art 36 non può essere invocata. • un caso emblematico di applicazione di tale distinzione si è avuta con riguardo al principio dell'esaurimento del diritto di privativa: questo fenomeno si realizza all'atto della prima immissione nel commercio del prodotto brevettato o munito di marchio nel territorio di uno qualsiasi degli stati membri quando l'immissione sia stata effettuata dal titolare stesso del diritto o con il suo consenso anche da un soggetto legato al titolare da vincoli di dipendenza economica o giurdica. una volta che ciò sia avvenuto, il titolare del diritto non può opporsi all'importazione in altri stati memrbi del prodotto protetto, indipendentemente dalle condizioni in cui la prima commercializzazione sia in concreto avvenuta. diventa quindi cruciale accertare se vi sia stato o meno consenso del titolare alla immissione in commercio: il consenso è stato escluso qualora il prodotto sia stato fabbricato e immessio in commercio dal titolare di una licenza obbligatoria di brevetto non volontariamente concessa dal titolare del diritto; nemmeno può parlarsi di consenso nel caso d iprodotti contrassegnati dal medesimo marchio di cui sono titolari in stati membri diversi soggetti che hanno acquistato il diritto al marchio in modo del tutto indipendente. cfr sentenza hag del 1990: si trattava di una nota marca di caffè. il titolare del marchio per la germania ha potuto opporsi all'importazione dal belgio di caffè prodotto dal titolare dello stesso marchio in quest'ultimo stato, dal momento che il marchio, sebbene inizialmente spettante al medesimo soggetto, era stato oggetto di espropriazione da parte delle autorità belghe e poi ceduto a un altro soggetto privo di qualunque legame con il titolare originario. LIBERA CIRCOLAZIONE DELLE MERCI E MONOPOLI PUBBLICI l'art 37 è relativo ai monopoli pubblici a carattere commerciale. questa norma tende a conciliare la pox per gli stati membri di mantenere alcuni monopoli di carattere commerciale, in quanto strumenti per il perseguimento di obiettivi di interesse pubblico con le esigenze dell'instaurazione del mercato comune e mira a eliminare gli ostacoli alla libera circolazione delle merci, a eccezione degli effetti restrittivi sugli scambi che sono inerenti all'esistenza di monopoli. l'art 37 definisce la nozione di monopolio commerciale così: qualsiasi organismo per mezzo del quale uno stato membro controlla, dirige o influenza, direttamente o indirettamente, le importazioni o le esportazioni tra gli stati membri. i monopoli rispondenti a tali caratteristiche non sono vietati in quanto tali. l'art 37 si limita a prescriverne il riordinamento, cioè l'eliminazione di qualsiasi discriminazione tra i cittadini degli stati membri per quanto riguarda le condizioni relative all'approvigionamento e agli sbocchi. la nozione di misura vietata non è del tutto chiara, tanto più che si riferisce a discriminazioni tra persone e non tra prodotti, come sarebbe stato più logico in una norma in tema di circolazione delle merci. la casistica esaminata dalla corte rivela che è da considerarsi incompatibile con l'art 37 e quindi vietata qualsiasi misura adottata nel quadro di un monopolio di carattere commerciale che abbia per effetto di svantaggiare lo scmabio di merci in provenienza da altri stati membri rispetto a quello delle merci nazionali e di falsare la concorrenza tra le economie degli stati membri. l'art 37 è norma maggiormente permissiba per gli stati membri rispetto alle altre norme in materia di libera circolazione delle merci e in partic dell'art 34. essa consente infatti di mantenere nell'ambito di un monopolio commerciale norme che altrimenti sarebbero vietate. occorre stabilire qual è il campo di applicazione dell'art 37. secondo la corte, il solo datto che un provvedimento riguardi prodotti rientranti in un monopolio di carattere commerciale ma abbia in realtà portata generale, nel senso che si applica anche a prodotti dello stesso tipo ma non soggetti al monopolio, non consente di invocare l'art 37. la giurisprudenza ha poi stabilito che anche all'interno dei provvedimenti che riguardano il monopolio non tutti sono solo per questo motivo soggetti all'art 37. tale disposizione ha per oggetto solo le attività intrinsecamente connesse all'esercizio della funzione specifica del monopolio e non si applica alle norme nazionali che esulano dall'esercizio di questa specifica funzione. secondo una formulazione più recente, bisogna distinguere tra le norem relative all'esistenza e al funzionamento del monopolio e norme che sono scindibili dal funzionamento del monopolio pur avendo incidenza su quest'ultimo: solo le prime vanno esaminate alla luce dell'art 37, mentre l'incidenza sugli scambi tra stati membri sulle seconde deve essere valutato alla luce dell'art 34. precedenza erano distribuite in testi legislativi numerosi e diversi, ma mira anche a incorporare molte delle soluzioni cui era pervenuta la giurisprudenza della corte e ad aggiornare l'intera disciplina, introducendo elementi di novità, tra cui il diritto di soggiorno permanente in uno stato membro diverso la proprio, diritto riconosciuto dall'art 16 ai cittadini dell'UE e ai loro familiari che abbiano soggiornato legalmente e in via continuativa per 5 anni nello stato membro ospitante. rapporto tra norme del TFUE e gli atti legislativi che vi danno attuazione: tali atti mirano solo a facilitare l'esercizio dei diritti che i lavoratori interessati traggono direttamente dall'art 45, quindi non possono mai avere l'effetto di restringere la portata di tali diritti, cfr. sentenza royer del 1976: il signor royer, cittadino francese, aveva preso dimora in belgio, dove la moglie lavorava. egli non aveva mai richiesto alle autorità locali un permesso di soggiorno nè la carta di soggiorno previsti dalla direttiva in materia. per questo motivo il signor r era stato oggetto di un provvedimento di espulsione. egli vi si opponeva invocando il diritto di libera circolazione previsto dall'art 45. la corte ricorda in primis che il diirtto dei cittadini di uno stato membro di entrare nel territorio di un altro stato membro e di dimorarvi è un diritto attribuito direttamente dal trattato o dalle disposizioni adottate per la sua attuazione. si deve concludere ceh questo diritto si acquista indipendentemente dal rilascio di un documento di soggiorno da parte della competente autorità di uno stato membro. il rilascio di questo documento va quindi considerato non come un atto costitutivo di diritti, ma come un atto destinato a comprovare da parte di uno stato membro la posizione inviduale del cittadino di un altro stato membro nei confronti delle norme comunitarie. ne discende che la semplice omissione, da parte del cittadino di uno stato membro, delle formalità di legge relative all'ingresso, al trasferimento e al soggiorno degli stranieri non può giustificare un provvedimento di espulsione. bisogna infine ricordare gli atti legislativi adottati in forza dell'art 48 TFUE che autorizza le istituzioni ad approvare misure specifiche in materia di sicurezza sociale finalizzate a rendere possibile l'instaurazione della libertà di circolazione. I BENEFICIARI inizialmente la libera circolazione delle persone non spettava a tutti i cittadini degli stati membri. potevano usufruirne solo coloro che erano coinvolti in una attività economicamente rilevante: i lavoratori ai sensi dell'art 45 e coloro che esercitavano il diritto di stabilimento ai sensi dell'art 49 o la libera prestazione di servizi ai sensi dell'art 56. il requisito dello svolgimento di un'attività economicamente rilevante è venuto meno con l'introduzione della cittadinanza dell'UE. gli artt 20 e 21 stabiliscono che ai cittadini dell'UE spetta il diritto di circolare e soggiornare liberamente nel territorio degli stati membri. gli atti legislativi per attuare tali artt hanno poi esteso alcuni diritti di libera circolazione anche ai familiari dei soggetti che beneficiano della libera circolazione. pertanto attualmente i diritti di libera circolazione sono attribuiti alle seguenti categorie di soggetti: • i lavoratori ai sensi dell'art 45. • gli esercenti un'attività autonoma in regime di stabilimento ai sensi dell'art 49 o di libera prestazione di servizi ai sensi dell'art 56 (in seguito comprensivamente i lavoratori autonomi) • i cittadini ai sensi dell'art 20 • i familiari dei soggetti suddetti. • a queste categorie potrebbe aggiungersi anche quella dei destinatari di servizi, intesi come soggetti che circolano nel territorio degli stati membri per poter beneficiare di una prestazione di servizi da parte di soggetti stabiliti in uno stato membro diverso da quello d'origine del destinatario del servizio. la portata dei diritti di libera circolazione non è identica per tutte le categorie indicate, in particolare differenza di notevole importanza riguardano il diritto di soggiorno e il principio di non discriminazione o di parità di trattamento a seconda che si tratti di un semplice cittadino o di un soggetto economicamente attivo. di conseguenza è importante stabilire se un determinato soggetto può invocare le disposizioni riguardanti la libera circolazione dei soggetti economicamente attivi (artt 45, 49 e 56) o solo quelle riguardanti i semplici cittadini (artt 18 e 21). possiamo fare riferimento alla giurisprudenza sviluppata dalla corte relativamente alla nozione di lavoratore ai sensi dell'art 45: secondo la giuri la nozione di lavoratore va interpretata in maniera autonoma, senza fare riferimento alle definizioni contenute nei vari diritti nazionali e comunque in maniera non restrittiva. per rientrare nel campo di applicazione dell'art 45 bisogna che il soggetto in questione svolga una attività per un certo periodo di tempo, a favore di un'altra persona e sotto la direzione di quest'ultima, ricevendo come contropartita una retribuzione. devono quindi essere presenti 3 caratteristiche: • un vincolo di subordinazione. • una durata prolungata. • una remunerazione. la libera circolazione può essere invocata anche da un ex lavoratore. infatti, una volta acquistata, la qualità di lavoratore non si perde se l'attività lavorativa viene interrotta: beneficia della libera circolazione anche colui che intraprende studi universitari in uno stato membro diverso dal suo dopo avervi svolto una attività lavorativa, esigendosi solo un legame tra tale attività e gli studi; la stessa soluzione si applica a un lavoratore che rientri nel proprio stato membro di origine dopo aver lavorato in un altro stato membro; a fortiori non perde la qualità di lavoratore colui che ha fatto ingresso in un altro stato membro con l'intento precipuo di seguirvi dei corsi di formazione, ma abbia ivi svolto fin dal suo arrivo un lavoro subordinato a tempo pieno e, una volta iniziati i suoi studi, abbia continuato un'attività subordinata a tempo parziale. anche un soggetto in cerca di occupazione rientra nel campo di applicazione dell'art 45. CAPITOLO IV: DIRITTO DI STABILIMENTO E LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI QUADRO NORMATIVO il TFUE prevede due diverse modalità di svolgimento di un'attività di lavoro autonomo: il diritto di stabilimento, previsto agli artt 49 e ss, e la libera prestazione di servizi, prevista agli artt 56 e ss, a seconda che l'attività lavorativa abbia carattere stabile o temporaneo. tali norme sono espresse in maniera precisa e incondizionata, quindi la CGUE vi ha riconosciuto efficacia diretta, ma sono stati comunque necessari degli interventi legislativi da parte delle istituzioni (integrazione positiva) per facilitare l'esercizio di questi diritti. le attività di lavoro autonomo erano soggette, per quanto riguarda le condizioni per l'accesso e per l'esercizio, a discipline molto diverse da parte degli stati e questo poteva costituire un ostacolo all'esercizio del diritto di stabilimento o della libera prestazione di servizi: per esempio se lo stato A subordina l'accesso di una certa attività autonoma al possesso di un titolo di studio ottenuto in tale stato o all'essere iscritto in un albo professionale nazionale, risulta difficile, se non impossibile, per i cittadini dello stato B che vogliono esercitare i diritti conferitigli dall'art 49 o 56 soddisfare tali condizioni. di conseguenza le disposizioni riguardanti tali libertà prevedono delle basi giuridiche che permettono alle istituzioni di adottare atti legislativi per armonizzare le disposizioni legislative e regolamentari degli stati membri che regolano le modalità di accesso e di esercizio delle attività lavorative autonome, in particolare l'art 53 prevede che le istituzioni possano adottare delle direttive generali (cioè relative a qualsiasi attività di lavoro autonomo) per permettere il riconoscimento dei diplomi, attestati e altri titoli di studio da parte di tutti gli stati membri e per coordinare le disposizioni legislative e regolamentari degli stati relative alle modalità di accesso ed esercizio delle attività lavorative autonome. le direttive più importanti adottate sulla base dell'art 53 sono la direttiva servizi (123/2006) e la direttiva qualifiche professionali (36/2005). NB: questi atti legislativi servono a facilitare l'esercizio dei diritti previsti all'art 49 e 56, che sono attribuiti ai soggetti direttamente dai trattati, quindi non possono avere l'effetto di restringere la portata di tali diritti e inoltre tali atti devono essere interpretati conformemente alle disposizioni dei trattati. I BENEFICIARI • rientrano nel campo di applicazione degli art 49 e 56 i lavoratori autonomi, cioè coloro che svolgono una attività lavorativa senza vincolo di subordinazione nei confronti del destinatario del servizio, ricevendo come contropartita una retribuzione (è una attività economica). l'oggetto dell'attività lavorativa non è rilevante. • l'art 54 estende anche alle società l'applicazione dell'art 49 e, per effetto del richiamo contenuto nell'art 62, anche dell'art 56, quindi anche le società rientrano nel campo di applicazione di tali articoli. in particolare l'art 54 dice che le società commerciali che hanno sede legale in uno stato membro sono equiparate, per quanto riguarda il diritto di stabilimento (e alla libera prestazione di servizi), alle persone fisiche cittadine di uno stato membro dell'UE. a dire il vero l'equiparazione non è totale: per quanto riguarda le società, a queste spetta solo il diritto di stabilimento secondario. cfr sentenza daily mail: si tratta di una società registrata in inghilterra, con sede legale in inghilterra, che esercita il diritto di stabilimento ai sensi dell'art 49 per spostare la propria sede legale in olanda, allo scopo di usufruire della tassazione più favorevole vigente in questo stato. ma c'è una norma in inghilterra che richiede per le società che vogliono spostare la propria sede in un altro stato il rilascio dell'autorizzazione da parte delle autorità competenti: l'autorizzazione viene rifiutata e il daily mail lamenta una violazione dell'art 49. ma la CGUE dà ragione alle autorità inglesi, dicendo che alle società spetta solo il diritto di aprire una agenzia, stato. questo diritto si concreta nel diritto di un soggetto di aprire agenzie, succursali e filiali in altri stati membri. diritto di stabilimento primario comprende a sua volta un doppio contenuto: • conferisce ai cittadini di uno stato membro il diritto di accesso e di esercizio di una certa attività autonoma in un altro stato membro (pox che comprende anche quella di fondare o gestire imprese o società di cui il cittadino dell'UE detiene il controllo). --> il diritto di accesso e di esercizio implica che sono vietate le normative nazionali che impediscono ai cittadini di altri stati membri di svolgere una certa attività di lavoro autonoma (c.d. clausole di nazionalità). • stabilisce il principio della parità di trattamento, cioè vieta allo stato di stabilimento di imporre ai soggetti in esso stabiliti condizioni diverse rispetto a quelle che sono imposte ai propri cittadini. --> il principio della parità di trattamento implica che sono vietate: a. discriminazioni dirette in base alla nazionalità, cioè quelle normative che sottopongono i cittadini di altri stati membri a un trattamento deteriore rispetto a quello riservato ai cittadini nazionali (la condizione discriminatoria è la nazionalità). b. discriminazioni indirette in base alla nazionalità: rientrano nel divieto dell'art 49 anche le normative che, pur non usando come condizione discriminatoria la nazionalità, usano una condizione che è più difficilmente soddisfabile dai cittadini di altri stati membri rispetto ai cittadini nazionali. una condizione usata è quella della residenza nel territorio nazionale, cfr sentenza commissione vs regno unito: c'era una norma del regno unito che subordinava il rilascio delle licenze di pesca al fatto che il 75% dell'equipaggio dei pescherecci avesse la residenza nel territorio inglese. la CGUE dice che tale norma costituisce una discriminazione indiretta in base alla nazionalità, che costituisce ostacolo al diritto di stabilimento, vietata dall'art 49, in quanto la condizione della residenza nel regno unito è più facilmente soddisfatta dai cittadini inglesi, piuttosto che dai cittadini di stati terzi. c. discriminazioni materiali: rientrano nel divieto dell'art 49 anche le normative indistintamente applicabili a cittadini nazionali e di altri stati membri che, pur non essendo discriminatorie, sono tali da provocare un ostacolo al diritto di stabilimento, in quanto questi ultimi risultano sfavoriti rispetto ai primi. diritto di stabilimento secondario = diritto di un soggetto stabilito in un certo stato membro di creare un nuovo centro di attività in un altro stato membro, senza per questo perdere lo stabilimento nel primo stato. si concreta nel diritto di un soggetto di aprire agenzie, succursali e filiali in un altro stato membro. MA la giurisprudenza ha ammesso che per invocare il diritto di stabilimento secondario non è per forza necessario che il soggetto eserciti effettivamente una attività lavorativa nella sede primaria, cfr sentenza centros: si tratta di una società con sede nel regno unito, dove non aveva mai svolto nessuna attività, che chiede di esercitare diritto di stabilimento secondario, creando una succursale in danimarca. la CGUE è interrogata sulla legittimità del comportamento e dice che il fatto che la centros eserciti effettivamente la sua attività nella sede principale non preclude il fatto che possa invocare l'art 49 e possa aprire una succursale in un altro stato membro. anch'esso ha un doppio contenuto: • diritto di un soggetto stabilito in uno stato membro di aprire una agenzia, filiale, succursale in un altro stato membro, senza perdere lo stabilimento nel primo stato. --> questo implica divieto per lo stato di secondo stabilimento di adottare normative che impediscono ai soggetti di altri stati membri di aprire una filiale nel territorio nazionale, il che accade nel settore delle professioni libere, cfr causa klopp: si tratta di una norma francese che impone a tutti gli avvocati di avere un unico domicilio in francia, impedendo ai soggetti degli altri stati membri che avevano già sede legale nel proprio stato di origine si esercitare l'art 49 e aprire una filiale in francia. la CGUE la giudica contraria all'art 49. • stabilisce il principio della parità di trattamento = lo stato di stabilimento secondario deve imporre ai soggetti che vi aprono una filiale le stesse condizioni imposte ai soggetti che hanno in quello stato la loro sede principale (quindi qui il tertium comparationis per capire se c'è stata una discriminazione sono i soggetti che hanno il loro stabilimento principale nello stato membro dove è stata aperta la filiale. LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI anch'essa ha un doppio contenuto: • attribuisce al prestatore di un certo stato membro (home country) di esercitare temporaneamente la propria attività lavorativa in un altro stato membro (host country). --> implica il divieto per lo stato di prestazione di adottare normative che impediscono ai cittadini di altri stati membri di esercitare una certa attività lavorativa (clausole di nazionalità), ma anche normative che subordinano lo svolgimento di una certa attività al requisito della residenza nel territorio nazionale (clausole di residenza). la CGUE ha detto che queste ultime normative sono assolutamente contrarie all'art 56, perchè esigere come condizione per esercitare una certa attività il fatto di avere la residenza nel territorio nazionale costituisce la negazione stessa della libera prestazione di servizi. • afferma il principio del trattamento nazionale = lo stato di prestazione deve imporre al libero prestatore le stesse condizioni imposte ai cittadini nazionali. questo principio deve essere interpretato nel senso che sono vietate: a. discriminazioni dirette in base alla nazionalità b. discriminazioni indirette in base alla nazionalità: rientrano nel divieto anche quelle normative che pur senza usare il criterio della nazionalità, usano un criterio che è più facilmente soddisfabile dai cittadini nazionali piuttosto che dai cittadini di altri stati membri. degli esempi sono: le discriminazioni in base al luogo di stabilimento del prestatore (cioè normative che prevedono un trattamento di favore per i prestatori che sono stabiliti nel territorio nazionale rispetto a quelli che non lo sono: è evidente che questa condizione è più facilmente soddisfatta dai prestatori che sono cittadini nazionali di quello stato), ma anche le discriminazioni in base al luogo in cui si svolge la prestazione (cioè norme che subordinano la concessione di un trattamento favorevole al fatto che la prestazione sia avvenuta nello stato membro: questo avvantaggia i cittadini che scelgono di ricevere le prestazioni nel proprio stato rispetto a quelli che vanno in altri stati membri e indirettamente avvantaggia i prestatori stabiliti rispetto a quelli non stabiliti). --> possono essere giustificate da motivi obiettivi di interesse generale, purchè la diversità di trattamento rispetti il principio di proporzionalità. c. discriminazioni formali: rientrano nel divieto dell'art 56 anche quelle normative che pur essendo indistintamente applicabili ai liberi prestatori e ai prestatori stabiliti nello stato membro, sono tali da svantaggiare i primi. NORMATIVE INDISTINTAMENTE APPLICABILI CHE SONO DI OSTACOLO AL DIRITTO DI STABILIMENTO E ALLA LIBERA PRESTAZIONE DI SERVIZI la CGUE ha ammesso che anche normative indistintamente applicabili ai cittadini nazionali e ai cittadini di altri stati membri possano costituire un ostacolo al diritto di stabilimento e alla libera prestazione di servizi, e dunque rientrare nei divieti rispettivamente all'art 49 e 56. il primo ambito in cui la corte ha affermato questo è stato con riguardo alla libera prestazione di servizi. libera prestazione di servizi la CGUE ha ammesso che una normativa indistintamente applicabile ai cittadini nazionali e ai cittadini di altri stati membri può costituire un ostacolo alla libera prestazione dei servizi ed essere quindi vietata dall'art 56. per verificare se una tale normativa può costituire un ostacolo alla libera prestazione dei sservizi la CGUE ha elaborato un test, detto test webb, dall'omonima sentenza webb: si trattava di una impresa di fornitura di manopera già autorizzata a svolgere tale attività nel regno unito, chiedeva di svolgere la stessa attività in regime di libera prestazione di servizi anche in olanda, ma una normativa vigente diceva che avrebbe dovuto presentare una nuova autorizzazione. la CGUE dice che tale normativa pur essendo indistintamente applicabile ai cittadini nazionali e ai cittadini di altri stati membri, è tale da provocare un ostacolo alla libera prestazione dei servizi. la CGUE ammette che tale normativa sia giustificata da motivi di interesse generale, ma ritiene che sia sproporzionata rispetto a tale scopo, nella misura in cui non prende in considerazione le condizioni richieste dallo stato di stabilimento del prestatore per il rilascio dell'autorizzazione, condizioni che potrebbero dare le stesse identiche garanzie richieste dallo stato di prestazione. --> da qui si ricava il test webb: • la normativa deve essere indistintamente applicabile • deve essere tale da provocare un ostacolo alla libera prestazione dei servizi • deve essere giustificata da motivi obiettivi di interesse generale • deve essere proporzionata: cioè idonea a raggiungere lo scopo di interesse generale e non andare oltre quanto necessario per raggiungere tale scopo. in particolare la normativa si ritiene sproporzionata se l'interesse generale in questione è già tutelato da una normativa dello stato membro in cui il prestatore è stabilito, perchè altrimenti il prestatore sarebbe soggetto a un doppio onere normativo. il test webb viene ripreso nella successiva sentenza sager: c'era normativa tedesca che riservava ai consulenti in materia di brevetti alcune attività relative al controllo dei brevetti stessi. la normativa impediva a una società inglese di esercitare tali attività. la CGUE dice che pur trattandosi di una normativa indistintamente applicabile era tale da costituire un ostacolo alla libera prestazione dei servizi, ma tale normativa poteva essere giustificata da un motivo di interesse generale, cioè la protezione dei destinatari del servizio, ma in ogni caso non era proporzionata, perchè andava oltre quanto necessario per raggiungere tale scopo di interesse generale. il test webb è finito per diventare un teste generale applicabile a tutte le normative indistintamente applicabili che creano un ostacolo alla libera prestazione di servizi. diritto di stabilimento anche in questo caso la CGUE ha ammesso che una normativa indistintamente applicabile a tutti quelli che esercitano una certa attività lavorativa può costituire un ostacolo al diritto di stabilimento e quindi essere vietata dall'art 49. REGOLE DI CONCORRENZA APPLICABILI ALLE IMPRESE E OBBLIGHI PER GLI STATI MEMBRI nonostante le disposizioni agli artt 101-102 siano rivolte alle imprese, da queste si possono ricavarsi degli obblighi a carico degli stati membri. infatti in forza dell'art 4 TUE, letto in combinazione con gli artt 101-102 gli stati sono obbligati ad astenersi dall'adottare o dal mantenere qualsiasi misura tale da rendere inefficaci gli artt 101-102, c.d. obbligo di astensione. in particolare l'obbligo di astensione risulta violato in due casi: • quando lo stato adotta una normativa che obblighi la conclusione di una intesa o la promuova o ne rafforzi gli effetti. • quando lo stato attribuisce a un organo composto dai rappresentanti di una certa categoria economica il compito di prendere decisioni economiche (con oggetto per esempio la fissazione delle tariffe di un certo servizio), senza che sia preso in considerazione l'interesse generale e l'interesse delle categorie non rappresentate, cioè quella dei consumatori. --> nel caso di una normativa statale che prevede la conclusione di una intesa vietata dall'art 101, ci si chiede se possa sussistere, oltre alla responsabilità statale, anche una responsabilità delle imprese: la CGUE ha affermato che, se la normativa statale lascia un certo margine di discrezionalità alle imprese, cioè lascia un certo livello di concorrenza, e le imprese usano questo margine di manovra per eliminare anche la concorrenza rimasta, allora anche le imprese sono responsabili della violazione dell'art 101. se invece la normativa statale non lascia alle imprese nessun margine di discrezionalità, cioè elimina del tutto la concorrenza, è escluso che possa esserci una responsabilità delle imprese per violazione dell'art 101. cfr sentenza consiglio nazionale degli spedizionieri doganali: la legislazione italiana attribuiva al CNSD il compito di fissare le tariffe per i servizi degli spedizionieri doganali, il che era un comportamento in violazione dell'obbligo di astensione implicitamente imposto agli stati dall'art 101. la CGUE si chiede se possa sussistere anche una responsabilità delle imprese per violazione dell'art 101: la corte rileva che la legge italiana lasciava un certo margine di discrezionalità al CNSD nella determinazione delle tariffe e che, mentre in precedenza il consiglio aveva sempre determinato le tariffe tra una forbile di prezzi minimi e massimi in modo da lasciar sopravvivere una certa concorrenza tra gli spedizionieri, questa volta il consiglio aveva alzato talmente i prezzi minimi, in modo da non lasciar sopravvivere alcuna concorrenza. di conseguenza la CGUE ritiene anche il CSND responsabile della violazione dell'art 101. PORTATA DELLE REGOLE APPLICABILI ALLE IMPRESE riparto di competenza tra UE e stati bisogna sottolineare che la competenza dell'UE nel settore della concorrenza è limitato ai comportamenti delle imprese che provocano effetti anticoncorrenziali a livello comunitario, mentre invece i comportamenti che provocano tali effetti nel mercato interno sono soggetti alla competenza nazionale. tuttavia non è facile determinare nel concreto il riparto della competenza nel settore della concorrenza tra UE e stati, specialmente quando accade che una stessa fattispecie rientra sia nel campo di applicazione degli artt 101-102, sia in quello del diritto nazionale, in quanto provoca effetti anticoncorrenziali sia nel mercato interno sia in quello comunitario. in questo caso la CGUE ha individuato due possibili soluzioni: • la soluzione della doppia barriera, per cui alla fattispecie vanno applicati sia il diritto della concorrenza dell'UE sia quello dello stato membro. • la soluzione della barriera unica, per cui, in virtù del principio del primato del diritto dell'UE, a tale fattispecie va applicato solo il diritto dell'UE. la CGUE si è orientata per la prima soluzione, cioè nel caso di un comportamento anticoncorrenziale che provoca effetti sia nel mercato nazionale che comunitario si applicano parallelamente entrambi i diritti, MA solo se è rispettato il principio del primato del diritto dell'UE, cioè solo finchè l'applicazione del diritto nazionale non è tale da pregiudicare l'uniforme applicazione del diritto dell'UE: in altre parole se il diritto nazionale e il diritto UE vanno nella stessa direzione (perchè entrambi considerano un certo comportamento lecito o illecito), si potrà applicare parallelamente i due diritti, mentre se i due diritti portano a soluzioni diverse, si dovrà applicare il diritto dell'UE, in forza del principio del primato. applicazione extraterritoriale delle norme UE di concorrenza un altro problema è quando sia possibile applicare le norme dell'UE sulla concorrenza a imprese appartenenti a stati terzi. la CGUE ha prospettato due possibili soluzioni: • teoria degli effetti: per poter applicare le norme UE a una impresa di uno stato terzo, è sufficiente che il comportamento anticoncorrenziale di tale impresa, anche se tenuto al di fuori dell'UE, sia tale da provocare i suoi effetti nel mercato interno. • teoria della territorialità: per poter applicare le norme UE a una impresa di stato terzo, bisogna che il comportamento anticoncorrenziale di tale impresa sia avvenuto nel territorio di uno degli stati membri. la CGUE sembra essersi orientata per la teoria degli effetti. nozione di impresa altro problema di carattere generale è la definizione della nozione di impresa, in quanto non figura nel TFUE. di sicuro possiamo dire che è una nozione autonoma, rispetto alla nozione di impresa negli ordinamenti degli stati membri. la CGUE ha detto che l'impresa è qualsiasi ente o persona che eserciti un'attività economica, intesa come qualsiasi attività che consiste nell'offrire bene o servizi al mercato. sulla base di questa definizione, rientrano nella nozione di impresa: • gli enti pubblici che svolgono una attività economica, che sono soggetti alle norme di concorrenza come le imprese private. può darsi che un ente pubblico svolga sia attività connesse all'esercizio dei poteri pubblici sia attività economiche: in questo caso l'ente è considerato un impresa, solo se le attività economiche sono scindibili dalle prime. • i liberi professionisti, nonstante svolgano un'attività economica di tipo intellettuale. • gli enti che pur svolgendo una attività economica, la svolgono senza scopo di lucro. • NON rientrano nella nozione di impresa gli enti che svolgono solo funzioni di carattere sociale. DIVIETO DI INTESE art 101: sono vietati gli accordi, le pratiche concordate e le decisioni di associazioni di imprese, che provochino un pregiudizio agli scambi tra gli stati membri e e abbiano per effetto o per oggetto di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza. nozione di intesa il concetto di intesa presuppone due o più imprese la concludano, cioè presuppone una pluralità di imprese. tale pluralità va esclusa nel caso di più imprese che, pur essendo giuridicamente indipendenti, sono talmenente collegate dal punto di vista economico che possono considerarsi una unica impresa (principio dell'unità economica): questo è vero solo se un'impresa esercita sull'altra o sulle altre un controllo completo ed effettivo, tale che l'altra o le altre imprese non hanno alcuna autonomia nel definire la loro posizione sul mercato. ciò accade nel caso di una società madre con le società figlie o nel caso di un gruppo di società con al vertice una società- holding. la nozione di intesa comprende 3 diverse fattispecie: • gli accordi: l'accordo sussiste quando 2 o più imprese hanno manifestato la comune volontà di tenere un certo comportamento sul mercato. non è necessario che l'accordo sia giuridicamente valido secondo il diritto nazionale, che sia concluso in forma scritta o che sia accettato dall'altra parte in forma scritta, ritenendosi sufficiente una accettazione tacita. questo rileva per quanto riguarda gli accordi tra produttori e distributori, rispetto a cui si tratta di capire se: si tratta di un accordo restrittivo della concorrenza voluto dal produttore e tacitamente accettato dal distributore, o se si tratta di una decisione unilaterale del produttore, di cui il distributore è portato a conoscenza, ma non ha accettato (nel primo caso si può applicare l'art 101, nel secondo caso no, perchè non vi è accordo, ma rimane salva la possibilità di applicare l'art 102). • le pratiche concordate: in questo caso non vi è una manifestazione espressa di volontà delle imprese, ma vi è un coordinamento consapevole del comportamento da tenere sul mercato. per capire se vi è una pratica concordata vietata dall'art 101, bisogna procedere in questo modo: se si riscontra che due o più imprese si comportano nel mercato in modo uguale o simile, perchè tale comportamento costituisca una pratica concordata, bisogna dimostrare che tale uguaglianza di comportamenti non è frutto di una decisione autonoma delle imprese (che per esempio decidono di seguire il comportamento dell'impresa leader), ma è frutto di una concertazione. è prova quasi inconfutabile di concertazione il fatto che le imprese abbiano dato luogo a riunioni periodiche o a scambi di informazioni, che dovevano rimanere riservate: quando si riesce a dimostrare che ci sono state riunioni o scambi di informazioni, spetta alle imprese dimostrare che non avevano lo scopo di dare luogo a una concertazione. • le decisioni di associazioni di imprese: per associazioni di imprese si intende organizzazioni che riuniscono tutte le imprese di un certo mercato. per decisioni si intende sia raccomandazioni che, a norma dello statuto, sono obbligatorie per tutti gli associali, sia raccomandazioni accettate da buona parte degli associati. pregiudizio al commercio tra stati membri e alla concorrenza un'intesa per essere vietata deve essere tale da: • provocare un pregiudizio al commercio tra gli stati membri (pregiudizio al commercio) • avere come scopo o effetto quello di impedire, restringere o falsare il gioco della concorrenza (pregiudizio alla concorrenza). dove non è necessario che il pregiudizio al commercio o alla concorrenza sia già avvenuto, ma è sufficiente che l'intesa sia atta a provocarlo, anche solo potenzionalmente. • pregiudizio alla concorrenza: è sufficiente che costituisca oggetto o effetto dell'intesa, considerate come due condizioni alternative e non cumulabili (ovvero se l'intesa ha per oggetto il pregiudizio alla concorrenza, è superfluo verificare se l'intesa sia concretamente idonea a provocarlo; viceversa se l'intesa non ha come oggetto il pregiudizio alla concorrenza, bisognerà verificare se sia atta a provocarlo). le restrizioni alla concorrenza possono essere provocate da intese di 2 tipi: a. intese orizzontali, cioè concluse da imprese che operano allo stesso livello produttivo o di • il mercato geografico è quell'area in cui le condizioni di concorrenza sono le stesse per tutte le imprese operanti in quel mercato: tale area dovrebbe corrispondere all'intero mercato comune, ma l'art 102 stesso ammette che possa essere presa in considerazione un'area più piccola, purchè corrisponda a una parte sostanziale del mercato comune. • il mercato dei prodotti comprende non solo i prodotti identici al prodotto in questione, ma anche i prodotti rispetto a cui vi è un certo grado di sostituibilità e quindi di concorrenza. posizione domininante definito il mercato rilevante, bisogne vedere se in tale mercato l'impresa in questione detiene una posizione dominante, ovvero un monopolio o un oligopolio. per verificare questo requisito si prendono in considerazione diversi fattori, di cui uno importante è la quota di mercato dell'impresa: bisogna sottolineare che mentre a volte una quota di mercato particolarmente alta non è stata ritenuta prova sufficiente di una posizione dominante, una quota di mercato particolarmente bassa è stata ritenuta prova esclusiva di una posizione dominante. sfruttamento abusivo verificato che l'impresa detiene una posizione dominante, bisogna stabilire se l'impresa abusi di tale posizione dominante. per capire quando vi sia abuso della posizione dominante, bisogna premettere che nel mercato in questione la concorrenza è già di per sè indebolita, per il fatto che una impresa detiene in tale mercato una posizione dominante, di conseguenza tale impresa avrà una particolare responsabilità, perchè dovrà essere attenta a non porre in essere comportamenti restrittivi della concorrenza, e da questo punto di vista potrebbe essere soggetta a limiti di azione maggiori a cui sarebbe soggetta in condizioni di normale concorrenza. gli abusi di posizione dominante sono distinti in primis in base agli effetti che provocano sulla concorrenza: • abusi di sfruttamento: quando l'impresa per aumentare il suo profitto, pone delle condizioni che non le sarebbe permesso imporre in una situazione di concorrenza. • abusi di esclusione: si tratta di comportamenti tesi a rafforzare o proteggere la propria posizione dominante, escludendo concorrenti attuali o impedendo l'accesso di potenziali concorrenti nel mercato in questione. gli abusi di posizione dominante si distinguono anche in base al contenuto. si ha un abuso di posizione dominante, quanto l'impresa che detiene la posizione dominante: • fissa dei pressi eccessivi, che non hanno alcun rapporto con il valore economico del bene. • fissa dei prezzi diversi per uno stesso prodotto o per una stessa prestazione, senza che questo sia giustificato da motivi obiettivi (per esempio la diversità dei prezzi del trasporto). • fissa dei prezzi predatori, ovvero dei prezzi troppo bassi, allo scopo di eliminare una impresa concorrente che non è in grado di sostenerli. • fissa degli sconti sui prezzi, in particolare costituisce un grave abuso la fissazione di sconti di fedeltà, cioè l'impresa in posizione dominante concede degli sconti a un distributore, in cambio dell'impregno da parte sua di rifornirsi sempre da quell'impresa. • conclude tying agreements: quando l'impresa in posizione dominante subordina la conclusione di un contratto all'accettazione da parte del contraente di una prestazione supplementare che non ha nessun collegamento con l'oggetto del contratto stesso, cfr. sentenza hilti: una impresa produttrice di pistole sparachiodi, mercato in cui deteneva una posizione dominante, imponeva ai propri clienti di acquistare da lei anche i chiodi per le pistole, prodotto appartenente a un mercato in cui aveva dei concorrenti. • conclude bundling agreements: quando l'impresa in posizione dominante decide di vendere il prodotto del mercato in cui detiene la posizione dominante, solo se acquistato insieme a un altro prodotto appartenente a un altro mercato in cui l'impresa ha dei concorrenti. cfr sentenza microsoft: alla microsoft era contestata la pratica di installare insieme al sistema operativo windows, appartenente a un mercato in cui detiene una posizione dominante, il programma windows media player, appartenente a un altro mercato in cui microsoft aveva dei concorrenti. la CGUE dice che è un abuso di posizione dominante, constitente in un bundling agreements, in quanto chi acquista windows e si vede preinstallato gratis wmp, non sentirà la necessità di acquistare un prodotto simile da altre imprese. • si rifiuta di vendere i propri prodotti o servizi a un'altra impresa, specialmente se era suo cliente abituale. • si rifiuta di vendere i propri prodotti o servizi a una impresa concorrente, qualora questi prodotti siano delle essential facilities, cioè siano necessari per l'attività dell'impresa concorrente. divieto assoluto a differenza dell'art 101, il divieto di sfruttamento abusivo di posizione dominante è un divieto assoluto e rispetto ad esso non è ammessa nessuna dichiarazione di inapplicabilità. PROCEDURE PER L'APPLICAZIONE DEGLI ARTT 101 E 102 autorità competenti l'applicazione degli artt 101 e 102 spetta alla commissione, alle autorità nazionali competenti in materia di concorrenza (ANC) e ai giudici nazionali. in passato la commissione aveva un ruolo primario rispetto alle ANC e ai giudici infatti: • le ANC potevano applicare gli artt 101 e 102, ma la loro competenza cessava quando la commissione iniziava un procedimento per prendere una decisione in materia di concorrenza. • anche i giudici nazionali potevano applicare gli artt 101 e 102, in quanto la CGUE vi aveva riconosciuto efficacia diretta e, a differenza delle ANC, la loro competenza non cessava quando la commissione iniziava un procedimento. tuttavia la CGUE era dell'avviso che in una situazione del genere i giudici nazionali dovessero sospendere il giudizio in attesa della decisione della commissione. • tuttavia l'aspetto più importante del potere della commissione era che aveva il monopolio nel concedere dichiarazioni di inapplicabilità ai sensi dell'art 101. peraltro in passato le imprese che volevano concludere una intesa, se volevano ottenere una dichiarazione di inapplicabilità dovevano notificare la loro intenzione alla commissione (regime di autorizzazione preventiva). • inoltre le imprese che volevano rilevare una infrazione degli artt 101-102 da parte di un'altra impresa o da parte di uno stato, si rivolgevano alla commissione più che alle ANC e ai giudici, perchè il suo potere sanzionatorio era maggiore. si trattava di un sistema fortemente centralizzato, che provocava un sovraccarico di lavoro per la commissione. quindi si è deciso di passare a un sistema più decentralizzato con il regolamento del 2003. la caratteristica principale del nuovo sistema è che il potere di concedere dichiarazioni individuali di inapplicabilità ai sensi dell'art 101 non è più monopolio esclusivo della commissione, ma spetta anche alle ANC e ai giudici nazionali. questi ultimi possono applicare l'art 101 nel suo complesso, quindi prima di applicare una sanzione di nullità per violazione del divieto di intesa, dovranno controllare se sono soddisfatte le condizioni a cui si può concedere una dichiarazione di inapplicabilità. si è passati da un regime di autorizzazione preventiva a uno di eccezione direttamente applicabile da tutte le autorità competenti. ruolo della commissione il procedimento per l'applicazione degli artt 101-102 può essere iniziato dalla commissione d'ufficio o in seguito a denuncia presentata da persone fisiche o giuridiche interessate o da uno stato membro. il procedimento si distingue in fase istruttoria e procedimento formale. 1) fase istruttoria: in questa fase la commissione cerca le informazioni necessarie per stabilire se è avvenuta una violazione degli artt 101-102 e dispone di ampi poteri: • procedere a indagini per settore economico e per tipo di accordi • rivolgere alle imprese richieste di informazioni: la CGUE, rispetto al dubbio se una impresa sotto indagine fosse o meno obbligata a rispondere a una richiesta di informazioni, ha chiarito che se la richiesta è volta a ottenere informazioni sui fatti, l'impresa è obbligata a rispondere, mentre se la richiesta è volta a a far ammettere all'impresa il suo comportamento in violazione degli artt 101-102, non è tenuta a rispondere. • raccogliere audizioni • svolgere ispezioni, non solo nelle imprese, ma anche nei domicili del personale dell'impresa, se si sospetta che vi siano dei documenti rilevanti. 2) procedimento formale se conclusa la fase istruttoria, la commissione ritiene che vi sia una violazione degli artt, dà inizio al procedimento formale. • in primo luogo la commissione notifica alle imprese coinvolte una comunicazione di addebiti. la notifica ha 2 effetti: cristalizza l'oggetto del procedimento, cioè la commissione non può muovere altri addebiti all'impresa, se non quelli indicati nella comunicazione; dal momento della notifica le ANC perdono la competenza ad applicare gli artt 101 e 102 relativamente alla stessa fattispecie. • le imprese interessate hanno il diritto di prendere visione del fascicolo istruttorio per preparare la propria difesa, possono presentare osservazioni e chiedere di essere sentite. • il procedimento formale può concludersi con una delle seguenti decisioni: a. decisione di constatazione di infrazione: se l'infrazione è cessata, la commissione può avere interesse a constatarla comunque. b. decisione inibitoria: se l'infrazione è ancora in atto, la commissione ordina di cessarla. c. decisione comminatoria di ammende: spesso con la decisione inibitoria, la commissione impone anche di pagare un'ammenda. --> in caso di ricorso di annullamento in cui venga impugnata una tale decisione, il regolamento stabilisce che la CGUE può effettuare oltre che il controllo di legittimità, anche un controllo di merito sull'ammenda, che le permette di modificarne l'entità. d. decisione di accettazione di impegni: in alternativa alla decisione inibitoria, la commissione può adottare una decisione in cui accetta gli impegni offerti dall'impresa per porre rimedio all'infrazione commessa. e. decisione che adotta misure cautelari: in una situazione di urgenza, ma sempre constatata prima facie nello svolgimento del servizio universale. d. se l'attribuzione dell'incarico di svolgere tale servizio non è avvenuta con impalto pubblico, l'entità della compensazione deve essere calcolata con riferimenti ai costi che sosterrebbe una impresa media che svolga tale servizio in modo efficiente. CONTROLLO DELLE CONCENTRAZIONI siccome gli artt 101 e 102 non consentono un controllo efficace delle concentrazioni, l'UE si è dotata di appositi strumenti, in particolare il consiglio ha adottato appositi regolamenti, sulla base dell'art 103 (che permette al consiglio di adottare, su proposta della commisione e previa approvazione del parlamento, regolamenti per facilitare l'applicazione degli art 101 e 102). il regolamento cui fare riferimento è del 2004. tale regolamento dice che si produce una concentrazione quando: • due o più imprese precedentemente indipendenti si fondono (joint-venture) • una o più imprese acquisiscono il controllo, mediante acquisto di partecipazionio al capitale sociale o mediante contratti o altri strumenti, di un'altra o altre imprese. una concentrazione per entrare nel campo di applicazione del regolamento deve avere una dimensione comunitaria, valore che si calcola facendo riferimento al fatturato delle imprese coinvolte. una concentrazione è vietata se non è compatibile con il mercato comune e per essere incompatibile con il mercato comune, la concentrazione deve essere tale da ostacolare in modo significativo la concorrenza nel mercato comune. dunque non è necessario che la concentrazione sia tale da creare o rafforzare una posizione dominante, ma è sufficiente che ostacoli in modo significativo la concorrenza. CAPITOLO VII: LA DISCIPLINA DEGLI AIUTI PUBBLICI ALLE IMPRESE è contenuta dagli artt 107 a 109: mentre gli artt da 101 a 106 si rivolgono alle imprese, queste sono norme rivolte agli stati membri. in particolare l'art 107 stabilisce il principio dell'incompatibilità degli aiuti di stato alle imprese con il mercato comune e contiene delle deroghe a tale principio, cioè indica delle categorie di aiuti di stato che sono o possono essere compatibili con il mercato comune; l'art 108 contiene la procedura per l'applicazione dell'art 107 (riservata alla commissione); l'art 109 permette al consiglio di adottare, su proposta della commissione e previa approvazione del parlamento, i regolamenti necessari per applicare gli artt 108-109. il consiglio ha fatto uso di questo potere: il regolamento cui facciamo riferimento è del 2015. un'altra fonte cui fare riferimento sono le prassi della commissione, cioè l'insieme delle decisioni in materia di aiuti di stato assunte rispetto a singole fattispecie. NOZIONE DI AIUTO DI STATO art 107: sono incompatibili con il mercato comune gli aiuti concessi ad alcune imprese dagli stati o mediante risorse statali, purchè tali da pregiudicare il commercio tra gli stati membri e la concorrenza. perchè l'art 107 sia applicabile bisogna che siano soddisfatte le seguenti condizioni: a. finanziamento di origine pubblica b. conferimento di un vantaggio per le imprese beneficiarie c. selettività nel conferimento dell'aiuto d. pregiudizio per il commercio tra stati membri e per la concorrenza a. finanziamento di origine pubblica la nozione di aiuto comprende non solo gli aiuti concessi direttamente dallo stato, ma anche gli aiuti concessi mediante risorse statali. questi ultimi comprendono: • gli aiuti concessi da enti pubblici, come enti territoriali, enti pubblici economici, società controllate dallo stato ecc. rispetto al caso dell'amministratore di un ente pubblico che decide arbitrariamente, cioè senza rispettare le norme dello statuto, di concedere un aiuto a una impresa, ci si chiede se lo stato sia responsabile di aver violato l'art 107: la CGUE ha chiarito che il semplice fatto che l'aiuto provenga da un ente pubblico non è sufficiente per affermare la responsabilità dello stato, ma per dirlo bisognerà dimostrare che le autorità pubbliche hanno avuto un qualche ruolo nella concessione dell'aiuto. • il caso in cui un ente pubblico riscuota contributi obbligatori da parte delle imprese di un certo settore e poi li usi per finanziare aiuti concessi a queste stesse imprese. • aiuti finanziati con risorse di cui l'ente erogatore non era il titolare, ma di cui poteva disporre seguendo direttive statali. questa soluzione data dalla CGUE è in contrasto con il suo orientamento per cui al vantaggio conferito alle imprese beneficiarie dell'aiuto deve corrispondere un onere finanziario per il bilancio dell'ente erogatore. b. conferimento di un vantaggio per le imprese beneficiarie il vantaggio per l'impresa beneficiaria può assumere varie forme: • può consistere in una prestazione positiva a carico dell'ente erogatore, come: a. un trasferimento di risorse finanziarie dal bilancio dell'ente erogatore a quello dell'impresa beneficiaria (sovvenzione in senso stretto) b. concessione di prestiti o investimenti pubblici nel capitale sociale dell'impresa beneficiaria a condizioni che un investitore privato che opera in una situazione di normale concorrenza non accetterebbe (criterio dell'investitore privato), in quanto per esempio l'impresa si trova in una situazione di difficoltà economica. c. sovvenzioni in favore dei clienti dell'impresa beneficiaria (aiuti indiretti): in questo caso il vantaggio è conferito direttamente ai clienti dell'impresa, ma indirettamente all'impresa stessa. cfr sentenza mediaset: si trattava della normativa italiana che prevedeva la concessione di sovvenzioni per i cittadini che decidevano di acquistare un decoder per il digitale terrestre. la CGUE ha detto che tali sovvenzioni rientravano nella categoria degli aiuti di stato, in quanto, pur recando un vantaggio diretto ai clienti della mediaset, andavano ad avvantaggiare indirettamente anche la mediaset stessa, in termini di fidelizzazione dei clienti. • può consistere nella rinuncia a introiti da parte dell'ente pubblico, nella forma di esenzioni o riduzioni di imposte a carico dell'impresa beneficiaria o nella forma di prezzi di favore per disporre di determinati beni pubblici. c. selettività nella misura l'aiuto deve essere concesso solo ad alcune imprese. di conseguenza non rientrano nel campo di applicazione dell'art 107 le misure statali di carattere generale, che recano un vantaggio a tutte le imprese in generale, a prescindere dal settore di attività in cui operano e a prescindere dalla regione in cui si trovano, in termini di esenzione o riduzione delle imposte o in termini di aiuti alla ricerca e all'occupazione. tuttavia la CGUE ha ammesso delle eccezioni che rendono più difficile capire se una misura statale è selettiva o meno: • ha ammesso che una misura di carattere generale possa essere selettiva, se il godimento del vantaggio da parte delle imprese non è automatico ma è subordinato a una decisione discrezionale dell'autorità pubblica. • ha ammesso che un vantaggio rivolto solo ad alcune imprese non abbia il carattere della selettività, perchè la sua concessione è giustificata dalla struttura generale del sistema. cfr. sentenza paint graphos: si trattava di una norma italiana che concedeva un regime fiscale di favore per le imprese cooperative e non per le altre. la CGUE ha detto che non si trattava di un aiuto di stato vietato dall'art 107, perchè mancava del carattere di selettività, in quanto il fatto che il vantaggio fosse concesso solo ad alcune imprese era giustificato dalla struttura generale del sistema, considerate le caratteristiche precipue delle cooperative. un problema riguarda anche gli aiuti concessi da autorità regionali o locali: ci si chiede se il carattere di selettività di queste misure vada valutato con riferimento al territorio regionale o locale o con riferimento all'intero territorio nazionale. la CGUE ha detto che in linea di principio bisogna fare riferimento al territorio in cui l'ente esercita la sua competenza, sempre che la misura sia stata concessa nell'esercizio di poteri sufficientemente autonomi rispetto al governo centrale (criterio dell'autonomia). d. pregiudizio al commercio tra stati membri e alla concorrenza la CGUE verifica la sussistenza di questi criteri congiuntamente, in particolare li ritiene presenti: determinate condizioni. • decisione negativa: l'aiuto notificato non è compatibile con il mercato comune. aiuti illegali e recupero agli stati è imposto il divieto di dare esecuzione a nuovi aiuti prima di aver ottenuto l'autorizzazione da parte della commissione (obbligo di standstill) e questo vale sia nel caso che lo stato abbia notificato l'aiuto sia, a maggior ragione, nel caso in cui non lo abbia notificato. se lo stato in violazione di questo obbligo dà esecuzione a un aiuto non autorizzato, tale aiuto è illegale e la commissione può adottare un provvedimento temporaneo di sospensione. dopodichè dovrà seguire comunque il procedimento di indagine formale, che potrà comunque concludersi con una decisione positiva, infatti la violazione dell'obbligo di standstill non fa sì che l'aiuto sia incompatibile con il mercato comune. se invece la commissione ritiene l'aiuto illegale incompatibile, emette una decisione negativa, con cui obbliga lo stato membro a recuperare l'aiuto illegale. il recupero deve avvenire: • senza indugio, cioè lo stato deve attivarsi il prima possibile e può essere esonerato da questo obbligo solo in caso di impossibilità assoluta del recupero: tuttavia la CGUE è estremamente rigida nel valutare l'esistenza di una impox assoluta e la esclude anche nel caso di fallimento dell'impresa beneficiaria o nel rischio di turbamenti di ordine pubblico. • secondo le modalità procedurali previste dallo stato membro, secondo il principio dell'autonomia processuale degli stati membri. ma questo rinvio al diritto interno è possibile solo se le modalità di recupero previste dallo stato rispettano: 1. il principio di effettività, cioè se permettono una esecuzione immediata ed efficace della decisione della commissione; 2. il principio di equivalenza, cioè permettono il recupero degli aiuti alle stesse condizioni che sarebbero applicate a una situazione puramente interna analoga. la commissione in certi casi può non ordinare il recupero, se ciò va contro i principi generali del diritto, ma questo non vuol dire che le imprese beneficiarie possano invocare, in caso di recupero degli aiuti ricevuti, una violazione del principio del legittimo affidamento, in quanto il rischio del recupero deve essere tenuto in conto dall'impresa. controllo giurisdizionale delle decisioni in materia di aiuti di stato le decisioni della commissione in questa materia sono oggetto di controllo giurisdizionale da parte della CGUE, in particolare: • gli stati membri o le imprese beneficiarie possono impugnare una decisione negativa della commissione (con cui sopprime un aiuto o non lo istituisce) tramite ricorso di annullamento ai sensi dell'art 263 TFUE. • l'impresa concorrente, che ha dato avvio al procedimento di controllo (denunciando che una sua impresa concorrente ha ricevuto un aiuto vietato dall'art 107), può impugnare una decisione positiva della commissione (con cui l'aiuto viene considerato compatibile con il mercato comune) ai sensi dell'art 263. • se lo stato membro non rispetta la decisione della commissione, le imprese concorrenti o gli altri stati possono iniziare un ricorso per infrazione. efficacia diretta delle norme in materia di aiuti di stato vista la complessità della procedura per controllare il rispetto dell'art 107 e dell'esame per stabilire se un aiuto di stato è compatibile o meno con il mercato comune, la CGUE ha negato l'efficacia diretta all'art 107, sicchè i giudici nazionali non potranno applicarlo nei giudizi di loro competenza, cioè non potranno valutare se un aiuto statale sia o meno compatibile con il mercato comune. la CGUE ha invece attribuito efficacia diretta al divieto assoluto a carico degli stati di dare esecuzione a un aiuto non autorizzato dalla commissione (obbligo di standstill), di conseguenza gli interessati, cioè le imprese concorrenti, potranno rivolgersi al giudice nazionale per chiedere l'annullamento dell'aiuto non autorizzato (ed eventualmente anche il risarcimento dei danni) e il giudice potrà annullare i provvedimenti di attuazione dell'aiuto e disporre il recupero dell'aiuto da parte dell'ente pubblico. peraltro questo è un potere precluso alla commissione, la quale non può disporre il recupero di un aiuto per il solo fatto che è illegale, ma deve prima accertare che sia incompatibile con il mercato comune ed adottare una decisione negativa.
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