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Riassunto manuale Marazzini, Appunti di Storia della lingua italiana

Riassunto generale manuale Marazzini, Storia della lingua italiana

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 30/04/2024

alessia-raglione
alessia-raglione 🇮🇹

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Scarica Riassunto manuale Marazzini e più Appunti in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! STORIA DELLA LINGUA ITALIANA: Studia il complesso delle vicende che hanno caratterizzato la lingua italiana dalle origini fino ad oggi, con un approccio consapevole che tiene conto dell’evoluzione storica della lingua. Concentrandosi anche sul punto di vista strutturale della lingua stessa: e quindi la grammatica (storica, in questo caso). Noi, in questo caso, studieremo la grammatica storica della lingua. Benché la storia della lingua italiana sia una disciplina accademicamente giovane (da poco più di 60 anni), bisogna tenere conto del fatto che essa in realtà esisteva già prima. Studiando una tale disciplina possiamo comprendere le scelte linguistiche dei vari scrittori, a partire dalla nascita della letteratura italiana, fin da quando divennero favorevoli le condizioni per usare una lingua diversa dal latino. È importante sottolineare che la storia della lingua non si risolve nella lingua letteraria: essa è ben più ampia e complessa. Vi fanno parte anche le classi popolari, gli illetterati, accanto ai ceti colti, scienziati, artigiani e tecnici: la parola, infatti, corre sulla bocca di tutti, serve a tutti, anche quando la scrittura è patrimonio di pochi. DUNQUE: la storia della lingua aiuta a comprendere anche e soprattutto la storia nazionale, testimonia lo sviluppo stesso dell’idea di nazione: l’unità dell’Italia fu concepita in chiave linguistica e culturale, prima ancora che in termini politici. —> Seguire le vicende della storia linguistica significa, dunque, seguire la storia d’Italia. Bruno Migliorini: professore di storia della lingua e padre della materia —> primo ad occuparsi della storia della lingua italiana, e scriverà un manuale a riguardo nel 1960 per celebrare il millenario. QUANDO è NATA LA LINGUA ITALIANA? —> Questa è una domanda mal posta e troppo generica. 1. L’ITALIANO DERIVA DAL LATINO?: L’italiano non deriva (cioè non nasce) dal latino, ma continua dal latino: una tradizione ininterrotta lega la lingua di Roma antica alla lingua di Roma moderna, dai tempi remoti della fondazione fino ai giorni nostri. Inoltre l’uso della parola latino, senza alcuna specificazione, è generico e fuorviante: infatti, dobbiamo chiederci piuttosto da quale latino “deriva” la nostra lingua. Di fatto, anche il latino si presenta come una lingua variegata e multiforme con tutte le sue varietà. - IL FATTORE TEMPO, O VARIABILE DIACRONICA: I linguisti chiamano diacronica la variabile legata al tempo. L’italiano di oggi non è uguale a quello adoperato dieci, venti o cento anni fa, e le differenze linguistiche si fanno più marcate man mano che ci si allontana nel tempo. —> Quindi la variabilità della lingua nel tempo. - IL FATTORE SPAZIO, O VARIABILE DIATOPICA: Diatopica è la variabile legata allo spazio: quindi la variabilità della lingua in relazione allo spazio geografico. L’italiano che si parla a Milano è diverso da quello parlato a Firenze o a Palermo… —> Anche il latino, lingua di diffusione intercontinentale, sfuggì al fattore di differenziazione rappresentato dallo spazio: nel momento di massima espansione del dominio romano, tra il II e il III sec d.C, il latino era adoperato su un territorio vastissimo, che andava dalle coste atlantiche dell’Europa fino al Reno e oltre il Danubio, dalle coste meridionali dell’Inghilterra fino a quelle settentrionali dell’Africa. Le vicende storiche successive determinarono la deromanizzazione e la conseguente delatinizzazione di alcuni territori: l’Africa che venne conquistata dagli Arabi nel VII sec d.C; la Britannia, abbandonata nel 409 d.C, fu germanizzata; la penisola balcanica fu occupata e colonizzata da popolazioni slave… Dunque, il latino fu per secoli la lingua di scambio di una zona vastissima; ovviamente, esso non era un blocco linguistico uniforme —> infatti le testimonianze linguistiche documentano l’esistenza di più varietà di latino. Il fattore geografico si fuse con quello etnico nel determinare ulteriori diversità, riconducibili al cosiddetto sostrato linguistico prelatino. 1 Che cosa si intende per sostrato? Prima che i Romani estendessero il loro dominio a tutta l’Italia e a gran parte dell’Europa, il latino era semplicemente uno degli idiomi parlati da una delle tante popolazioni che abitavano l’Italia. Nel giro di qualche secolo il latino, da lingua di una piccola comunità, divenne la lingua di un popolo di conquistatori, padroni di gran parte dell’Europa e di vaste zone in Africa e Asia. Dopo la conquista da parte di Roma, quasi tutti i popoli vinti abbandonarono piano piano la lingua d’origine e adottarono, come strumento di scambio, il latino. —> Tale nuova lingua non fu imposta dai vincitori ovviamente: i Romani non puntarono mai a un’assimilazione violenta delle genti soggette, e non tentarono mai di imporre con la forza l’uso del latino (considerato anzi un segno di distinzione per loro) —> Una volta conquistato un territorio, la classe dirigente romana se ne assicurava il controllo militare/fiscale e lasciava larga autonomia ai vinti nella religione, nelle istituzioni e nella lingua. Furono i popoli assoggettati ad abbandonare, dopo un periodo più o meno lungo di bilinguismo, la loro lingua d’origine per il latino. A determinare un tale processo intervenne anche un fattore fondamentale: il prestigio. —> Quando 2 lingue entrano in concorrenza, quella che gode di maggior prestigio finisce sempre col prevalere: così, dopo essere conquistati da Roma, molti dei popoli vinti sentirono la loro lingua come di rango inferiore rispetto al latino (veicolo di una cultura/comunicazione più avanzata), e scelsero di parlare la lingua dei vincitori. —> In buona parte dell’Europa occidentale si avviò, infatti, un grande processo di latinizzazione. Le lingue preesistenti al latino nelle varie regioni dell’Europa occidentale non scomparvero del tutto: ciascuno lasciò qualche traccia nella pronuncia, nella morfologia, nel lessico e nella sintassi del latino acquisito dai vinti. —> Per questo motivo tali lingue vennero dette “di sostrato”: esse testimoniano, nel latino assunto dalle popolazioni vinte, l’esistenza di uno strato linguistico soggiacente. - L’ATTO DI NASCITA DELL’ITALIANO: Nel 960 d.C si colloca il Placito Capuano: un verbale notarile, scritto su foglio di pergamena, relativo a una causa discussa di fronte al giudice capuano Arechisi. Il Placito Capuano è comunemente considerato l’ “atto di nascita” della nostra lingua italiana, anche perché si tratta di un documento “ufficiale” in quanto verbale di un processo. Tuttavia, la scoperta non ebbe per molto tempo importanza. —> Solamente nel ‘900 il Placito è stato studiato nella maniera che merita, e ha avuto il posto d’onore tra gli antichi testi notarili della nostra lingua. La sua importanza risiede soprattutto nel fatto che nel Placito, a differenza dell’Indovinello veronese, non vi può essere dubbio sulla chiara cosciente separazione tra latino e volgare. —> Chi ha scritto, infatti, si è reso perfettamente conto di utilizzare due lingue diverse: il latino notarile e il volgare parlato. Abbiamo dunque la prova di una cosciente distinzione tra i due codici linguistici, impiegati nello stesso testo con scopi e funzioni diverse. La formula del Placito Capuano del 960 non è isolata; essa si colloca nella serie di quelli che si è soliti definire i “Placiti campani”, con riferimento alla regione di provenienza: la Campania. 1960: millenario della (storia) lingua italiana. Primo testo (prima testimonianza) emblematico in cui si vede un uso consapevole del volgare italiano SCRITTO, ben distinto dalla lingua latina: Placiti capuani (960 d.c) —> è la prima testimonianza scritta che certifica la diffusione, tra la gente italica, di una lingua diversa dal latino (si tratta infatti di un volgare campano parlato probabilmente dalla gente comune). Atto di “nascita” della lingua italiana. Volgari italiani: “lingue” originatesi dal latino che si sono sviluppate in tutta la penisola durante i secoli. POLICENTRISMO/PLURILINGUISMO: per questo si parla di tanti e diversi volgari italiani. Non esiste l’omogeneità linguistica assoluta. Struttura della lingua italiana: latino (la quale si è trasformata, arricchita fino a dare vita alla lingua italiana di oggi). 2 Linea La Spezia-Rimini: sotto questa linea vi sono volgari più simili al rumeno (orientale), al di sopra invece vi sono volgari più simili a quelli occidentali. - PERIODI: Medioevo: (inizia con la caduta dell’Impero romano d’Occidente, 476 d.C (V secolo d.C) e finisce nel 1492, fine XV secolo) —> POLICENTRISMO/PLURILINGUISMO. [ Indovinello veronese (X secolo) ecc… ]. Età moderna: (dal 1500 al 1861, con l’Unità d’Italia) —> importantissimo in questo periodo per la questione linguistica è Pietro Bembo, e la formazione dell’Accademia della Crusca (fine del ‘500). —> ITALIANO (come lingua letteraria ufficializzata: scritta e letta solo da élite) Nel parlato, invece, continuano a perseverare ciò che oggi chiamiamo diletti (diventano dialetti nel momento in cui vi è una lingua che diventa egemone). Periodo post-unitario: (successivo alla formazione del regno d’Italia, dal 1861 in poi) —> l’italiano cessa di essere lingua letteraria utile solo per lo scambio tra élite, e diventa lingua nazionale. [ Manzoni scriveva “Uso” con la lettera maiuscola, poiché l’uso è padrone della lingua. ] - VOLGARI, DIALETTI ITALIANI E SPINTE REGIONALI: La storia linguistica italiana si caratterizza per un profondo e costante rapporto tra il centro e la periferia: per “centro” si intende in questo caso la Toscana, da cui ha avuto origine la lingua nazionale, irradiatasi poi verso le altre regioni (la “periferia” appunto). —> Nella sua espansione, il toscano ha incontrato le altre parlate (volgari) locali; il confronto non si è risolto in un’imposizione autoritaria della lingua nazionale sulle altre: il toscano non ha trionfato sulle altre grazie a una politica di uno stato che l’abbia imposto forzosamente ai “sudditi”. Vi è stato piuttosto un libero consenso da parte delle altre regioni, che hanno adottato l’italiano come lingua di cultura ancora prima che come lingua burocratica, mettendo in atto vari compromessi tra il toscano stesso e i dialetti. Vi è stata una fase iniziale in cui le varie lingue locali hanno potuto aspirare alla promozione ad un alto livello di cultura, e anche all’egemonia sovraregionale. La prima scuola poetica italiana, ad esempio, è nata in Sicilia (la Scuola Siciliana) ed ha usato il volgare siciliano plasmandolo ad un uso più illustre. Bisogna sottolineare che nel periodo che va dalle origini al Quattrocento non ha ancora senso parlare di “dialetti”: si può parlare di “dialetto” solo una volta che la “lingua” si è affermata; infatti, gli studiosi, per questi secoli, parlano genericamente di “volgari italiani”. DIALETTI D’ITALIA: 1. dialetti settentrionali (La spezia-Rimini: confine linguistico molto importante, poiché divide i dal resto d’Italia); 2. Dialetti centro-meridionali: toscano, fiorentino (che hanno avuto una maggiore conservatività rispetto agli altri, dovuta a motivi di sostrato; il latino si è conservato meglio in Toscana, anche grazie alla precedente presenza degli Etruschi). 3. Confine linguistico Roma-Ancona: isola la zona mediana (poiché non è ancora del tutto meridionale), cioè Lazio, Umbria… 4. Dialetti meridionali: campano, calabrese, salentino - Il notaio: il notaio è senz’altro tra i protagonisti della fase iniziale della nostra storia linguistica: molti dei primi documenti in volgare sono stati scritti da notai, e proprio a costoro si deve la scelta di introdurre il volgare al posto del latino: così accade per esempio nel Placito Capuano, il cosiddetto “atto di nascita dell’italiano”. I notai inoltre sono stati tra i primi cultori dell’antica poesia italiana, come dimostrano i Memoriali bolognesi. - Egemonia del latino: Lo strumento della lingua scientifica fu per lungo tempo solo il latino. Questa situazione durò fino al Rinascimento. Il latino aveva un prestigio che gli permetteva di essere adoperato in settori come la teologia, filosofia, matematica, astronomia… Ci volle tempo perché il volgare potesse competere con il latino strappandogli il monopolio della cultura, e perché lo scienziato diventasse 5 uno dei protagonisti della storia linguistica italiana. —> La vera affermazione di un linguaggio tecnico-scientifico in volgare si è avuta a partire dal Cinquecento, e fu proprio Galileo il protagonista della svolta culturale che promosse al più alto livello scientifico l’uso del volgare toscano. - LATINO VOLGARE: latino parlato. Il latino volgare è l'insieme delle varianti della lingua latina parlate dalle diverse popolazioni dell'Impero romano: infatti, il concetto di “latino volgare” viene di solito usato per indicare i diversi livelli linguistici che esistevano nel latino (le fonti classiche distinguono, infatti, tra il latino letterario vero e proprio da una parte, e dall’altra le varie lingue popolari dei soldati, dei rustici, dei provinciali). —> Tale distinzione mette in rilievo la presenza di livelli sociolinguistici differenti, e sottolinea il fatto che gli illetterati, gli incolti, i provinciali parlavano in modo diverso dalle persone colte e dai romani istruiti della capitale. C’è da dire anche che il latino, come tutte le lingue vive, mutò nel corso del tempo, tanto che i territori dell’Impero conquistati in epoca diversa ricevettero un latino in parte differente anch’esso, o non subirono semplicemente l’influenza di certe innovazioni che si svilupparono successivamente. Il latino, dunque, non aveva un’unità linguistica assoluta. Infatti, non esistono lingue diffuse in un’area tanto grande che non risentano dei fenomeni di differenziazione geografica, oltre che sociolinguistica. - LATINO CLASSICO E LATINO VOLGARE: In sostanza, si ha un’immagine del latino parlato diversa da quella letteraria, esposta a varie tensioni e influenze, specialmente nei territori di frontiera. Possiamo così distinguere in lingua scritta e lingua parlata: al livello della lingua scritta si situa il latino classico con la sua continuità culturale, a cui si avvicina il latino parlato dai ceti colti aristocratici dell’età repubblicana; al di sotto di questo livello sta il latino popolare, che può essere in parte identificato con il “latino volgare”. —> Il latino parlato dai ceti colti in età imperiale andò via via avvicinandosi a quello popolare, dando origine a quel latino parlato o “latino volgare” da cui sono poi nate le lingue romanze. Nella parte orientale dell’Impero, invece, prevalse l’uso del greco (unica lingua di cultura dell’antichità per la quale i romani provassero rispetto). L’atteggiamento dei romani nei confronti delle altre lingue dei popoli con cui vennero a contatto fu in sostanza di disinteresse e disprezzo (si pensi che anche in latino, come in greco, il termine “straniero” equivale a “barbaro”: allusione al bar bar di una lingua incomprensibile). In effetti, il prestigio del latino sui popoli sottomessi era fortissimo; il colonialismo romano impose il latino insieme alle leggi latine e alla cultura latina. —> La forza del latino era tale da farsi sentire ovunque, anche nelle aree di difficile romanizzazione. 1. Latino classico: latino scritto così come venne usato nelle opere letterarie della cosiddetta “età aurea” di Roma (50 a.C - 50 d.C), ed è rimasto sostanzialmente lo stesso nel corso della storia. Esso è una lingua colta, espressione dei ceti socio-culturalmente più elevati. 2. Latino volgare: è una realtà linguistica variegata e complessa; possiamo descriverlo come il latino parlato in ogni tempo, in ogni luogo, circostanza e da ogni gruppo sociale della latinità. Fu la lingua parlata dai ricchi e dai poveri, nella capitale e nelle zone periferiche… —> Da questa realtà multiforme sorsero le varie lingue d’Europa indicate come romanze o neolatine, tra cui l’italiano. Latino astratto, mai esistito come lingua reale —> latino classico Periodo aureo: Il periodo aureo, chiamato anche classico o di transizione (dalla Repubblica all'Impero), dura dal 78 a.C. al 14 d.C. e viene suddiviso in periodo ciceroniano (o età cesariana) e periodo augusteo. Quando si dice che l’italiano deriva dal latino, si deve pensare a quest’ultimo come vera e propria lingua viva. Latino inteso come lingua parlata: indubbiamente più articolato e variegato rispetto al latino classico letterario. A partire dal II sec d.c, al tempo di Traiano, l’impero romano raggiunge la sua massima estensione ma vi sono anche i primi tratti del suo disfacimento —> venir meno dell’unità imperiale (V sec: caduta dell’Impero Romano d’Occidente). 6 Se da una parte la lingua scritta (latino classico scritto) è codificato e immutabile, la lingua latina parlata (volgare) è in continuo mutamento autonomo: queste si divergono sempre di più, ma al tempo stesso si influenzano a vicenda inevitabilmente; quindi si ha un rapporto di reciprocità continua. Autori cristiani: scrivono nell’epoca imperiale (da Augusto a Odoacre) —> alcuni, nei loro testi, si allontanano dalla lingua aulica per far sì che tutti, il popolo, possano comprendere. S. Agostino affermava: “melius est reprehendant nos grammatici quam non intelligant populi” (è meglio che i grammatici biasimino noi, piuttosto che la gente non comprenda) —> Egli sottolinea che sarebbe meglio impiegare ossum, termine popolare, in luogo del più classico os, al fine di evitare possibili fraintendimenti nel popolo. I grammatici latini propagano un modello di latino classico, codificato; ma a volte si soffermano anche su certe tendenze del popolo proprio per correggerle (grammatico Velio Longo del III sec che ci dice…) - “Appendix probi”: È un documento molto antico scritto a Bobbio intorno al 700 d.C: lista di 227 forme latine corrette affiancate dalle forme non corrette, che si trova alla fine di un manoscritto che contiene una grammatica. È opera di un maestro anonimo di scuola che verso la fine del III secolo d.C. segnala le forme corrette e quelle errate, che evidentemente tendevano ad essere usate. (Es: speculum, non speclum; Columna, non colomna…). Le parole italiane corrispondenti (specchio, colonna…) sono più vicine agli “errori” della colonna di destra piuttosto che alle forme “corrette” della colonna sinistra: ciò conferma che la nostra lingua italiana continua il latino parlato, non quello scritto. Taciti campani: primo esempio di lingua romanesca - LEZIONE MARCO BIFFI: Dal 496 al 960 d.C vi è un guazzabuglio tra volgari e latino… Nel Cinquecento si comincia a ragionare che forse è opportuno stabilire una lingua nazionale: il 1612 è una data convenzionale di riferimento dell’uscita del vocabolario degli accademici della Crusca, che comporta la proposta di un modello linguistico nazionale volto a diventare punto di riferimento degli autori —> ed è il fiorentino trecentesco. Dal 1612 abbiamo, quindi, il “PRIMO ITALIANO STANDARD”. I volgari, a questo punto, vengono chiamati dialetti. Bisogna sottolineare però che è solo un modello di LINGUA SCRITTA, non è ancora una lingua viva nel vero senso della parola; quindi funziona solo per lo scritto, solo per alcuni italiani, e solo per alcuni scritti… per il resto si usava il dialetto. I fiorentini sono avvantaggiati, poiché il loro dialetto corrisponderà poi più o meno alla vera lingua italiana. Una tale situazione dura fino al 1980 (data convenzionale). Fino agli anni ’70 infatti la maggioranza della popolazione non conosceva l’italiano e parlava solamente in dialetto. —> Avvento dei mezzi di comunicazione di massa orale, soprattutto la televisione (boom economico) è stato determinante in questo senso. A questo punto il numero degli italofoni è andato crescendo. (Prima del 1980, chi parlava dialetto lo faceva essenzialmente per necessità: poiché per la maggior parte si trattava di classi sociali basse che non sapevano ancora parlare italiano). Non vi è quindi una data unica e precisa della nascita dell’italiano, ma vi sono molte date invece che sono convenzionali. Manzoni inizialmente scriveva in dialetto milanese e in francese, fino a fare poi la risciacquatura dei panni in anno. Le lingue vive sono costantemente in movimento in maniera naturale, subiscono gradualmente, ma anche con forti accelerazioni, trasformazioni che di volta in volta sono legate a fatti storici, sociali, politici, economici… 7 - Radio, cinema, televisione: Viene attribuito grande peso per l’influenza linguistica anche alla radio, al cinema e alla televisione, oltre che la stampa. La radio era già diventata un canale per raggiungere masse popolari negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, come dimostra tra l’altro l’uso che ne fece il Fascismo, il quale fu abile anche nell’utilizzare a scopi propagandistici il cinema. La televisione, nata nel dopoguerra, ebbe un’importanza ancora maggiore e raggiunge anche il pubblico delle fasce più povere, un pubblico non toccato dalla circolazione della stampa, relegato fin allora nel cerchio del dialetto. L’avvento della televisione fu un’occasione unica, per alcuni, di ascoltare una voce che parlava in lingua italiana, portando nelle campagne, in zone arretrate e legate alla più arcaica cultura rurale, un’immagine del mondo esterno. - Iscrizione della catacomba di Commodilla a Roma: Le più antiche testimonianze italiane di scritture volgari sono per la maggior parte carte notarili o documenti processuali, verbali. Caso diverso e curioso è quello dell’iscrizione della catacomba romana di Commodilla, la quale è un anonimo graffito tracciato sul muro di una cappella sotterranea della cripta dei santi Felice e Adautto, la cui scoperta avvenne nel 1720. Il graffito occupa un posto importante nella storia della lingua italiana, dal momento che rappresenta un’antica testimonianza della lingua volgare (benché sembri a prima vista conservare un aspetto latineggiante). —> “Non dicere illa secrita a bboce”: “non dire quei segreti a voce alta”. E qui non ci si riferisce a dei segreti qualunque, ma a qualche cosa di molto preciso: le “orazioni segrete” della messa. L’iscrizione sarebbe dunque da attribuire a un religioso, forse un prete che celebrava il rito sacro nella catacomba, il quale voleva invitare i suoi colleghi a recitare a voce bassa il Canone della messa. La grafia di “a bboce” desta particolare attenzione: sembra che una B sia stata posta in un secondo tempo. Forse perché, rileggendolo, l’autore dell’incisione o qualcun altro per lui si accorse che il testo non rendeva a pieno il dettato orale, e allora inserì la seconda B. - L’iscrizione della basilica romana di SAN CLEMENTE: Si tratta di un affresco rappresentante il dialogo di 5 personaggi, accanto i quali sono state dipinte parole in latino e in volgare per identificarli e per mostrare il loro ruolo nella storia narrata. Il dipinto è databile intorno alla fine dell’ XI secolo, ma fu riportato alla luce nel 1861, ed è tutt’ora visibile nella basilica sotterranea di San Clemente a Roma. Esso narra una storia miracolosa: vi è rappresentato il patrizio romano Sisinnio, il quale ha ordinato ai suoi servi di catturare Clemente; i servi sono stati pronti ad ubbidire, ma si illudono di aver legato il sant’uomo; in realtà trascinano con grande fatica e scarso successo una pesante colonna. Oltre a Sisinnio, sono rappresentati anche i 3 servi che appunto trascinano la colonna mezzo sollevata, posta davanti a due archi. Il pittore ha aggiunto anche una serie di parole che hanno funzione didascalica, o che indicano le frasi pronunciate dai personaggi raffigurati: queste frasi sono in un volgare vivace e popolarescamente espressivo; costituiscono dunque una testimonianza eccezionale per il suo carattere e per la sua antichità. - IL DUECENTO: 1211: anno in cui abbiamo la prima attestazione di un testo fiorentino —> il fiorentino si avvia ad essere il volgare prediletto per la letteratura e non solo. Scuola poetica siciliana: prima esperienza poetica fondamentale; alla corte di Federico II si sviluppa un’esperienza lirica che prende avvio dalla tradizione lirica provenzale. (A questo periodo risale il sonetto: un’invenzione della scuola siciliana, in particolare di Jacopo da Lentini). È proprio grazie alla scuola siciliana che troviamo tantissime composizioni liriche/poetiche scritte in volgare, in questo caso il siciliano illustre. (Volgare illustre: cioè quel volgare che viene liberato dalle caratteristiche legate ad un uso delle classi popolari, dal registro informale che si ispira al latino e alla lingua provenzale). - Scuola poetica siciliana: La scelta del volgare implicava una maggiore considerazione della nuova lingua, una sua promozione, che vedeva impegnato non solo un singolo, ma un gruppo omogeneo di autori socialmente collocati in posizioni molto rilevanti. Questa fu la caratteristica di una vera e propria “scuola”, la prima scuola poetica italiana: la scuola poetica siciliana, fondata all’inizio del XIII secolo nell’ambiente colto e raffinato della Magna curia di Federico II di Svevia, in Italia meridionale. Quando si sviluppò la scuola siciliana (chiamata così in riferimento al fatto che il fulcro 10 del regno di Federico era la corte di Sicilia), altre due letterature romanze si erano già affermate: la letteratura francese in lingua d’oil e la letteratura provenzale in lingua d’oc. La lingua d’oc, in particolare, esercitava un grande fascino: era essa stessa la lingua della poesia per eccellenza, una poesia incentrata sulla tematica dell’amore (un amore intellettualizzato). —> La sua influenza si era estesa al di qua delle Alpi: troviamo poeti provenzali ospitati in Italia settentrionale presso famiglie nobili; ma anche poeti italiani che scrivono essi stessi testi in provenzale, imitando i trovatori. Anche i poeti siciliani fecero qualcosa del genere, in quanto imitarono la poesia provenzale: ma essi, e qui sta l’innovazione, ebbero l’idea di sostituire a quella lingua forestiera un volgare italiano, cioè il volgare di Sicilia. Questa sostituzione fu indubbiamente geniale e decisiva per la nostra tradizione poetica, come dimostra anche il giudizio positivo che Dante diede di quella scuola e come attesta l’eredità che essa lasciò alla nostra letteratura. C’è da sottolineare poi che la corte federiciana era un ambiente internazionale, disponibile persino agli apporti della cultura araba, che il sovrano per altro apprezzava. Lo stesso imperatore Federico poetò in quel volgare siciliano, benché non fosse nemmeno siciliano di nascita. Ciò dimostra che la scelta del siciliano fu dotata di valore formale, e infatti il volgare della poesia siciliana (coerentemente con la tematica di quella poesia d’amore) è altamente formalizzato e raffinato. La presenza dei provenzalismi nella poesia siciliana si spiega poi molto facilmente, come già detto sopra, con l’influenza che la letteratura in lingua d’oc esercitò sulla corte di Federico. Se quei poeti avevano scritto in una lingua dall’aspetto “italiano”, e l’avevano fatto prima che si sviluppasse la letteratura toscana, si doveva dedurre (così pareva) che la lingua italiana non deriva propriamente dal toscano, ma era esistita anche prima dell’affermazione letteraria di Firenze. Con la morte di Federico II (1250) e il tramonto della casa Sveva venne meno la poesia siciliana, anche se forse ne restò localmente qualche ricordo (testimoniato dalla sopravvivenza di riprese testuali, metriche e tematiche in alcune poesie meridionali del ‘300 e del ‘400). La sua eredità passò in Toscana e a Bologna, con i cosiddetti poeti siculo-toscani e gli stilnovisti. Questa è la linea maestra della poesia italiana, che porta dunque dal Meridione verso l’area centro-settentrionale. - I siculo-toscani e gli stilnovisti: L’area toscana in cui si ebbe la prima notevole espansione dell’uso del volgare scritto è quella occidentale, tra Pisa e Lucca, con i centri che facevano (in)direttamente capo a Pisa (come Volterra). In quest’area si sviluppò la poesia detta “siculo-toscana”, che ebbe i suoi centri in Pisa e Lucca; un altro centro fu Arezzo (con Guidone). Firenze, invece, si affermò solo nella seconda metà del Duecento: tra il 1260 e il 1280 vi erano diversi rimatori, il cui stile riflette quello dei poeti siciliani e si ritrovano infatti molti gallicismi e sicilianismi. Alcuni sicilianismi di questi poeti passeranno anche agli stilnovisti e a Dante, poi a Petrarca, e di qui all’intera tradizione lirica italiana. In Toscana si stava in sostanza immettendo nella lingua locale tutta la tradizione lirica disponibile, attingendo oltralpe e alla Sicilia. Questo fece sì che la lingua letteraria si sviluppasse in qualche misura già “matura”, grazie al riferimento alla tradizione precedente. È noto che Dante attribuì a Guinizelli la svolta stilistica che avrebbe portato alla nuova poesia d’amore, nella quale egli stesso si collocava. Dal punto di vista dello storico della lingua, si deve prendere comunque atto di una sostanziale continuità tra la tradizione poetica anteriore e quella stilnovista. Permangono cioè gallicismi, provenzalismi, sicilianismi… Nella miscela linguistica di Guinizelli entrano poi anche alcune forme che richiamano il bolognese. Lo stesso vediamo anche in Guido Cavalcanti. Il fiorentino inizia a circolare in Italia per ragioni puramente economiche. Il fiorentino ha delle caratteristiche e dei tratti molto più vicini al latino. - Dante teorico del volgare: Le idee di Dante sul volgare si leggono nel Convivio e nel De vulgari eloquentia. Nel Convivio il volgare viene tra l’altro celebrato come “sole nuovo” destinato a splendere al posto del latino, per un pubblico che non è in grado di comprendere la lingua dei classici: il giudizio di Dante nasce dunque, oltre che da una fiducia profonda nelle possibilità della nuova lingua, da una necessità di divulgazione/comunicazione più larga ed efficace. Altra questione toccata in entrambi i testi è la maggiore o minore dignità dell’una e dell’altra lingua: nel Convivio il latino è reputato superiore in quanto utilizzato nell’arte; nel De vulgari eloquentia, invece, la superiorità del volgare viene riconosciuta in nome della sua naturalezza. 11 Il De vulgari eloquentia, composto nell’esilio, è il primo trattato sulla lingua e sulla poesia volgare, e proprio per questo viene considerato avere un inestimabile valore per la nostra letteratura. Nonostante ciò, fino al ‘500 esso rimase sconosciuto, o fu citato in maniera vaga, senza che fosse stato letto per davvero. La fortuna del trattato non fu pacifica, né completa né senza contrasti, anche perché le sue tesi furono utilizzate in chiave polemica nelle dispute sulla “questione della lingua”; anche se, in questo modo, il De vulgari eloquentia finì per essere al centro dell’attenzione come uno dei testi fondamentali per il dibattito linguistico del Rinascimento. Nel De vulgari eloquentia muove dalle origini prime, dalla creazione di Adamo: stabilisce che tra tutte le creature l’unico essere dotato di linguaggio è l’uomo; dunque il linguaggio stesso caratterizza l’essere umano in quanto tale, diversificandolo dagli animali bruti inferiori a lui. L’origine del linguaggio e delle lingue viene ripercorsa attraverso il racconto biblico: nodo centrale è l’episodio della Torre di Babele. La storia delle lingue naturali, nella loro varietà, incomincia proprio qui: la loro caratteristica è il mutare nello spazio, da luogo a luogo, e nel tempo, soggette ad una continua trasformazione. La “grammatica” delle lingue letterarie, come quella del greco e del latino, secondo Dante, è una creazione artificiale dei dotti, intesa a frenare la continua mutevolezza degli idiomi, garantendo la stabilità senza la quale la letteratura stessa non può esistere. Anche il volgare, per farsi “letterario”, per arrivare quindi a una dignità paragonabile a quella del latino, deve acquistare stabilità, distinguendosi dal parlato popolare. Inizialmente, l’attenzione di Dante si concentra sull’Europa, passando poi a trattare del gruppo linguistico costituito da francese, provenzale e italiano. Si restringe quindi finalmente alla sola area italiana, la quale risulta diversificata al suo interno in una grande quantità di parlate locali. Dante esamina queste parlate alla ricerca del volgare migliore, definito illustre (e anche aulico, curiale, cardinale). —> L’esame delle varie parlate si conclude con la loro sistematica eliminazione: tutte, nella loro forma naturale, sono indegne del volgare illustre. Tra le più severe condanne vi è quella per il toscano e il fiorentino. Migliori degli altri risultano il siciliano e il bolognese. Il discorso si sposta ora dalla lingua alla letteratura: Dante, appunto, sta cercando una lingua ideale e “illustre”, priva di tratti locali e popolari, selezionata e formalizzata ad un livello “alto”. Le realizzazioni di questa lingua vengono identificate nei modelli di stile a cui gli stilnovisti e Dante stesso guardavano con maggiore ammirazione. La nobilitazione del volgare deve avvenire dunque attraverso la letteratura. Ecco perché il toscano viene condannato, al pari delle altre parlate italiane: non solo la lingua popolare toscana non interessa a Dante, ma inoltre la condanna colpisce poeti come Guittone d’Arezzo, caratterizzati da uno stile rozzo e plebeo ben diverso da quelli dei siciliani e degli stilnovisti. Le pagine di condanna del toscano, del fiorentino, e delle pretese di toscani e fiorentini, furono tra le più discusse nel corso del dibattito sulla questione della lingua. De Vulgari Eloquentia: ha un ruolo centrale per la diffusione dei volgari italiani. In cui Dante esalta l’utilizzo del volgare anche nella letteratura: —> secondo lui, il latino è una lingua artificiale, mentre il volgare è una lingua “vera” e propria parlata dagli italiani sin dalla nascita, e quindi che tutti sono in grado di conoscere. Dante dà quattro caratteristiche che IL volgare dovrebbe avere: 1. Illustre: 2. Aulico: 3. Curiale: inteso come apparato di gestione dello Stato. 4. Cardinale: centro attorno a cui gli altri volgari ruotano e si ispirano. Come si fa ad ottenere un volgare illustre quindi? Con la discretio: La seconda opera in cui Dante attua un’altra riflessione linguistica: il Convivio. —> che si prefigura come “banchetto” di sapere da offrire a tutti. Dante, col volgare, vuole raggiungere un pubblico vasto —> il volgare funge da mediazione linguistica per argomenti importanti, come la letteratura, che altrimenti rimarrebbero a portata di un pubblico ristretto di letterati. In linea generale si può dire che le prime esperienze poetiche di Dante appaiono ben radicate nella cultura e nella poesia volgare di Firenze, sia per i temi sia per le strutture metriche e linguistiche. Prevedibile, dunque, la presenza di sicilianismi e gallicismi di vario genere. Tuttavia, si nota una certa diminuzione degli apporti tradizionali: diminuiscono le dietologie sinonimiche, mentre il 12 molti umanisti diedero di questa lingua, nel confronto con quella dei classici. “Crisi” del volgare vi fu dunque in quei casi in cui uomini di alta cultura disprezzarono apertamente la lingua moderna o la ignorarono. Ci volle un po’ di tempo prima che si affermasse il principio di parità delle lingue antiche e di quelle moderne. L’uso del volgare, secondo l’opinione di questi dotti, risultava accettabile solo nelle scritture pratiche e d’affari, cioè nelle materie senza pretese d’arte. Gli umanisti avevano di fronte la grande tradizione del latino, ben superiore di quella del volgare: credere nel volgare era insomma come scommettere su di un incerto futuro, laddove il latino rappresentava invece una certezza apparentemente indiscutibile. La posizione umanistica poteva dunque arrivare a ignorare il volgare, nella convinzione che nell’Italia antica e moderna non fosse esistita altra tradizione culturale se non latina. L’Umanesimo, quindi, si rifa al mondo classico: secondo gli umanisti, infatti, il punto culminante della letteratura si è avuto nel periodo della classicità; non restava altro quindi che porre la riscoperta dei testi antichi come primario obiettivo. I modelli sono: Virgilio per la poesia; Cicerone per la prosa. Secondo gli umanisti, il volgare non poteva funzionare per opere di alta letteratura. - LEON BATTISTA ALBERTI: Per una nuova fiducia verso il volgare, risulta innovativa la posizione di Leon Battista Alberti, versatile figura di intellettuale. Egli fu l’iniziatore del movimento chiamato Umanesimo volgare, ed elaborò un vero e proprio programma di promozione della nuova lingua. L’Alberti attribuisce la causa della perdita della lingua latina alla calata dei barbari. In questo modo si sarebbero introdotti nel linguaggio dei “barbarismi”. Compito del volgare, pur nato dalle barbarie, è dunque quello di riscattare se stesso, facendosi “ornato” e “copioso” come il latino. L’Alberti era convinto che bisognasse imitare i latini prima di tutto in questo: nel fatto che avevano scritto in una lingua universalmente compresa, di uso generale; come il latino classico, anche il volgare aveva il merito di essere lingua di tutti, ma occorreva mirare ad una sua promozione a livello alto, da affidare ai dotti. Il latino, dunque, indicava al volgare la strada da percorrere. [ fondatore/iniziatore dell’Umanesimo volgare —> movimento letterario sorto verso la metà del Quattrocento, tendente a restituire prestigio letterario alla lingua volgare, abbandonata dagli scrittori a favore del latino. Attenzione: non rinnega il valore del latino! Alberti cerca di colmare dei vuoti, scrivendo la prima grammatica italiana (la prima che noi conosciamo, “Grammatichetta vaticana”: primo “libro” di grammatica italiana). Collocabile tra il 1434 e il 1454, per lungo tempo non è stata ricondotta all’autore Alberti, solo dopo a partire dagli anni ’60 verrà attribuita a lui. —> Nelle prime righe di questa grammatica il pensiero dell’autore va ai latini e ai greci, che per primi ricavarono delle regole adatte a far sì che si potesse scrivere in maniera corretta. Gli umanisti riconoscevano che il latino aveva una salda struttura grammaticale, il cui rigore destava loro ammirazione. Si trattava allora di vedere se il volgare avesse anch’esso una “regola”, o ne fosse privo condannato al disordine; questa grammatica si tratta quindi piuttosto di una sorta di verifica, quasi una sfida per mostrare come anche per il toscano fosse possibile realizzare uno strumento già esistente per il latino. All’inizio della grammatica vi è “l’ordine delle lettere” (inventario dei fonemi); un segno indica un fonema. È una grammatica sincronica e quindi moderna e innovativa, che descrive perfettamente la lingua italiana che veniva utilizzata (fiorentino volgare). Le grammatiche italiane successive sono in realtà non sincroniche, ma diacroniche (che descrivono una lingua del passato), approccio completamente diverso. ] - La “Grammatica della lingua toscana”: All’Alberti è attribuita anche un’altra eccezionale impresa: la realizzazione della prima grammatica della lingua italiana, prima grammatica umanistica di una lingua volgare moderna. Questa Grammatica della lingua toscana è tramandata da un unico codice apografo scritto per il Bembo, conservato nella Biblioteca Vaticana (per questo la si conosce come Grammatichetta vaticana). Essa nasce da una sorta di sfida; dimostrare che anche il volgare ha una sua struttura grammaticale ordinata, come ce l’ha il latino. Caratteristica di questa grammatica è soprattutto l’attenzione prestata all’uso del toscano del tempo. - Il Certame coronario: La promozione della lingua toscana da parte di Alberti culminò in una curiosa iniziativa: il Certame coronario del 1441. Egli organizzò una gara poetica in cui i concorrenti si affrontarono con componimenti in volgare. Tuttavia, la giuria non assegnò il premio, facendo fallire il Certame. Si 15 diceva che gli avversari del volgare ritenessero indegno che una lingua come l’italiano pretendesse di gareggiare con il latino: veniva dunque criticata la consueta posizione conservatrice propria della cultura umanistica. - L’Umanesimo volgare alla corte di Lorenzo il Magnifico: A Firenze, nell’età di Lorenzo il Magnifico, si ebbe finalmente “un forte rilancio dell’iniziativa in favore del toscano, politicamente voluta e sostenuta al più alto livello”. I protagonisti di questa svolta, a parte Alberti e Lorenzo de’ Medici, furono l’umanista Landino e Poliziano. In particolare, Landino nega la naturale inferiorità del volgare rispetto al latino e invita i concittadini di Firenze a darsi da fare perché la città ottenga il “principato” della lingua. Lorenzo il Magnifico, prospettando un mirabile sviluppo futuro del fiorentino, parla di un “augumento al fiorentino imperio”: lo sviluppo della lingua si lega dunque ora a una concezione “patriottica”, viene inteso come patrimonio e potenzialità dello stato mediceo, collocato alla pari delle molte risorse di arte e di cultura proprie di questa regione: un tema che sarà poi sfruttato abilmente dalla politica di Cosimo I de’ Medici. Quindi, con Lorenzo il Magnifico e con la sua esaltazione del fiorentino, per la prima volta la promozione del volgare e la rivendicazione delle sue possibilità si collegavano ad un preciso intervento culturale e letterario, non disgiunto da un disegno politico in senso lato, visto che erano proprio i Toscani a rivendicare il valore della loro tradizione e della loro lingua. Il fiorentino si è evoluto, come ogni lingua, in modo graduale quasi impercettibile per chi viveva al tempo; altri momenti in cui invece il processo evolutivo è stato molto veloce, a causa di fatti politici: Firenze diventa capitale di uno stato regionale (flussi migratori dalle provincie verso la città). Fiorentino aureo: ‘300 (delle Tre Corone) Fiorentino argenteo: ‘400/‘500 —> molto più vicino al fiorentino che noi oggi parliamo. - La lingua di Koinè: Fino alla metà del ‘400 il latino, lingua dei classici e delle élite culturali europee, aveva soppiantato nella produzione intellettuale il volgare, indebolito ulteriormente dalla mancanza di una norma unitaria e certa della lingua italiana. Per tutto il ‘400 e nei primi decenni del ‘500, infatti, manca una regola grammaticale stabile e risultano oscillanti e precarie anche le forme della scrittura. Comincia proprio nel ‘400 a svilupparsi un concetto: il cosiddetto volgare di Koinè. In un’Italia divisa politicamente in molti Stati e linguisticamente in diversi volgari, la pratica letteraria è ancora dominata dalle cosiddette lingue di koinè: lingue regionali depurate dai tratti più caratteristici del dialetto, ma sempre legate a una dimensione locale, per quanto estesa. Dunque, la koinè quattrocentesca consiste in una lingua scritta che mira all’eliminazione di una parte almeno dei tratti locali, e raggiunge questo risultato accogliendo largamente latinismi e appoggiandosi anche, per quanto possibile, al toscano (fiorentino). [ Il problema dell’Italia intera, a quel tempo, era trovare il volgare adatto che fosse comprensibile a tutti e che comprendesse tutte le realtà statali. Si deve usare una forma linguistica che comprenda ogni realtà italiana —> ecco perché si parla di lingua di Koinè: varietà municipale/locale che viene regionalizzata, molto simile al volgare illustre. Si tende a mantenere un registro alto, che si occupa della burocrazia del paese. Ricetta della koinè: prendere il volgare della città capitale (Firenze in questo caso), ripulendolo e impreziosendolo di alcuni latinismi. (Koinè ferrarese, koinè lombarda… —> Boiardo e Ariosto che scrivono nella koinè ferrarese). Un volgare koinè particolare era il fiorentino argenteo; continuano comunque ad essere vivi il fiorentino del ‘300 e il latino. ] - IL CINQUECENTO: Avvento della stampa: —> È stata inventata la stampa, nel ‘500, e questo rivoluziona completamente il modo di fare i libri, non solo dal punto di vista materiale ma anche economico. E il problema della lingua diventa culminante (non si può pensare, infatti, di scrivere un libro in siciliano e venderlo in tutta Italia, poiché il resto dei cittadini non siciliani non lo comprerebbero). Quale volgare, quindi, dobbiamo utilizzare e rendere ufficiale a livello nazionale? Si fanno largo 3 ipotesi/opzioni: fiorentino argenteo, fiorentino aureo, veneto (?) - Italiano e latino: Nel ‘500 il volgare raggiunse una piena maturità, ottenendo nel contempo il riconoscimento dei dotti, che gli era mancato durante l’Umanesimo. In questo secolo assistiamo dunque a un vero e 16 proprio trionfo della letteratura in volgare, con il fiorire di autori tra i massimi della nostra tradizione: Ariosto, Tasso, Machiavelli, Guicciardini… Il volgare scritto raggiunse nel ‘500 un pubblico molto ampio di lettori, conquistando nuovi spazi in tutti i settori del sapere, iniziando così un irreversibile processo di erosione del monopolio del latino. La storia della lingua italiana nel periodo dal ‘500 al ‘700 potrebbe essere vista proprio come una lotta serrata con il latino, a cui venne tolto progressivamente spazio. Nel Rinascimento, naturalmente, il latino non era affatto in posizione marginale; si avvertiva però un clima nuovo, la crisi umanistica del volgare era ormai superata, e gli intellettuali avevano iniziato ad avere generalmente fiducia nella nuova lingua. Tale crescente fiducia derivava anche dal processo di regolamentazione grammaticale allora in corso. Determinante, come vedremo, sarà anche la pubblicazione di un libro: le Prose della volgar lingua di Pietro Bembo. Si iniziarono allora ad avere le prime grammatiche a stampa dell’italiano e i primi lessici, e a volte lessici e grammatiche si fusero nella stessa opera. La maggior parte dei lettori non era interessata tanto alle discussioni sulla natura del volgare, ma cercava semplicemente delle risposte pratiche, cioè una guida per scrivere correttamente, liberandosi dagli eccessivi latinismi e dialettismi. E verso la metà del ‘500 si assiste proprio al definitivo tramonto della scrittura di koinè, tipica del ‘400 e dell’inizio del ‘500, la quale rimase d’allora in poi appannaggio degli scrittori meno colti; nessun letterato del ‘500 avrebbe utilizzato, se non con vergogna, una lingua così rozza ormai spazzata via dalla diffusione di una norma largamente accettata. —> L’italiano raggiunse uno status di lingua di cultura di altissima dignità, con un prestigio considerevole anche all’estero. Va comunque ribadito che, anche se il volgare nel XVI secolo si collocò in una posizione di maggiore forza nei confronti del latino, il latino stesso continuò comunque ad avere una posizione rilevante (prendiamo il caso della pubblica amministrazione e della giustizia). A questo proposito, Migliorini osserva che nel XVI secolo la maggior parte degli statuti editi nelle città italiane era ancora il latino, ma in alcuni casi essi cominciavano ad essere pubblicati in volgare, specialmente quelli delle associazioni mercantili. Per quanto riguarda il diritto e l’amministrazione della giustizia, il latino aveva una netta prevalenza; il latino era pane quotidiano per i giuristi. Nella pratica di tutti giorni, tuttavia, nelle verbalizzazioni delle inchieste, nei processi, il volgare a poco a poco trovava spazio più o meno ufficialmente. - La “QUESTIONE DELLA LINGUA”, Pietro Bembo: Forse in nessun altro secolo il dibattito teorico sulla lingua ebbe così tanta importanza come nel ‘500, anche perché l’esito di queste discussioni fu la stabilizzazione normativa dell’italiano. Va sottolineato però che la “questione della lingua” non va intesa come un’oziosa diatriba di letterati, ma come un momento determinante, in cui le teorie estetico-letterarie si collegano ad un progetto concreto di sviluppo delle lettere. Al centro di questo dibattito possiamo collocare le Prose della volgar lingua, pubblicate nel 1525. Le prose sono divise in 3 libri, il terzo dei quali contiene una vera e propria grammatica dell’italiano, la quale risulta però poco efficiente ai nostri occhi moderni. Il dialogo che costituisce le Prose è idealmente collocato nel 1502; vi prendono parte 4 personaggi, ognuno dei quali è portavoce di una tesi diversa: Giuliano de’ Medici rappresenta la continuità del pensiero dell’Umanesimo volgare. Federico Fregoso espone molte delle tesi storiche presenti nella trattazione. Ercole Strozzi espone le tesi degli avversari del volgare, e infine Carlo Bembo (fratello dell’autore) che espone le idee di Pietro. Quando Bembo parla di lingua volgare, intende senz’altro il toscano: ma non il toscano vivente parlato nella Firenze del XVI secolo, bensì il toscano letterario trecentesco dei grandi autori (Petrarca e Boccaccio, in parte anche quello di Dante). Questo è un punto fondamentale della tesi bembiana: egli non nega che i toscani siano avvantaggiati rispetto agli altri italiani nella conversazione; ma questo non è oggetto del trattato, che non si occupa del comune parlato, ma della nobile lingua della letteratura. Secondo Bembo, la lingua non si acquisisce dal popolo, ma dalla frequentazione di modelli scritti, i grandi trecentisti. Bembo sapeva perfettamente che la scelta del modello costituito dalle Tre Corone riportava indietro nel tempo. Ma la sua teoria voleva appunto coniugare la modernità della scelta del volgare con un totale distacco dall’effimero, secondo un ideale rigorosamente classicistico, la cui natura è ovviamente letteraria. Requisito necessario per la nobilitazione del volgare era dunque un totale rifiuto della popolarità. La soluzione di Bembo fu quella vincente. Essa formalizzava in maniera teoricamente fondata quanto era avvenuto nella prassi: il volgare si era diffuso in tutta Italia come lingua della letteratura attraverso una più o meno cosciente imitazione dei grandi trecentisti. Ora la grammatica di Bembo permetteva di portare a compimento quel processo spontaneo, depurando il volgare stesso dagli elementi eterogenei della koinè primo-cinquecentesca. 17 papi. I pontefici intervennero successivamente con le liste dell’Indice dei libri proibiti. Nel 1559 Paolo IV riservava un’apposita menzione alle Bibbie volgari, delle quali era vietato il possesso senza licenza del Santo Uffizio. La proibizione fu ribadita più volte in seguito, nel ‘500 e nel ‘600, e si attenuò solo alla fine del XVIII secolo. Riguardo alla discussione sul tema della Messa, veniva sottolineata la funzione di lingua “sacra” propria del latino. Al latino inoltre era riconosciuto il carattere di lingua universale: esso garantiva un’omogeneità internazionale nel messaggio della Chiesa, che le lingue internazionali avrebbero invece reso più difficile da controllare. Va comunque detto che il Concilio non pronunciò mai una condanna definitiva della Messa in volgare, anche se di fatto nella Chiesa Cattolica la Messa venne celebrata in latino fino al XX secolo. Il volgare, respinto dai “piani alti” della cultura ecclesiastica, confermava viceversa il suo ruolo decisivo nel settore che risentiva direttamente del confronto con i fedeli: il momento della predica (predicazione). Anzi, il Concilio di Trento insisteva proprio sul fatto che la predicazione in lingua volgare era uno dei compiti che i parroci dovevano assolutamente compiere, e che questa predicazione doveva svolgersi proprio durante la Messa (che era in latino appunto, e rimase così fino al Concilio Vaticano II del 1962-65). La predicazione era quindi una sorta di oasi del volgare, unico momento in cui la comunicazione diretta con il fedele richiedeva l’uso di una lingua largamente comprensibile. Ciò non toglie che ancora esistesse la predicazione in latino, ma di fatto era destinata solo ad un pubblico d’élite. In ogni modo, dunque, anche la Chiesa dovette affrontare una vera e propria “questione della lingua”. - IL SEICENTO: - Il Vocabolario dell’Accademia della Crusca: Già abbiamo visto come la più famosa accademia italiana che si occupò di lingua fu quella della Crusca. L’Accademia della Crusca ebbe un’importanza eccezionale. Tanta influenza può apparire persino sorprendente, se si pensa al contesto in cui tale organismo si trovò ad operare: a differenza dell’Accademia fiorentina, infatti, la Crusca fu un’associazione privata che contò solo sulle sue forze, senza sostegno pubblico, in un’Italia divisa in stati diversi, ciascuno con la propria fisionomia e la propria tradizione; un’Italia, quindi, poco adatta ad assoggettarsi ad un’unica autorità normativa, tanto è vero che le polemiche suscitate all’Accademia furono molte. Eppure la Crusca portò a termine il disegno di restituire a Firenze il magistero della lingua, così come avevano auspicato Varchi e Salviati nel XVI secolo, e costrinse tutti gli italiani colti a fare i conti, d’allora in poi, con il “primato” della Toscana. L’attività della Crusca non fu certo esente dalle critiche, ma nessuno potè permettersi di ignorarla. La sua presenza fu sempre viva, talora ossessiva, ingombrante e fastidiosa. Il contributo più rilevante della Crusca si ebbe quando questa si indirizzò alla lessicografia a partire dal 1591. In quell’anno gli accademici discussero sul modo di fare il Vocabolario (lo stesso Salviati accennò tempo prima all’idea di un vocabolario della lingua toscana). —> Il Vocabolario degli Accademici della Crusca uscì dunque nel 1612. L’impostazione del Vocabolario fu essenzialmente legata all’insegnamento di Salviati stesso, anche se l’opera fu realizzata dopo la sua morte. Gli Accademici, in sostanza, fornirono il tesoro della lingua del Trecento, esteso al di là dei confini segnati dall’opera delle Tre Corone, arrivando a integrare con l’uso moderno. La fortuna del Vocabolario della Crusca è confermata dalle due edizioni che ebbe nel XVII secolo. La seconda edizione uscì nel 1623: fu analoga alla prima, salvo per una piccola serie di aggiustamenti e per alcune giunte e correzioni. La terza edizione, stampata a Firenze (non più a Venezia come le precedenti) nel 1691, si presenta invece vistosamente diversa fin dall’aspetto esterno: tre tomi al posto di uno con un corrispondente aumento del materiale, verificabile sia nella quantità dei lemmi, sia negli esempi e nella definizione delle voci. La terza Crusca, insomma, fece un salto quantitativo notevole, consolidando il primato dell’accademia di Firenze nel campo della lessicografia, conciliando la continuità rispetto all’indirizzo arcaizzante con una disponibilità verso il nuovo. I lavori per questa edizione durarono per 30 anni. L’autore il cui inserimento nella terza Crusca risulta più significativo è Tasso; vistosa è invece l’esclusione di Marino: l’ambiente fiorentino era saldamente attestato su posizioni ostili agli “eccessi” del Barocco. - L’opposizione alla Crusca (p. 309) 20 - Galileo e il linguaggio della scienza: Non c’è dubbio che la prosa del ‘600 debba molto allo sviluppo del linguaggio scientifico, che in questo secolo raggiunse esiti elevati prima di tutto per merito di Galileo. La scelta da parte sua del volgare non era né facile né scontata, ma era dettata dalla fiducia a priori nel volgare, e anche dalla volontà di staccarsi polemicamente dalla casta dottorale. Galileo, dunque, scelse coscientemente il toscano. Una volta compiuta la scelta del volgare, Galileo dovette far sì che la lingua italiana si adattasse perfettamente ai compiti nuovi che le venivano assegnati; e in questo egli si rivelò estremamente abile. Favorito dalla sua origine toscana, seppe aggiungere un tono elegante e “medio”, perfettamente accoppiato alla chiarezza terminologica e sintattica, ciò che lo distingue dalla prosa favolosa e profetica di autori come Giordano Bruno e Campanella. - Il melodramma (p. 323) - Linguaggio poetico barocco: Se è vero, come ha scritto Luigi Russo, che “il molto malfamato Seicento è un secolo rivoluzionario”, ciò si può verificare bene nell’evoluzione del linguaggio poetico. Con Marino e il marinismo, a partire dall’inizio del ‘600, le innovazioni si fanno ancora più accentuate che nel Tasso. Il catalogo degli oggetti poetici si allarga notevolmente rispetto alla tradizione. Nel settore del lessico agiscono le spinte innovative che allargano considerevolmente le possibilità di scelta. La poesia barocca estende il repertorio dei temi e delle situazioni che possono essere assunte come oggetto di poesia, e il rinnovamento tematico comporta di conseguenza un rinnovamento lessicale. Un consistente filone della poesia barocca che fa capo a Marino utilizza lessico scientifico, assieme alla tematica e agli oggetti emblematici della scienza, volto a ribadire la disponibilità della letteratura verso scoperte della scienza. La scienza ha così una sorta di riconoscimento o canonizzazione da parte della letteratura. La presenza del lessico scientifico nella poesia di Marino conferma dunque la tendenza al rinnovamento. - Le reazioni alla poetica del Barocco: È noto che già alla fine del ‘600, con la fondazione dell’Arcadia (avvenuta a Roma nel 1690), si ebbe una reazione alle concezioni poetiche del Barocco in nome di un rinnovato classicismo e in nome della razionalità della poesia. A partire dalla fine del ‘600 si sviluppò e prese piede il giudizio sul “cattivo gusto” del Barocco. Tale giudizio fu costantemente ripetuto dagli illuministi del ‘700, fino a diventare luogo comune. - La letteratura dialettale: Nel XVI-XVII secolo fissiamo la nascita di una letteratura dialettale cosciente di essere tale, volontariamente contrapposta alla letteratura in toscano. Ed è necessario sottolineare come il quadro linguistico della poesia italiana non sarebbe completo se non tenesse conto degli autori che vollero mettere in versi le parlate delle loro regioni, talora con esiti di rilievo. Rappresenta una forma di dialettali anche la manifestazione marcata del gusto per la lingua toscana viva e popolare. - IL SETTECENTO: - Italiano e francese nel quadro europeo: Le lingue di cultura che potevano ambire a un primato internazionale erano: italiano, francese e spagnolo. Tra queste, lo spagnolo era in fase calante, avendo avuto la sua grande stagione nel ‘500 e nella prima metà del ‘600. Da quel momento la sua fortuna era andata progressivamente diminuendo, in concomitanza con la crescita di prestigio del francese. Quanto alle altre lingue d’Europa, nel Settecento lingue come il portoghese non avevano alcun rilievo; le lingue slave non erano conosciute e nemmeno apprezzate; il tedesco e l’inglese avevano una posizione marginale. La cultura inglese, pur di eccezionale importanza, si diffuse in genere attraverso le traduzioni francesi. Il tedesco, invece, doveva ancora veder fiorire la sua stagione: su di esso correvano giudizi piuttosto negativi. Solo con il Romanticismo, all’inizio del XIX, il tedesco ottenne un riconoscimento generale e la cultura tedesca si organizzò utilizzando finalmente la propria lingua nazionale. Nel ‘700, invece, prevaleva ancora un cosmopolitismo che privilegiava il francese. Non solo la lingua di comunicazione elegante da usare con i viaggiatori stranieri nei territori di lingua tedesca era il francese; anche l’italiano aveva una posizione di prestigio, soprattutto a Vienna. Anche a Parigi l’italiano era abbastanza conosciuto, come lingua da salotto e per le dame, corredo della buona educazione delle fanciulle aristocratiche. La conoscenza del francese è assolutamente necessaria anche a chi resta tutta la vita in Italia: un italiano colto del ‘700 che non 21 voglia sfigurare nel bel mondo deve parlare un po’ di francese. Era insomma pacifico che il francese aveva assunto una posizione che lo rendeva in qualche modo erede dell’antico universalismo latino. Goldoni, per esempio, scrisse nella lingua d’oltralpe non solo due commedie, ma persino le proprie memorie. Non fu l’unico intellettuale italiano a utilizzare il francese; si trattava anzi di una scelta obbligata per coloro che si trasferissero all’estero. La penetrazione del francese avveniva attraverso un’infinità di canali, non solo attraverso l’alta cultura. Era una moda che investiva aspetti del costume e della vita comune. - Il francese lingua-modello: Era inevitabile che una diffusione della lingua, della moda e della cultura di Francia avesse conseguenze evidenti anche sul piano linguistico. Nel corso del ‘700 le pretese di attribuire al francese una posizione di assoluto primato si rinnovarono in forme anche più marcate. Infatti un luogo comune assai fortunato voleva che il francese fosse la lingua della chiarezza; l’italiano la lingua della passione emotiva, della poesia e della musicalità. Ciò poteva essere interpretato in chiave negativa, per screditare la nostra lingua, o in chiave positiva: in uno dei più famosi manuali settecenteschi per imparare l’italiano, l’autore (Antonini) scriveva che il toscano era lingua dolcissima, adatta in maniera speciale alla delicatezza delle dame. L’italiano, dunque, era lingua dolce e poetica, ma scarsamente razionale. Siamo di fronte ad uno dei temi più dibattuti del ‘700, anche in relazione al cosiddetto “ordine naturale” della frase. L’ordine naturale degli elementi della frase veniva identificato nella sola sequenza “soggetto-verbo-oggetto”; l’Italiano, invece, era ed è caratterizzato da una grande libertà nella posizione degli elementi del periodo. I difetti di razionalità propri dell’italiano non erano in realtà dovuti a motivi “naturali”, ma a cause storiche, spiegabili con le vicende della nostra lingua, in dipendenza da mode letterarie che avevano favorito la conservazione ad oltranza di un gusto arcaicizzante. Intanto, tutta l’Europa prendeva atto della forza del francese e dei suoi caratteri tipologici. Non ci si deve dunque stupire se la diffusione del francese e l’egemonia esercitata da questa lingua permisero, per contrasto, di guardare in maniera più critica alla tradizione culturale italiana. La Francia aveva infatti quello che all’Italia mancava: una lingua viva adatta alla conversazione e alla divulgazione. Gli intellettuali illuministi auspicavano quindi “quel non ancor raggiunto italiano, più agile del tradizionale; un linguaggio moderno per mezzo del quale la cultura potesse uscire dalla chiusa cerchia dei dotti e diffondersi in più larghi strati della società”. —> Il confronto col francese non poteva che favorire una modernizzazione della nostra lingua. - L’influenza della lingua francese: La penetrazione della moda e del gusto francese in Italia fu nel ‘700 massiccia e incredibilmente capillare: si copiarono l’abbigliamento civile e militare, le abitudini gastronomiche, i passatempi, le legature dei libri, la struttura e l’arredamento delle abitazioni, lo stile dei giardini, i mezzi di trasporto… ed è ovvio che tutto questo abbia significato una proporzionale penetrazione di francesismi nella lingua italiana, quei francesismi che tanto preoccuparono i puristi. Mai come in questo secolo si osserva il rapporto stretto che intercorre tra lingua e cultura. In campo scientifico, ad esempio, una vera e propria rivoluzione è segnata dal diffondersi della nuova terminologia della chimica, la quale arriva dalla Francia, attraverso gli studi di Lavoisier, nella seconda metà del XVIII secolo. - Il pensiero di Cesarotti nel dibattito linguistico settecentesco: Un secolo di rinnovamento come questo si caratterizza anche per il vivace Dibattito teorico sulla lingua. Fin dall'inizio del '700 si era avuta una riproposta delle ben note posizioni relative al primato di Firenze e della lingua Toscana, sviluppatesi nel secolo dell'attività svolta dall'Accademia della Crusca. I fiorentini, dunque, continuavano a rivendicare il primato della loro città. Non ci si deve stupire se in un clima del genere, e dopo la pubblicazione della quarta Crusca, corretta e ampliata ma pur sempre incentrata sul canone selettivo toscano, si manifestarono reazioni decisamente polemiche, di stampo illuministico, nei confronti dell'autoritarismo arcaizzante radicato nella tradizione letteraria italiana. La posizione che meglio esprime gli ideali dell'Età dei lumi nei confronti di una tradizione conservatrice, avvertita ormai come peso insopportabile, è quella espressa alla fine del secolo da Cesarotti nel Saggio sulla filosofia delle lingue. Siamo di fronte ad un grande trattato che merita addirittura di essere collocato sul piano del De vulgari eloquentia Di Dante, delle Prose di Bembo, e dell'Ercolano di Varchi (nella serie cioè dei libri che segnarono in maniera indelebile le svolte culturali nei movimenti decisivi di cambiamento). Una caratteristica del trattato di Cesarotti è la nitidezza di impianto, in cui ritroviamo molte idee perfettamente condivisibili anche al giorno d'oggi. Nel caso di Cesarotti, dunque, l'identità di vedute rispetto al nostro punto di vista è già di per sé un qualcosa che ci indica che qui siamo alle radici del pensiero moderno. Il Saggio sulla filosofia delle lingue si apre con una serie di enunciazioni teoriche:   22 - L’OTTOCENTO: - Purismo: il culto del passato: All'inizio dell' '800, anche per reazione contro l'egemonia e l'invadenza della cultura francese, si sviluppò un movimento che va sotto il nome di "Purismo". Questo termine, inizialmente nato per polemica, indica in sostanza un'avversione e una intolleranza di ogni innovazione, di ogni influsso straniero, di ogni tecnicismo, di ogni neologismo. Un atteggiamento del genere ebbe per conseguenza un forte antimodernismo, e il culto dell' "epoca d'oro" della lingua (identificata nel remoto passato, cioè nel '300). Ne derivava quindi un mito del XIV secolo come epoca felice della lingua, un disprezzo dei tempi presenti, e infine una teoria della storia linguistica intesa, pessimisticamente, come progressiva caduta. Quello che maggiormente sorprende nella rinascita puristica dell'inizio dell' '800 è tuttavia l'assoluta inattualità di questo rigido pensiero, ma soprattutto la sua chiusura verso il nuovo, che non ne impedì la fortuna ma anzi sembrò persino cancellare il ricordo della filosofia linguistica di Cesarotti. Il capofila del purismo italiano fu Antonio Cesari: il quale scrisse la Dissertazione sopra lo stato presente della lingua italiana, un vero manifesto del conservatorismo purista: in questo manifesto del pensiero puristico Cesari propone la restituzione dei valori antichi, identificando il secolo d’oro della lingua italiana nel Trecento. Secondo Cesari, la lingua trecentesca è l’unica che possiede ricchezza, assoluta bellezza e massima dignità letteraria; ”tutti in quel Benedetto tempo del 1300 parlavano e scrivevano bene". In realtà Cesari nella sua opera offriva poco: egli non si dimostrava nemmeno in grado di stabilire che cosa fosse quella bellezza della lingua di cui parlava continuamente come una sorta di ineffabile entità mistica. Cesari critica poi gli Accademici proprio perché non sono capaci di evidenziare tutta la ricchezza della lingua antica e mette in rilievo l’importanza della sua cosiddetta Crusca veronese, ossia la rivisitazione della quarta edizione del Vocabolario della Crusca. Per fortuna il modello puristico trovava un argine negli altri due modelli che gli contendevano spazio nella didattica scolastica: quello classicistico e quello manzoniano. (Odio per il “barbarismo” francese, celebrando la bellezza e la nobiltà della lingua italiana”). - La “Proposta” di Monti e reazioni antipuristiche: Lo scrittore Vincenzo Monti ebbe la forza e l’autorevolezza per porre freno alle esagerazioni del Purismo. Il purismo ha molti avversari, tra i quali spicca Vincenzo Monti. Monti interviene in una polemica del periodico milanese Il Poligrafo, dove critica aspramente Cesari. La critica antipuristica di Monti arrivò a colpire lo stesso Vocabolario della Crusca, così come era stato realizzato nel corso di una lunga tradizione accademica. Le polemiche linguistiche di Monti si inseriscono nella Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocabolario della Crusca: opera definita pietra miliare del dibattito sulla questione della lingua, ma anche come importante tappa nella storia della lessicografia italiana. Gran parte della Proposta, infatti, era costituita dalla ricerca di errori compiuti da vocabolaristi fiorentini, errori dovuti anche alla loro scarsa preparazione filologica. Dunque, Vincenzo Monti, con la sua visione antifiorentina e antitoscana, si oppone all’atteggiamento arcaicizzante degli Accademici che raccolgono le voci morte usate dagli autori antichi, basando il loro lavoro su una gloria passata. In altre parole, Monti critica “la tirannia del toscano dialetto” definito come “la lingua d’alcuni, ma non di tutti” che contiene tante parole inutili in quanto “nessun gl’intende”. Vincenzo Monti mostra la sua aspirazione a una lingua unitaria e il suo scontro con gli Accademici rappresenta un grande passo verso il rinnovamento della lessicografia italiana. Questo scontro con gli accademici e con i puristi mosse le acque della riflessione linguistica nel nostro paese: fu Manzoni a prendere in mano la situazione e affrontare radicalmente i problemi a venire. - La soluzione manzoniana alla “questione della lingua”: 1827: edizione “Ventisettana” dei Promessi Sposi. 1840: Edizione “Quarantana” dei Promessi Sposi, con cui Manzoni individua una nuova via di standardizzazione dell’italiano —> risciacquatura dei panni in Arno. Tra i romantici milanesi si dibatteva attorno al problema, già sollevato nel '700, dell'italiano in tutto o in parte simile a una lingua "morta": una lingua cioè che si imparava dai libri, che si utilizzava per la letteratura e per le occasioni ufficiali, valida per il piano nobile della comunicazione, ma inadatta ai rapporti quotidiani e familiari per i quali era molto più facile e funzionale usare il dialetto (se non addirittura una lingua straniera come il francese). Manzoni si trovò quindi a fare i conti 25 con una situazione del genere, l'affrontò con determinazione; e le sue idee, maturate principalmente nella stesura dei Promessi Sposi, influirono profondamente, collaborando a mutare la situazione dell'italiano, rendendo la nostra lingua più viva e meno letteraria, o almeno offrendo un modello di letterarietà diverso da quello tradizionale. La teoria linguistica manzoniana segna una svolta nelle discussioni sulla questione della lingua. Solo nel nostro secolo, tuttavia, è stato apprezzato appieno il suo sforzo. - La scoperta del fiorentino vivo: Manzoni affrontò la “questione della lingua” a partire dalle sue personali esigenze di romanziere. Iniziò ad occuparsi del problema della prosa italiana fin dal 1821, con la stesura del Fermo e Lucia (redazione iniziale dei Promessi Sposi). 1. Questa prima fase viene definita come "eclettica", nel senso che egli cercava di raggiungere uno stile duttile e moderno mediante il ricorso a vari elementi, utilizzando il linguaggio letterario ma senza vincolarsi ad esso alla maniera dei puristi, anzi accettando francesismi e milanesismi, o applicando la regola dell'analogia. Egli, tuttavia, lamentava la propria naturale tendenza al dialettismo, ammettendo il suo (provvisorio) fallimento nella ricerca di una lingua scorrevole per la propria opera. Nel Fermo e Lucia il toscano affiora come termine di confronto. 2. La seconda fase, che Manzoni chiamò toscano-milanese, corrisponde alla stesura dei Promessi Sposi per l'edizione del 1827 (chiamata anche ventisettana). In questo caso lo scrittore cercava di utilizzare una lingua genericamente toscana, ma ottenuta per via libresca, attraverso vocabolari e spogli lessicali. In lui maturerà adesso un diverso concetto di "uso" della lingua, legato non più a un eventuale lontano impiego letterario, ma alla vita della parola in una vera comunità di parlanti. --> Questo studio libresco, comunque, non poteva bastare. In lui maturo un concetto, appunto, di "uso" molto più vitale e innovativo. Nel 1827 Manzoni fu a Firenze, e il contatto diretto con la lingua Toscana suscitò una reazione decisiva… 3. A partire dal 1830 circa la riflessione linguistica di Manzoni si sviluppò con maggiore impegno, tutto ciò dovuto anche e soprattutto alla risciacquatura dei panni in Arno. L'esito pubblico di questo travaglio fu infatti la nuova edizione dei Promessi Sposi nel 1840 (chiamata anche quarantana), corretta per adeguarla all'ideale di una lingua d'uso, resa scorrevole, piana, purificata da latinismi, dialettismi ed espressioni letterarie di sapore arcaico: si trattava del linguaggio fiorentino dell'uso colto.   Nel 1847, in una lettera al lessicografo piemontese Carena, Manzoni espresse la propria posizione definitiva, auspicando che la lingua di Firenze completasse quell'opera di unificazione che già in parte si era realizzata proprio sulla base di quanto vi era di vivo nella lingua letteraria toscana. - La “Relazione” del 1868: Nel 1868 Manzoni, ormai anziano, rese pubbliche in una Relazione al ministro Broglio le ragioni per le quali gli pareva che il fiorentino dovesse essere diffuso attraverso una capillare politica linguistica, messa in atto nella scuola, ad opera degli insegnanti e proposta in forma di generalizzata educazione popolare. Proponeva anche che si realizzasse un vocabolario della lingua italiana concepito su basi nuove, affiancato ad agili vocabolari bilingui, capaci di suggerire le parole toscane corrispondenti a quelle proprie delle varie parlate d'Italia. Questa proposta cadeva in anni decisivi, tra l'unità d'Italia e la presa di Roma. La Relazione del 1868, inoltre, nasceva da una richiesta ufficiale fatta dal ministro dell'Istruzione, il manzoniano Broglio, che aveva invitato a proporre le più efficaci strategie per diffondere l'italiano tra il Popolo della nazione. Era la prima volta, insomma, che la questione della lingua si collegava così strettamente a una questione sociale, finalizzata all'organizzazione della scuola e della cultura nel nuovo Regno d'Italia. Quest'ultima fase della riflessione linguistica manzoniana coincise però con una vivace polemica: intellettuali come Tommaseo e Lambruschini presero le distanze da Manzoni, rivendicando la funzione degli scrittori nella regolamentazione della lingua, sollevando dubbi di varia natura sul primato assoluto dell' "uso vivo" di Firenze. Presero le distanze da Manzoni anche Luigi Settembrini, Vittorio Imbriani, e Pietro Fanfani. La teoria manzoniana ebbe tuttavia effetti piuttosto rilevanti. Ciò si spiega prima di tutto con la forza di penetrazione dei Promessi Sposi, modello esemplare di prosa elegante e colloquiale al tempo stesso, di cui non si era mai visto l'uguale nel nostro paese. In particolare, l'esempio di Manzoni favorì la prassi della "risciacquatura in Arno", cioè il soggiorno culturale a Firenze allo scopo di acquisire familiarità con la lingua parlata in quella città. 26 L'azione dei manzoniani fu assai efficace: presto essi divennero una piccola schiera pronta a combattere una battaglia sul fronte dell'educazione scolastica: si pensi che fu manzoniano Luigi Morandi, precettore di Vittorio Emanuele III. In particolare influì sugli insegnanti un libro come l'Idioma gentile di De Amicis: la borghesia italiana infatti aveva bisogno di libri del genere, facili e concreti. - Grandi dizionari della prima metà dell’Ottocento: L’ ‘800 è stato il secolo dei dizionari: una stagione splendida per ricchezza di produzione e per qualità, oltre che per varietà di realizzazioni. Tra il 1833 e il 1842 fu pubblicato il Vocabolario della lingua italiana di Giuseppe Manuzzi, nato da una revisione della Crusca: Manuzzi fu un purista come Cesari e il suo vocabolario, per quanto corretto e accurato, conferma la tendenza di una parte della cultura italiana ad assestarsi nel solco del passato e a radicarsi in esso. Sono delle riproposte della Crusca anche il Dizionario della lingua italiana in sei volumi di Francesco Cardinali, Francesco Orioli e Paolo Costa; e il Dizionario della lingua italiana in sette volumi di Luigi Carrer e Fortunato Federici. Tra il 1829 e il 1840 la società napoletana Tramater diede alle stampe il Vocabolario universale italiano, la cui base era ancora la Crusca, ma rivista in maniera sostanziale: l'opera aveva un taglio tendenzialmente enciclopedico, e dedicava particolare attenzione alle voci tecniche, di scienze, lettere, arti e mestieri. Per ricchezza e apertura verso il nuovo, questo vocabolario riuscì come il migliore disponibile sul mercato italiano e avrebbe mantenuto questo primato, se non fosse stato superato dal Tommaseo-Bellini, il quale oscurò il destino di tutti i concorrenti. - Il “Tramater”: Il dizionario più importante del primo Ottocento è indubbiamente quello della società tipografica napoletana Tramater che pubblica tra il 1829 e il 1840 il Vocabolario universale italiano. La Crusca resta il punto di riferimento, ma porta con sé molte novità: mostra un particolare interesse per le scienze e per le tecniche, dedicando molta attenzione ai tecnicismi e alle voci di scienze, lettere, arti e mestieri, senza alcuna nota di censura puristica. Un’altra caratteristica del Tramater è la sua capacità di superare le definizioni tradizionali. A differenza dei vocabolari del passato che danno informazioni generali e molto scarse sui termini botanici e zoologici, il Tramater basa le sue definizioni sulla precisa classificazione scientifica. Il Tramater resta il vocabolario più innovativo dell’epoca, fino alla pubblicazione del Tommaseo-Bellini. - Il “Dizionario” di Tommaseo: Si deve aspettare fino all’Unità d’Italia e alla pubblicazione del Tommaseo-Bellini nel 1861 per un vero distacco dalla tradizione cruscante e per veder sorgere una nuova produzione lessicografica. È stato osservato che nessun vocabolario dell'Ottocento si avvicina nemmeno lontanamente alla qualità del Dizionario di Tommaseo: Il Dizionario della lingua italiana di Nicolò Tommaseo e Bernardo Bellini, detto brevemente anche Tommaseo-Bellini, è il più importante dizionario della lingua italiana prodotto durante il Risorgimento italiano. Il progresso è sostanziale: il vocabolario si presentava all'insegna dei tempi nuovi, sotto l'auspicio dell'unità politica appena raggiunta. Tommaseo si preoccupò di illustrare attraverso il proprio dizionario le idee morali, civili e letterarie; ed effettivamente molti termini politici e civili entrano qui per la prima volta in un vocabolario italiano. Dunque, quello di Tommaseo riuscì ad essere il primo vero vocabolario storico della nostra lingua, pur con innegabili difetti e con una strutturazione che a volte può tuttavia apparire disordinata o ridondante. Nella storia dell'intera lessicografia italiana il suo vocabolario è quello che meglio concilia la dimensione del tempo presente e quello della durata, visto che ancora oggi capita che si ricorra occasionalmente al dizionario di Tommaseo. - Il vocabolario manzoniano: Già la relazione Dell'unità della lingua e dei mezzi di diffonderla del 1868 di Manzoni si conclude con la proposta di un vocabolario, ma completamente diverso da quelli fino all'ora realizzati. Secondo Manzoni, si trattava di scindere le due funzioni che si erano confuse nei vocabolari italiani, i quali avevano voluto ad un tempo mostrare l'uso vivente, e documentare gli esempi degli scrittori del passato. Questa seconda finalità doveva invece essere rinviata a lessici appositi, di tipo esclusivamente storico; mentre la funzione primaria doveva essere solamente quella di indicare l'uso vivo di Firenze. Infatti il secondo obiettivo proposto da Manzoni, come abbiamo visto nella Relazione del 1868, stava nella realizzazione di una serie di vocabolari dialettali i quali suggerissero l'esatto equivalente fiorentino. Manzoni non vide il compimento del vocabolario che aveva ispirato: alla sua morte nel 1873 si era appena avviata la pubblicazione del Novo vocabolario della lingua italiana secondo l'uso di 27 Completamente diverso era il modello della prosa caro ai classicisti, che in genere si ispiravano alla grande tradizione del Rinascimento: la prosa di autori come Monti e Leopardi. - La poesia: Il linguaggio poetico dell’ ‘800 si caratterizza, almeno per l’inizio del secolo, per una fedeltà alla tradizione aulica e illustre, in coincidenza con l’affermarsi del Neoclassicismo. Importante è Monti, e anche Foscolo (come dimostra la solennità dei Sepolcri). [ 1861: Unità politica dell’Italia. L’italiano diventa dunque la lingua ufficiale della nazione —> la questione linguistica dunque non comprende più solo gli scrittori, ma diventa un vero e proprio fatto sociale e politico. Deve diventare una lingua a tuttotondo, che consenta una certa mobilità in ogni campo. Si apre quindi una lunga fase in cui ci sono vari tentativi di scelta di quale forma scegliere, e di promozione della diffusione della lingua a tutto il Paese (1980: data convenzionale che si suole usare per definire il raggiungimento della lingua italiana su tutti gli strati del Paese). Il governo italiano cerca di prendere provvedimenti sin da subito riguardo lo stato della lingua nel paese; nel 1861 solo il 20% della popolazione era alfabetizzata. Tullio de Mauro: nel 1863 scrive una storia della lingua italiana che si occupa dall’Unità d’Italia al 1863. Rispondendo a una domanda: quanti sono le persone che parlano italiano nel 1861? Secondo de Mauro, coloro che parlano compiutamente italiano sono i parlanti toscani e romani che abbiano un grado di istruzione superiore a quello delle elementari. Nel 1867 viene nominato il Ministro della pubblica istruzione: Broglio. Egli mette insieme una commissione, con a capo Alessandro Manzoni —> il modello linguistico è il fiorentino. 1868: viene pubblicato il con lo scopo di diffondere la lingua nazionale. Vi sono due mezzi/metodi per diffondere la lingua: la scuola, e il vocabolario che deve essere un dizionario sincronico che descriva il fiorentino dei ceti colti contemporanei (primo volume esce nel 1863). 1859: legge Casati, che prevede la gratuità della scuola elementari (4 anni) a tutti i cittadini d’Italia. Il problema è che l’Italia ha ancora un’economia prevalentemente agricola —> dunque tantissimi bambini non vengono mandati a scuola, poiché questo avrebbe significato togliere braccia al lavoro domestico della famiglia nei campi. Per porre rimedio a ciò, si interviene legislativamente con la Legge Coppino. 1877: legge Coppino, che prevede l’obbligatorietà dei bambini alle scuole elementari. Chi non mandava i figli a scuola sarebbe stato sottoposto a sanzione, ma ciò non avvenne a causa di moltissimi altri problemi presenti in Italia. —> Dunque, neanche la legge Coppino ebbe successo. La diserzione scolastica continua a rimanere quindi altissima. Solo 100 anni dopo si potrà finalmente dire che la scuola avrà il suo successo. Il vocabolario: “Novo vocabolario secondo l’uso di Firenze” dal 1870 al 1897, in cui sono presenti parole considerate italiane. Seconda “questione della lingua” dell’Ottocento: A questa posizione di Manzoni (fiorentino) si oppose quella di Ascoli (primo linguista dell’italiano), il quale interviene a mettere in discussione la posizione di Manzoni. Secondo Ascoli è impossibile identificare una lingua nazionale in un modello. —> Le persone devono dimenticarsi quelle parole che presentano dittonghi (nuovo —> novo), e utilizzare quelle monottongate. Metodo di Ascoli che si può riassumere nell’espressione: selezione naturale. Le forme scelte per le parole che indicano gli oggetti saranno sempre quelle più chiare per tutti. E così si è andata formando la lingua italiana: tramite un processo naturale basato su criteri di chiarezza e trasparenza. Il problema italiano è sempre stato quello di portare gli italiani ad avere una cultura/istruzione media di base. —> A questo ci penserà poi la scuola, che sarà in grado di informare i cittadini. Grazie alla scuola vedremo come il modello di Manzoni fallirà, e come invece il processo proposto da Ascoli inizierà a svilupparsi (anche se con 100 anni di ritardo). Firenze rimarrà capitale fino al 1870, quando poi sarà sostituita da Roma (breccia di Porta Pia). 30 Fattori importanti dell’italianizzazione: 1. Burocrazia (lingua burocratica che sia comprensibile a tutti, dalle Alpi alla Sicilia) ed esercito (guerre d’indipendenza, Prima guerra mondiale…) (dal 1861, per 3 anni, i giovani italiani sono obbligati a prestare servizio militare; vengono tolti dalla loro realtà dialettale e immessi in una realtà nazionale dell’Italia); 2. Movimenti migratori: inizialmente migrazioni dalle campagne alla città, e emigrazioni verso altri paesi; 3. Mezzi di comunicazione di massa: scritti e orali. Quelli orali in particolare, come la televisione e la radio, hanno avuto un grande impatto sulla diffusione della lingua italiana nelle case di tutti i cittadini. (Boom economico). - “L’IDIOMA GENTILE”, Edmondo De Amicis (1905): È una grammatica basata su capitoli narrativi, in cui di volta in volta si affrontano temi della grammatica della lingua. —> Un testo in particolare ci dimostra come la scuola al tempo non abbia funzionato nemmeno per chi a scuola ci andava. - “NUOVE QUESTIONI LINGUISTICHE”, Pier Paolo Pasolini: Testo di Pasolini del 1964 —> Pasolini si rende conto che l’italiano letterario sta perdendo il suo ruolo di guida, facendo sempre più spazio alla lingua tecnico-scientifica che ormai sta prendendo il sopravvento. Pasolini, preoccupato, inizia a pensare che l’italiano si stia avviando verso un modello sempre più tecnocratico. Altra tematica affrontata è la scomparsa dei dialetti: Pasolini prevede all’orizzonte futuro la progressiva scomparsa dei dialetti italiani. Secondo Pasolini, in Italia non esiste una lingua standard unitaria italiana. - “LETTERA A UNA PROFESSORESSA”, Don Milani, scuola di Barbiana (1967): 1962: la scuola media diventa obbligatoria. Lettera di denuncia e di critica a una professoressa immaginaria delle medie. Critiche su come gli strati sociali più alti siano molto più avvantaggiati nel percorso scolastico/linguistico. Coloro facenti parte del ceto medio-basso continueranno ad avere dei deficit linguistici (si pensi alle campagne della Sicilia, Piemonte…) —> disparità sociali che portano inevitabilmente a disparità linguistiche. ] [ L’Ottocento, considerato il secolo d’oro della lessicografia italiana, è caratterizzato da un’iperproduzione dei dizionari dovuta soprattutto alla situazione politica e sociale dell’epoca. Le rivoluzioni che hanno segnato questo secolo burrascoso portano alla nascita di un mondo nuovo, basato sul progresso economico e sulle innovazioni tecnologiche. I cambiamenti sociali si rispecchiano nella lingua la quale cerca di stare al passo con i tempi. L’aspirazione al rinnovamento della lingua dà avvio alla cosiddetta “lessicomania”, cioè a “una stagione vivacissima per ricchezza di produzione, per qualità e per varietà di realizzazioni lessicografiche” (Marazzini 2009: 247). I lessicografi di questo periodo cercano di opporsi al monopolio della Crusca avvicinando la lingua italiana a tutti i ceti sociali. Come già menzionato, l’Ottocento vede una prolifica produzione dei dizionari di vari tipi. Essi diventano strumenti attraverso cui si affermano le diverse teorie linguistiche del secolo. In altre parole, l’iperproduzione lessicografica dell’Ottocento si deve soprattutto “alla tentazione di ricollegare le prospettive sociali e politiche alla storia linguistica, connessa con l’aspirazione al rinnovamento della lingua”. Oltre alla gente che si occupa di letteratura e delle discipline umanistiche, i dizionari vengono acquistati anche dai ceti sociali che fino a quel momento non dimostravano un grande interesse per la lingua. La rivoluzione lessicografica, quindi, va al di là dell’ambito linguistico e rispecchia la situazione politica e sociale dell’Italia ottocentesca. Infatti, i vocabolari descritti nei capitoli successivi dimostrano che la rivoluzione lessicografica consiste nell'adattamento dei dizionari alle esigenze di tutti i ceti sociali. ] - IL NOVECENTO: - Il linguaggio letterario e scientifico nella prima metà del secolo, durata del linguaggio classico: Gli autori vissuti a cavallo tra i due secoli, come D'Annunzio e Pascoli, testimoniano nelle loro opere le trasformazioni in atto. La lingua italiana, anche quella letteraria, si presenta nel '900 con un ribollire di novità. Probabilmente Carducci è l'ultimo scrittore che incarna in maniera perfetta il ruolo tradizionale del vate, e la lingua della sua poesia aderisce alle convenzioni che vogliono nobilitare la realtà toccata dai versi, al di fuori del genere satirico-polemico. Il linguaggio poetico, 31 quindi, sino a Carducci mantiene forme tradizionali, vocaboli arcaici latineggianti e forme del verbo anticheggianti; le parole, i modi comuni e quotidiani sono evitati. Anche la poesia di D'Annunzio non rinuncia alla nobilitazione attraverso la selezione lessicale. D'altra parte, pur aderendo alla tradizione, la poesia di D'Annunzio si presenta come innovativa per la capacità di sperimentare una miriade di forme diverse e per il gusto di citare e utilizzare lingua, esempi, stilemi antichi e anche i modelli stranieri, talvolta imprevedibili e sorprendenti: quindi si può arrivare a dire che egli ricostruisca il linguaggio poetico italiano. D'Annunzio è poi un consumatore onnivoro di parole, che dissemina arcaismi, tecnicismi, preziosismi. E gli si devono tra l'altro alcuni neologismi. - Crisi del linguaggio classico: Una prima rottura con il linguaggio poetico tradizionale si ha con Pascoli, con i crepuscolari e con le avanguardie. Benché Pascoli utilizzi parole colte e latinismi, e benché sappia maneggiare perfettamente la forma antica, con lui cade la distinzione tra parole poetiche e parole non poetiche. Caratteristiche dello stile di Pascoli sono il periodare franto, l'inserimento di domande, esclamazioni, risposte brevi, e più in generale l'uso di pause e frangimenti sintattici. Quanto all'avanguardia, In Italia essa si identifica sostanzialmente con il Futurismo, il quale fece appello a un provocatorio rinnovamento della forma: innovazioni tra le più vistose furono ad esempio l'uso di parole miste a immagini, l'uso di caratteri tipografici di dimensioni diverse per rendere intensità e "volume fonico" delle parole, con effetti paragonabili a quelli del collage. Il suo esponente più importante fu Marinetti. In particolare il futurismo incise notevolmente sui modi del linguaggio poetico del primo '900, con la poetica del frammento, del balenio analogico, dell'autonomia del segno. La poesia futurista inoltre si impadronì del lessico delle automobili, dei motori, della guerra moderna e meccanizzata. - Prosa poetica, lingua media, mistilinguismo: Le punte più innovative della prosa dannunziana si possono indicare nel "Notturno": la prosa del Notturno si caratterizza per il periodare breve e brevissimo, per la sintassi nominale, per i frequenti "a capo", per la presenza di elementi fonici e ritmici nella frase di andamento lirico, la prosa d'arte. Come si vede, siamo qui molto distanti dal periodare ampio e magniloquente caratteristico della tradizione italiana, e viene viceversa proposto un modello che sarà tra i più seguiti nel '900, coerente con certi risultati innovativi della prosa "visionaria" del simbolismo europeo. D'Annunzio, dunque, con il suo gusto per lo sperimentalismo si pone a chiusura di un ciclo storico e al tempo stesso inaugura nuove tendenze. L'altro grande scrittore del primo '900, Italo Svevo, è famoso per il suo rapporto non facile con la lingua italiana, determinato dalla sua provenienza da un'area periferica come Trieste. Un effetto di ciò fu l'accusa a lui rivolta di "scriver male", che lo fece soffrire. Tuttavia, chi ha almeno letto La coscienza di Zeno sa che la lingua di Svevo, nata come forma quasi "privata", va invece inserita nel contesto storico in cui è nata, e non va banalmente giudicata in base a modelli letterari della tradizione. Svevo fu un autore profondamente rivolto al nuovo secolo, anche se appartato rispetto alla letteratura ufficiale, la quale in genere non lo capì. In molti sostengono che La coscienza di Zeno sia proprio il risultato di un progetto stilistico ben pensato: come dire che monologo interiore, analisi della coscienza e flusso verbale autoironico richiedano come strumento di una particolare visione del mondo, una lingua "imperfetta". La mancata adesione ai modelli del bello scrivere, in una tradizione iperletteraria e culta come quella italiana, poteva essere persino una forza e una verginità; e forse effettivamente lo fu, nel senso che favorì una diversità e leggibilità del testo, e il successo presso il pubblico sta continuamente a dimostrarlo. Uno dei punti di riferimento per gli scrittori, specialmente dopo che Verga aveva mostrato la via per una scrittura che si avvicinasse al mondo popolare e lo descrivesse dall'interno, è il dialetto. Bisogna distinguere tra l'utilizzazione diretta e le varie miscele che sono possibili combinando dialetto e lingua. Infatti, un uso diverso del dialetto si ha negli scrittori "mistilingui", come Carlo Emilio Gadda. La caratteristica della scrittura di Carlo Emilio Gadda è infatti il 'mistilinguismo'. Basato sul rifiuto della monotonia, arricchisce il proprio stile con gli elementi più diversi: dialettismi, parole auliche e colte, termini tecnico scientifici. Questi elementi, danno luogo ad un amalgama sorprendente e composito, vivacissimo, talvolta di difficile lettura senza l'ausilio del dizionario. - Oratoria e prosa “d’azione”: Forse oggi è più difficile comprendere l'importanza dell'oratoria di tipo tradizionale, oratoria di piazza, di fronte alla folla, davanti a un pubblico in carne e ossa. È più difficile per il semplice motivo che gran parte della funzione di convincimento della retorica è affidata oggi agli strumenti della comunicazione televisiva, che richiedono strategie diverse. L'oratoria del primo '900 32 2. Una linea "bassa": quella della prosa dialettale o della prosa che usasse il dialetto così come avevano fatto un tempo i veristi; 3. una linea "alta": in cui stavano gli scrittori di indubbio valore. A sua volta, quest'ultima linea poteva essere divisa in vari gradini: sul gradino più alto stava il linguaggio iperletterario degli ermetici, che avevano usato una lingua speciale adatta solo alla poesia; sotto via via c'erano tutti gli altri, fino ai più vicini all'italiano medio (come Moravia e Calvino). E Pasolini, dove collocava se stesso? In una posizione radicalmente diversa: su di una linea a forma di serpentina che attraversava tutti i livelli, passando dal piano alto a quello basso. Su questa linea era anche Gadda, con il suo mistilinguismo, da cui Pasolini si dichiarava influenzato profondamente. La discussione continuò poi su giornali e periodici, coinvolse un gran numero di intellettuali e professori universitari. Gli interventi furono poi riuniti in un libro. Diversi anni dopo questa discussione, Pasolini intervenne ancora su temi linguistici per rivendicare una funzione rivoluzionaria dei dialetti, e per lamentare l'imbarbarimento del linguaggio dei giovani. [ L’analisi pasoliniana, in sintesi, è la seguente: secondo Pasolini, proprio in quegli anni (primissimi anni sessanta) era nato l’italiano “come vera lingua nazionale”. Prima, sempre secondo Pasolini, l’italiano era pseudonazionale a causa del totale distacco fra la lingua parlata, anzi, le varie lingue parlate sul territorio nazionale, e la lingua letteraria. L’elemento di omologazione che fa dichiarare a Pasolini l’avvenuta nascita dell’italiano come lingua nazionale, è il linguaggio tecnologico. La ragione sociale, politica, che sta alla base del fenomeno, per lui è già molto chiara e destinata a svilupparsi ancor più profondamente nel futuro: si tratta del fatto che per la prima volta, in Italia, c’è una classe dominante che tende a – e ha la forza di – identificarsi con tutta intera la società italiana: è la classe formatasi nelle industrie del Nord Italia. ] - Tendenze del linguaggio letterario: Sulla scia del rinnovamento poetico si collocano autori di eccezionale statura, come Ungaretti, Saba e Montale. In questi poeti, come anche in altri scrittori, il ‘900 sperimenta una grande varietà di soluzioni stilistiche: dall’apertura del linguaggio comune e quotidiano, alla lingua “impoetica” di Pasolini e Sanguineti, fino all’ “oltranza del linguaggio” di Zanzotto, fatta di iperletterarietà, plurilinguismo, processi fonosimbolici. - Verso l’unificazione: lingua, dialetti, immigrazione: Come abbiamo visto, Pasolini prospettava una rivoluzione nella storia dell'italiano e l'annunciava usando il suo stile immaginoso. Era indubbiamente troppo annunciare la nascita di un "nuovo italiano tecnologico" come faceva Pasolini, perché le lingue non cambiano dall'oggi al domani. Vi era stato indubbiamente un cambiamento radicale nell'Italia del '900: era nata un'Italia ben diversa da quella povera, contadina e patriarcale della prima metà del secolo. C'era stato un cambiamento al livello della scolarizzazione, prima di tutto: nel 1861 vi era in Italia il 75% di analfabeti; nel 1911 si erano ridotti al 40%; nel 1951 essi erano solo il 14%. Il progresso è stato dunque costante e non può essere giudicato se non in maniera positiva. I sondaggi ci dicono anche che è progressivamente diminuito lo spazio del dialetto, a vantaggio della lingua italiana. L'italiano è quindi in progresso, ma il dialetto non è certo morto, visto che nel 1988 quasi il 66% degli italiani lo usava più o meno costantemente nella vita familiare, e circa il 23% ne faceva un uso totale. L'uso del dialetto inoltre risulta maggiore presso i vecchi che presso i giovani, nel sud piuttosto che nel nord, nelle campagne rispetto ai capoluoghi, nei ceti inferiori rispetto ai ceti superiori. Si aggiunga che i dialetti hanno subito un processo di avvicinamento alla lingua comune: anch'essi, come ogni idioma di qualunque comunità umana, mutano nel tempo. I dialetti di oggi sono dunque più “italianizzati". - Una lingua proletaria: Negli anni '60 e '70, proseguendo una tradizione nata con le lotte operaie del primo '900, anche la fabbrica ha svolto una funzione di scuola, promuovendo e integrando nella realtà cittadina e industriale masse di origine contadina. La fabbrica è stata una scuola particolare che si è espressa con l'assemblea e con uno speciale linguaggio della politica ispirato alla cultura marxista, oggi in larga parte estinto o inattuale. Compito del delegato era imparare a parlare con i compagni, organizzare le assemblee, e anche trattare con i capi e portare avanti le rivendicazioni della base. Nelle grandi fabbriche del nord, come la Fiat, il delegato si poneva come alternativa dal basso rispetto alla vecchia figura del sindacalista della commissione interna, la cui preparazione era affidata ad appositi corsi sindacali. In quegli anni maturava anche un rinnovamento nel linguaggio della lotta politica operaia, che si staccava via via dai moduli della retorica alta, filtrata anche attraverso il linguaggio della 35 Resistenza con discese verso il basso quotidiano. Il linguaggio di questi nuovi gruppi della sinistra cerca a volte la trasgressività verbale, palesando una totale mancanza di inibizioni: era un vero e proprio linguaggio della rivolta e della protesta. Tra le varie forme che assunse il linguaggio della protesta politica, si possono ricordare i comunicati e i volantini del gruppo terroristico denominato Brigate Rosse, il quale arrivò a una grande celebrità, culminata con il rapimento e l'uccisione dell'onorevole Aldo Moro (presidente della democrazia cristiana, che era allora il partito di maggioranza relativa). In questi volantini (il volantino, clandestino o legale, fu uno strumento di comunicazione importantissimo in questi anni) colpisce soprattutto il ritorno ossessivo di una serie martellata di slogan e di formule fisse, cariche di emotività evocatrice, molto adatte alla demonizzazione degli avversari. Ricorrevano anche i termini propri della normale cultura marxista: classe, contraddizioni di classe, movimento rivoluzionario, controrivoluzione imperialista, tribunale del popolo, avanguardie comuniste combattenti, giustizia proletaria, egemonia della borghesia ecc… e fu spesso anche un linguaggio politico aggressivo e militaresco. Il linguaggio politico della tradizione moderata, invece, si sviluppava attraverso una vasta serie di espedienti atti all'elusione, alla reticenza, a l'eufemismo e all'evasività, oltre che attraverso l'abuso di tecnicismi giuridico-burocratici. - Funzione dei media: radio e televisione: La radio italiana nacque nel 1924. La televisione ha iniziato a trasmettere in maniera regolare nel gennaio 1954. La sua funzione linguistica si è così affiancata a quella dei media che già esistevano (giornali, radio, cinema…). Le trasmissioni televisive sono giunte anche nelle zone geografiche e nelle classi sociali a più basso reddito, che sono anche le zone di più tenace persistenza del dialetto: da ciò l’importanza della radiotelevisione ai fini della diffusione della lingua. Tipici della televisione sono gli spettacoli popolari di intrattenimento, le rubriche in cui vari ospiti conversano o il pubblico telefona, interviene, dibatte. Diamo per scontato che i media, la Tv per prima, sono diffusori di tecnicismi, neologismi, e luoghi comuni verbali della cronaca e della politica; e persino diffusori di nuovi nomi di persona che vengono utilizzati dalla gente nel battezzare i propri figli, o per il successo di famosi cantanti della musica leggera e rock. - I giornali: Il linguaggio dei giornali ha continuato anche nel nostro secolo a svolgere un’importante funzione, affiancato ai nuovi media, e magari proponendo un modello qualitativamente molto più alto: l’italiano dei migliori giornali, si dice, può forse costituire un piccolo argine contro la bassa qualità media di quello televisivo. Anche perché, ovviamente, si tratta di un modello scritto che si contrappone ad un prevalentemente parlato. Nel giornale troviamo una pluralità di sottocodici (politico, burocratico, economico, tecnico- scientifico) e di registri (aulico, parlato-informale, brillante…). Il luogo di maggiore originalità del linguaggio del giornale sta nei titoli; poiché il titolo, come lo slogan, deve essere costruito in modo da colpire il lettore e nello stesso tempo deve fare economia di spazio. Vi domina la frase nominale, con particolari espedienti di messa in rilievo. - La pubblicità: I procedimenti linguistici che si trovano nei titoli del giornale possono ricordare certe caratteristiche del linguaggio della pubblicità che è basato sullo slogan, e sulla “trovata”. Lo slogan pubblicitario deve colpire il lettore e deve favorire un determinato comportamento del potenziale acquirente. Deve dunque suggestionare e convincere. Ecco perché la lingua della pubblicità tende sovente a forzare, ad esempio mediante l’uso di superlativi, mediante i prefissi extra, super, iper, maxi… Non va poi dimenticato l’uso, da parte della pubblicità, della retorica e anche di espedienti simili a quelli del linguaggio poetico, da cui il messaggio pubblicitario si distingue tuttavia anche per la funzione che resta sempre quella di convincere all’acquisto. - Italiano “standard”, italiano dell’uso “medio” e cambiamento linguistico: L’italiano dell’uso medio è il nome di una categoria di italiano così come è comunemente parlato a livello non formale. La differenza rispetto all’italiano che si usa chiamare “standard” sta nel fatto che questo italiano “dell’uso medio”, in sostanza comune e colloquiale, diversamente dallo “standard”, accoglierebbe fenomeni del parlato, presenti magari da tempo nello scritto, ma generalmente tenuti a freno dalla norma grammaticale, che ha sempre tentato di respingerli ed emarginarli. Lo “standard” rappresenta dunque un italiano “ufficiale” e astratto; l’italiano “dell’uso medio” rappresenta una realtà diffusa, di cui tutti abbiamo comune esperienza. 36 - Scuola e “lingua selvaggia”: Abbiamo già parlato della diffusione della scolarità e dell’acculturazione delle classi popolari. Tappa importante di un’omologazione di tutti gli italiani fu, nel 1962, l’introduzione della scuola media unica, uguale per tutti, con obbligo scolastico fino a 14 anni. Proprio per la sua forte incidenza sociale, la scuola è diventata, a partire dagli anni ’60, l’obiettivo privilegiato degli interventi di coloro che vedevano nella forma tradizionale dell’insegnamento della lingua uno strumento di repressione di classe. Queste discussioni si sono sviluppate in un periodo caratterizzato da una forte diffusione di nuove idee linguistiche e da una forte presenza ideologica della Sinistra. Don Milani è, in questo contesto scolastico, una figura importante. Merito di Don Milani fu indubbiamente quello di mettere a nudo le condizioni di vera miseria linguistica in cui si trovavano i ragazzi delle classi povere. Egli proponeva anche una serie di interventi per adattare la scuola e l’insegnamento alle presunte necessità dei suoi allievi. Don Milani arrivava a mettere in discussione l’esistenza e la legittimità stessa di qualunque norma linguistica, o di qualunque forma “alta” di comunicazione, identificandovi un trabocchetto repressivo ai danni degli umili. Molto diverso avrebbe dovuto essere il punto di vista marxista, se si fosse rifatto a Gramsci, secondo il quale la cultura è una sola, e compito della classe operaia dovrebbe essere proprio quello di arrivare a impossessarsi di quella cultura e di quella lingua per farle proprie e per volgerle a fini rivoluzionari, ciò che Gramsci riteneva potesse realizzarsi mediante una dura selezione delle élites operaie. Gli attacchi alla maniera di Don Milani non furono gli unici rimproveri rivolti alla pedagogia linguistica corrente. Gli specialisti mossero sostanziali rilievi contro le tecniche tradizionali di insegnamento della grammatica, contro l’uso del tema quale unica forma di esercizio di scrittura, contro il mancato riferimento alla base dialettale dei discenti. Tali critiche provocarono una revisione dei metodi e degli obiettivi dell’insegnamento, rinnovandolo almeno in parte, ma a volte anche a prezzo di una grave crisi professionale degli insegnanti. Oggi si riscontrano carenze linguistiche di base non soltanto negli studenti della scuola d’obbligo, ma anche in allievi assai avanzati nel corso dei loro studi, giunti magari fino all’università senza essere in grado di rispettare le norme più elementari della grammatica e della sintassi. Bruni ha parlato a questo proposito di italiano “selvaggio”. ——————————————————————————————————————————- - Classificazione del lessico: 1. Lessico ad alto uso: parole più utilizzate e quindi soggette a più cambiamenti; 2. Lessico ad alta disponibilità: parole non frequentemente usate, ma di facile comprensione; 3. Lessico fondamentale: lessico di base che deve esserci in ogni lingua, la maggior parte derivante dal latino. È più stabile e varia difficilmente. (Lessico tecnico-specialistico; lessico comune; aulico, dialettale, regionale, popolare, gergale). Le parole nuove possono entrare in una lingua in modo: - Esogeno: prese dall’esterno, da altre lingue; - Endogeno: provengono da altre parole già esistenti nell’italiano. - Dizionari storici: Hanno lo scopo di descrivere e illustrare il lessico e i contesti d’uso della parola a lemma dell’italiano in tutta la sua storia attraverso i secoli. Si riscontrano due problemi: trovarsi di fronte ad un testo con parole che non esistono più, fuori dai dizionari sincronici; e trovarsi di fronte a una parola che ha mutato significato. 1. Battaglia (GDLI) grande dizionario della lingua italiana; —> Il problema del Battaglia è dovuto al fatto che in realtà non nasce esattamente come dizionario storico, inoltre bisogna capire quale volgare (italiano) si va a descrivere. Fino al ‘600 c’era una lingua dialettale, poi con la Crusca si prende il fiorentino. Il problema è che fino al 1612 non si sa che lingua prendere in considerazione: il Battaglia risolve il problema basandosi sulla scelta del ‘500 (Bembo), quindi privilegia comunque i testi della tradizione fiorentina, come se la scelta del ‘500 fosse 37 14% 39% 47% Lessico alto uso Lessico fondamentale Lessico alta disponibilità La Grammatichetta, composta probabilmente fra il 1438 e il 1441, è un testo di sorprendente modernità, prima di tutto perché ha il carattere di una grammatica sincronico-descrittiva. La lingua oggetto della Grammatichetta è sempre etichettata da Alberti come toscana, ma le descrizioni in essa contenute corrispondono sostanzialmente al fiorentino quattrocentesco. Com’è noto, fra la seconda metà del Trecento e il primo Quattrocento il fiorentino aveva subito una trasformazione, assorbendo dalle varietà toscane circostanti alcuni tratti ormai identificati e studiati in modo preciso: spesso questi emergono anche dal testo di Alberti, grazie alla sua capacità di cogliere la modernità della lingua che descrive (per es., l’articolo el / e, le forme verbali come sete, fusti, fussi). La Grammatichetta non è quindi soltanto la prima grammatica italiana, ma è anche la prima con un’impostazione sincronica; e per l’italiano si tratta di un’eccezione, rispetto alla tradizione successiva, basata sulla lingua degli scrittori del Trecento. Nella Grammatichetta è costante il riferimento all’uso e al parlato, senza richiamarsi all’autorità degli scrittori (gli esempi sono inventati sulla base del parlato quotidiano fiorentino quattrocentesco), con grande attenzione all’oralità. Conformemente a tutta la politica linguistica albertiana, la descrizione è «umanisticamente» fondata sul modello classico: Alberti descrive la lingua d’uso mediante le categorie applicate dai grammatici classici alla lingua latina, anche con l’intento di dare prestigio alle strutture della lingua volgare. - Ogni parola e dizione toscana finisce in vocale: solo alcuni articoli dei nomi in L e alcune preposizioni finiscono per d, n, r. - Molti nomi toscani sono uguali al latino; - In Toscana si hanno solo il genere maschile e femminile, il neutro latino infatti si trasforma in maschile. Ai nomi maschili l’ultima vocale si converte in -i, e questo si usa in tutti i casi plurali. Ai nomi femminili l’ultima vocale si converte in -e, al plurale. Alcuni nomi femminili tuttavia non finiscono in e: la mano —> le mani. E ogni nome femminile singolare che finisce in -e, al plurale finisce in -i: stagione —> stagioni. 3. Sannazzaro, “L’arcadia”: L’Arcadia è un prosimetro di Jacopo Sannazzaro (influenzato dalla poesia bucolica senese amante della mescolanza di stili e moduli poetici) scritto in volgare, formato da dodici prose e altrettante egloghe, e composto tra 1480 e 1485, ma pubblicato solo nel 1504. Si tratta quindi di un romanzo pastorale dal significato allegorico-autobiografico: il protagonista, infatti, si identifica nel poeta stesso. Intorno al 1496 Sannazzaro iniziò il periodo di revisione e ampliamento dell’opera. Cambiò questi aspetti:  • le prose vengono depurate dagli influssi del volgare napoletano e dai latinismi in favore di un toscano letterario più puro, sulla falsariga di Boccaccio, modello della prosa umanistica (Ameto, Ninfale fiesolano, Filocolo, Fiammetta); • le parti liriche risentono di una profonda revisione stilistica ispirata allo stile petrarchesco; • influenze più dirette dal mondo greco e latino. Questa opera, insomma, fonde insieme elementi tolti da Dante, Petrarca e Boccaccio, suggestioni classiche di Virgilio, Omero e Teocrito e la prosa umanistica di Leon Battista Alberti. 4. Rassettature: Solitamente si fa riferimento alla più sconvolgente rassettatura della nostra storia culturale e linguistica: quella del Decameron di Boccaccio. Una delle conseguenze del Concilio di Trento, come è noto, fu l’ideazione e la messa in opera dell’Index librorum prohibitorum. In esso la Chiesa cattolica indicava i libri proibiti, che quindi non potevano essere stampati, per impedire ab origine che fossero letti. Una delle prime vittime, fin dal 1559, fu proprio il capolavoro di Boccaccio, che finì sotto le grinfie della controriforma non tanto, o almeno non soprattutto — come si potrebbe pensare — per la parti licenziose, ma per la satira che spesso ricorre nelle pagine del Decameron nei confronti dei religiosi: frati che si spacciano per l’Arcangelo Gabriele per giacere con una donna, frati che truffano i poveri concittadini inventandosi le più fantasiose reliquie e via dicendo. L’impossibilità di poter usare il Decameron era una vera e propria tragedia, come capirono tutti (quelli più illuminati), perché si trattava di un capolavoro ormai divenuto punto di riferimento per la letteratura mondiale. Le implicazioni linguistiche andavano ben oltre la tragedia, dal momento che 40 dal 1525 Pietro Bembo, nelle Prose della volgar lingua, lo aveva proposto come modello di riferimento per la prosa nazionale, riscuotendo grande successo. • Fu così che sulla base delle indicazioni avute da Roma dal maestro del Sacro Palazzo Tommaso Manriquez, su incarico di Cosimo I, il Decameron fu sottoposto a una profonda revisione (una «rassettatura»), con lo scopo di restituire un testo accettabile dal punto di vista filologico e sul piano morale e religioso, in linea con i tagli imposti dalla censura. Questa prima versione, portata a termine nel 1573 dai cosiddetti «Deputati», guidati da Vincenzio Borghini, non contentò i censori romani; • E così si decise per un secondo tentativo, che vide protagonista proprio Lionardo Salviati: la sua rassettatura fu pubblicata nel 1582 e divenne il testo di riferimento per il Decameron. L’analisi linguistica e filologica che si presenta in questa tesi di ricerca mostra come il vero intento di Salviati sia quello di salvare più testo possibile del Decameron e anzi di ripristinarne la corretta lezione dopo l’azione grossolana di tanti editori. Per secoli, dunque, per lo più senza saperlo, si è letto un Boccaccio purgato (per altro — necessariamente — quello citato nelle edizioni del Vocabolario della Crusca). Rassettatura è la parola usata per indicare questa purga, e su una rassettatura a lungo si è informata la nostra lingua, almeno quella di coloro che a Boccaccio si sono riferiti. Insomma, come si vede, siamo di fronte a una bellissima storia, di umana follia, e di umana carità, che non può che affascinare. 5. Istruzioni per lo spoglio, 1590, Filippo de’ Bardi (stile fiorentino): 6. Formazione della lingua dell’architettura, “De architectura” di Vitruvio: La prima impressione che si ricava dalla lettura dell’opera di Vitruvio è quella di un linguaggio tecnico, sobrio e preciso. La scienza latina non registra molti rappresentanti e questi vengono trascurati per un preconcetto, come se la cultura e la scienza fossero in antitesi e non complementari nella crescita e nello sviluppo della civiltà classica. Vitruvio in questa opera ricava vocaboli della lingua greca, usa espressioni e termini tecnici che mostrano la natura popolare del suo linguaggio ma, nel contempo, manifestano un alto livello di elaborazione stilistica. Quando volgarissimi e tecnicismi sono insufficienti, ricorre a neologismi o amplia il significato di sostantivi già esistenti e largamente in uso. Lo scrittore si adoperò per tradurre in latino vocaboli greci: il bilinguismo a Roma era un aspetto fondamentale della cultura latina che riconosceva alla lingua greca una netta superiorità; tale superiorità era sentita maggiormente in alcuni settori come la scienza, architettura, medicina, in cui la civiltà greca aveva dato il meglio di sé, imponendo un lessico ricco e preciso a tal punto che nemmeno il mondo moderno è riuscito a farne a meno. 7. Rinunzia, Alessandro Verri: Nell'articolo «Rinunzia avanti notaio al Vocabolario della Crusca», pubblicato nel 1764 sulla rivista "Caffè", l'autore, Alessandro Verri, espone in 7 chiari e semplici punti la rivendicazione del diritto a formulare nuove norme per una nuova lingua, andando contro la Crusca. Dopo una breve, ma solenne, introduzione circostanziale, l'argomentazione si snoda nei diversi passi. Ma perché gli intellettuali del “Caffè” entrano in polemica con il vocabolario degli accademici della Crusca? Entrano in polemica perché gli intellettuali del Caffè non vogliono limitarsi nell’uso di parole nuove, ne essere legati senza possibilità di svincolarsi alla grammatica italiana, volendo invece essere liberi di usare parole nuove, anche straniere, se quest’ultime esprimono meglio il concetto o l’idea da trasmettere. Verri, infatti, reclama la facoltà di poter coniare nuovi termini e forme della lingua, così come hanno potuto fare i grandi autori trecenteschi Dante, Petrarca, Boccaccio e della Casa. Cita inoltre il poeta latino Orazio che, come l'autore milanese, protesta per l'innovazione linguistica. Tuttavia, viene sottolineato che non vogliono “snaturare” la lingua, bensì arricchirla di nuovi termini, usandoli sempre con giusto ritegno. DUNQUE: in cosa consiste la proposta di Verri? Consiste nella volontà di essere liberi di creare parole nuove/innovative/moderne e di poter italianizzare parole da lingue diverse se queste esprimono meglio l’idea. Inoltre dichiara che la lingua non è mai perfettamente giunta alla perfezione, quindi va migliorata e ampliata sempre, prendendo il “buono” da ogni parte facendolo, se utile, nostro. 41 Questo scritto è dunque una riprova della grande apertura mentale degli illuministi italiani del secondo Settecento, i quali si battono per nuovi valori e nuove idee. 8. Saggio sulla filosofia delle lingue, Cesarotti (‘700): 9. La lingua tecnico-scientifica da Leonardo a Galileo: Leonardo ha lasciato tracce della sua riflessione linguistica in varie pagine dei suoi manoscritti. Una tra queste, quella in cui descrive il volgare evidenziando la sua potenzialità come strumento di comunicazione tecnico-scientifica: “I’ho tanti vocavoli nella mia lingua materna, ch’io m’ho piuttosto da doler del bene intendere le cose che del mancamento delle parole colle quali io possa bene esprimere il concetto della mente mia” (Leonardo da Vinci 1980-1985: c. 62v). La consapevolezza delle potenzialità del volgare è però affiancata dall’esigenza di estendere la propria competenza anche alla lingua dotta. Di questo recupero Leonardo lascia traccia nella costellazione di materiali linguistici che testimoniano lo sforzo autodidattico di acquisire i rudimenti della grammatica latina e di ampliare il repertorio lessicale di registro alto. Particolarmente interessanti sono le liste di latinismi presenti nel codice Trivulziano (circa 8000 parole) e in alcune carte dell’Atlantico (con rarissime tracce in altri manoscritti), che servono a Leonardo per assimilare la componente lessicale dotta che manca alla sua formazione e che integra e completa il repertorio volgare, soprattutto per quanto riguarda gli astratti. In piena sintonia con quanto emerge dalle riflessioni metalinguistiche sparse nelle carte, la lingua di Leonardo coincide con il fiorentino del suo tempo, anche se non mancano intromissioni settentrionali legate al suo soggiorno milanese. Da un punto di vista sintattico si riscontrano alcune caratteristiche vicine all’oralità e un andamento spesso dialogico della trattazione, che si inserisce pienamente nella tradizione di questa tipologia di scrittura tecnica. I settori più interessanti sono però senza dubbio quelli del lessico e dell’organizzazione testuale. Nel campo artistico e tecnico, il volgare materno di Leonardo può avvalersi della ricca ed espressiva terminologia delle botteghe artigiane dove egli si è formato, ma, in altri settori, a questo serbatoio lessicale si affianca quello della tradizione medievale, di derivazione greca e latina, ma anche araba, come nel caso dei termini dell’anatomia. Ma il volgare materno può anche essere plasmato a piacimento per riempire i vuoti lessicali, con l’invenzione di termini precisi sulla base del più antico e universale metodo di creazione di nomenclature tecniche: la metafora, l’attribuzione di un nuovo significato a una parola d’uso comune, sulla base dell’analogia di funzione o di forma, seguendo il metodo che sarebbe poi stato sistematizzato da ➔ Galileo Galilei per la lingua scientifica. Per la maggior parte il lessico tecnico di Leonardo è del resto costituito da un numero ristretto di termini, molti dei quali comuni: una sorta di ‘lessico di base’ formato da mattoni semplici, che costituiscono l’ossatura della sua lingua tecnico-scientifica. 10. Francesismi nel ‘700: 11. La posizione di Ascoli, proemio e testo: 12. L’idioma gentile, De Amicis (1905): Opera che descrive l’esperienza linguistica dell’Italia nell’Ottocento e nel Novecento, trattata da Edmondo De Amicis, approfondendo e puntualizzando le molteplici identità locali della lingua al fine di favorire le condizioni di un’inclusione sociale nel territorio italiano. —> La scommessa di De Amicis, valida ancora oggi, è stata quella di guardare alle diversità e alle difficoltà in termini di risorse e non di limiti, di possibilità e di occasioni per sperimentare nuove forme di condivisione e di arricchimento nell’ottica di una convivenza critica e significativa della lingua italiana come collante comune. De Amicis argomenta la questione linguistica e sociale attraverso una lunga riflessione sulla lingua italiana, con l’intenzionalità di conseguire un’aderenza inclusiva per l’intera popolazione, superando i vari dialetti diversificati nelle varie regioni. La raccolta di narrazioni linguistiche differenti su tutto il Paese permette di comprendere ogni caratteristica ambientale e di esaminare l’«arduo problema» di una lingua nazionale che conduca alla promozione di un’unica voce di vita comune e di un nuovo senso di appartenenza.
 42 - ESAME SCRITTO, PAOLA MANNI: - “De vulgari eloquentia”: Nell’ambito della storia linguistica italiana viene tradizionalmente riconosciuto a questa opera un ruolo “istituzionale”. Essa per la prima volta propone in termini problematici una riflessione sulla situazione linguistica italiana, proclamando l’esigenza di un’ideale unitario. Chiamiamo lingua volgare quella lingua che i bambini imparano ad usare da chi li circonda quando incominciano ad articolare i suoni, senza bisogno di alcuna regola. Abbiamo poi un’altra lingua di secondo grado, che i Romani chiamarono “grammatica”; sono pochi quelli che pervengono al suo pieno possesso. Di queste due lingue la più nobile è il volgare: intanto perché è stata adoperata per prima dal genere umano; poi perché il mondo intero ne fruisce; infine per il fatto che ci è naturale, mentre l’altra (latino) è, piuttosto, artificiale. La contrapposizione tra il volgare lingua naturale e il latino lingua regolata era presente anche nel Convivio; ora però si perviene a una scala di merito opposta e si afferma che: il volgare è delle due lingue la più nobile in virtù della sua priorità nel tempo, della sua diffusione e della sua naturalità. Se nel Convivio si intende celebrare la superiorità del latino come modello d’arte; nel De vulgari eloquentia si afferma la superiorità del volgare in quanto strumento primario della comunicazione tra gli uomini. - “Convivio”: Opera scritta in volgare proprio perché Dante aveva il desiderio di essere più largamente giovevole e raggiungere con la propria opera un pubblico più vasto; quindi un’istanza di divulgazione più ampia ed efficace. —> “Lo latino avrebbe a pochi dato lo suo beneficio, ma lo volgare servirà veramente a molti”. Dante conclude il Convivio con parole solenni che ribadiscono la profonda fiducia nel nuovo mezzo linguistico: “Questo sarà luce nuova, sole nuovo, lo quale sorgerà là dove l’usato tramonterà, e darà lume a coloro che sono in tenebre ed in oscuritade, per lo usato sole che a loro non luce”. - “Commedia”: Appare importante la testimonianza dell’epistola a Cangrande: nell’epistola il termine “commedia” è giustificato sulla base di un’argomentazione contenutistica, il felice esito verso cui è orientata la vicenda, contrastivamente alla “tragedia”, caratterizzata da un’evoluzione drammatica degli avvenimenti. —> “Se guardiamo all’argomento, all’inizio essa è orribile e fetida, dato che si tratta dell’Inferno, ma alla fine è prospera, desiderabile e gradita, dato che si tratta del Paradiso; se guardiamo al modo di esprimersi, questo è dimesso e umile, poiché è il linguaggio volgare”. Il termine “commedia”, quindi, consentirebbe a Dante di dare al poema una definizione contrastiva rispetto alla tragedia virgiliana. La successiva aggiunta di Divina si addice sia all’altezza della materia trattata, sia all’eccezionale livello artistico dell’opera. Per quanto riguarda l’esaltazione del volgare, la Commedia è estremamente fondamentale: nello straordinario viaggio dantesco il volgare è chiamato a descrivere il mondo umano e divino, dalla realtà più sordida alla visione metafisica più esaltante, adeguando via via i propri mezzi alla materia trattata. —> Questo proprio per mettere in risalto la sua eccezionale ricchezza e versatilità espressiva. 45 46
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