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Riassunto manuale L'ordinamento della cultura - M. Ainis, M. Fiorillo (Legislazione dei beni culturali), Sintesi del corso di Legislazione Ambientale

RegioniPatrimonio CulturaleDiritto internazionaleBeni Culturali

Riassunto completo e dettagliato del manuale di legislazione dei beni culturali di M. Ainis e M. Fiorillo

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

In vendita dal 23/03/2021

LucreziaP.
LucreziaP. 🇮🇹

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Scarica Riassunto manuale L'ordinamento della cultura - M. Ainis, M. Fiorillo (Legislazione dei beni culturali) e più Sintesi del corso in PDF di Legislazione Ambientale solo su Docsity! L’ORDINAMENTO DELLA CULTURA Manuale di legislazione dei beni culturali M. Ainis - M. Fiorillo CAPITOLO I - PER UNA STORIA COSTITUZIONALE DELL’ARTE 1. La funzione pedagogica dell’arte L’arte costituisce da sempre un valore ed è proprio la consapevolezza dei connotati ideologici dell’arte che prendono le mosse i tentativi di funzionalizzazione delle attività artistiche a scopi politici. Gli artisti sono stati più volte ritenuti colpevoli di un effetto di straniamento; anziché educare al controllo di sé stessi, l’arte venne rimproverata di fomentare le passioni. Questo rigetto dell’arte era in qualche modo un rifiuto nei confronti del piacere; un’arte meramente edonistica, infatti, non potrebbe svolgere alcuna autentica funziona educativa, che era proprio la richiesta trasmessa gli artisti. La funzione pedagogica dell’arte venne del resto messa a frutto sin dai tempi più remoti dell’antichità; furono per prime le grandi religioni a utilizzare l’arte nella ricerca del consenso. Di ciò non tardò a rendersi conto il potere politico: ad esempio, i Medici nella Firenze rinascimentale furono tra i primi a servirsi dell’arte non solo come strumento di gloria e propaganda, ma anche come “l’oppio che stordisce i sudditi”. Tuttavia, fu soprattutto con l’avvento del Cristianesimo che l’arte divenne fondamentale strumento del regno: nel concilio di Trento si propose la diffusione del cattolicesimo tra le masse popolari anche per mezzo dell’arte, inducendo l’artista a lavorare con il teologo. Gli artisti non godettero di maggiore libertà neanche quando nel Rinascimento venne proclamata a chiare lettere l’autonomia dell’arte e la sua separazione dalla metafisica (abbandono della concezione “teologica” dell’arte). La funzione pedagogica dell’arte, insomma, ha rischiato assai spesso di diventarne la tomba, in quanto il valore dell’arte è stato posto il più delle volte al servizio delle forze dominanti, che non di rado ne hanno approfittato ai fini di manipolazione del consenso. Occorre adesso chiedersi se la forza persuasiva dell’arte resti eguale in tutti i generi artistici o se la misura degli interventi censori e di controllo sia stata, nei diversi frangenti storici, del medesimo tenore per ogni forma di arte. Le arti fino ad oggi esposte a controlli autoritari assidui sono: il teatro, il cinema e in genere le espressioni artistiche che denunciano una diretta parentela con il più comune dei codici simbolici, ossia il linguaggio. Le potenzialità divulgative dell’arte e dunque la sua soggezione alle maglie del pubblico potere, non sono però legate unicamente all’adozione di codici simbolici di immediata comprensione. Un ulteriore elemento si affianca a quello giù illustrato: esso consiste nella capacità delle singole espressioni artistiche di venire riprodotte senza soffrirne danno; alcune opere d’arte infatti, se riprodotte, smarriscono la propria autenticità e con essa ogni pregio artistico. Per altre arti invece la riproduzione non comporta alcuno svantaggio come per il cinema, genere artistico cui non solo non nuoce la riproduzione, ma quest’ultima viene addirittura imposta da esigenze economiche. Qualche dubbio potrebbe derivare dal caso della lirica, in cui il linguaggio non conserva alcun fine espositivo, ma si fa suono e canto; è stato osservato però che l’espressione lirica, sottratta alla pesantezza concettuale, evoca le immagini di una vita libera dalla costrizione della classe dominante. Rispetto alla pittura e alla scultura (in cui un concetto espresso rimane inerte e fisso come la tela o l’arazzo che lo ospitano) ben diversa appare la condizione dell’architettura, che è l’arte che più di ogni altra accompagna l’esistenza quotidiana degli uomini, esprimendone la spiritualità e i bisogni. Tuttavia, la composizione architettonica non può raggiungere, al contrario di altre arti, toni satirici o tragici, ma è condannata a riflettere il risultato dei processi storici di cui è contemporanea. Un codice simbolico più facilmente comprensibile è quello adottato dalla danza e dal linguaggio del corpo, anche se non risulta che siano state storicamente assoggettate a controlli autoritari: ciò può forse essere dipeso dal fatto che la fruizione di queste arti è circoscritta a un pubblico poco numeroso ed è quindi inidonea a provocare allarme sociale. Discorso a parte merita la musica: si tratta di un’arte non verbale e senza contenuto determinato, come le arti figurative o la poesia; il suo contenuto fatto di suoni dovrebbe rendere i brani musicali poco adatti a farsi portavoce di messaggi politici. Tuttavia, non è strettamente necessario ipotizzare che la 1 composizione musicale si presti a diffondere consapevoli messaggi eversivi: ciò che incute timore è piuttosto la suggestione di cui quest’ultima è capace, specie nei confronti delle menti più inquiete, quel potere di esaltazione o di depressione che la musica condivide con talune droghe e sostanze eccitanti o calmanti. Una sia pur rapida trattazione di questi punti giova a porre in luce come l’arte sia dotata di una innegabile forza persuasiva e come essa rappresenti un veicolo privilegiato di comunicazione sociale e di diffusione delle idee. Quanto poi alle modalità che ne circondano l’espressione nei diversi regimi positivi, bisogna registrare il peso di almeno due fattori, in quanto la condizione dell’arte dipende dalla qualità e dalla risonanza dei singoli generi artistici e dal tipo di organizzazione politica che regge la società civile. Tuttavia non è detto che ordinamenti ispirati a un generoso laissez-faire nel campo delle attività legate alla diffusione del pensiero - come gli ordinamenti delle democrazie occidentali - sia in realtà privi di insidie per la condizione dell’arte nella società; vi è il pericolo infatti che un atteggiamento di benevola neutralità verso l’arte finisca per depotenziarne l’efficacia. Occorre però riconoscere che negli stessi ordinamenti più evoluti, il cammino verso la totale emancipazione dell’arte da controlli autoritari è stato un percorso difficile, in quanto quasi ovunque sopravvivono residue forme di censura. 2. Dalle carte rivoluzionarie all’epoca dei Lumi ai lavori dell’Assemblea costituente: genesi di una libertà L’art. 355 della costituzione francese del 1795 costituisce un fatto straordinariamente progressivo per l’emancipazione dell’arte; esso afferma: “Non vi è né privilegio, né maestranza, né giuranda, né limitazione alla libertà della stampa, del commercio, all’esercizio dell’industria e delle arti di ogni specie. Qualsiasi legge proibitiva di questo tipo, quando le circostanze lo rendono necessario, è essenzialmente provvisoria ed è efficace solo per un anno, a meno che non venga formalmente rinnovato.” Questo principio era stato in parte preannunciato nella costituzione che gli Stati Uniti d’America avevano adottato al termine della guerra di indipendenza; nell’art. 1 della carta costituzionale americana del 1787 si legge infatti che tra le molteplici facoltà del Congresso è compresa quella di promuovere il progresso della scienza e delle arti utili, assicurando per periodi limitati di tempo agli autori e agli inventori il diritto esclusivo sui loro scritti e sulle loro scoperte. Ovviamente l’introduzione di queste libertà nelle carte rivoluzionarie di fine Settecento non deve indurre nell’errore di sopravvalutare il dato giuridico formale, trascurando il peso delle vicende storiche concrete perché si vedrà a quali condizionamenti furono assoggettati gli artisti durante la Rivoluzione. Per restituire il clima che permise il primo riconoscimento costituzionale della libertà dell’arte è necessario un rapido cenno sulla teoria del contratto sociale: da Socrate a Platone ad Aristotele, il contrattualismo aveva affermato che il governo deve reggersi sul consenso degli associati, postulando i due principi essenziali della sovranità popolare e della supremazia della legge. Tuttavia, ciò che importa rilevare è la stretta connessione che sussiste fra la garanzia dei diritti di libertà e le teorie contrattualistiche; il maggior artefice di questa passaggio fu Rousseau: “L’uomo è nato libero ed è ovunque in catene”. Dopo di allora, i diritti sociali non furono più concepiti come elemento in contrasto all’autorità dello stato, ma bensì come cardini di quella stessa autorità. I nuovi valori di libertà furono anche promossi e sostenuti dalla rivoluzione industriale; sebbene il liberismo economico fosse essenzialmente funzionale agli scopi dei capitani di industria e alla soppressione dell’artigianato, anch’esso si inserì nel nuovo quadro culturale contrassegnato dall’affermazione delle libertà individuali e fra queste, la libertà di manifestazione del pensiero e quindi anche dell’espressione artistica trovò finalmente un riconoscimento formale nelle carte costituzionali. Già nel 1695, l’Inghilterra aveva provveduto a disfarsi dell’Atto annuale per la censura della stampa: ciò costituì il primo caso di abolizione degli strumenti censori nell’epoca moderna. Un atto di straordinaria importanza fu il conferimento a tutti gli artisti nel 1791 del diritto di esporre nel Salon, ossia la massima istituzione francese di esposizioni d’arte; esso era stato posto sotto la giurisdizione dell’Accademia di belle arti e il privilegio di esporvi le proprie opere era stato riservato ai soli accademici. La democratizzazione del Salon e la soppressione nel 1793 della stessa Accademia furono l’equivalente in campo artistico della rimozione dei privilegi feudali. Dopo la Rivoluzione, l’artista fu libero di scegliersi i propri temi e il modo di trattarli. Tuttavia, sarebbe errato credere che la Rivoluzione si sia astenuta da qualunque intervento in materia artistica: l’arte divenne anzi un fondamentale strumento di governo ed il classicismo apparve subito lo stile più adeguato ad esprimere i nuovi sentimenti repubblicani, gli ideali 2 artistiche degli associati, dando vita ad organizzazioni parallele come ad esempio il Carro di Tespi nel settore teatrale. L’azione per l’arte si intensificò proprio negli anni immediatamente precedenti l’ingresso in guerra. Nel 1939 venne emanata la legislazione di tutela sul patrimonio artistico, storico e paesistico: si tratta delle leggi Bottai n. 1089 del 1 giugno sulle cose d’arte e n. 1497 del 29 giugno sulle bellezze naturali (dello stesso anno è anche la legge sugli archivi). Sussidi e premi di incoraggiamento per gli artisti vennero disposti invece dal d.m (decreto ministeriale) del 1941 e si approvò la nuova normativa per la protezione del diritto d’autore, il cui art. 198 dispose l’erogazione di una somma in favore delle casse di assistenza e di previdenza delle associazioni sindacali degli autori e scrittori e dei musicisti. L’iniziativa più importante però fu costituita dalla promulgazione delle legge del 2% del 1942, la quale dispose che i progetti di ogni opera publica dovessero impegnare una quota non inferiore al 2% dell’importo preventivo dei lavori da destinare all’esecuzione di opere di arte figurativa: vi era quindi l’obbligo di abbellimenti artistici per tutta l’edilizia pubblica di nuova realizzazione, con una spesa dedicata a questi ultimi non inferiore al 2% della spesa totale; l’idea di base era che, ogni volta in cui ci si accingeva a costruire/ricostruire un edificio, si doveva realizzare non solo prodotti “belli”, ma complessi archetettonico-artistici che esprimessero valori estetici del momento presente, in cui le masse potevano riconoscersi. Il rovescio della medaglia risiedeva però nei criteri di scelta degli artisti: tale competenza venne assegnata infatti dall’art. 2 della legge alle amministrazioni interessate e poteva esercitarsi unicamente su un elenco di nomi di artisti iscritti al sindacato proposto dalla confederazione dei professionisti e degli artisti. Il regime si rese conto assai presto che il mezzo cinematografico rappresentava un’arma propagandistica senza eguali e non esitò a valersene per i propri scopi, tanto che l’attività cinematografica finì per essere considerata attività di interesse pubblico. Nel 1924 venne creato l’Istituto Luce, portavoce della cinematografia ufficiale del fascismo, trasformato poi con il decreto legge del 1925 in ente di Stato con l’incarico di usare il mezzo cinematografico per diffondere la cultura popolare. Si trattava di uno degli assi portanti del cinema di Stato, cui verranno affiancate le strutture tecniche (Cinecittà), di produzione (CINES), di distribuzione (ENIC) e circuito (ECI). Il fascismo introdusse inoltre due idee-cardine della politica governativa di sostegno al cinema italiano: il sistema della programmazione obbligatoria e quella dei ristorni; si trattata di misure che vennero dettate dall’esigenza di far fronte alla concorrenza delle produzioni hollywoodiane. Si susseguirono una serie di provvedimenti normativi destinati a regolamentare l’attività cinematografica e ad incoraggiarla: il primo aiuto consistette nell’approvazione nel 1927 della legge che pose limiti alla proiezione di produzioni cinematografiche straniere, imponendo la programmazione obbligatoria delle pellicole nazionali per non meno della decima parte delle giornate di spettacolo. In seguito venne istituito l’Ente nazionale per la cinematografia, cui fu assegnato il compito di controllare le relazioni economiche e commerciali fra i produttori italiani e stranieri, la quale rimase in funzione per appena un anno (tra il 1929 e il 1930); la legge Alfieri del 1938 abolì poi gli anticipi statali alle case cinematografiche, introducendo in loro vece un sistema di premi progressivi la cui misura dipendeva dagli introiti incassati annualmente dal film. All’erogazione di sovvenzioni pubbliche venne affiancata inoltre la concessione di premi di qualità alle pellicole considerate maggiormente meritevoli. La presa del regime sul cinema fu dunque molto ampia e articolata e culminò nella creazione della Direzione generale per la cinematografia, cui vennero assegnate funzioni di impulso e direzione economica e ideologica. Altre misure finanziarie si indirizzarono al teatro lirico e di prosa, in particolare con i due decreti legge del 1938 che disposero il primo l’erogazione di mutui in favore dei comuni per la costruzione o il rinnovo di stabili adibiti a teatri, il secondo la concessione di sovvenzioni a beneficio di stagioni liriche e concertistiche, nonché di compagnie drammatiche, di operette e di riviste; tuttavia, al ministero venne riconosciuta la facoltà di richiedere tutte le modificazioni ai programmi artistici che fossero ritenute necessarie all’attuazione degli scopi per i quali venivano concesse le sovvenzioni. Nel 1942 venne fondato l’Ente Teatrale Italiano, con l’intenzione di generare un circuito teatrale pubblico ed un Ispettorato del teatro con funzioni di stimolo e controllo sull’attività teatrale e musicale. Ad un più diretto fine pedagogico rispose l’istituzione del sabato teatrale: venne fatto obbligo alle imprese di rappresentare nel pomeriggio di ogni sabato spettacoli a prezzi ridotti e in alcuni casi gratuitamente, 5 riservandone la fruizione ai cittadini meno abbienti; in questo modo si voleva potenziare la funzione educativa, politica e sociale del teatro ai fini propagandistici. Quanto alle attività musicali, nel 1936 si stabilì la costituzione degli enti lirici quali enti autonomi senza fini di lucro, gestiti in vista dell’educazione musicale e teatrale del popolo. I decreti censori si succedettero a ritmo incalzante per tutti gli anni ’20: eccetto qualche nuova proibizione, i divieti restarono i medesimi del periodo liberale, ma a cambiare fu la formulazione delle leggi e soprattutto la loro applicazione, improntata più su criteri di efficienza poliziesca. Nel 1923 venne emanato il regolamento per la vigilanza governativa sulle pellicole cinematografiche che confermò i poteri della Direzione generale della pubblica sicurezza, riservando al ministro la decisione finale. La vera novità consisteva però nell’istituzione di un doppio grado di controllo, esercitato per mezzo di una commissione di primo grado e di una commissione di appello; l’esperto in materia artistica e letteraria (che era incluso nella commissione di vigilanza) venne sostituto da un professore. L’anno successivo venne inserito nella commissione di vigilanza una persona competente in materia artistica e letteraria e venne inserito, successivamente, anche un membro designato dal ministero delle colonie, per l’esame di copioni o pellicole di soggetto coloniale. Nel 1934, la vigilanza sulle pellicole cinematografiche venne sottratta al ministero dell’interno e trasferita alla direzione generale per la cinematografia. Quanto alla normativa censoria sugli spettacoli teatrali, nel 1926 si diponeva la comunicazione preventiva al prefetto, che poteva vietare la rappresentazione per ragioni di morale o di ordine pubblico; nel 1940, su questa materia intervenne il regolamento di esecuzione in cui venne vietata ogni rappresentazione che mirasse ad eccitare l’odio o l’avversione fra le classi sociali, che offendesse il Re Imperatore, il Pontefice, il Capo di governo, le istituzioni dello Stato. Non esisteva invece una censura istituzionalizzata sulle altre attività artistiche: la norma più infida era quella del 1931, che vietava di fabbricare, introdurre nello stato, acquistare, esportare allo scopo di fare commercio scritti, disegni, immagini o altri oggetti contrari agli ordinamenti politici, sociali ed economici costituiti nello Stato. Per quanto riguardava il campo letterario, non esisteva una censura preventiva vera e propria: per lo più lo Stato esaminava il materiale a pubblicazione avvenuta, attribuendone la competenza ad una serie di organi che si alternarono nel tempo, fino all’istituzione di una speciale Divisione libri. Più rigida fu invece la censura sulla radio e sulle rappresentazioni teatrali e cinematografiche: i divieti erano motivati dalle varie fobie del regime, ossia dalla proibizione di impiegare attori di colore sulla scena, a non rappresentare episodi di suicidio, conflitti di classe e così via. La censura continuò ad operare anche durante la breve esistenza della Repubblica di Salò, nel corso della quale il Minculpop venne riorganizzato e rafforzato e i settori del cinema e del teatro accorpati in un’unica Direzione generale dello spettacolo. Le attività culturali tuttavia erano ormai quasi interamente spente e il Minculpop si limitò perciò alla sola propaganda e l’incoraggiamento dell’arte non andò oltre la previsione di proiezioni cinematografiche gratuite. I tempi, infatti, stavano rapidamente cambiando: benché molte leggi autoritarie siano sopravvissute ancora a lungo al crollo del fascismo, il nuovo spirito di libertà che informò la costituzione repubblicana le rese con essa inconciliabili. La libertà d’espressione artistica nei lavori preparatori della costituzione vigente Dopo la guerra di liberazione, il principio della libertà di espressione artistica è stato consacrato infine nella costituzione del 1948: - art. 33, primo comma > “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Questa norma aveva il suo antecedente nell’art. 142 della costituzione di Weimar benché il testo tedesco si arricchisse di un inciso ulteriore rispetto all’italiano (compiti promozionali assegnati allo Stato per assicurare lo sviluppo delle attività artistiche), le parentele fra le due tavole costituzionali sono molteplici - art. 9 > indica tra gli obiettivi dello Stato la promozione della cultura e della ricerca scientifica, nonché la tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico della nazione. Questa norma riflette gli artt. 150 e 158 della costituzione di Weimar - art. 118 > dichiarava libera la manifestazione del pensiero e inammissibile la censura; erano possibili deroghe per la letteratura immorale e pornografica, per gli spettacoli cinematografici e per ogni altra rappresentazione pubblica 6 Un peso decisivo nell’approvazione del primo comma dell’art. 33 ebbe la memoria della condizione dell’arte durante il fascismo: dal dibattito assembleare emerge infatti che la garanzia costituzionale della libertà dell’arte avrebbe dovuto impedire in futuro ogni manovra coercitiva da parte dei pubblici poteri; tuttavia, a causa della sommarietà del dibattito (incentrato principalmente sui problemi della scuola e non sull’arte) resta in ombra il nodo principale in quanto non sembra che i costituenti si posero il quesito di quale sia il clima istituzionale più propizio all’esercizio della libertà di creazione artistica. Il silenzio dei costituenti si presta a due diverse chiavi di lettura: che la libertà di espressione artistica fosse illimitata, oppure che il costituente non si pose il problema dei limiti inerenti alla libertà dell’arte. CAPITOLO II - LE LIBERTA’ CULTURALI - ART. 9: La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione - ART. 33: L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le norme generali sull’istruzione ed istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato. La legge, nel fissare i diritti e gli obblighi selle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali. E’ prescritto un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi e per l’abilitazione all’esercizio professionale. Le istituzioni di alta cultura, università ed accademie, hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi nei limiti stabiliti dalle leggi sullo Stato. 1. Una premessa L’art. 9 è stata una delle disposizioni costituzionali più dibattute dell’asse costituente, con un dibattito sui problemi di scuola pubblica e privata, fra promozione e libertà della cultura e sulla libertà dell’intervento pubblico nell’arte e nella scienza da condizionamenti. 2. I lavori dell’assemblea costituente La prima versione dell’art. 9, presentata nella prima sottocommissione della Commissione dei 75 nel 1946 e firmata da Aldo Moro e Concetto Marchesi, suonava così: “I monumenti artistici, storici e naturali del Paese costituiscono patrimonio nazionale in qualsiasi parte del territorio della Repubblica e sono sotto la protezione dello Stato. Da notare che non vi è alcun accenno alla libertà della cultura, né all’impegno di sostenerne lo sviluppo da parte dei pubblici poteri. La primitiva formulazione dell’articolo comprendeva la garanzia della libertà d’espressione artistica e scientifica, ma non venne inserita e la ragione stava nel fatto che si trattava di un articolo ridondante, inutile, come se la materia culturale non possedesse sufficiente dignità per essere inclusa nella nuova Costituzione dello Stato. All’approvazione di questa prima bozza, seguiranno alcuni dibattiti: - 11 dicembre 1946 > la formulazione iniziale venne recuperata da Marchesi, ma non per l’esigenza di far spazio alle libertà culturali, bensì per porre un argine alle competenze regionali sulla cura dei monumenti, percepita come fonte di devastazioni. La Commissione approvò questa prima bozza in cui vi figuravano la libertà dell’arte e della scienza: la prima venne concepita in funzione della libertà di istituire scuole non statali; la seconda mirava ad amputare una eventuale competenza regionale - 22 aprile 1947 > Pignedoli fece i primi accenni alla promozione del lavoro artistico che si tradusse in un emendamento: “La Repubblica protegge e promuove con ogni possibile aiuto la creazione artistica e la ricerca scientifica. Dopo l’emendamento, Firrao intervenne e qui trapelò per la prima volta la consapevolezza che il progresso tecnico e scientifico ha bisogno di mezzi superiori alle risorse di cui dispongono i singoli studiosi; da qui, la necessità di invocare il soccorso dello Stato - 30 aprile 1947: Clerici definì l’art. 9 superfluo e ridicolo, tale da essere annoverato fra quelli che non danno prestigio alla Costituente; un articolo dunque da abolire - 4 giugno 1947 > Di Fausto pronunciò un lungo discorso per sostenere le ragioni della competenza dello Stato altrimenti, come egli disse, alla tutela sarebbe subentrata l’anarchia. La prima molla che 7 all’esigenza di tutelare soggetti come i minori; ancora, va difesa l’integrità psico-fisica di attori in quelle manifestazioni creative fondate su rappresentazioni sceniche violente. Non è invece previsto nell’art. 33 il limite del buon costume sancito dall’art. 21 della Costituzione, ossia quel vincolo che impedisce manifestazioni definite anticamente “perversione dei costumi” e oggi più ricondotte ad una dissociazione tra vita sessuale e integrità della persona. In definita, l’arte non può ontologicamente essere oscena, in quanto fattore di conoscenza e liberazione. 3. I limiti alla libertà scientifica Anche la libertà della scienza impone l’astensione dei poteri pubblici dal fissare limiti e condizioni nello svolgimento della ricerca scientifica; ma essa non è fatta solo di ricerca teorica, ma anche di sperimentazione pratica. Quindi, la assoluta libertà di ricerca può riguardare solo la parte teorica, mentre nella sperimentazione delle ipotesi scientifiche bisogna tener conto dei principi costituzionali come il valore della persona, l’integrità umana, il diritto alla salute. Affianco ai principi di pari dignità dei soggetti, svolge una indispensabile funzione di garanzia il principio di uguaglianza che impedisce discriminazioni scientifiche tra individui: sono vietate in materia di sperimentazione le discriminazioni “positive” (per la ricerca) a danno di soggetti deboli come vecchi e bambini; così come sono vietate discriminazioni “negative” nei confronti di soggetti destinatari di mezzi terapeutici di avanguardia (scelte tragiche sui soggetti da trapiantare, destinatari di macchine cliniche avanzate). Fino a poco tempo fa, tuttavia, era difficile individuare misure normative per limitare questa libertà della scienza, dato che i traguardi scientifici hanno sempre rappresentato per la comunità politica un fattore di progresso civile. La prima legislazione in materia di limiti alla ricerca scientifica è rappresentata dal d. lgs. n. 116 del 1992, sulla protezione degli animali utilizzati a fini sperimentali. La situazione appare oggi profondamente mutata con la diffusione delle biotecnologie, ossia quel complesso di tecniche scientifiche in grado di intervenire sul patrimonio genetico della materia vivente, incidendo sui suoi processi biologici; si tratta però di traguardi più avanzati della conoscenza, che hanno suscitato una miriade di problemi a cavallo far scienza, etica e diritto. 4. La frontiera delle biotecnologie La questione ha riguardato dapprima gli OGM, gli organismi geneticamente modificati, ossia quella materia vegetale il cui contenuto genico è stato diversamente ricombinato o incrociato rispetto a quanto avviene in natura. Non conoscendo ancora gli esiti della loro commercializzazione, la disciplina nazionale ed europea si è improntata sul principio di precauzione; da qui la direttiva 412 del 2015 circa la possibilità per gli Stati di limitare o vietare la coltivazione di organismi geneticamente modificati sul loro territorio. La nuova frontiera delle biotecnologie è rappresentata soprattutto dalla sperimentazione sugli embrioni umani, vietata dall’art 13 del 2004, la quale consente solo la ricerca clinica e sperimentale con finalità esclusivamente terapeutiche e diagnostiche, volte alla tutela della salute. Sono, in ogni caso, vietati: - produzione di embrioni per ricerca e sperimentazione - interventi diretti a predeterminare caratteristiche genetiche, ad eccezione di interventi con finalità diagnostiche e terapeutiche - interventi di clonazione - fecondazione di un gamete umano con un gamete di specie diversa 5. La libertà di insegnamento E’ strettamente connessa alla libertà dell’arte e della scienza ed è rappresentata solitamente come una prosecuzione ed espansione della libertà scientifica e artistica. Bisogna fare però chiarezza sui termini: - insegnamento > complesso di attività, scolastico e non, attraverso cui il docente divulga e trasmette cultura - Istruzione > è quell’insieme di insegnamenti organizzati e coordinati al fine di rendere istruiti i discenti Anche la radice della libertà di insegnamento sta nella libertà di manifestazione del pensiero e tale si attiene sia ai metodi che ai contenuti dell’insegnamento stesso, che è personale del docente e non può essere delegato all’organizzazione scolastica. L’indipendenza degli insegnanti e la qualità dell’istruzione hanno un ruolo centrale in un gruppo sociale, specialmente per l’intera comunità politica per cui, nella formazione della coscienza civica, l’insegnante ricopre una responsabilità primaria. L’insegnamento deve essere, tuttavia, rispettoso degli obiettivi prefigurati dal legislatore: non è ammessa per il docente la 10 libertà di non insegnare, è ammesso il limite del buon costume e i limiti costituzionali di tutela dell’infanzia e della gioventù. Alla libertà del docente va tenuta, tuttavia, in egual conto la libertà del discente, al quale dunque può essere rappresentato qualunque orientamento di pensiero o tesi scientifica. 6-7. Diritto all’istruzione e diritto allo studio; pluralismo scolastico L’art. 33 della Costituzione (comma 2) affida alla Repubblica il compito di dettare le norme generali sull’istruzione, fissando regole dirette a tutte le istituzioni scolastiche, sia pubbliche sia private; attribuisce poi allo Stato l’obbligo di garantire l’istruzione mediante l’istituzione di scuole statali per tutti gli ordini e gradi. Il principio cardine in materia di istruzione è l’art. 34 per cui si garantisce l’uguaglianza nell’accesso alla scuola, il divieto di discriminazione per sesso e nei confronti di portatori di handicap. Il diritto all’istruzione è proclamato anche dall’art. 14 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, in cui viene proclamato che l’istruzione inferiore deve essere impartita per almeno 8 anni. I capaci e i meritevoli hanno diritto a conseguire i gradi più alti degli studi, attraverso un sistema di sostegni finanziari (borse di studio, assegni ecc.). Strettamente connesso alla libertà di insegnamento è il principio del pluralismo scolastico, che ammette la coesistenza affianco alle scuole pubbliche anche di quelle private, a cui si assicura la parità riguardo ai titoli rilasciati. Alle scuole paritarie private è assicurata piena libertà per quanto concerne l’orientamento culturale, ma l’insegnamento va improntato ai principi di libertà stabiliti dalla Costituzione. Il principio della libertà si estende anche alle università che hanno il diritto di darsi ordinamenti autonomi, nei limiti stabiliti dalle leggi dello Stato; la legge n. 168 del 1989 garantisce alle università l’autonomia didattica, scientifica, organizzativa e finanziaria. 8. Il ruolo dei pubblici poteri nella promozione dell’arte e della scienza L’azione dei pubblici poteri sulla cultura deve essere finalizzata ad estenderne gli spazi di realizzazione e liberarla dai condizionamenti che ne intralcino lo sviluppo e ciò significa essenzialmente equilibrio rispetto ai vari modelli o espressioni culturali in gioco, al massimo sostenendo quelle manifestazioni creative più deboli. Da una parte quindi deve esserci una funzione interventistica delle istituzioni riguardo allo sviluppo delle espressioni culturali meno forti; dall’altro neutralità rispetto agli esiti, soprattutto quando questi vadano in conflitto con il pensiero della classe politica dominante. Quel che conta non è la produzione di espressioni creative di eccellenza, bensì lo sforzo di far condividere una uguaglianza di opportunità (come enunciato nell’at. 3 Cost.). Per quanto concerne poi la promozione pubblica della scienza, può trovare esplicazione sia mediante centri pubblici di ricerca sia con la predisposizione di strumenti di supporto per lo svolgimento dell’attività scientifica svolta dai centri pubblici, privati. Esiste una distinzione tra: - ricerca scientifica libera > area in cui opera, attraverso docenti e ricercatori, l’università in quanto sede primaria della ricerca scientifica dotata di autonomia di ricerca - ricerca scientifica strumentale > affidata ad enti che curano in maniera autonoma una ricerca scientifica destinata però ad obiettivi determinati Naturalmente, gli organi di indirizzo politico non possono intervenire nello svolgimento delle attività di ricerca scientifica in quanto tale, che nella sua dimensione di libertà resta sempre garantita come valore primario dall’art. 3 Cost. In conclusione, arte e scienza rientrano nella nozione di cultura di cui si occupa l’art. 9 Cost.; questa partecipa del processo di formazione intellettuale del cittadino. Il traguardo che la Costituzione persegue è quello della crescita del pluralismo culturale, in quanto strumento di sviluppo della personalità dei singoli e della collettività nel suo insieme, ed è solo questo che deve muovere le istituzioni pubbliche nell’arena culturale. CAPITOLO IV - LA PROMOZIONE DELLA SCIENZA 1. Scienza e politica Secondo antiche concezioni, la scienza e la politica sembrerebbero appartenere a due mondi completamente diversi, in quanto la scienza è una attività speculativa sempre utile e dotata di qualità, la razionalità e l’universalità. La scienza celebra la propria indipendenza dalla chiesa e dallo stato durante il XVI secolo ed è proprio in questo momento che è sorto il fenomeno della istituzionalizzazione di essa, ossia il riconoscimento della sua validità e della sua importanza. I canoni metodologici che la scienza si è 11 impegnata ad osservare sono tutt’altro che indifferenti ai modelli di governo della società e questo per due ragioni: anche la politica descrive una scienza, tant’è che vengono addirittura impartite lezioni universitarie di scienza della politica e in più, va ricordato che ogni acquisizione scientifica è frutto di teorie che bisogna poi sottoporre a verifica pratica. Sul piano storico, l’emancipazione della scienza dalla politica può essere riassunta in questo modo: la sollecitudine verso le attività di ricerca si manifesta fin dai regni barbarici e feudali sebbene bisognerà attendere l’affermazione dello stato assoluto per osservare l’elaborazione teorica; è proprio allora che attecchisce la professionalizzazione degli uomini di scienza, nei cui confronti comincia a svilupparsi una domanda di mercato in grado di trasformarli da dilettanti in forza-lavoro stipendiata da istituzioni pubbliche. Questo non è altro che la causa della loro accettazione verso costrizioni ripugnanti alle leggi astratte della comunità scientifica, quali i vincoli di fedeltà a una bandiera ovvero il rispetto di segreti industriali e militari. Nella società contemporanea, cambia l’intensità del rapporto tra scienza e politica: Bobbio ha osservato come oggi le minacce alla vita, alla libertà, alla sicurezza, vengano dal potere della scienza e dalle sue applicazioni tecniche; essa non è solo la fonte del dominio dell’uomo sulla natura, ma è la fonte anche del dominio dell’uomo sui propri simili. La scienza contemporanea ha quindi scoperto di possedere una vocazione autoritaria, i cui effetti possono essere devastanti per la società: basti pensare alle risorse dell’informatica quando esse sono messe al servizio di un potere dispotico che se ne serve per esercitare l controllo sulle masse. Sull’onda di tale consapevolezza, si afferma dunque un sentimento di diffidenza nei confronti della scienza, se non di aperta ostilità, alimentata anche dall’utilizzo di un linguaggio sempre più inaccessibile alla maggior parte della popolazione. Il fatto è che la scienza non sussiste più come ricerca disinteressata della verità e con ciò sono venuti a mancare anche i principi di razionalità ed universalità. L’atteggiamento verso la scienza è ambivalente, vi è una politica PER la ricerca, ma anche un politica ATTRAVERSO la ricerca: la prima esprime l’insieme delle attività intraprese dallo stato per incoraggiare lo sviluppo della ricerca, la seconda allude all’utilizzazione dei risultati conseguiti dalla scienza per scopi politici. Più in particolare, nei rapporti fra scienza e politica possono individuarsi due modelli: I. decisionistico > asserve la scienza alla politica, accettando che siano le forze di governo a stabilirne i fini e i campi d’intervento II. tecnocratico > qui il rapporto si rovescia in nome dell’autonomia della ricerca 2. Sulla doverosità dell’intervento pubblico Nel tessuto costituzionale, questo gruppo di problemi trova il referente all’interno dell’art. 9, a norma del quale la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tale enunciato però è stato subito messo in discussione su due distinti fronti: per ciò che dice (più per una polemica contro le ideologie fasciste che con l’intenzione di risolvere i rapporto tra scienza e politica) e per come lo dice (si tratterebbe di una pseudo-disposizione a cui si dovrebbe attribuire un mero valore etico-politico). Importa però rilevare come la mortificazione dell’art. 9 sia stata accompagnata dall’inversa accentuazione in merito al valore dell’art. 33, a norma del quale l’arte e la scienza sono libere, con cui si vuole arginare la tentazione di coltivare dottrine artistiche o scientifiche ufficiali, di Stato; questo articolo è quindi avverso a qualsiasi forma di dirigismo pubblico nel settore della cultura. La istituzioni pubbliche, infatti, devono fornire i presupposti per il libero sviluppo della cultura, senza però condizionarne gli esiti e gioca qui la distinzione fra politica della cultura e politica culturale, nei termini espressi da Bobbio nella metà degli anni ’50: la prima è lecita e benefica perché si tratta dell’impegno degli uomini in difesa dell’autonomia della cultura; la seconda è vietata poiché si riferisce alla pianificazione della cultura stessa da parte delle autorità pubbliche. Ma è davvero concepibile un modello rigorosamente astensionista sulle questioni culturali? Anche un atteggiamento di laissez-faire finirebbe per tradursi in una precisa scelta di politica culturale. Il punto focale però è un altro: l’art. 9 evoca una categoria concettuale, ossia il diritto premiale cioè l’adozione di specifiche tecniche di incoraggiamento (premi, esenzioni fiscali) che si aggiungono alle tradizionali misure repressive proprie degli ordinamenti liberali; la tecnica dell’incoraggiamento si accompagna ad una strategia istituzionale che si propone di modificare l’assetto dei rapporti sociali ed essa non può che agire sulla scorta di una qualche concezione di politica culturale. Secondo i dettami costituzionali, quest’ultima non è pertanto indesiderabile e vietata, ma al contrario doverosa. 12 agli Stati preunitari, al fine di contrastare la spoliazione dei beni artistici ed archeologici, impedendone il trasferimento all’estero. Tuttavia, la data di nascita della normativa di tutela sui beni culturali si può identificare in alcuni provvedimenti adottati in Toscana: nel 1571 si vietava la rimozione di insegne e iscrizioni dai palazzi antichi; più tardi venne proibita l’esportazione dei dipinti senza la concessione della licenza da parte del luogotenente dell’accademia del disegno. Per quanto riguarda gli artisti defunti era vietata l’esportazione di tutte le opere di 18 sommi pittori nominativamente indicati; mentre per gli altri, la concessione della licenza veniva rimessa alla scelta di 12 pittori viventi che dovevano esprimere al luogotenente una sorta di parere tecnico. In Lombardia bisognerà attendere il 1745 perchè fosse adottato dal governatore un provvedimento che sancisse il divieto di esportazione di opere d’arte. Nel Regno di Napoli, fu Carlo Borbone ad emanare nel 1755 la prammatica LVII, con l’intento di salvaguardare dalle predazioni gli scavi di Pompei ed Ercolano. Dove si ravvisa per la prima volta un provvedimento organico di salvaguardia di beni artistici e storici è nell’editto del cardinal Pacca, emanato a Roma il 7 aprile 1820: con esso furono disposte misure molto restrittive contro la spoliazione delle raccolte artistiche capitoline e fu vietata l’esportazione dalla capitale all’interno dello stesso Stato pontificio. Il decreto di Pacca tracciò il solco per tutta la legislazione successiva degli Stati Italiani: nel 1822, Ferdinando I di Borbone emanò un decreto che specificò le misure per il restauro dei beni e le prime regole per l’effettuazione degli scavi archeologici; in Sardegna nel 1832 viene istituita la giunta di antichità e belle arti, con il compito di provvedere alla conservazione degli oggetti antichi e delle opere d’arte; nel 1857, il Granduca di Toscana Leopoldo emanò un decreto per impedire la rimozione e la distruzione di tutti gli oggetti d’arte, di pittura e di scultura. La legislazione postunitaria > contrariamente alle aspettative, il conseguimento dell’unità d’Italia non rappresentò affatto un miglioramento delle forme di tutela dei beni culturali. La dispersione del patrimonio culturale non si arrestò e lo dimostra il complicato iter per l’approvazione della prima legge organica sulla tutela, che avvenne 50 anni dopo l’unificazione. Questo accadde perché la classe governativa non andava oltre il riconoscimento dell’antichissimo principio del rispetto dell’ornato delle città (art. 29 dello statuto Albertino), inteso come divieto di trasformazione o demolizione di edifici urbani, se di grande prestigio artistico. Di conseguenza, ci si adoperò semmai per espellere dall’ordinamento gli ultimi residui vincolistici al principio del libero scambio, anche laddove determinati istituti avevano rappresentato l’unica garanzia di conservazione di beni culturali: è questo il caso del fedecommesso. Poiché infatti i vincoli fedecommissari erano reputati un residuo feudale contrario alla circolazione dei beni, all’economia pubblica e persino alla morale, il codice civile del 1865 ne sanzionò il divieto. Tuttavia, tale strumento era stato l’unico ad aver permesso nei secoli di conservare inalterate raccolte d’arte, pinacoteche e collezioni. Di fatto, nei primi dieci anni successivi alla formazione del regno d’Italia, l’unica misura di politica culturale si attesta con la legge 25 giugno 1865 n. 2359, che sancì la facoltà da parte dell’amministrazione di disporre l’espropriazione dei monumenti se mandati in rovina per incuria dei proprietari. In materia di alienazione all’estero delle cose d’arte, lo stato italiano adottò una disciplina diversificata all’interno del territorio: si andava dal divieto di esportazione di opere dalla Capitale all’ex stato pontificio, alla totale libertà di commercio nei territori dell’ex regno sabaudo; serviva quindi una legge organica. Essa arrivò nel 1904, la legge 17 luglio n. 431 con cui fu istituito il catalogo nazionale dei beni culturali e proibita l’esportazione delle opere in esso menzionate, se qualificate dai connotati del grande pregio; tuttavia ebbe breve vita in quanto per evitarne l’esportazione, il bene doveva necessariamente essere iscritto in un catalogo ufficiale e ciò fu un filtro troppo vago per impedire ulteriori sottrazioni. Pertanto, nel 1906 venne istituita una commissione con l’incarico di dettare una nuova disciplina organica per la tutela dei beni culturali ed i lavori di questa commissione sfociarono nella legge 20 giugno 1909 n. 364, la legge Rosadi; tale legge, che è la diretta progenitrice della normativa organica attualmente in vigore, ampliò l’ambito dei beni culturali, ricomprendendovi anche i codici, i manoscritti, le stampe ecc. Si stabilì inoltre un doppio regime giuridico per quanto riguardava il trasferimento dei beni: l’inalienabilità se appartenenti allo Stato e ad enti pubblici e privati; l’obbligo di denuncia per ogni trasmissione di beni appartenenti a privati, in ogni caso con previsione del diritto di prelazione a favore dello Stato. Inoltre, si sancì il divieto di demolizione, rimozione, modificazione e restauro senza autorizzazione del ministro. 15 L’incremento dell’azione di tutela si accentua nel corso del regime autoritario, che vede l’emanazione di due leggi volute dal ministro Bottai: la legge del 1 giugno 1939 n. 1089 e la legge 29 giugno 1939 n. 1497, dedicate alle cose d’arte e alle bellezze naturali (bello = prodotto dell’uomo — bellezza = per natura). La prima ha assicurato la protezione del nostro patrimonio culturale, allargando la tutela amministrativa delle cose immobili o mobili di interesse artistico, archeologico o etnografico ed estendeva il divieto di demolizione o restauro di beni, senza autorizzazione del ministero, anche alle cose di proposta privata. Tuttavia, bisogna specificare che queste norme esprimevano una concezione elitaria del bene, secondo cui i beni tutelati si caratterizzavano per pregio e rarità. La legislazione repubblicana > i primi anni di regime repubblicano sono connotati dal silenzio del legislatore sulla materia. Emergono tuttavia nuovi problemi, prodotti dall’impetuoso sviluppo sociale ed economico: i pericoli non sono più rappresentati soltanto dalla dispersione del patrimonio, quanto piuttosto da una espansione urbanistica incontrollata che non garantisce la conservazione delle raccolte pubbliche. Una nuova fase della politica culturale si aprì con l’istituzione della commissione di indagine per la tutela delle cose di interesse storico, archeologico, artistico e del paesaggio, ossia la commissione Franceschini del 1964. Questa pubblicò gli esiti dei propri lavori, delineando un’Italia in condizioni drammatiche per ciò che riguardava il patrimonio (devastazione dei siti archeologici, impossibilità di provvedere al restauro ecc.); espresse, quindi, diverse proposte di intervento legislativo, articolate in 84 dichiarazioni che coprivano l’intera materia dei beni culturali. Di grande rilievo apparve la prima, che offre una definizione giuridica unitaria dei beni culturali: “Appartengono al patrimonio culturale della Nazione tutti i beni aventi riferimento alla storia della civiltà”. Nel corso degli anni 90 avvenne una inversione di tendenza rispetto all’inerzia del passato, attraverso il concordo di due fattori: 1. spinta innovatrice attraverso la creazione di un mercato interno che regoli la libera circolazione. A tal proposito la legge del 1992 regolò le esportazioni al di fuori del territorio dell’Unione Europea; quella del 1993 era invece relativa alla restituzione di beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro. Dopo decenni di letargo quindi, l’evoluzione del quadro normativo assume uno slancio irresistibile, per cui il d.lgs. del 1998 istituisce il nuovo Ministro per i beni e le attività culturali; passaggio importante di questa spinta è costituita poi dal d.lgs. del 1991 che ha dettato il testo unico in materia di beni culturali e ambientali 2. distribuzione delle competenze derivate dalla riforma del titolo V della Costituzione: dall’affidamento alla legislazione concorrente delle regioni delle funzioni di valorizzazione dei beni culturali, alla previsione di forme di intesa e coordinamento centro-periferia nella materia della tutela dei beni culturali In un quadro politico-sociale in grande fibrillazione, viene emanato il d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42, recante il Codice dei beni culturali e del paesaggio: esso si caratterizza per l’estensione dei beni oggetto di tutela e dei destinatari della disciplina medesima; le novità procedimentali nella verifica dell’interesse culturale; il riordino della disciplina della alienazione dei beni culturali pubblici, con un catalogo di beni inalienabili senza più riferimento all’interesse “particolarmente importante”. L’inquadramento costituzionale della cultura: promozione e libertà Le norme costituzionali sull’organizzazione della cultura e dell’arte si sistemano intorno a due distinti poli d’attrazione: da un lato l’art. 9 Cost. e dall’altro l’art. 33 Cost. A sua volta, l’art. 9 parrebbe scisso in due poli nettamente suddivisi, corrispondenti ai suoi due diversi commi: il primo illustra la funzione promozionale cui la Repubblica si impegna per sviluppare la cultura e la ricerca scientifica; il secondo sembrerebbe alludere a una logica conservativa con l’obbligo di tutelare il paesaggio e il patrimonio storico-artistico. In realtà, entrambe le disposizioni assolvono alla medesima funzione, che è quella di introdurre nel nucleo della Carta il valore estetico-culturale, cioè un valore diverso e conflittuale rispetto a quelli dell’industria che regolano la società contemporanea. L’art. 9, quindi, non è altro che un cuneo attraverso il quale della Costituzione appare l’esigenza di assicurare il progresso culturale della comunità civile; se infatti lo scopo da raggiungere consiste nel miglioramento del livello culturale dei consociati, in nessun caso l’intervento della Repubblica può ridursi alla semplice gestione del patrimonio culturale ereditato, ma tale intervento deve offrire invece un impulso alla 16 creazione e alla distribuzione dei fatti culturali (ciò vale anche per la promozione della cultura e della ricerca scientifica, nonché per la conservazione dei beni di interesse storico e artistico). Ciò sembra però allo stesso tempo stridere con i principi dell’art 33, secondo cui l’arte, la scienza e il loro insegnamento sono libere; tale norma infatti vieta la formazione di un’arte o di una scienza di stato. Esiste allora un equilibrio tra doverosità dell’intervento pubblico e libertà d’espressione? Si, il raccordo sta nel fatto che a giudizio dei costituenti, la cultura non è libera e quindi l’azione dei pubblici poteri serve a renderla libera, specialmente dai condizionamenti che ne intralciano lo sviluppo; l’intervento pubblico è doveroso, a condizione che lo Stato eserciti un ruolo meramente suppletivo, sostenendo le espressioni intellettuali che stentano a farsi largo da sole. 2. Lo statuto dei beni culturali Definizioni e modelli: dalla concezione estetizzante a quella antropologica L’art. 148, comma 1, del 1998 offriva per la prima volta nella storia legislativa nazionale una definizione del concetto di beni culturali: “Quelli che compongono il patrimonio storico, artistico, monumentale, demoetnoantropologico, archeologico, archivistico e librario e gli altri che costituiscono testimonianza avente valore di civiltà”. In questa norma si riflette l’eco della nozione a suo tempo elaborata dalla commissione Franceschini, ma la locuzione di “bene culturale” risale all’antecedente convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, firmato a l’Aja nel 1954; a sua volta tale espressione era stata già utilizzata nei primi anni 50 in un saggio pubblicato da Grisolia che a sua volta la mutuava dal Rapporto degli esperti redatto nel 1949, stilato per volere dell’Unesco. Esso offriva una concezione assai lata del concetto di bene culturale, ricomprendendovi i beni immobili, mobili, pubblici o privati, ma anche gli edifici che conservano queste opere. In Italia bisognerà attendere i lavori della commissione Franceschini del 1964 per vedere ufficialmente adottata la formula “beni culturali” all’interno di un documento ufficiale dello Stato: “Sono beni culturali quelli di interesse storico, archeologico, artistico, ambientale, archivistico, libraio ed in genere qualsiasi altro bene che costituisca testimonianza avente valore di civiltà”. La commissione Franceschini introduceva ufficialmente il termine “bene culturale”, ponendo su esso un'accezione completamente nuova; faceva infatti leva sulla storicità del bene culturale, segnando il passaggio, come metro di giudizio, dal criterio estetico (che era presente nelle due leggi Bottai del 1939, dove bene culturale era ciò che possedeva carattere di rarità e pregio) a quello storico. Bene culturale era quindi considerato quel “bene che istituisca testimonianza materiale avente valore per la civiltà”. La commissione Franceschini inoltre reintroduceva anche il paesaggio, ossia i beni ambientali. I confini della categoria creata dalla commissione Franceschini hanno però subito un avanzamento sotto la pressione della nozione antropologica di cultura, per cui oggi è sempre più evidente la tendenza a definire bene culturale qualunque manifestazione della cultura umana. Oggi quindi, se si ripercorre la sua parabola storica della nozione di bene culturale, partita dalla concezione estetizzante, ci si accorge di come essa varchi i confini delle moderne accezioni culturali, sino a rischiare di sfociare nell'eccesso opposto del pan culturalismo (considerare tutto cultura, quindi bene culturale), ossia quell'eccessiva dilatazione della nozione attuale di bene culturale. L'immaterialità Tra i connotati dei beni culturali, emergono l'immaterialità e la pubblicità; qualunque sistema di tutela deve fare i conti con la specifica funzione alla quale assolvono i beni culturali, ossia con la loro funzione culturale. Ma che cosa deve intendersi per immaterialità? In passato, è stato considerevole lo sforzo della cultura giuridica per individuare un fondamento giuridico a quelle espressioni della vita culturale che appaiono avulse da un rapporto di coessenzialità con le cose; la necessità di rinnovare il concetto di bene culturale aprendolo alle manifestazioni immateriali della cultura, è stata segnalata da Sabino Cassese, che introdusse una definizione, quella di "attività culturale” come specie del genere "bene culturale". Nella legislazione, il concetto di attività culturale aveva fatto il suo ingresso nel 1977: nel capo intitolato ai beni culturali, vi vengono per la prima volta menzionate (insieme ai musei e alle biblioteche) anche le attività di prosa, musicali, e cinematografiche; sono state via via incluse anche le tradizioni orali e, più in generale, ogni fenomeno culturale che non avesse una connotazione spiccatamente estetica (proverbi, canti, musiche popolari). È indubbia la carica fortemente innovativa di tale approdo, che liberava il bene culturale dagli impacci di un legame necessario con le cose. 17 Il codice dei beni culturali ha abrogato l'art.148 del d.lgs n 112/1998, contenente le definizioni funzionali in materia di beni e attività, risparmiando due soli articoli (149 e 151) dell’interno capo V del decreto, e offrendo della tutela la definizione di "esercizio delle funzioni" e "disciplina delle attività dirette ad individuare i beni costituenti il patrimonio culturale e a garantirne la protezione e la conservazione per i fini di pubblica fruizione” (art.3, comma1). Inoltre, l'esercizio delle funzioni di tutela si esplica anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale (art.3, comma2); quindi, tutela sia come regolazione normativa (disciplina), che come amministrazione concreta (esercizio delle funzioni). In conclusione, sono 3 le finalità della tutela: 1. l’individuazione dei beni che entrano a far parte del patrimonio culturale 2. la garanzia della protezione degli stessi 3. la loro conservazione Questo è il nocciolo della tutela che però non può restare fine a se stesso: funzioni e attività di tutela devono aprire e dilatare i confini della fruizione pubblica dei beni, e la fruizione a sua volta deve servire a preservare la memoria della comunità nazionale, a promuovere lo sviluppo della cultura; è questo è il fine ultimo della tutela del patrimonio culturale (art.1, comma 2 del Codice). Una delle innovazioni più significative in ambito di tutela è l’art. 12 Cod. in relazione alla verifica dell'interesse culturale (sull'elenco dei beni culturali di proprietà pubblica in base ai beni richiamati dall'art.10). Fino al testo unico del 1999, l'individuazione del beni culturali di proprietà pubblica si fondava sull'obbligo di redazione di elenchi descrittivi da parte di legali degli enti titolari dei beni; non esisteva dunque nessuna procedura finalizzata alla verifica dell’interesse culturale, a differenza dei beni mobili e immobili di proprietà privata. Questo assunto si ribalta con il Codice dei beni culturali: l'art 12 del Codice, infatti, recita che le cose immobili e mobili indicate dall'art.10, comma 1, che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risale a oltre 50 anni (beni mobili, o 70 beni immobili) sono sottoposte alle disposizioni della parte II del Codice fino a quando non sia stata effettuata la verifica del loro interesse culturale; si tratta di una norma che afferma una presunzione di interesse culturale di un bene, salvo il riscontro negativo della verifica. I competenti organi del Ministero, di ufficio o su richiesta formulata dai proprietari del beni, verificano la sussistenza dell'interesse artistico, storico, archeologico o etnoantropologico nelle cose sopra richiamate, sulla base di indirizzi generali stabiliti dal Ministero, al fine di assicurare uniformità di valutazione. Nel caso di esito negativo su cose appartenenti allo Stato, alle regioni o enti pubblici, la scheda con i relativi dati è trasmessa ai competenti uffici che ne dispongono la sdemanializzazione, qualora non vi ostino ragioni di pubblico interesse; viene meno la presunzione di interesse culturale e in seguito alla sdemanializzazione sono considerate liberamente alienabili. Il procedimento di verifica si conclude entro 120 giorni dal ricevimento della richiesta. Nella sua formazione originaria, l’ultima parte dell’art. 12 stabiliva che la mancata comunicazione entro il termine di 120 giorni dalla ricezione della scheda, equivale ad esito negativo della verifica con conseguente sdemanializzazione e quindi libera alienabilità del bene. Ciò provocò insurrezione nell'opinione pubblica e giunse la rettifica dell’art. 12 comma 10 del Codice, mantenendo il termine di 120 giorni per la conclusione del procedimento di verifica, ma senza trarne deduzioni sull'interesse culturale in caso di inadempienza della pubblica amministrazione. Segue: la dichiarazione di interesse culturale Al di fuori dell'elenco dei beni che risultano tali (art.10, comma 2 del Codice), per tutti gli altri beni, il Codice prevede una dichiarazione (sull'eccezionale interesse culturale o particolare) che va notificata al proprietario, possessore, detentore, risolvendo l'avvio della procedura di tutela del bene culturale. Tale dichiarazione può essere anche formulata dalla regione per particolari categorie di beni non appartenenti allo stato (es: manoscritti, autografi, incisioni). La norma, ancora oggi vigente, va però inquadrata dall'art. 14 del Codice, che attribuisce al Ministero la competenza di emettere la dichiarazione di interesse culturale dei beni di privati, possessori o detentori, attraverso un procedimento che si può aprire d'ufficio, anche su istanza motivata dalla regione o ente territoriale. Dell'avvio del procedimento va data la comunicazione al proprietario e dal momento di 20 questa comunicazione, il bene viene sottoposto al controllo dell'amministrazione in via cautelare; importante sottolineare è che non è necessaria una ponderazione dell'interesse culturale con altri interessi (pubblici e privati), in conformità dell'art. 9 cost. E’ invece ammissibile, a distanza di tempo, una differente valutazione degli interessi culturali in gioco: quindi, anche nel giudizio amministrativo (come nel processo costituzionale) il giudice presta ascolto alle mutazioni che vengono introdotte. Il procedimento si chiude con la notifica di dichiarazione che può essere indirizzata al proprietario, possessore o detentore; da questo momento ne scaturiscono limitazioni per la disposizione del bene. All’imposizione del vincolo, derivano dunque per i titolari di diritti di proprietà privata una quantità di obblighi: negativi e positivi di comportamento sui beni suddetti; denuncia al Ministero in caso di trasferimento degli stessi; assoggettamento ad interventi conservativi imposti; obblighi di far autorizzare il restauro, la rimozione, la demolizione o lo spostamento e lo smembramento di collezioni e raccolte. Poiché, infatti, il nocciolo della tutela risiede nella protezione e conservazione, a queste non può sottrarsi la sfera privata dei singoli. In particolare, il codice specifica all’art. 21, in relazione alle misure di protezione, che sono subordinate ad autorizzazione del Ministero: a) la rimozione e la demolizione delle cose costituenti beni culturali b) lo spostamento dei beni culturali c) lo smembramento di collezioni, serie e raccolte Inoltre, si è stabilito che, al di fuori di questi casi elencati, l'esecuzione di lavori o opere su beni culturali è subordinata all'autorizzazione del soprintendente. Riguardo poi le misure di conservazione del patrimonio culturale, esse sono assicurate mediante una coerente, coordinata e programmata attività di studio, prevenzione e manutenzione (art. 29). All’interno del Codice, merita l'interesse rivolto al restauro, inteso come “intervento diretto sul bene attraverso operazioni finalizzate all'integrità materiale e al recupero del bene medesimo, alla protezione e alla trasmissione dei suoi valori culturali” (con la precisazione che nel caso di beni immobili in zone sismiche, il restauro comprende l'intervento di miglioramento strutturale, art. 29, comma 4). Per prevenzione si intende invece il complesso delle attività idonee a limitare le situazioni di rischio connesse al bene culturale nel suo contesto; per manutenzione, il complesso delle attività e degli interventi destinati al controllo delle condizioni del bene culturale e al mantenimento dell'integrità (art. 29, commi 2-3). Di rilievo appare la regolamentazione del restauro su iniziativa del proprietario, che è sottoposta ad una procedura semplificata che pone la figura del soprintendente al centro, che approva il progetto di restauro e si pronuncia in merito all'ammissibilità di contributi statali; certifica poi la necessità del restauro ai fini delle agevolazioni tributarie previste dalla legge. Va segnalato che, proprio in considerazione dell’elevato livello di competenze necessarie, il legislatore ha provveduto ad inserire l'art. 9-bis che abilita diverse figure professionali specializzate (archeologi, esperti di diagnostica ecc) alla conduzione delle attività di tutela, valorizzazione, e fruizione dei beni con le derivanti responsabilità. Fra le altre misure di tutela ricordiamo gli artt. 88 ss. del Codice in relazione alle ricerche archeologiche e alle opere per il ritrovamento delle cose indicate nell’art.10, le quali sono riservate al Ministero; egli ha facoltà di ordinare l'occupazione temporanea degli immobili ove debbano eseguirsi i lavori, mentre il proprietario può richiedere un'indennità per l'occupazione. Il Ministero inoltre su richiesta può rilasciare al proprietario i beni ritrovati quando non interessano allo Stato e va sottolineato che tutte le cose indicate nell’art.10 del Codice (anche nel sottosuolo e nei fondali marini) appartengono allo Stato (eccezione fatta per i beni ritrovati nella Sicilia) e, a seconda se siano immobili o mobili, appartengono al demanio o al patrimonio (art. 822 e 826 del codice civile, art. 91). La ricerca archeologica spetta allo Stato e quella privata può avvenire solo su concessione. Riguardo alle sanzioni penali: arresto fino ad un anno e l'ammenda da euro 310 ad euro 3099 a chi: esegue ricerche archeologiche o opere di ritrovamento di cose indicate nell'art. 10 senza concessione, e chiunque non denuncia le cose indicate nell'art. 10 rinvenute fortuitamente. Inoltre chi si impossessi di beni culturali (art. 10) appartenenti allo Stato è punito con la reclusione fino a tre anni e con multa da euro 31 ad euro 516 > questo è detto "furto d'arte". 21 Un’ultima riflessione sull’espropriazione. Dopo che il t.u.b. cult. aveva inserito l’espropriazione nel capo VI del titolo I, dedicato alla valorizzazione e al godimento dei beni culturali, il codice ha fatto rientrare tale istituto nell'ambito della tutela. Secondo gli artt.95 ss., i beni culturali possono essere espropriati dal Ministero per causa di pubblica utilità, quando l’espropriazione stessa risponda ad un interesse a migliorare le condizioni di tutela ai fini della fruizione pubblica dei beni medesimi. La normativa in materia di tutela dei beni culturali ha conservato la tradizionale tripartizione tra: - espropriazione del bene già dichiarato di interesse culturale (art.95) > il fine è di assicurare la miglior tutela e fruibilità pubblica del bene già dichiarato di interesse culturale; c’è una volontà di assicurare migliori condizioni di tutela e fruibilità del bene vincolato mediante l’acquisto al demanio pubblico e non è quindi richiesta la previa approvazione di un progetto di intervento, essendo sufficiente un atto di valutazione dell'utilità pubblica dell'esproprio del bene (già) culturale - espropriazione per fini strumentali (art. 96) > possono essere espropriate per causa di utilità pubblica aree ed edifici per isolare o restaurare monumenti, garantirne il decoro o il godimento del pubblico, facilitarne l'accesso - espropriazione per interesse archeologico (art. 97) > il fine può essere quello di eseguire ricerche archeologiche In questi due ultimi casi, l’oggetto è un immobile o un'area ancora non dichiarata di interesse culturale poiché questa richiede l'approvazione di un progetto come previsto dall'art. 98 comma 2 del Codice. La valorizzazione Sul piano legislativo, la valorizzazione dei beni culturali è rimasta nettamente penalizzata rispetto all'attività di tutela, essendo stata storicamente solo questo ultima compiutamente regolata dal diritto. La nozione di "Valorizzazione" ha esordito nell'ordinamento dei beni culturali con l'art.1 del d.P.R. 1975 n.805, che affidava al Ministero dei beni culturali e ambientali il compito di provvedere alla tutela e alla valorizzazione dei beni senza però fare una netta distinzione semantica tra i due concetti, distinti sulla base di funzioni conservative dei beni, assenti nella valorizzazione e presenti nella tutela. Presto però nella valorizzazione venne individuato l'incremento delle condizioni di godimento pubblico e quindi della naturale destinazione del bene alla fruizione collettiva; ma subentrava anche un altro aspetto, per cui la valorizzazione è strettamente legata all'incremento della qualità economica del bene, mediante maggiori entrate finanziarie. Ciò risulta lontano dalla nozione di cultura fatta dalla Carta costituzionale, che non sancisce una valorizzazione finalizzata all'incremento economico; infatti la valorizzazione in un ordinamento democratico e pluralistico (rivolto allo sviluppo della cultura) non può che essere circolare, per cui parte dalla fruizione alla fine deve ritornare. L’aumento della domanda di accesso ai beni culturali, lo sviluppo di servizi aggiuntivi, l’incremento delle sponsorizzazioni, può rappresentare una strategia gestionale destinata alla ricerca di profitto, purché questo sia vincolato alla più ampia fruizione del bene culturale. Non lontano da questa concezione si collocava l’art. 148 del 1998 quando, ponendo per la prima volta sullo stesso piano tutela e valorizzazione, qualificava quest’ultima come "ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni culturali ed ambientali e ad incrementare la fruizione". La valorizzazione dei beni veniva affidata alla cura dello Stato, regioni o enti locali, mediante forme di cooperazione strutturale e funzionale tra questi; in tal solco, in ogni regione a statuto ordinario si inseriva la previsione della commissione per i beni e le attività culturali. Si correva però il rischio di sovrapposizione delle funzioni, ossia il rischio di invalidità della funzione di tutela rispetto a quelle di gestione e valorizzazione. Detto questo, rimane però la questione di una interpretazione quanto più possibile evolutiva del nuovo ordinamento dei beni culturali: la tutela, la valorizzazione e la gestione non devono correre su binari separati, ma devono coordinarsi nel nome del principio fondamentale dello sviluppo culturale. Il riparto di competenza viene ancora innovato dalla riforma del titolo V della Costituzione con I.cost. n.3/2001, la quale costituzionalizza la valorizzazione, inserendola tra le materie di legislazione concorrente (art. 117, comma 3). Il codice dei beni culturali, nel mentre abrogava gli artt. 148, 150, 152, 153 del d.lgs n. 122/1998, ha riqualificato la valorizzazione come l'esercizio delle funzioni e la disciplina delle attività dirette a promuovere la conoscenza del patrimonio culturale e ad assicurare le migliore condizioni di utilizzazione 22 Oggi, in materia di circolazione bisogna distinguere tra circolazione nazionale e internazionale. In merito alla prima, il Codice esordisce all’art. 53 affermando che i beni culturali appartenenti allo stato, alle regioni, e agli altri enti pubblici, costituiscono il demanio culturale; essi non possono essere alienati. Secondo poi l’art. 54 sono inalienabili: gli immobili e le aree di interesse archeologico, i monumenti nazionali, le raccolte di musei, pinacoteche, gallerie e biblioteche. Sono altresì inalienabili le cose appartenenti ai soggetti indicati all’art. 10 comma 3: le cose mobili che siano opera di autore non più vivente e la cui esecuzione risalga ad oltre 50 anni (se mobili, oltre 70 se immobili). Per il Codice, dopo le modifiche del 2006, gli atti che trasferiscono la proprietà o la detenzione dei beni culturali vanno denunciati al Ministero. La denuncia è effettuata entro 30 giorni: a) dall'alienante o dal cedente la detenzione b) dall'acquirente, in caso di trasferimento avvenuto per vendita forzata o fallimentare c) dall'erede o dal legatario, in caso di successione a causa di morte. Il Ministero e gli altri enti interessati hanno facoltà di acquistare in via di prelazione i beni alienati al medesimo prezzo stabilito nell'atto di alienazione o medesimo valore attribuito nell'atto di conferimento; il diritto di prelazione deve essere esercitato entro 60 giorni dalla data di ricezione delle denuncia del trasferimento. Nel caso però in cui la denuncia sia stata omessa o presentata tardivamente, la prelazione è esercitata nel termine di 180 giorni dal momento in cui il Ministero riceve la denuncia. La circolazione di beni in ambito internazionale è regolata dal capo V, titolo I della parte Il del codice (artt. 65) che distingue tra uscita e ingresso dei beni nel territorio nazionale; esportazione dal territorio dell'Unione europea; restituzione dei beni illecitamente usciti dal territorio di uno stato membro dell'UE; ritorno dei beni rubati o illecitamente esportati. L'art. 65 vieta l'uscita definitiva del territorio della Repubblica dei beni mobili indicati nell'art. 10, commi 1, 2, 3. E' vietata altresì l'uscita delle cose mobili appartenenti ai soggetti dell’art.10 che siano opera di autore non più vivente eseguite da almeno 50 anni; dei beni che rientrano nell'art. 10 comma 3 e che il Ministero abbia già individuato e, per periodi temporali definiti, abbia escluso dall’uscita perché dannosa per il patrimonio culturale. È invece ammessa, previa autorizzazione, l'uscita dal territorio della Repubblica di altre categorie di beni: a) cose che presentino interesse culturale, siano opere di autore non più vivente, la cui esecuzione risalga a più di 50 anni; b) archivi e dei singoli documenti, appartenenti ai privati, che presentino interesse culturale; c) delle cose "oggetto di tutela specifica" tipo fotografie, opere cinematografiche, i mezzi di trasporto, beni di interesse per la storia di scienza e tecnica, a chiunque appartengano. Non è soggetta invece ad autorizzazione l’uscita delle cose di cui all’art. 11, comma 1, lettera D del codice: si tratta delle opere di pittura, scultura, grafica e qualsiasi altro oggetto di autore vivente o la cui esecuzione non risalga ad oltre 50 anni. Per i soli beni la cui uscita è sottoposta ad autorizzazione, è previsto un attestato di libera circolazione per chi intenda farli uscire in via definitiva dal territorio della Repubblica. L’interessato deve fare denuncia e presentarli al competente ufficio di esportazione, il quale entro 3 giorni dall’avvenuta presentazione della cosa, ne dà notizia ai competenti uffici del Ministero. L’ufficio rilascia o nega l’attestato di libera circolazione, dandone comunicazione all’interessato entro 40 giorni dalla presentazione della cosa. L’attestato ha validità triennale. Sempre entro 40 giorni dalla presentazione all’ufficio di esportazione, quest’ultimo può proporre al Ministero l’acquisto coattivo della cosa per la quale è richiesto l’attestato di libera circolazione (art. 70). Il provvedimento di acquisto è notificato all’interessato entro il termine di 90 giorni dalla denuncia. Mentre per i paesi infracomunitari è previsto l'attestato di libera circolazione, per i paesi extracomunitari è richiesta, oltre all’attestato, anche la licenza di esportazione. Il codice prevede poi che i beni culturali usciti illecitamente dal territorio di uno Stato membro dell’Unione Europea a decorrere dal 31 dicembre 1992 siano restituiti in quanto appartenenti al patrimonio culturale nazionale, allo Stato richiedente. Assai significativa è inoltre l’istituzione, presso il Ministero, di una banca dati dei beni culturali illecitamente sottratti. In caso di trasferimento di beni senza aver ottenuto il prescritto attestato di libera circolazione o la licenza di esportazione, il responsabile è punito con la reclusione da uno a quattro anni o con una multa da 258 a 5165 euro. La disciplina europea e internazionale 25 Nel trattato di Lisbona del 2009 traspare la consapevolezza dell’Unione europea rispetto alle tematiche della tutela e della promozione della cultura, ma già il trattato dell’Unione prevedeva tra gli obiettivi un contributo rivolto ad una istruzione e ad una formazione di qualità per lo sviluppo delle culture degli Stati membri. Oggi l’Unione si prefigge il rispetto per la ricchezza della diversità culturale e linguistica e si impegna a vigilare sulla salvaguardia e sullo sviluppo del patrimonio culturale europeo. La cultura viene così considerata oggetto specifico di azioni intese a sostenere, coordinare o completare l'azione degli stati membri; mentre la necessità di valorizzare, senza reprimere, le diversità viene poi ribadita dalla Carta di Nizza. Il Trattato di Lisbona prevede il miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura e della storia dei popoli europei rispetto anche alle loro diversità nazionali e regionali; conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale d'importanza europea; scambi culturali non commerciali; creazione artistica e letteraria. Meritevole di particolare attenzione appare l’uso della nozione di “patrimonio culturale d’importanza europea”, formula che però non contrappone l'identità culturale europea con quella dei singoli stati membri, ma rappresenta un tentativo di superare l'idea di patrimonio culturale di esclusivo interesse nazionale. Il principio fondamentale cui sembra ancora oggi volersi ispirare l'azione dell'UE in materia culturale, resta comunque quello di sussidiarietà; esso si concretizza attraverso politica di sostegno, integrazione e contributi alle politiche culturali nazionali. Altro scopo dell'Unione è stato quello di impedire l'esportazione di beni culturali in paesi esterni all’Unione e di arginarne il traffico illecito di beni anche all'interno della stessa Unione; pertanto si attribuisce una tutela speciale a determinate categorie di beni culturali, che si concretizza in un procedimento di restituzione e che si aggiunge alla legislazione nazionale. L'esportazione di beni culturali, al di fuori del territorio della comunità, può avvenire con la presenza di una licenza di esportazione che è rilasciata da una autorità competente dello stato membro del territorio in cui si trova; lo stato a cui venga sottratto illecitamente un bene può rivolgersi agli organi giurisdizionali dello stato in cui questo è stato trasferito, per ottenerne la restituzione (da notare come il Codice ha ripreso queste disposizione nell'art. 75); tale disposizione nel corso degli anni si è rivelata però inadeguata. Per far fronte a questa difficoltà, il parlamento e il Consiglio europeo hanno adottato la direttiva n.60/2014, con la quale si è in parte riscritta la disciplina relativa alla restituzione dei beni. La nuova disciplina estende la tutela a qualsiasi bene definito culturale dal singolo stato membro, a prescindere dalla riconducibilità a categorie predeterminate, a collezioni pubbliche o a inventari di istituzioni ecclesiastiche. Vi sono poi convenzioni internazionali volte a rafforzare la protezione dei beni culturali, tra cui: la Convenzione per la protezione dei beni in caso di conflitto armato sottoscritto all'Aja nel 1954; la Convenzione Unesco per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale del 1972; la Convenzione dell’Unidroit sul ritorno internazionale dei beni culturali rubati o illecitamente esportati del 1995. La Convenzione dell’Aja parte dal presupposto che i danni arrecati ai beni culturali di e da qualsiasi popolo costituiscano un danno per il patrimonio culturale dell'umanità intera. La Convenzione vieta quindi innanzitutto il "diritto di preda”, ossia qualsiasi atto di furto, saccheggio o sottrazione di beni culturali ai danni dei Paesi nemici (il cosiddetto bottino di guerra). Prevede anche la sottoposizione a protezione speciale di beni culturali mobili, centri monumentali ed altri beni culturali immobili di altissima importanza e obbliga la potenza occupante a collaborare con le autorità del luogo per salvaguardare i beni nel territorio occupato. La convenzione dell’Aja va integrata con i successivi protocolli e in particolare con il II protocollo alla Convenzione, adottato nel 1991, che presenta significative innovazioni rispetto al testo originario, come la parziale estensione dell’ambito di applicazione ai conflitti interni e limitazioni alla deroga della “necessità militare”. La tutela internazionale dei beni culturali ha conseguito inoltre nuovi traguardi con la Convenzione Unesco del 1972, dove si afferma il principio che tutti i popoli del mondo sono interessati alla conservazione di beni culturali avendone in comune i valori di civiltà. La definizione di patrimonio culturale è molto ampia e comprende monumenti, agglomerati, siti; si tratta di una tipologia di beni ampia, ma caratterizzata da un connotato comune, ossia l'eccezionalità del valore dal punto di vista 26 storico, estetico, etnologico o antropologico. Inoltre, la convenzione Unesco, prevede l'istituzione di un comitato intergovernativo per la protezione del patrimonio mondiale, composto da 21 stati membri; compito del Comitato è definire ed aggiornare un elenco di beni culturali reputati di valore eccezionale e perciò meritevoli di particolare tutela al fine di assicurarne la conservazione per le generazioni future, ossia “the World Heritage List (WHL)”. Oggi inoltre vi è la consapevolezza che gli attentati ai beni culturali non provengono solo da vicende belliche ma possono assumere anche connotazione di strumento di conflitto religioso, citiamo la "Dichiarazione sulla distruzione internazionale del patrimonio culturale" adottata dall'Unesco nel 2003 a tutela del patrimonio distrutto intenzionalmente per motivi politico- religiosi; ciò in seguito alla distribuzione dei Buddha di Bamlyan in Afghanistan. Significativa di un nuovo approccio della comunità internazionale nei confronti della cultura è anche la Convenzione Unesco riguardante la protezione e la promozione delle diversità culturali ratificata il 31 gennaio 2007: l'obiettivo è il consolidamento di tutti i segmenti della catena creativa culturale (creazione, produzione, diffusione e fruizione dei beni) con particolare riguardo ai paesi in via di sviluppo; tale Convenzione è oggi richiamata anche dall’art. 7-bis del Codice. A livello internazionale, molto importante è anche la Convenzione Unidroit del 1995, che distingue fra restituzione dei beni culturali rubati e il loro ritorno, in caso di esportazione illecita. E’ lecito tuttavia coltivare qualche dubbio sulla sua reale incidenza, dato che i paesi sottoscrittori sono pochi e poco rilevanti sul mercato internazionale. A livello di disciplina sovranazionale del beni culturali, una tappa significativa è la Convenzione quadro di Faro del 2005, il cui scopo è quello di costruire, attraverso la cultura, una società pacifica, democratica, sostenibile e rispettosa delle diversità; il patrimonio culturale viene cosi a rappresentare il mezzo per perseguire la salvaguardia della dignità umana. 4. Il governo dei beni culturali Le competenze dello stato Il primo organico riparto di competenze fra Stato ed enti locali è quello prospettato dal d.lgs. n.112 del 1998 che riservava allo Stato, a norma dell'articolo 149 Comma 1, funzioni e compiti di tutela dei beni. La valorizzazione dei beni culturali veniva invece affidata all’art. 152 d.lgs n.112/1998 alla cura dello Stato, insieme alle regioni e agli enti locali. La gestione dei beni culturali era invece ripartita tra Stato ed enti autonomi territoriali, secondo le modalità previste dall’art. 150. Questo quadro risulta notevolmente rinnovato dalla riforma del titolo V della Costituzione, approvata con la I.cost. n.3/2001. A norma del nuovo art. cost. 117, la tutela resta compresa fra le competenze legislative di carattere esclusivo, ma la valorizzazione dei beni è affidata alla potestà concorrente Stato-regioni, residuando alla legislazione statale il compito esclusivo di stabilite i principii fondamentali in materia. Spetta inoltre alla legge statale la disciplina di forme di intesa e coordinamento nella materia della tutela, con l’opportuno compito di coordinare i nuovi ordini di competenza territoriale nelle funzioni della tutela e della valorizzazione. Nello stesso tempo però le funzioni amministrative, sia per la tutela sia per la valorizzazione, sono attribuite ai comuni, salvo il conferimento agli altri enti locali territoriali e allo Stato, per assicurare l’esercizi unitario, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza. Questa disciplina va inquadrata alla luce della riforma del titolo V della Costituzione che ha ribaltato i criteri di riparto delle competenze fra Stato e regioni in materia legislativa in relazione alle funzioni amministrative. Il Codice dei beni culturali nell'art. 1. Comma 3, dispone che tutti gli enti territoriali assicurino e sostengano la conservazione del patrimonio culturale e ne favoriscano la pubblica fruizione e valorizzazione; così come è disposto per i pubblici possessori di beni nell’art. 1, Comma 4. Novità assoluta è poi la previsione che anche i privati proprietari, possessori o detentori di beni appartenenti al patrimonio culturale, ivi compresi gli enti ecclesiastici civilmente riconosciuti, sono tenuti a garantirne la conservazione. Dopodiché il Codice precisa all’art. 4 che, al fine di garantire l’esercizio unitario delle funzioni di tutela, ai sensi dell’art. 118 della Cost., le funzioni stesse sono attribuite al Ministero per i beni e le attività culturali, che le esercita direttamente o ne può conferire l’esercizio alle regioni, tramite forme di intesa e coordinamento. Il codice reintroduce dunque il parallelismo delle funzioni legislative e amministrative in materia di tutela dei beni culturali e pone, quindi, in una posizione di centralità il Ministero stesso, anziché lo Stato, per l'eventuale conferimento dell'esercizio alle regioni. 27 sostanziale fallimento dell’esperimento pilota di Pompei, dopo che nel 2008 veniva dichiarato lo stato di emergenza dell’area archeologica pompeiana, per la situazione di grave criticità che la caratterizzava. Successivamente, il d.P.C.M. n. 171 del 2014 ha riformato la soprintendenza speciale per Pompei, Ercolano e Stabia alla quale attribuisce la qualifica di ufficio dirigenziale generale. Lo stesso d.P.C.M. associa alla soprintendenza di Pompei la soprintendenza speciale per il Colosseo, il Museo Nazionale Romano e l’area archeologica di Roma. Quindi uno status autonomo ai musei, che li slega dalle soprintendenze. Il progetto è sicuramente ambizioso: l’obiettivo è quello di realizzare un nuovo progetto culturale del museo, facendone un luogo vitale, inclusivo, capace di promuovere lo sviluppo della cultura, ma che assicuri anche una stretta relazione con il territorio. CAPITOLO VII - LE ATTIVITA’ CULTURALI 1. L’inquadramento costituzionale Secondo la definizione contenuta all’art. 148 del d.lgs. n.112/1998, nell’ambito del trasferimento di funzioni e compiti amministratici dello Stato alle regioni e agli enti locali, sono "attività culturali" quelle rivolte a formare e a diffondere espressioni della cultura e dell'arte. Per funzione di promozione si intende ogni attività diretta a suscitare e a sostenere le attività culturali. La nozione di attività culturali trova dunque una definizione legislativa che, tuttavia, rappresenta solo un punto di arrivo provvisorio di quel complesso processo di elaborazione della scienza giuridica; parabola di un rapido successo ma dai contorni non sempre definiti, che solo negli ultimi anni comincia ad avere assestamenti. Occorre però fare un passo indietro cominciando dall’art. 9 Cost., secondo cui la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione. Esso sancisce una biforcazione di funzioni, a un tempo promozionale e conservativa, cui la Repubblica si impegna in direzione della cultura e del patrimonio storico-artistico nazionale, avendo anche riguardo però verso quelle manifestazioni culturali ancora nel loro stadio di formazione, facendo riferimento così a un'idea avanzata di cultura che può prescindere dalla consistenza materiale del bene: prosa, musica, teatro, tradizioni popolari manifestano un carattere culturale non meno delle espressioni puramente corporee. Il presupposto che anima la norma costituzionale è che la cultura non è libera ove sia semplicemente abbondata a sé stessa, per cui l’azione dei pubblici poteri deve essere finalizzata ad estenderne gli spazi di realizzazione e liberarla dai condizionamenti che ne intralciano lo sviluppo. Nel momento in cui la legge pone il valore della libertà della cultura, tale disposizione intende esattamente impedire allo Stato di farsi latore di un’arte o scienza ufficiale mediante il sostegno a quelle attività culturali che appaiono maggiormente corrispondenti alle concezioni ideologiche dominanti; al contrario, ciò che le regole costituzionali impongono ai pubblici poteri è esclusivamente un ruolo di garanzia del libero gioco delle diverse istanze culturali, in particolare sostenendo quelle energie intellettuali che faticano a trovare spazi per i loro costi. Pertanto, i poteri pubblici devono intervenire ma senza operare discriminazioni ispirate a interessi di parte. Il fine perseguitato dalla Costituzione è la crescita del pluralismo culturale, in quanto strumento di sviluppo della personalità dei singoli e quindi della collettività. Dunque da una parte abbiamo una funzione attiva delle istituzioni riguardo alla crescita delle espressioni culturali meno forti in gioco; dall'altra, neutralità rispetto agli esiti. La carta fondamentale impone una funzione di riequilibrio fra le espressioni creative tesa a ripristinare fra esse una condizione di uguaglianza di opportunità, non già di risultati, al solo fine di elevazione culturale e del progresso civile della cittadinanza. Non bisogna, comunque, incoraggiare quelle attività creative che manifestino finalità palesemente antidemocratiche. 2. Il trattamento giuridico Il d.P.R. n. 616 del 1977 ha avuto il merito di sancire l'ingresso delle attività culturali nell'ordinamento giuridico italiano, quelle atipiche manifestazioni culturali rientranti nell'orbita dello spettacolo. Si è trattato di un indirizzo legislativo per l’epoca di grande interesse per due fattori: per il rilievo concesso alle manifestazioni immateriali della cultura, ma anche anche per le novità prodotte sui diversi livelli di governo, in quanto nuovo orientamento teso a compensare, sul piano delle attività, il mantenimento di politiche centralistiche a livello di tutela dei beni culturali. Gli esiti, però, non hanno corrisposto alle aspettative. Tuttavia, questo d.P.R. ha avuto il merito di sancire l’ingresso delle attività culturali nell’ordinamento giuridico e il successo di tale nozione ha avuto rivolti molto interessanti. Innanzitutto vi è 30 stata un'estensione della tipologia delle attività, tra le quali molto presto sarebbero state ricomprese anche le tradizioni orali, i fenomeni folclorici, le manifestazioni artistiche e scientifiche più avanzate, le tradizioni culinarie. Infine, è riconosciuta la necessità di tutelare e conservare, accanto alla consistenza materiale dei beni culturali, anche le attività in essi svolte (librerie, caffè, trattorie etc.) collegate alla vita sociale, culturale o civile del centro urbano o meglio alla memoria storica della città. Dunque la struttura materiale deve rappresentare una testimonianza attuale di valori culturali idonei a perpetuarsi nel tempo. Inoltre, affinché questo fine sia concretamente realizzato, deve trattarsi di un immobile che rappresenti fondati accadimenti storici di cui si conservi effettive testimonianze. Bisogna coinvolgere il governo per il sostegno delle attività culturali, non solo attraverso interventi positivamente individuati di natura finanziaria per la conservazione o il recupero dei locali di interesse storico ma, ancor prima, per la valorizzazione complessiva del contesto ambientale in cui è esercitata l'attività culturale, a partire dal nucleo urbano in cui si raccoglie la memoria della comunità, e cioè il centro storico in senso strettamente culturale. Può far parte integrante di questa opera di promozione, la predisposizione di agevolazioni per la concessione dell'esercizio di determinate attività e viceversa di vincoli per l'esercizio di altre. 3. Le leggi di finanziamento Una riflessione sul trattamento giuridico delle attività culturali non può prescindere da un esame delle norme promozionali di specifici settori della cultura. Vanno ricordate leggi di sostegno delle arti figurative, teatrali, musicali. Si ricordi, per le arti figurative, la legge 29 luglio 1949, secondo la quale le amministrazioni dello stato e tutti gli altri enti che provvedono all'esecuzione di nuove costruzioni di edifici pubblici, devono destinare all'abbellimento di essi mediante opere d'arte, una quota non inferiore al 2% della spesa totale. Si ricordi inoltre nell’ambito della prosa, il ruolo svolto dall’ETI (ente teatrale italiano), retto dalla legge 14 dicembre 1978, che aveva lo scopo di contribuire alla valorizzazione e alla diffusione della cultura e delle attività teatrali, musicali e di danza (soppresso nel 2010). Qualche battuta in più va dedicata agli interessanti profili evolutivi della cinematografia, retta dalla legge 4 novembre 1965, la quale disponeva consistenti incentivazioni per gli esercenti che avesse progettato soltanto lungometraggi nazionali, per i produttori, nonché attestati e premi di qualità secondo criteri fondati sullo stretto criterio della nazionalità italiana. Nell’ambito delle attività cinematografiche, molte aspettative sono sorte intorno alla disciplina organica prodotta dal d.lgs. n. 28 del 2004: con tale decreto si sono semplificate le procedure di sostegno all’attività cinematografica e si è prevista l’istituzione di un’unica commissione di valutazione, ossia la Commissione per la cinematografia. Va poi menzionata, all'interno del decreto legislativo n.28 del 2004, la Consulta territoriale per le attività cinematografiche: elabora l'individuazione di aree geografiche per la realizzazione delle opere; l'individuazione di aree privilegiate di investimento relativamente alle industrie tecniche; l'individuazione degli obiettivi per la promozione di attività cinematografiche esterne al ciclo propriamente imprenditoriale (iniziative, manifestazioni, progetti, premi etc.) 4. Il d.lgs. 31 marzo 1998, n.112 L'apice dell'attenzione del legislatore per le attività culturali si raggiunge con il d.lgs. 31 marzo 1998, n. 112, dove si tentava di dare per la prima volta una sistemazione organica delle attività culturali, sia dal punto di vista definitorio, che a livello di dinamiche funzionali, come pure nell'assetto delle competenze. Tutto questo avveniva marcando a chiare lettere la dualità fra beni e attività, nonostante l'eliminazione del riferimento alla materialità del bene sembrasse condurre, a prima vista, ad una assimilazione dei due modelli. Invece, si sottolineava la distinzione tra beni (ciò che componeva il patrimonio storico, artistico, monumentale, archeologico etc.) e attività (rivolta a formare e a diffondere espressioni della cultura e dell'arte). Da una parte si rappresentava la tutela, avente per oggetto beni la cui consistenza materiale non appariva però più obbligata, sostanziandosi in ogni attività diretta a riconoscere, conservare e proteggere i beni culturali; dall'altra la promozione, avente di mira il sostegno alle attività culturali in via di formazione, che si sviluppava attraverso tutte quelle iniziative finalizzate a dare forme alla creatività culturale. Nel momento in cui il bene culturale è riconosciuto come tale, esso sarà oggetto delle funzioni di tutela, gestione e valorizzazione; ma, finché il bene non è venuto in essere, il sostegno alle attività non può che 31 essere di tipo promozionale. Quello designato dal decreto legislativo, è un modello spiccatamente cooperativo, in cui lo Stato e gli altri enti territoriali si impegnano a suscitare e a sostenere le energie intellettuali in via di formazione. Questo decreto tracciava in sostanza una prospettiva originale rispetto al passato, e ciò sia dal punto di vista della tipologia dei beni interessati, sia per il coordinamento delle funzioni, e anche per le innovazioni prodotte in merito alla armonizzazione delle competenze fra i vari enti territoriali: in tal modo si aprivano prospettive assai interessanti per la promozione delle attività. 5. Il governo delle attività culturali In realtà, la legislazione immediatamente successiva non sembra aver mantenuto del tutto queste promesse. La nozione di attività culturale, ritorna nella legislazione successiva ma in maniera spesso incerta. Ciò si può evincere dal d.lgs. 20 ottobre 1998 che istituisce il Ministero per i beni e le attività culturali, innestando un processo di riforma dell'apparato organizzativo ministeriale. Il Ministero, oltre alla tutela, gestione e valorizzazione, deve operare per la più ampia promozione delle attività culturali, garantendone il pluralismo e lo sviluppo in relazione alle diverse aree territoriali e ai diversi settori. Il Ministero infatti esercita le funzioni amministrative statali in materia di promozione delle attività culturali facendo riferimento alle attività teatrali, musicali, cinematografiche e ad altre forme di spettacolo come circo, fotografia, arti plastiche e figurative. Tuttavia, l’impressione prevalente derivata dalle norme sul governo delle attività culturali rimane quella che queste vadano a rappresentare una categoria residuale tale da riassumere tutte quelle manifestazioni culturali non idonee a una specifica caratterizzazione sistematica. 6. La riforma del titolo V Il riparto delle competenze fra i vari livelli territoriali in materia culturale compie un salto significativo nel 2001. Dopo la riforma del titolo V della Costituzione, mentre la tutela resta ricompresa fra le competenze legislative di carattere esclusivo dello Stato, la promozione, cui la riforma associa l'organizzazione delle attività culturali, è affidata alla potestà concorrente Stato-Regioni. La distribuzione delle competenze legislative operata con la riforma del titolo V della Costituzione conferma qui la vocazione alla specialità della materia culturale. E’ infatti sciolto, in virtù del nuovo art. 118, il tradizionale parallelismo tra funzioni legislative e amministrative. Questo articolo inoltre affida la funzione amministrativa ai comuni, salvo che per assicurare l’esercizio unitario siano conferite a province, città metropolitane, regioni e stato, in base ai principi di sussidiarietà, differenziazione adeguatezza. Il nuovo titolo V però non ridefinisce le funzioni di promozione e le attività culturali, i cui contenuti pertanto dovranno continuare ad essere desunti dalla legislazione vigente; per altri versi però i profili innovativi introdotti nello specifico appaiono di sicuro interesse. Infatti, l’inserimento della promozione ed organizzazione delle attività culturali fra le materie di legislazione pone un vincolo a tutta la legislazione ordinaria futura, impegnando lo Stato a porre i soli principi fondamentali in materia. Non sono presenti, fra l’altro, riferimenti espliciti alla categoria dell'interesse nazionale e sono esclusi gli apparati centrali da qualsiasi ruolo di tipo amministrativo. Ebbene, se la promozione delle attività è fatta anche di ausili finanziari, predisposizione di strutture, equilibrato sviluppo tra le diverse aree territoriali, questo conduce a sperequazioni fra le varie realtà locali; non può essere escluso un coinvolgimento dello Stato, costituzionalmente chiamato a garantire livelli paritari nell'accesso alle risorse pubbliche come affermazione del principio di uguaglianza sostanziale. In conclusione, possiamo dire che tutti i progetti di riforma della materia culturale mirano a un target forte comune: efficienza, razionalizzazione delle risorse e integrazione fra i livelli di governo nel campo del coordinamento e della cooperazione; tuttavia, gli esiti di questa scommessa appaiono imprevedibili, non soltanto per le ricorrenti prospettive di revisione, ma anche per le difficoltà di delineare una strategia limpida delle politiche culturali. 7. Le attività culturali dopo il Codice dei beni culturali Dopo la riforma del titolo V, si proponeva un aggiornamento degli strumenti legislativi del settore culturale. Il governo veniva delegato ad adottare entro 18 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, uno o più decreti legislativi per il riassetto delle disposizioni legislative in materia di beni culturali e ambientali, cinematografia, teatro, musica, spettacoli dal vivo, proprietà letteraria e diritto d'autore. 32 che intervengono sul territorio sono pertanto chiamati ad assicurare la conservazione dei suoi aspetti e i caratteri peculiari. Per quanto riguarda la nozione di "beni ambientali", essa non è in realtà di nuovissimo conio. È datata, infatti, 1998 per cui i beni ambientali ricevono una chiara definizione in quanto "beni individuati in base alla legge quale testimonianza significativa dell'ambiente nei suoi valori naturali o culturali". Nel 1999, si è poi specificata ulteriormente la nozione, comprendendovi sia le bellezze naturali che le aree di interesse paesaggistico, ravvisando così nei beni ambientali un connubio di risorse fisico- naturalistiche e identitario-culturali. Il codice dei beni culturali è importante anche per la connessione che individua fra beni culturali e paesaggio: assume quindi un assoluto rilievo il "patrimonio culturale", comprensivo non solo dei beni culturali tradizionali, ma anche dei beni paesaggistici. Va da sé infine che la formula “patrimonio culturale” è da intendere in modo evidentemente diverso da quanto avviene nella teoria civilistica: il patrimonio culturale, di cui qui si parla, ricomprende sia il patrimonio storico e artistico sia il paesaggio. 4. Beni e piani paesaggistici La nozione di beni paesaggistici, già introdotta nel 1998, tende oggi ad assumere un ruolo prevalente rispetto allo stesso concetto di beni ambientali. I beni paesaggistici ricomprendono infatti "gli immobili e le aree indicati all’art. 134, costituenti espressioni dei valori storici, culturali, naturali, morfologici ed estetici del territorio, e gli altri beni individuati dalla legge o in base alla legge". Nel concreto, l’art. 134 del Codice stabilisce che sono beni paesaggistici: a) gli immobili e le aree di notevole interesse pubblico, vale a dire le tradizionali bellezze naturali b) le aree indicate dall’art.142, le cosiddette zone Galasso > i territori costieri, lacustri, fiumi, torrenti, corsi d'acqua pubblici, le montagne, i ghiacciai, i parchi e le riserve nazionali e regionali, territori ricoperti da foreste o boschi, le aree assegnate alle università agrarie, le zone umide, i vulcani, le zone di interesse archeologico c) gli ulteriori immobili ed aree specificamente individuati ai termini dell’art. 136 e sottoposti a tutela dai piani paesaggistici previsti dagli artt. 143 e 156 Il codice poi specifica che l'elaborazione dei piani paesaggistici avvenga congiuntamente tra Ministero e regioni; i soggetti proprietari, possessori e detentori di immobili o aree di interesse paesaggistico, tutelati dalla legge o in base alla legge, qualora intendano intraprendere interventi che possano trasformare il paesaggio, dovranno presentare alle amministrazioni competenti il progetto di intervento, al fine di ottenere l'autorizzazione paesaggistica. In materia di tutela, la competenza è statale ma le regioni sono chiamate a cooperarvi attraverso i piani paesaggistici purché l'Intervento normativo si risolva "in una maggior protezione dell'interesse ambientale”. In tale prospettiva, la pianificazione paesaggistica è disegnata dalle regioni attraverso piani paesaggistici tipici, o anche attraverso piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesaggistici; ma l’opzione per questo secondo strumento impone che, nella disciplina delle trasformazioni, la tutela del paesaggio comunque assurga a valore primario, cui deve sottostare qualsiasi altro interesse interferente. CAPITOLO IX - LE CITTA’ D’ARTE 1. Una premessa La nozione di città d'arte evoca un universo concettuale estraneo alla scienza del diritto e dinanzi al quale il giurista avverte un sentimento di disagio. L’imbarazzo diventa più marcato poi quando il fenomeno si innesta in una categoria dai profili indefiniti come è quella dei beni culturali. Quanto alle città d’arte, si tratta di un concetto la cui eco risuona sempre più frequentemente sui mass media, ma che stenta a farsi largo nel vivo dell’ordinamento. Di gran lunga maggiore è la penetrazione del concetto di bene culturale, che ormai fa parte dell'esperienza legislativa e alla quale vi è dedicato un Ministero ad hoc. 2. Il concetto di città d’arte La definizione del concetto di città d’arte si presenta irta di difficoltà; si tende infatti ad identificare le città d'arte con i nuclei urbani dotati di una spiccata vocazione turistica, finendo per immettere in questa definizione, situazioni fin troppo eterogenee, dal borgo medievale, alla metropoli. 35 Non esistono criteri sicuri per distinguere la città dal villaggio, come l'arte dall'artigianato. Questo fondo opaco insito nei concetti di arte e città rende la città d'arte ancora più sfuggente, ma l'introduzione di questo termine denota se non altro l'insoddisfazione verso altri termini affini come quella di “centro storico”. Incontriamo innanzitutto il concetto di "centro abitato", del quale vi è traccia nel testo unico delle leggi sanitarie, nel codice della strada, nelle leggi urbanistiche ecc. dove il nucleo essenziale risiede nel carattere urbanizzato delle aree (impianti e servizi). A tale nozione si apparenta poi quella di "vecchio centro abitato", nozione utilizzata ad esempio per le leggi antisismiche, allo scopo di indicare gli aggregati rimasti indenni dopo un terremoto. Abbiamo poi il concetto di "centro storico”, che designa quella parte della città con uno stadio diverso dall’attuale. Va evidenziata, quindi, la distinzione tra l'accezione culturale e quella urbanistica di centro storico: la prima mette le radici nella legge 1 giugno 1939, concernente la tutela delle bellezze naturali e identifica i valori storici intorno ai quali si è raccolta la comunità cittadina; la seconda invece trae alimento dalla legge urbanistica. Di norma, le due nozioni, finiscono per coincidere, ma può anche prospettarsi l'ipotesi di un aggregato abitativo privo di centro storico culturale. Queste due accezioni andrebbero integrate anche con la nozione di centro storico in senso socio-economico, come originario luogo d'incontro della comunità e simbolo della loro partecipazione alla politica pubblica. Il "centro storico” rientra a buon diritto nel novero di beni culturali solo nella sua accezione culturale ed è quindi bene riservargli la più esatta denominazione di "centro antico": esso rende bene l'idea di un ciclo di storia ormai concluso e quindi espone meglio il concetto di centro storico in senso culturale. In sintesi possiamo dire che ogni aggregato urbano ha un centro storico che va tutelato perché vi si conserva la memoria storica del luogo e quindi la sua identità. Questi insediamenti dispongono poi di un centro antico dove sono raccolte le testimonianze artistiche del passato. Spesso, il cosiddetto centro antico, finisce per coincidere con l'intero centro abitato ed è in questo caso che affiora la nozione di "città d'arte". È lecito concludere che essa è formata dal solo centro antico, ossia da un centro antico particolarmente esteso. All'interno della città d'arte, la funzione culturale acquista un grandissimo spessore; essa stessa rappresenta un bene culturale, non solo i beni che in essa si trovano, ma per la loro memoria del passato e attività esteticamente connotata. Nulla vieta, però, di considerare città d'arte i luoghi che non siano stati protagonisti della storia o che non rechino traccia d'artisti celebri, purché il tessuto urbano risultati esteticamente connotato. Da ricordare che la nozione di città d’arte non deve essere confusa con la città-museo, ricca di testimonianze artistiche ma orfana della propria eredità di relazioni e di costumi; altrimenti si finirebbe per definire città d’arte anche reperti archeologici come Pompei. 3. Prospettive di tutela L'ingresso della città d'arte nel mondo del diritto esprime l'esistenza di un trattamento normativo tagliato su misura per le esigenze di taluni insediamenti urbani. A tale riguardo, ricordiamo la sentenza n. 151 del 1986, dell’organo di giustizia costituzionale concernente il cosiddetto decreto Galasso sulla protezione delle zone di interesse ambientale, che si pone in sintonia con i precetti sanciti dall’art. 9 Cost. Non a caso, nella giurisprudenza successiva alla sentenza, il tribunale costituzionale ha formulato un'interpretazione costante del valore estetico-culturale, quale valore prioritario e preminente connesso alla tutela del patrimonio nazionale, che è compito svolto dalla Repubblica. Pertanto, la normativa sulla tutela deve agire su due fronti: in nome del valore estetico-culturale una specie di regolamentazione del traffico stradale, dell'edilizia, degli esercizi commerciali, del turismo; dall’altra interventi di restauro e valorizzazione del patrimonio. Benché primario però, il valore estetico-culturale non è in grado di resistere alla pressioni di interessi che si affermano in contingenze eccezionali della vita pubblica quali la salute dei cittadini, la difesa della città, l'incolumità degli abitanti. Non vi è dubbio che il valore estetico culturale costituisca l'anello debole del rapporto quando è minacciata l'identità della nazione o la sua sopravvivenza; ciò nonostante è possibile prendere almeno qualche precauzione: tale ad esempio quella di proclamare “città aperte” tutte le “città d’arte”, promuovendo i necessari accordi internazionali allo scopo di scongiurare i danni recati dalle guerre. 36 Spetta allo stato varare una normazione di principio che provveda a stilare un elenco di centri abitati da considerare città d’arte; all'ente regionale potrebbe invece riconoscersi il potere di proposta di emanare una disciplina di dettaglio. CAPITOLO X - I MUSEI 1. Per una definizione giuridica del museo Oggi il riferimento principale va all’art. 101 del codice dei beni culturali, che intende per museo una "struttura permanente che acquisisce, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio". Prima del codice, una nozione di museo poteva reperirsi in alcune leggi regionali: ad esempio quella del 1997, che definisce i musei "poli di documentazione, valorizzazione e di salvaguardia del patrimonio culturale e scientifico”, assicurando la fruizione pubblica dei materiali e contribuendo allo sviluppo della ricerca attraverso: a) individuazione, acquisizione, conservazione, ordinamento, catalogazione, valorizzazione dei beni culturali e ambientali; b) attività di documentazione e ricerca; c) organizzazione di mostre; d) musealizzazione di aree culturalmente rilevanti. Più indietro ancora, abbiamo la legge del 1988: "i musei sono istituzioni che raccolgono, conservano, ed espongono materiale di interesse storico, artistico e naturalistico", definizione senza dubbio più sintetica ma più angusta. La normativa del Codice ha ampliato la precedente concezione statica del bene museale legata solo all'attività di custodia e conservazione; tale infatti è ancora l'accezione presente nei dizionari di lingua italiana, le cui varie definizioni di museo corrispondono a quella che s'affermò in Italia durante il Rinascimento, ossia museo come raccolta di antichità e curiosità; ciò finisce per contraddirsi con la sua radice etimologica che deriva da museum e mouseion (greco) > centro in cui gli uomini dell'antichità si dedicavano alla cura delle proprie attività culturali. Poiché l’interprete non poteva non presumere la completezza e la coerenza del linguaggio normativo, ne derivava la possibilità di isolare un nucleo semantico del vocabolo in questione, procedendo per sottrazioni successive; così l'art. 822 c.c. distingue per esempio i musei dalle biblioteche, dagli archivi, dalle pinacoteche. Se ne poteva dedurre che il termine museo indicasse le raccolte miste, non caratterizzate dall'omogeneità tipologica dei beni che vi sono inclusi. Con il nuovo Codice resta confermato il carattere di istituto culturale dei musei, dunque la loro qualità di centri deputati non solo alla custodia dei beni di interesse storico e artistico, ma anche alla promozione a tutto tondo della cultura. Vediamo come, con il tempo, la nozione del museo inizialmente del tutto statica, è stata ampliata e non solo legata alle attività di custodia e di conservazione. La nozione di museo come struttura permanente è ispirata alla definizione dell'ICOM (International Council of Museum), che definisce un museo come ”istituzione permanente senza scopo di lucro, aperta al pubblico, al servizio della società e del suo sviluppo che compie ricerche, acquisisce, conserva, comunica ed espone le testimonianze materiali dell'uomo e del suo ambiente a fini di studio, educazione e diletto”. 2. La tipologia e il regime delle appartenenze La tipologia dei musei può misurarsi sia in relazione alle caratteristiche delle cose esposte, sia con riferimento al regime delle appartenenze. Quanto al primo aspetto, va osservato come l'incremento di strutture aperte al pubblico è quasi raddoppiato tra gli anni '60 e ’80 e ha determinato di riflesso un sostanziale arricchimento museale; ma la migliore garanzia per la differenziazione dell'offerta rimane sempre il pluralismo dei soggetti titolari di musei, più che la cifra complessiva di strutture aperte al pubblico. La successiva riforma del titolo V fa rientrare tra le materie di legislazione esclusiva dello Stato la tutela dell'ambiente e del beni culturali. Quanto ai beni mussali che appartengono a enti diversi dallo Stato, si può ricordare la legge 22 settembre 1960, che suddivide in 4 classi il museo in base all'importanza delle loro collezioni ed in rapporto all'organizzazione artistica, scientifica e culturale. All'indomani del varo del d.lgs. n.112 del 1998, è stato attuato il trasferimento di molte funzioni amministrative alle regioni, tra cui quelle riguardanti la valorizzazione, la fruizione e la gestione dei beni culturali. In realtà la disciplina dei musei e delle biblioteche di enti locali appartiene tradizionalmente alla competenza regionale già dal 1972. Sempre nella prospettiva del decentramento, può essere inquadrata 37 valorizzazione e delle modalità e dei tempi previsti per il loro conseguimento, l'indicazione della destinazione d'uso previa in funzione degli obiettivi di valorizzazione, modalità di fruizione pubblica del bene in rapporto con le precedenti destinazione d'uso. L'autorizzazione non può essere rilasciata se la destinazione d'uso proposta sia suscettibile di arrecare pregiudizio alla conservazione e fruizione pubblica del bene o comunque risulti non compatibile con il carattere storico e artistico del bene medesimo. Il Ministero ha la facoltà di indicare destinazioni d'uso ritenute compatibili con il carattere del bene e con le esigenze della sua conservazione; inoltre può concordare il contenuto del provvedimento richiesto sulla base di una valutazione comparativa fra le proposte avanzate con la richiesta di autorizzazione ed altre possibili modalità di valorizzazione del bene. 2. l'art. 58 del Codice > contempla lo strumento della permuta dei beni cultuali sotto previa autorizzazione del Ministero; concede margini elastici alla determinazioni culturali dei singoli musei in prospettiva di razionalizzazione dell'esposizione museale, nonché di coordinamento fra gli istituti collocati nello stesso territorio. Risulta impervia la capacità di acquistare direttamente sul mercato da parte dei musei e ciò è regolato da una norma macchinosa e obsoleta (1913). Di fatto, la politica di acquisti viene gestita dall'amministrazione centrale attraverso strumenti come l'espropriazione, diritto di prelazione, acquisto coattivo all'espropriazione, acquisizione dei ritrovamenti e scoperte di beni culturali. CAPITOLO XI - IL PATRIMONIO CUTLURALE EUROPEO 1. “L’eccezione culturale”: il patrimonio culturale degli stati europei Quando nel 1957 il trattato istitutivo della CEE, all’art. 30, ammise il mantenimento per la circolazione comunitaria di restrizioni e divieti per la protezione del patrimonio, sanciva la cosiddetta "eccezione culturale”, ossia una deroga alle regole stabilite dai trattati dell'Unione in materia di libertà di scambio e concorrenza, destinata a durare nel tempo. Questa deroga legittima l'intervento regolativo e finanziario dei poteri nazionali e sottrae la materia culturale alle decisioni degli organi comunitari; può essere anche rivendicata sia nei confronti della Comunità che rispetto ai Paesi extra Ue, nell’ambito di accordi internazionali sotto forma di tutela della diversità culturale. Si è ancora evidentemente lontani da un'idea di patrimonio culturale europeo. Le deroghe al principio della libera circolazione delle merci vanno interpretate in maniera tassativa, devono essere proporzionalmente giustificate dagli obiettivi prefissati e devono riguardare i beni di interesse culturale. Si tratta di decisioni che rispecchiano lo scontro fra paesi membri fautori di un approccio totalmente liberista nella disciplina della circolazione dei beni culturali e paesi, come l’Italia, viceversa attestati verso un ferreo mantenimento della integrità del proprio patrimonio culturale. Il risultato a livello comunitario è stato quello di una delimitazione fluida e non sempre prevedibile degli ambiti di competenza; infatti, la Corte di giustizia ha legittimato la regolamentazione comunitaria laddove fossero in gioco principi comunitari del libero mercato e diritti fondamentali. Solo con il tempo, la dimensione culturale ha assunto un carattere più significativo della mera deroga al divieto di restrizioni nella circolazione delle merci. Agli inizi degli anni ’70, gli stati membri della Comunità cominciano a percepire l'importanza della cultura per lo sviluppo di nuove forme di coesione tra le loro popolazioni. Nel 1974, il parlamento approva una risoluzione a favore della salvaguardia del patrimonio culturale europeo con le prime misure di finanziamento per il restauro di beni di rilievo simbolico. Inizia a farsi strada la formula di “Europa dei cittadini” per il rafforzamento e la promozione dell'immagine della Comunità in Europa e nel mondo. Tuttavia, nonostante il rilievo della prima Commissione Delors del 1985 al patrimonio culturale, il tema non trova sbocchi normativi concreti per tutti gli anni ’80. 2. La cultura dopo Maastricht: alla ricerca di un'anima per l’Europa Dopo l'Atto Unico europeo (1986) si diffonde sempre più la consapevolezza che l'Europa può sorgere effettivamente come comunità di popoli, trascendendo il fattore economico che ne aveva segnato la nascita, e per far ciò, la promozione e la tutela del patrimonio culturale dovevano diventare il fattore trainante. Su questi presupposti, il trattato UE del 1992 riconosce competenze specifiche all'Unione in materia di cultura; prevede, fra gli obiettivi, un contributo per l'istruzione e una formazione di qualità; sancisce la piena compatibilità con il mercato comune degli aiuti di Stato in ambito culturale. 40 Diventa quindi prioritario l'interesse per il fattore culturale, individuato come determinante in funzione di quell’unione sempre più stretta tra i popoli europei. La sintesi di questo nuovo rilievo offerto al fattore culturale sta nell'art.128 TCE (ora art. 167 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea), ossia una disposizione organica dedicata alla cultura che regola finalità, obiettivi ed ambito di intervento in materia. La Comunità innanzitutto, deve contribuire al pieno sviluppo delle culture degli stati membri nel rispetto delle loro diversità nazionali e regionali, evidenziando, nello stesso tempo, il retaggio culturale comune. La sua azione sarà pertanto diretta ad incoraggiare la cooperazione fra gli stati membri, appoggiando l’azione per: a) il miglioramento della conoscenza e della diffusione della cultura della storia dei popoli europei, b) la conservazione e salvaguardia del patrimonio culturale d'importanza europea, c) gli scambi culturali non commerciali, d) la creazione artistica, letteraria e audiovisiva. Inoltre, la Comunità e gli stati membri devono favorire la cooperazione con i paesi terzi e le organizzazioni internazionali competenti in materia di cultura. L'art.128 trasferisce per la prima volta a livello europeo un copioso elenco di competenze in materia culturale; inoltre disegna limiti ed obblighi della Comunità rispetto a istituzioni e cittadini europei; e infine ricostruisce le funzioni ricadenti in tale ambito. Il legislatore comunitario mostra piena consapevolezza dell'accezione plurale della cultura e ha ben chiare le virtualità e dunque le diverse articolazioni di finalità, di cui è suscettibile la materia culturale. Notevole inoltre il rilievo attribuito al dialogo interculturale di livello internazionale, che prevede la cooperazione con paesi terzi e organizzazioni internazionali competenti in materia di cultura. La prassi comunitaria si è incaricata di ridimensionare le aspettative sorte intorno a questa previsione che tuttavia resta inutile o perlomeno finalizzata ad impedire l'adozione di disposizioni comunitarie suscettibili di produrre conseguenze negative in ambito culturale. 3. Le nuove politiche culturali dell'Unione europea Prima del trattato di Maastricht, gli interventi culturali si erano estrinsecati in progetti pilota ed iniziative a tutela di siti europei di eccezionale valore culturale e quindi significativi per il loro alto richiamo simbolico ma esterni ad un disegno di ampio respiro regolativo della materia. Con l'entrata in vigore del Trattato, le iniziative culturali dell'Unione si trasformano invece in programmi pluriennali, perdendo il loro carattere frammentario. Il primo programma comunitario nel settore culturale basato sull'art. 151 è stato il programma Caleidoscopio (1196-1999), volto ad incoraggiare la creazione artistica e promuovere la diffusione della cultura in Europa mediante gli scambi e la cooperazione culturale. Seguito poi dal programma Arianna (1997-99) per il miglioramento del settore letterario e della conoscenza della storia dei popoli europei; infine Raffaello (1997- 2000), per incentivare la cooperazione mirante alla protezione, conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale europeo. A queste iniziative, è seguito il programma Cultura 2000, durato fino 2006, che ha raggruppato in un unico strumento di programmazione e finanziamento i tre precedenti programmi, nell'ottica di un miglior sostegno di progetti multiculturali. Ha fatto seguito a tale programma, Cultura 2007-13, volto a promuovere la mobilità delle persone che lavorano in ambito culturale e a incoraggiare la circolazione transnazionale delle opere e dei prodotti artistici. E' in corso il programma Ue Europa Creativa 2014-2020, suddiviso in tre sottoprogrammi dedicati al settore audiovisivo (Media), ai settori creativi e culturali (Culturale) e in generale a tutti i settori creativi e culturali (sezione transettoriale). Il programma contribuisce al raggiungimento degli obiettivi di Europa 2020, per renderla un'economia intelligente, sostenibile e inclusiva con alti livelli occupazionali, di produttività e di coesione sociale. Per ultimo, va accennato Horizon 2014-2020, il nuovo programma di finanziamento a gestione diretta della Commissione europea per la ricerca e l’innovazione. L'azione della Comunità si è dunque concretizzata in politiche di sostegno, contributi e integrazioni sussidiarie alle politiche culturali nazionali. 4. Il patrimonio culturale d’importanza europea L'esame delle politiche culturali europee non sembra aggiungere molto alla definizione di patrimonio culturale dell’Unione, che potremmo definire come la sommatoria di beni dei singoli stati membri. 41 L'art. 128 del Trattato sembra muoversi verso una nozione diversa di patrimonio culturale: “patrimonio culturale d’importanza europea”. Tale formulazione trova radici già nella Convenzione culturale europea, sottoscritta nel 1954, in cui è presente il riferimento al "patrimonio culturale comune”; vi si ravvisa per la prima volta a livello europeo un tentativo di superare l'idea di patrimonio di interesse esclusivamente nazionale. La nozione ha però incontrato anche molti dissensi, secondo i quali il Trattato parlerebbe di sviluppo della cultura degli stati membri, e nel mentre vieterebbe la possibilità di omogeneizzazione della normativa interna; ciò escluderebbe la promozione di un'unica cultura europea. Il parlamento europeo sin dalla sua nascita ha sollecitato nuovi strumenti di intervento giuridico sul piano culturale, giungendo infine ad ottenere una procedura di codecisione semplificata con il Consiglio in materia; tale procedura si combinava però con la previsione dell'unanimità in seno al Consiglio e ciò finiva con l'affidare il potere di veto ad ogni singolo stato. Tutto questo è accaduto in un quadro di interventi finanziari tradizionalmente limitato, se si pensa che l’insieme degli stanziamenti complessivamente versati dall’UE alla cultura raccoglieva, a metà del decennio scorso, appena lo 0,5% del bilancio europeo. Inoltre, i beni culturali vengono visti come una sorta di ultima frontiera dei diritti umani; in tal senso hanno fatto da apripista le convenzioni internazionali in materia: fra questi accordi spiccano la Convenzione per la protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato, sottoscritta all’Aja nel 1954 e la Convenzione per la protezione del patrimonio culturale e naturale mondiale stipulata nel 1972. La convenzione dell'Aja del 1954 parte dal presupposto che i danni arrecati ai beni culturali costituiscono danno al patrimonio culturale dell'umanità intera; da ciò facendo conseguire il divieto del diritto di preda e l'impegno delle parti in conflitto a proibire qualsiasi atto lesivo di beni culturali ai danni dei beni dei paesi nemici. La convenzione dell'Unesco del 1972 afferma il principio che tutti i popoli del mondo sono interessati alla conservazione dei beni, avendone in comune i valori di civiltà, per cui gli stati aderenti si obbligano ad astenersi deliberatamente ad ogni provvedimento atto a danneggiare il patrimonio culturale. La conseguenza che ne deriva è l’obbligo di assicurarne la protezione, la conservazione e la valorizzazione. Sebbene sia diffusamente riconosciuta nel dibattito pubblico l’efficacia determinante che un'identità culturale europea recherebbe al raggiungimento degli obbiettivi istituzionali dell’Unione, non pare che essa sia riuscita ad andare molto aldilà di una visione addizionale dei retaggi culturali nazionali degli stati membri, i cui patrimoni culturali sono intesi come pars di un mosaico di cui il patrimonio culturale europeo costituisce la summa. In definitiva, gelosie nazionali, differenze reciproche, appello alla vocazione extraterritoriale dei beni culturali fanno della nozione di patrimonio culturale d'importanza europea ancora oggi un enigma. 5. Un modello culturale fluido per un'Europa in movimento L'adozione di strumenti di cooperazione fra gli stati membri, rivolti a favorire la pubblica fruizione dei beni e la conoscenza delle normative nazionali, finiscono per incidere sui piani funzionali classici dei beni culturali. L’esempio più risaltante è quello della normativa europea per la miglioria delle garanzie per la circolazione dei beni culturali. In Europa sono stati adottati: - il regolamento Ce n. 3911/1992 che ha subordinato l'esportazione di beni culturali al di fuori del territorio della Comunità, alla presentazione di una licenza di esportazione che è rilasciata da un'autorità competente dello Stato membro nel cui territorio si trova lecitamente il bene - la direttiva Ce n. 7/1993 che ha previsto una procedura mediante la quale lo stato cui sia stato illecitamente sottratto un bene culturale può rivolgersi presso gli organi competenti dello Stato in cui il bene è stato trasferito per ottenerne la restituzione Da notare che il Codice dei beni culturali italiano ha mutato tale previsione, precisando che gli stati membri possono esercitare un'azione di restituzione innanzi all'autorità giudiziaria del luogo in cui il bene si trovi. Va comunque sottolineato che la direttiva in esame, a decorrere dal 2015, sarà abrogata e sostituita dalla dir. Ue n. 60/2014 che prevede molte novità: viene ampliato l'ambito di applicazione, estendendo la tutela a qualsiasi bene culturale; viene poi facilitato l'esercizio dell'azione di restituzione grazie all'allungamento di tre anni del termine per proporla; inoltre, qualora sia ordinata la restituzione del bene, il giudice competente dello Stato membro richiesto accorda al possessore un equo indennizzo in base alle circostanze del caso concreto. 42
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