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riassunto manuale pilati movimenti sociali e azioni di protesta, Sintesi del corso di Sociologia Politica

riassunto manuale katia pilati movimenti sociali e azioni di protesta, mancano gli ultimi capitoli

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 12/10/2021

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Scarica riassunto manuale pilati movimenti sociali e azioni di protesta e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Politica solo su Docsity! 1 1.0 - Movimenti social 2 1.1 - Introduzione Ci accingiamo ora ad illustrare alcune caratteristiche delle azioni collettive di protesta, riconducendo alcuni fenomeni sociali a questo unico quadro concettuale e identificando i movimenti sociali come specifiche dinamiche di azioniu collettive di protesta. Parleremo inoltre brevemente del concetto di rivoluzione e della diffusione del concetto di riot, per chiarire la complessità associata all'analisi delle proteste in termini di azioni collettive ed evidenziare allo stesso tempo la semplificazione ideologica associata all'uso di altre categorie, quali appunto il riot. , rivoluzioni, riots 1 1.2 - Le azioni collettive di protesta: alcune caratteristiche Le azioni collettive di protesta sono le unità di base di fenomeni quali movimenti sociali, ribellioni, cicli di protesta, rivoluzioni: ne andiamo quindi ad illustrare alcune caratteristiche fondamentali, partendo dalla definizione data nell'introduzione al manuale. Innanzitutto possiamo desumere che le azioni collettive di protesta rappresentino gli sforzi di un gruppo, poiché svolte da un insieme di individui e attori collettivi che si riconoscono come membri appartenenti a un gruppo. Individui e gruppi sociali agiscono unitariamente perché si sentono appartenere a una stessa comunità o a uno stesso gruppo sociale. Ciò che caratterizza inoltre l'azione collettiva rispetto ad altre forme di aggregazione sociale è sia la sua natura intenzionale che il suo orientamento verso altri attori, e in particolare verso le élite politiche. In secondo luogo, in quanto svolte da gruppi, le azioni collettive di protesta implicano la presenza di attori, individuali e collettivi, coordinati tra loro. Tendono quindi ad essere organizzate o ad emergere grazie alla presenza di qualche forma organizzativa, o grazie a leader e imprenditori della protesta, oppure ancora negli spazi online, attraverso l'uso dei media digitali. In terzo luogo, gli attori coinvolti in azioni collettive riconoscono e perseguono un obiettivo comune: la presenza di un'identità condivisa tra attori e gruppi che si coordinano tra loro è una caratteristica specifica di dinamiche di azione collettiva durevoli nel tempo. Per Pizzorno [1994], un movimento sociale è un modo di offrire certezze di valore, e tuttavia realizzare singole azioni collettive di protesta non necessita di una base valoriale comune in quanto gli attori possono formare coalizioni ad hoc capaci di coordinarsi su specifici obiettivi raggiungibili attraverso azioni contingenti e di breve durata, come sottolineato da Diani [2008]. In ultima istanza, essendo orientate ad un cambiamento o a resistere ad un cambiamento, le azioni collettive di protesta implicano un conflitto. Le relazioni che si instaurano tra gli attori protagonisti delle rivendicazioni, i cosiddetti challengers, e gli attori a cui si indirizzano le proteste, sono di natura conflittuale, cioè implicano interazioni intenzionali tra due o più parti in competizione tra loro per il controllo di alcune risorse. Mediante un'azione collettiva di protesta, i challengers avanzano rivendicazioni tese al riconoscimento dei propri interessi o identità contro gli interessi, le categorie e le identità dei loro targets o contro quelle dominanti e socialmente riconosciuta: i tipi di cambiamenti auspicati e di conflitti generati possono quindi essere di natura politica, orientati quindi alle élite e alle istituzioni politiche, oppure di natura culturale, orientati a generare trasformazioni riguardanti la dimensione simbolica e le modalità dominanti di interpretazione della realtà. 1 1.3 - I movimenti sociali 1 movimenti sociali si sviluppano con l'emergere della società moderna, con la rivoluzione industriale e quella francese. Prima dell'Ottocento, il repertorio delle azioni è caratterizzato da mobilitazioni a carattere locale, spesso appoggiate da élite e notabili del luogo. Tilly mostra che nel XV e nel XVI secolo le rivendicazioni tendono ad essere orientate al controllo e alla gestione delle risorse e sono identificate come rivendicazioni di tipo competitivo, o competitive claims: vendette collettive, saccheggi, confische di prodotti, attacchi ai venditori. Dal XVII al XIX secolo prevalgono le reactive claims, rivendicazioni di tipo reattivo tese a ristabilire e/o rivendicare i diritti offesi di specifici gruppi sociali, orientate a resistere alle richieste delle nuove istituzioni dello Stato-nazione e alla crescita dei mercati nazionali che diventano prioritari rispetto alle necessità locali, sfociando in ribellioni e rivolte contro le tasse nazionali o la coscrizione obbligatoria. Dal XIX al XX secolo prevalgono infine le rivendicazioni di tipo proattivo, o pro-active claims, attraverso le quali i gruppi chiedono nuovi diritti e risorse di cui non hanno mai goduto: i movimenti sociali segnano un cambiamento qualitativo nell'azione collettiva visto che gli individui e i gruppi iniziano ad intervenire ripetutamente negli affari pubbli ad azioni cosmopolite, coordinate su larga scala, cumulative e utilizzate da vari gruppi per perseguire scopi diversi, autonomi e indipendenti dalle élite locali. In particolare, la graduale nazionalizzzione della vita politica e la costruzione degli Stati moderni sono direttamente associati alla nascita dei movimenti sociali. grazie 1 1.31 - Le caratteristiche di un movimento sociale Le definizioni esistenti per identificare un movimento sociale sono varie, poiché le azioni collettive di protesta prevalenti un certo periodo socio-storico condizionano le concezioni teoriche prevalenti. Soltanto grazie al movimento per i diritti civili statunitense ed europeo e allo sviluppo dei movimenti operai e studenteschi, tra gli Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, i movimenti iniziano ad essere studiati come fenomeni specifici e concepiti come insieme di azioni collettive di protesta intenzionali, organizzate e razionali. McCarthy e Zald [1977], all'interno della cosiddetta "teoria della mobilitazione delle risorse" o Resource Mobilization Theory, identificano i movimenti sociali come un insieme di opinioni e di credenze che rappresentano preferenze orientate al cambiamento di alcuni elementi della struttura sociale e/o della distribuzione delle risorse in una società, enfatizzando la natura razionale e il carattere strumentale dei movimenti sociali. Gli autori più vicini alla tradizione del modello del processo politico e che analizzano la "struttura delle opportunità politiche", o Political Opportunity Structure, tendono a privilegiare una definizione di movimento sociale in cui si evidenzia il rapporto conflittuale tra élite e il ruolo delle opportunità definite dal contesto esterno. La definizione di movimento sociale di Tilly [1995] mette in evidenza la presenza di azioni organizzate, durevoli nel tempo, orientate verso le autorità, da parte di gruppi esclusi dai canali istituzionali della rappresentanza politica. Tra gli autori italiani, in contrasto con la letteratura americana, che legge i movimenti sociali in termini di risorse e opportunità, sono Melucci [1982] e Pizzorno [1994] ad evidenziare il ruolo dell'identità collettiva. In particolare, Melucci sottolinea le attività quotidiane dei movimenti, la loro dimensione strutturale, la presenza di reti tra i gruppi e l'importanza del conflitto simbolico implicito nell'innovazione culturale apportata dai movimenti. Infine, alcuni autori hanno tentato di mettere in evidenza le dimensioni trasversali ai vari approcci. Della Porta [1996] ha così definito un movimento sociale come "attori collettivi che attraverso uno sforzo organizzato e sostenuto da reti di individui e gruppi dotati di una comune identità si mobilitano in campagne di protesta per la realizzazione di mutamenti sociali e/o politici". Di seguito tratteremo gli elementi fondamentali dell'analisi di Diani [1992], che identifica tre dimensioni che caratterizzano le varie definizioni dei movimenti sociali: la presenza di un'identità collettiva condivisa, di una rete tra attori, e di un conflitto. 1 1.32 - Il conflitto I movimenti sociali sono dinamiche conflittuali caratterizzate dalla presenza di forme di azioni non istituzionali, le proteste, e come detto sono portatori di un modello alternativo di società e di conflitti che possono essere di natura politica, orientati contro le élite, e/o culturale, in contrapposizione alle categorie e alle interpretazioni della realtà sociale dominanti. In alcune fasi del ciclo di vita di un movimento sociale le proteste possono tuttavia diventare marginali e inoltre le proteste non sono le uniche attività svolte dai gruppi coinvolti in movimenti sociali: questi possono animarsi anche di attività e scambi interni, quali collaborazioni tra organizzazioni, scambio di informazioni e risorse, condivisione di membri. 1 1.33 - L'identità collettiva I movimenti sociali sono rappresentati da gruppi e individui che si definiscono e si percepiscono come appartenenti alla stessa collettività grazie alla presenza di sentimenti di appartenenza condivisi: questi rappresentano la cosiddetta identità collettiva. Gruppi e individui che partecipano ai movimenti sociali si sentono appartenere alla stessa comunità, anche se con gradi di intensità diversi: se una coalizione si può formare anche in seguito all'interesse comune dei gruppi su un tema specifico o perché gli attori condividono un medesimo obiettivo, al contrario il livello di condivisione di identità collettiva nei movimenti sociali è elevato. Questa permette ai gruppi e agli individui coinvolti in dinamiche di movimento di agire in maniera unitaria e durevole nel tempo al di là degli specifici interessi contingenti dei singoli attori e, allo stesso tempo, di identificare un avversario contro il quale indirizzare le rivendicazioni, contrapponendo il "noi" dell'identità collettiva al "loro". L'identità collettiva ha una natura dinamica, non è stabile, e dipende dal tipo di relazione che sussiste tra i vari attori che in essa si riconoscono: è quindi prodotta e sostenuta grazie alla presenza di una fitta rete di relazioni, continue e prolungate nel tempo, ed emerge grazie alle interazioni tra i vari attori e alla presenza di gruppi quali le organizzazioni di movimento le autorità e le élite politiche: le cosiddette folle si contrappongono alle pretese e all'invadenza da parte dello Stato- nazione, che prevarica sui bisogni e sulle necessità locali. Le evidenze dimostrano anche la presenza di solidarietà condivise dagli attori coinvolti nelle proteste, che si riconoscono e agiscono consapevolmente in quanto gruppi sociali contro le posizioni e le azioni delle élite. L'intenzionalità dell'azione, la presenza di solidarietà e la contrapposizione delle azioni contro le élite sono tutti elementi costitutivi delle azioni collettive di protesta. 2 1.3 - Le teorie del collasso sociale L'analisi delle proteste come azioni che emergono spontaneamente e come sommatoria di stati individuali si protrae durante il XX secolo attraverso le teorie del collasso sociale, o social breakdown theories, fino agli Anni Settanta. Queste concepiscono i movimenti sociali come forme di comportamento collettivo accanto ad altri comportamenti, quali il panico, le mode, i tumulti, i culti religiosi. In tal senso, sono una variante del funzionalismo, poiché percepiscono i conflitti come devianti, irrazionali, derivati del cattivo funzionamento di varie istituzioni sociali: in quanto disfunzionali all'equilibrio sociale, vanno marginalizzati. Le cause sono quindi associate al collasso sociale riconducibile alla presenza di tensioni sociali o alla mancanza di riferimenti normativi. Ralph Turner e Lewis Killian collegano i movimenti sociali a comportamenti che derivano dall'ambiguità delle norme di riferimento. Neil Smelser, un allievo e collaboratore di Talcott Parsons, associa i movimenti sociali alla presenza di tensioni sociali. In generale, secondo questi autori i movimenti sociali sono propri di individui che appartengono a gruppi sociali marginali, oppure senza norme di riferimento a cui ancorarsi: le teorie del collasso sociale pongono al centro delle spiegazioni l'individuo atomizzato, isolato ed escluso. 2 1.31 - Il ruolo delle credenze e delle tensioni sociali Secondo Ralph Turner e Lewis Killian [1957] il comportamento collettivo non istituzionale deve essere analizzato attraverso lo stesso modello utilizzato per esaminare le forme di comportamento istituzionale. Entrambi criticano la teoria del contagio di Le Bon sostenendo che i partecipanti agli eventi collettivi non perdono la loro razionalità, ma agiscono secondo alcune linee guida che sono appropriate alla situazione vissuta e si comportano come se esistessero sistemi sociali stabili e ordinati, dando per scontata la realtà attraverso l'interiorizzazione di valori, norme e ruoli pre- esistenti e prestabiliti. Tuttavia, l'ordine sociale viene percepito in maniera vaga, ambigua e confusa: emergono così nuove norme che gli individui adottano come guida anche se potrebbero essere in contraddizione con il comportamento considerato "normale". Il cambiamento di un dato ordine normativo facilita così l'emergere di comportamenti extra-istituzionali. | movimenti hanno quindi specifiche proprietà, processi e logiche interne: sono forme non routinarie, emergenti e nuove di comportamenti collettivi, che non possono essere spiegati né da forme precedenti di organizzazione sociale, né da norme o culture pre-esistenti. Secondo la prospettiva di Neil Smelser [1962] i comportamenti collettivi sono attività attraverso le quali gli individui tentato di ricostruire il loro ambiente socio-culturale, sulla base di ciò che è definita credenza generalizzata: "un'azione non istituzionalizzata, portata avanti in nome di una credenza di questo tipo, costituisce un episodio di comportamento collettivo". Estendendo il concetto di moivmento sociale di Blumer, che intende i movimenti sociali come comportamenti collettivi che implicano attività spontanee, sregolate e volte a stabilire un nuovo ordine, Smelser sottolinea che i movimenti collettivi sono tesi a modificare norme e valori: sono tentativi di ristabilire, proteggere o creare nuove norme in nome di una credenza generalizzata che inducono gli attori ad adottare comportamenti non istituzionali. L'approccio di Smelser, detto "del valore aggiunto", implica una strutturazione logica delle determinanti sociali che contribuiscono con il loro "valore" alla spiegazione del comportamento collettivo: la propensione strutturale; la possibilità degli attori di disporre delle risorse; la presenza di tensioni sociali; lo sviluppo di credenze generalizzate in seguito alle quali la minaccia viene vista come imminente; la mobilitazione degli individui in nome di tali credenze; il controllo sociale. Il tipo di tensione che può dar vita a sentimenti rivoluzionari è variabile, e anche l'incoerenza tra gli standard normativi e le condizioni sociali vissute, oppure l'emergere di nuovi valori, possono offrire la base per lo sviluppo di movimenti. Tuttavia, le tensioni sociali non conducono necessariamente allo sviluppo di movimenti e possono implicare anche altri comportamenti: l'insorgenza effettiva delle rivoluzione dipende anche da altri fattori, tra cui i comportamenti assunti dalle agenzie di controllo sociale. In generale, il comportamento collettivo si sviluppa in contesti caratterizzati da discontinuità che producono tensioni, disorientamento e anomia e indeboliscono i vincoli sociali degli individui. Le rivendicazioni permettono agli individui di identificarsi di condividere la percezione sulla fonte delle tensioni, di individuare risposte appropriate. La partecipazione ai movimenti è una risposta non istituzionalizzata a una situazione di crisi da parte di individui che soffrono di deprivazione e tensione. 2 1.4 - Il ruolo delle frustrazioni: la teoria della deprivazione relativa La teoria della deprivazione relativa è sviluppata in un testo di Ted Gurr [1970] che si focalizza sulla violenza politica, definita come: "attacchi, all'interno di una comunità politica, da parte di una collettività contro un regime politico". Il concetto di deprivazione relativa equivale alla discrepanza percepita tra le aspettative degli individui rispetto a un certo valore, value expectations, e le possibilità e condizioni reali, value capabilities, di ottenerlo o mantenerlo dati i mezzi a disposizione. Con "valori" si fa riferimento a beni di vario tipo, condizioni sociali e politiche, eventi, oggetti e stati desiderati, quali la possibilità di accedere a posizioni di potere e i desideri di partecipare ai processi di decisione collettiva. La deprivazione relativa può essere drastica e riguardare eventi improvvisi, oppure essere lenta e riferirsi a un declino progressivo: ad ogni modo, non è una condizione oggettiva, ma subentra quando gli individui mettono in discussione le proprie condizioni in contrapposizione a ciò che si aspettano di poter o dover avere. Maggiore è l'intensità dello scontento, tanto più probabile sarà la partecipazione ad atti violenti. Come nell'Ottocento, l'Occidente è preoccupato per la violenza politica che va diffondendosi durante gli Anni Sessanta, tra il post-colonialismo, la nascita del movimento per i diritti civili e l'intervento militare statunitense in Vietnam. La teoria acquisisce così fondamenta psicologiche e si sviluppa considerando lo stato individuale: una condizione mentale patologica porta ad atteggiamenti di aggressività. Una delle principali cause della violenza è la disgregazione sociale, in seguito alla quale i gruppi sociali di riferimento e le solidarietà tra comunità perdono la loro funzione di integrazione: Gurr sottolinea la somiglianza tra i fattori che conducono alla violenza collettiva e quelli che provocano altre forme devianti di comportamento anomico. In sintesi, il livello di deprivazione relativa è collegato alla violenza politica attraverso lo stato mentale degli individui e la presenza di frustrazioni che si trasformano in atteggiamenti aggressivi. Le dinamiche sociali che implicano la presenza di azioni violente compaiono in seguito a una "malattia mentale" diffusa in tutta la popolazione. Un fenomeno collettivo è quindi spiegato come sommatoria di attributi individuali collegati a stati mentali di frustrazione e aggressività. 2 1.41 - Lo sviluppo della frustrazione Gurr illustra tre possibili sviluppi storici capaci di portare gli individui a stati di deprivazione relativa, identificati nei processi di aspirational ddeprivation, decremental deprivation e progressive deprivation. Il primo percorso corrisponde alle frustrazioni che emergono in seguito ad aspirazioni crescenti che si allontanano sempre più dalle condizioni vissute realmente dagli individui: esperire una situazione di deprivazione relativa significa avere la percezione di non disporre dei mezzi necessari per ottenere nuove aspettative e desideri. Il secondo percorso è identificato come decremental deprivation. Le aspirazioni rimangono costanti, ma c'è un'improvvisa caduta negli standard di vita degli individui: il sentimento di frustrazione è strettamente collegato alla degenerazione delle condizioni vissute. Il terzo percorso è infine conosciuto come progressive deprivation, ed inizia con una crescita parallela delle condizioni vissute e delle aspettative: un periodo di prosperità e progresso induce un'espansione delle aspettative per il futuro. Questo percorso di crescita è tuttavia interrotto dal progressivo allontanamento delle condizioni vissute rispetto alle aspettative: le aspirazioni continuano ad aumentare, mentre le condizioni di vita rimangono costanti. L'evidenza empirica non conferma tuttavia le ipotesi di Ted Gurr. Se consideriamo ad esempio il primo percorso, ci dovremmo aspettare che nei paesi del Sud del mondo ci siano le condizioni per la diffusione di violenza politica e rivoluzioni, e tuttavia questo non è avvenuto e non avviene se non in seguito alla presenza di alcuni fattori. Lo stesso vale prendendo in esame il secondo percorso e applicandolo alla recente crisi economico-finanziaria. La più importante prova apportata contro la teoria della deprivazione relativa concerne però la società degli Stati Uniti degli Anni Cinquanta, un decennio caratterizzato da una significativa espansione è conomica. In tali condizioni ci sarebbero dovuti essere meno eventi di protesta, e invece proprio in quegli anni si osservò una violenza sorprendentemente elevata, che rimase in progressiva crescita fino alla fine degli Anni Sessanta, nonostante l'entrata in vigore del civil rights act e del voting rights act. Non sussiste pertanto un legame tra il livello di deprivazione oggettiva, la percezione di deprivazione relativa a livello soggettivo e l'emergere di movimenti sociali. 2 1.5 - Critiche alle teorie del collasso sociale e della deprivazione relativa Dal punto di vista teorico, una delle maggiori critiche indirizzata specificamente alla teoria della deprivazione relativa è collegata al bias psicologico. Alcune ricerche sottolineano la mancata considerazione del ruolo dellle variabili strutturali: le rivoluzioni sono descirtte come una manifestazione di frustrazioni incontrollabili, di atteggiamenti aggressivi o di dissonanza cognitiva. Manca un'analisi dei fattori che politicizzano lo scontento e portano l'individuo all'azione collettiva piuttosto che a qualche altro tipo di risposta: la frustrazione non è sufficiente per mobilitare gli attori individuali. La seconda critica riguarda il livello dell'analisi: la teoria ha basi psicologiche e la sua unità di analisi è l'individuo. Il comportamento collettivo è percepito come la sommatoria dei comportamenti individuali di unità indipendenti e isolate l'una dall'altra: la deprivazione relativa di una collettività è il livello medio di deprivazione vissuta dai singoli individui. Autori come Charles Tilly [1978] considerano invece le azioni collettive come derivanti da ampie solidarietà condivise, e i gruppi come entità con alcune proprietà trascendenti dai singoli individui. Una terza critica riguarda l'assenza di analisi delle strutture sociali intermedie collegate all'organizazione dei gruppi. Se, come abbiamo già visto, secondo Tilly le azioni collettive di protesta del XIX riguardano per la maggior parte conflitti legati al potere e alla formazione dello Stato moderno, allora le azioni collettive non sono connesse direttamente alla miseria e alle deprivazioni economiche, né sono la conseguenza di tensioni anomiche: esse sono azioni intenzionali e politiche. Nel breve periodo, rapidi cambiamenti sociali deprimono il livello di conflitto sociale in quanto indeboliscono i mezzi a disposizione dei challengers utili a mobilitare le risorse necessarie per l'azione collettiva dei gruppi e dare la possibilità di organizzarsi. 2 1.6 - Comportamenti collettivi e azioni collettive: quale differenza? Vi sono alcune caratteristiche che distinguono i comportamenti collettivi dalle azioni collettive di protesta. In primo luogo, il comportamento collettivo è caratterizzato dalla presenza di aggregati sociali di individui, mentre l'azione collettiva è una caratteristica di gruppi sociali. Gli individui che formano aggregati sociali non presentano sentimenti di condivisione identitaria: sono accomunati da tratti esterni, ma non si riconoscono in un gruppo d'appartenenza comune. Gli individui che partecipano ad azioni collettive sono invece accomunati da interessi o forti sentimenti identitari: in quanto gruppi sociali, agiscono unitariamente. La seconda differenza riguarda il grado di coordinamento delle azioni: gli individui che partecipano alle azioni collettive di protesta lo fanno intenzionalmente e in maniera organizzata, e al contrario gli individui che si aggregano in comportamenti collettivi agiscono in maniera spontanea. In terzo luogo, il comportamento collettivo tende ad essere limitato nel tempo, in un'interazione tra individui, sporadica e circoscritta. | gruppi sociali che sostengono azioni collettive tendono ad essere sostenuti da relazioni continuative e durevoli tra i membri che alimentano identità e interessi condivisi. Una quarta differenza riguarda i confini. Un gruppo sociale tende ad avere confini netti che delimitano la membership e che dipendono dalla stabilità e dal grado di formalizzazione dei gruppi, elevato nel caso di organizzazioni, più limitato nel caso di gruppi informali. Infine, le azioni collettive di protesta presuppongono la definizione chiara degli antagonisti e degli attori in contrapposizione tra loro, di un conflitto, di un "nemico" a cui contrapporsi per raggiungere obiettivi di cambiamento sociale e politico. Questo non vale per i comportamenti collettivi. La teoria della mobilitazione delle risorse La teoria della mobilitazione delle risorse (Resource Mobilization Theory) è la prima teoria delle azioni collettive di protesta a mettere i movimenti sociali al centro della propria analisi. La RMT emerge in connessione con il dominio della teoria della scelta razionale (Rational Action Theory), che assume la razionalità dei movimenti sociali e, in contrapposizione al funzionalismo, presuppone che gli attori agiscano in base ai loro interessi, in maniera strategica, e scelgano le azioni che implicano i minori costi e i maggiori benefici. Se è vero, secondo la RAT, che un individuo abbia preferenze e interessi che guidano le sue scelte, allora i movimenti interessi. Tuttavia, attraverso un costante lavoro di negoziazione, esse riescono a trovare un terreno comune che forma la base delle rivendicazioni condivise. Gli obiettivi di un movimento sociale coincidono quindi con gli obiettivi di uan singola organizzazione, poiché essi sono composti e rappresentati da varie SMO. Infine, l'insieme delle industrie di movimento sociale è definito Settore dei movimenti sociali, o Social Movements Sector. Questo comprende varie SMI che rappresentano tutte le strutture delle preferenze presenti in una certa società. Alcune ipotesi Come per Tilly, il problema principale in McCarthy e Zald concerne le capacità delle SMO di mobilitare le risorse per poter agire in azioni collettive. Vari problemi ostacolano tale processo. In primo luogo, ogni organizzazione ha un insieme di interessi che possono variare in base agli obiettivi specifici per i quali lavora. Per poterli raggiungere, le organizzazioni devono possedere più di una risorsa: legittimazione, denaro, infrastrutture per potersi coordinare, lavoro da parte di staff volontario o pagato. Gli autori distinguono così tra le "masse" che controllano poche risorse e le "élite" che, al contrario, hanno la possibilità di controllare molte risorse all'interno di una società. Se le risorse sono limitate, le SMO devono competere con altre organizzazioni al fine di poterle ottenere, e si trovano ad affrontare anche il dilemma rispetto ai criteri di allocazione. Una prima ipotesi rispetto alla mobilitazione delle risorse è che, se le risorse disponibili da parte della popolazione aumentano, crescono anche le risorse disponibili ai SMS. L'evidenza empirica dimostra che maggiore è il reddito di una popolazione, maggiore è l'ammontare delle donazioni verso organizzazioni e movimenti sociali. La diffusione durante gli Anni Sessanta di molte SMO negli Stati Uniti è riconducibile alla maggiore disponibilità di risorse finanziarie da parte della popolazione. Gli autori ipotizzano anche che maggiore è il livello educativo degli individui, maggiore è la probabilità che essi abbiano tempo disponibile per potersi dedicare ad attività di volontariato, e che maggiori sono le infrastrutture presenti in un certo territorio e migliori i mezzi di trasporto che facilitano la comunicazione e la diffusione delle informazioni, più facile risulta il lavoro delle SMO. Inoltre, indipendentemente dalle risorse di coloro che risultano essere i beneficiari diretti delle azioni dei movimenti sociali, per McCarthy e Zald maggiore è l'ammontare delle risorse di coloro che sostengono un movimento, anche esternamente, maggiore è la probabilità che si sviluppino e si diffondano nuove SMO e SMI. Il ruolo di coloro che credono in un movimento senza beneficiarne direttamente è dunque fondamentale, e questa ipotesi è valida soprattutto quando cresce la disponibilità di reddito in una società. Ciò implica una critica radicale al lavoro di Olson e un rovesciamento del paradosso dell'azione collettiva: gli individui non agiscono solamente secondo i propri interessi, ma anche perché credono in una causa. Questo ragionamento rovescia le prospettive che precedono lo sviluppo della RMT e in particolare l'approccio della deprivazione relativa: gli attori cruciali per lo sviluppo dei movimenti non sono i loro possibili beneficiari, ma coloro che sono dotati di risorse e che hanno anche meno probabilità di essere frustrati. In altre parole, il fattore critico per le attività dei movimenti sociali è la disponibilità di risorse. Critiche alla teoria della mobilitazione delle risorse Le critiche più esplicite alla RMT provengono da McAdam [1982], il quale sviluppa la propria discussione studiando il movimento per i diritti civili statunitense. L'autore dà credito alla RMT per aver cambiato lo status ontologico dei movimenti sociali, che sono stati concepiti come attori razionali ed espressioni politiche di un gruppo sociale. Inoltre, la teoria ha riconosicuto il ruolo dei gruppi esterni e delle interazioni tra gruppi formali ed informali nel garantire le risorse necessarie per l'azione collettiva. La critica principale di McAdam riguarda la difficoltà nel distinguere le organizzazioni di movimento sociale dai gruppi d'interesse: la RMT non è molto utile per comprendere le dinamiche di azione collettiva svolte da quei gruppi che contestano le élite in maniera aperta e dichiarata e non distingue i gruppi esclusi dai canali istituzionali di accesso alla sfera politica, i challengers, e quelli che invece possono facilmente accedervi. Da qui emerge la seconda critica, collegata alle risorse. Nella prospettiva di McCarthy e Zald, le risorse derivano soprattutto dalle élite, il cui supporto esterno è necessario per facilitare l'emergere dei movimenti sociali e sostenere lo sviluppo delle azioni collettive. Tuttavia, tale ipotesi non considera che i movimenti sociali possono avere obiettivi orientati verso il cambiamento sociale e politico: i cambiamenti auspicati mettono spesso in discussione lo status quo delle élite stesse, e tendenzialmente sono attuati con mezzi non riconosciuti come appropriati, attraverso azioni non convenzionali. Di conseguenza, contrari ai loro interessi. difficile che le élite possano investire molte risorse poiché i cambiamenti sarebbero La terza critica sostiene che la RMT minimizza le modalità attraverso le quali le élite possono contribuire allo smantellamento dei movimenti sociali, che possono declinare anche a causa di tentativi da parte delle élite di contenerne le minacce attraverso la predisposizione di un apparato di controllo della protesta o di riorientarne gli obiettivi. Enfatizzando il ruolo delle risorse collegate al supporto esterno, la RMT ignora o minimizza il ruolo della base dei movimenti sociali. Un'altra critica indirizzata alla RMT riguarda il concetto stesso di risorsa. Per McAdam, questa categoria perde il suo significato, poiché ogni tipo di azione collettiva è preceduto dalla disponibilità di qualche tipo di risorsa: né la natura né il tipo di risorse che sono cruciali per l'azione vengono chiariti. Infine, secondo l'autore la RMT ha marginalizzato il ruolo delle frustrazioni, che permettono di considerare gli stati individuali e dunque di soffermarsi sulla dimensione soggettiva dell'interpretazione dell'attore, che collega le frustrazioni vissute alla necessità di agire per cambiare le sue condizioni di vita. McAdam conclude che la RMT è utile soprattutto per analizzare fenomeni organizzati, i cui obiettivi sono moderati, che non implicano un cambiamento radicale dello status quo dei poteri dominanti, e i cui protagonisti sono soprattutto membri che hanno accesso ai canali poli istituzionali. La RMT è meno convincente e utile per spiegare fenomeni collegati ad azioni collettive da parte di attori esclusi da tali canali, quali dinamiche di movimento sociale. Il ruolo delle organizza; L'organizzazione diventa così l'unità di analisi principale della RMT, che analizza le dinamiche di azione collettiva di protesta associate alla presenza di organizzazioni di movimento sociale, le SMO. Alcuni hanno esaminato il processo di mobilitazione delle risorse facilitato dalle SMO, altri hanno posto la loro attenzione sull'analisi della diversità delle organizzazioni, e la loro relazione con la stabilità e l'innovazione dei movimenti sociali. Altri ancora hanno analizzato le modalità di strutturazione dei campi organizzativi e le reti tra organizzazioni che operano all'interno di dinamiche di movimento sociale. Discuteremo quindi le risorse necessarie per le azioni collettive di protesta associate alla presenza di organizazioni, e presenteremo alcune riflessioni che sottolineano le differenze e le similitudini tra le analisi operate dagli approcci che derivano dai movimenti sociali e quelle di chi si rifà agli studi organizzativi. Infine, presenteremo due casi di studio che si sono focalizzati sulle relazioni tra le strutture dei campi organizzativi e le azioni collettive. Risorse collegate all'organizzazione Per Knoke [1990], le organizzazioni che si impegnano in azioni collettive - le collective action organizations - sono gruppi sociali caratterizzati da alcune specificità: rispetto a gruppi più informali, queste implicano infatti la presenza di decisioni rispetto a chi possa essere membro e chi invece debba esserne escluso, di regole da applicare in determinate situazioni, di posizioni gerarchiche degli individui, di aspetti comportamentali a cui gli individui devono attenersi, di modalità attraverso le quali tali comportamenti debbano essere monitorati, di scelte su chi debba essere incentivato e chi sanzionato. Se tutti questi elementi sono contemporaneamente presenti, Ahrne e Brunsson [2011] sostengono che siamo in presenza di un'organizzazione formale completa, in opposizione ad un'organizzazione parziale. Le organizzazioni sono state studiate in relazioni a varie dimensioni sociali. In primo luogo, sono state analizzate per la loro funzione di integrazione sociale. In secondo luogo, sono state esaminate per comprendere come gli individui riescano ad agire unitariamente e in maniera coordinata. Infine, sono state approfondite anche in relazione alla partecipazione al processo di policy making. Rispetto alla capacità di articolare domande politiche, è stato mostrato come la presenza di organizzazioni faciliti il coordinamento delle azioni collettive di protesta, abbassando i costi associati alle possibilità di svolgerle, facilitando il coordinamento grazie alla presenza di leader, agevolando le interazioni stabili e durevoli nel tempo, facilitando i flussi e gli scambi di informazioni. Inoltre, esse consentono di mobilitare risorse, offrire infrastrutture, disporre del personale necessario, favorire la legittimazione politica e sociale di cui gli individui talvolta non dispongono. Infine, le organizzazioni consentono la cooperazione tra attori e la costruzione di vari tipi di legame che si strutturano tra le organizzazioni stesse, favorendo il coordinamento delle azioni collettive. Non solo: le organizzazioni sono luoghi che favoriscono relazioni sociali che sostengono l'emergere di solidarietà condivise. Tilly [1978] discute questo meccanismo attraverso il concetto di catnet, una sintesi dei concetti di catness - che sta ad indicare la presenza di un aggregato di individui che condivide specifici tratti categoriali esterni - e netness - che sta ad indicare la presenza di relazioni sociali: il catnet è la rete di relazioni che facilitano, quando vi sono dei tratti categoriali condivisi, il passaggio da una categoria sociale a un gruppo sociale capace di agire intenzionalmente. In altre parole, le azioni collettive dipendono dal livello di catnet, una sintesi di caratteristiche collegate a una certa categoria sociale e alla densità delle reti costruite dagli individui che condividono tali tratti sociali. Gli studi hanno infine mostrato la presenza di varie risorse individuali che gli individui acquiscono grazie al loro coinvolgimento in organizzazioni sociali e che risultano utili per l'azione condivisa: gli individui, quando vi partecipano, migliorano le proprie abilità comunicative, le proprie capacità organizzative e l'abilità di gestione e di coordinamento dei gruppi, aumentando il proprio capitale sociale. Studi organizzativi e movimenti sociali Gli studi dei movimenti sociali e gli studi organizzativi hanno, nella fase iniziale del loro sviluppo, seguito direzioni divergenti. Durante gli Anni Cinquanta, i secondi si sono orientati ad analizzare le dinamiche più istituzionali dell'organizzazione, mentre i primi sono stati esaminati in quanto comportamenti collettivi, non istituzionali e in antitesi alla presenza di organizzazioni capaci di coordinare la protesta. Gli studi organizzativi si concentrano dunque sulla comprensione delle organizzazioni formali in quanto strutture soggioganti l'individuo, che derivano dalla presenza di regole impersonali e razionali e di gerarchie burocratiche, cercando di spiegare la relazione tra strutture formali, razionali e burocratiche, e le modalità attraverso le quali al loro interno si sviluppano relazioni gerarchiche. Le strutture organizzative sono luoghi che permettono di trasmettere agli individui valori, credenze e obiettivi comuni. Le routine e le procedure organizzative aiutano a mantenere stabili e riprodurre le strutture. Fino agli Anni Settanta, le ricerche sui movimenti sociali sono invece dominate da un'analisi che enfatizza la spontaneità, la disorganizzazione e la mancanza di struttura. Anche gli oggetti di studio sono diversi: i movimenti sociali sono concepiti come comportamenti collettivi devianti in cui manca qualsiasi forma organizzativa, mentre le organizzazioni formali sono caratterizzate da strutture permanenti, funzionali alla stabilità e alla coesione sociale. È solamente durante gli Anni Settanta che gli studiosi di movimento sociale spostano l'attenzione sulle strutture e sui processi organizzativi, considerando i movimenti sociali come attori razionali e strategici che agiscono intenzionalmente, soprattutto grazie al lavoro di McCarthy e Zald. Nella prospettiva della RMT, i movimenti sono concepiti quali industrie composte da SMO che competono per l'allocazione delle risorse e che sviluppano specifiche strategie per ottimizzare le loro possibilità di sopravvivenza. Verso la metà degli Anni Sessanta si sviluppano inoltre diverse altre teorie, incentrate a livello macro sulle dinamiche esterne all'organizzazione stessa: 2. della contingenza, che studia l'adattamento delle organizzazioni ai loro ambienti; 3. sull'ecologia delle organizzazioni, che si focalizzano sulle modalità di sopravvivenza e sulle dinamiche di selezione delle organizzazioni; 4. neoistituzionali, che convergono sull'analisi delle dinamiche culturali, di consenso, del contesto normativo e sulla strutturazione dei campi inter-organizzativi; 5. della dipendenza delle risorse, che si focalizzano sulle modalità attraverso le quali le risorse esterne influenzano le azioni delle organizzazioni. Tali sviluppi vengono applicati all'analisi delle dinamiche dei movimenti sociali. Ne consegue un esame condotto da parte degli studiosi dei movimenti sociali del contesto in cui operano le organizzazioni, delle modalità attraverso le quali le dimensioni normative e cognitive delle istituzioni influenzano lo sviluppo delle organizzazoni, della diffusione delle pratiche all'interno delle popolazioni organizzative. Le rgenze tra i due approcci Si possono tuttavia identificare alcuni elementi che distinguono gli studi organizzativi dalla letteratura dei movimenti sociali. Il punto principale riguarda l'oggetto di analisi: da un lato la stabilità delle strutture organizzative esistenti, dall'altro le dinamiche associate alle strutture organizzative emergenti e in divenire, in quanto attori orientati al cambiamento sociale, politico o culturale. Inoltre, mentre gli studi organizzativi privilegiano l'analisi delle strutture diventa progressivamente dipendente dalle necessità di acquisire risorse dagli attori esterni, finendo per sottostare a processi decisionali che finiscono per definirne le priorità. Recentemente, il ruolo delle SMO è stato ridiscusso, da una parte grazie alle riflessioni sui movimenti caratterizzati da strutture di rete più fluide che deliberatamente rifuggono alle formalità delle SMO, e dall'altra per mezzo di alcuni studi sui media digitali e sulle capacità di coordinamento della rete online. Ne è risultato un fervente interesse per le organizzazioni anarchiche, caratterizzate da un insieme di elementi che si contrappongono a quelli delle organizzazioni formali: la partecipazione volontaria, la democrazia diretta, l'autonomia, l'auto-organizzazione e l'aiuto reciproco in contrapposizione all'affiliazione, alla gerarchia, alle regole, al monitoraggio e ai meccanismo sanzionatori. Il modello del processo politico e la struttura delle opportunità politiche Durante gli Anni Settanta emerge un'interpretazione politica dei movimenti sociali conosciuta come modello del processo politico, soprattutto e riduttivamente associato con la dimensione della struttura delle opportunità politiche o Political Opportunity Structure. Il modello nasce dalla concezione dei movimenti sociali come interazioni tra i challengers, i gruppi protagonisti delle rivendicazioni, e gli incumbentts, gli attori a cui sono indirizzate le proteste. Nelle rispettive fasi di sviluppo iniziale, la RMT e il modello del processo politico sono uniti nella critica alle prospettive del collasso sociale, ma verso la fine degli Anni Settanta evolvono e si allontanano progressivamente, grazie al contributo di Charles Tilly [1978], rivolto all'interpretazione politica dei movimenti sociali. Come già discusso, anche McAdam [1999] dà credito a McCarthy e Zald per aver contribuito a cambiare lo status ontologico dei movimenti sociali, e tuttavia riconosce che questi operano secondo una logica collettiva, che oltrepassa quella individuale. Gli autori principali e più riconosciuti associati allo sviluppo del modello del processo politico sono Charles Tilly, Doug McAdam e Sidney Tarrow. Ci soffermeremo sulla dimensione strutturale del modello, la POS, anche se i modelli originali di questi autori sono molto più complessi e tendono ad essere caratterizzati da un approccio relazionale Charles Tilly Tilly caratterizza la propria prospettiva teorica come anti-durkheimiana e pro-marxista: si oppone quindi a quell'insieme di prospettive che enfatizzano la disintegrazione e l'anomia e distinguono tra forme routinarie e non- routinarie dell'azione collettiva, e sostiene quelle visioni che sottolineano gli interessi conflittuali e l'ubiquità del conflitto. Per l'autore infatti i movimenti sociali sono interazioni conflittuali, organizzate e durevoli nel tempo, che si sviluppano nell'arena della polity: attraverso essi, gli attori rivendicano i propri interessi in contrapposizione alle élite politiche, coinvolgendo il governo. Il modello della polity Tilly sviluppa il modello della polity principalmente nell'opera del 1978 "From Mobilization to Revolutions", che è considerata il fondamento del modello del processo politico. L'autore identifica varie tipologie di attori nella polity: il governo è l'attore che ha il controllo dei mezzi di coercizione; i contenders sono i gruppi che utilizzano le proprie risorse per influenzare le azioni dei governi e migliorare le proprie posizioni di potere. Tilly individua due tipi di contenders. | primi sono coloro che appartengono alla polity, che possono accedere ai poteri decisionali a costi limitati, hanno a disposizione le risorse necessarie per accedere alla sfera politica e partecipano politicamente attraverso azioni routinarie, attività di lobbying e contatti con i rappresentanti politici e i media, o in altre parole mediante strategie politiche convenzionali e "normali. Il secondo tipo di attori è quello dei challengers, coloro che non appartengono alla polity. | challengers non dispongono delle risorse necessarie per accedere alla sfera poltiica e cercano di migliorare la loro posizione ed influenza politica attraverso azioni che richiedono costi di partecipazione elevati: sono costretti ad utilizzare azioni meno convenzionali e più dirompenti, e agiscono soprattutto attraverso le azioni collettive di protesta che caratterizzano i movimenti sociali. Le opportunità politiche Attraverso il modello della polity, Tilly apre la strada alle prospettive che si focalizzano sul ruolo del contesto esterno e sulla struttura delle opportunità politiche (POS). Le opportunità riguardano due dimensioni. La prima concerne il livello di repressione e facilitazione, che comprendono le azioni che incrementano o diminuiscono il costo dell'azione collettiva da parte dei challengers: elevati livelli di repressione diminuiscono le opportunità politiche e la capacità di mobilitare risorse; all'opposto, fattori che favoriscono l'apertura delle opportunità politiche facilitano l'emergere delle azioni collettive. Tilly ipotizza che la relazione tra la repressione e la protesta assuma una forma ad U rovesciata: i cosiddetti picchi della protesta si osservano quindi in condizioni sociali che non sono caratterizzate né da eccessi di repressione né da un'assenza totale di repressione. La seconda dimensione delle opportunità politiche riguarda l'azione da parte dei governi. L'autore discute il ruolo delle policies, delle leggi e dei controlli sociali da parte delle autorità politiche che determinano il contesto principale in cui si svolge l'azione collettiva. Doug McAdam Un altro importante contributo è quello del lavoro di Doug McAdam del 1982. Alla base della sua analisi vi è un'interpretazione marxista del potere: nella visione dell'autore, la struttura sociale è composta da una serie di gruppi che occupano posizioni strutturali e che sono dotati di diverse risorse e opportunità di accesso alla sfera politica. Inoltre, il concetto di liberazione cognitiva da lui elaborato ricorda lo sviluppo della coscienza di classe discusso in Marx. L'assunto di base del modello presuppone che il potere e la ricchezza siano concentrati nelle mani delle élite e che la maggior parte dei gruppi sociali sia deprivata di qualsiasi capacità decisionale, mancando di capacità di partecipazione sia nei canali istituzionali che extra-istituzionali. | movimenti sociali sono quindi dei tentativi razionali, da parte di tali gruppi, di esercitare la loro influenza politica e di difendere alcuni interessi collettivi attraverso mezzi non istituzionali. L'ipotesi principale di McAdam è che i movimenti sociali si sviluppino in un lungo arco temporale, e che siano una risposta ad ampi processi sociali, economici e poli; Sono tuttavia le organizzazioni della base sociale che facilitano la mobilitazione delle risorse necessarie per le azioni collettive e promuovono il processo di liberazione cognitiva che permette la politicizzazione delle frustrazioni. L'analisi della struttura delle opportunità politiche si traduce così nello studio delle condizioni e del contesto esterno che facilitano la nascita e lo sviluppo del movimento statunitense per i diritti civili. L'analisi delle forme organizzative riguarda invece la riflessione sulle modalità attraverso le quali i challengers si organizzano. Infine, l'esame del terzo fattore, la liberazione cognitiva, concerne lo studio dei processi di interpretazione e di attribuzione di significato all'azione collettiva e della politicizzazione delle frustrazioni. La struttura delle opportunità politiche La struttura delle opportunità politiche è un concetto che si riferisce a cambiamenti strutturali che risultano dirompenti per lo status quo politico di alcuni gruppi sociali in quanto determinano la ristrutturazione delle relazioni di potere esistenti, minano la stabilità del sistema politico e aumentano le capacità di negoziazione da parte dei challengers. La POS è una dimensione variabile nel tempo: l'ipotesi principale suggerisce che suddette variazioni possano facilitare o deprimere l'azione collettiva. L'apertura della POS facilita l'azione collettiva attraverso due meccanismi: la riduzione della differenza di potere tra i challengers e gli attori contro cui sono indirizzate le rivendicazioni, le élite; il miglioramento delle possibilità di negoziazione da parte dei challengers. Nonostante il concetto di POS sia stato ampiamente utilizzato negli studi empirici, esso è stato anche oggetto di numerose critiche. La principale riguarda la mancanza di chiarezza rispetto a quali siano le dimensioni da osservare empiricamente per cogliere la variazione della struttura delle opportunità. In seguito, McAdam identificherà quattro dimensioni della POS: la relativa apertura o chiusura del sistema politico istituzionale; gli allineamenti tra le élite; la presenza o assenza di alleanze tra le élite e gli altri attori; la propensione da parte delle autorità politiche alla repressione. La capacità organizzativa Il secondo fattore cruciale per l'emergere dei movimenti sociali riguarda la capacità organizzativa dei challengers, che devono essere in grado di cogliere le opportunità politiche attraverso le organizzazioni, che facilitano il coordinamento dell'azione collettiva. McAdam specifica quattro tipi di risorse associate alla capacità organizzativa dei challengers. La prima riguarda la possibilità di reclutare nuovi membri. Il secondo tipo riguarda invece l'insieme di incentivi simbolici trasmessi attraverso le organizzazioni, quali forme di solidarietà, che facilita il superamento del problema del free-rider. La terza risorsa organizzativa è la possibilità di costruire reti e collaborazioni fra organizzazioni e individui, che facilita il passaggio di informazioni e comunicazioni. Infine, la capacità organizzativa è collegata alla possibilità di fornire leader, coloro che sono capaci di coordinare l'azione. In presenza di tutti questi fattori, i movimenti sociali hanno la capacità organizzativa necessaria per diminuire i costi legati all'azione collettiva e per poter cogliere e sfruttare le opportunità politiche. La liberazione cognitiva McAdam identifica un terzo elemento che favorisce le azioni collettive di protesta: la liberazione cognitiva, che si esprime nella percezione, da parte dei challengers, che le strutture esistenti abbiano perso legittimità e che la loro partecipazione possa fare una differenza nel risultato finale associato alle azioni collettive. La liberazione cognitiva implica tre passaggi: in primo luogo gli individui percepiscono una progressiva perdita di legittimità dell'ordine sociale. Secondo, gli individui superano il fatalismo collegato alla percezione dell'impossibilità e dell'inefficacia della propria azione. Nella fase finale, gli individui accrescono il senso di efficacia politica collegato alla possibilità di cambiamento e si impegnano in azioni collettive di protesta. Il processo di liberazione cognitiva è maggiore in condizioni di forte integrazione sociale: la possibilità di condividere interessi, valori e condizioni di vita facilita la possibilità di attribuire lo stesso significato alle situazioni e alle esperienze e di individuare obiettivi comuni. Il movimento per itti civili negli USA McAdam elabora il modello del processo politico esaminando il caso empirico del movimento per i diritti civili emerso negli Stati Uniti a metà degli Anni Cinquanta del secolo scorso. Ne studia le fasi dello sviluppo, dell'espansione e del declino, mettendole in relazione con i cambiamenti del contesto sociale e politico. Il movimento nasce grazie a nuove opportunità politiche, al rafforzamento della capacità organizzativa della comunità afroamericana e all'accresciuto senso di efficacia politica da parte degli afroamericani. L'obiettivo è quello di combattere le condizioni di estrema segregazione razziale. L'inizio del movimento risale al 1955, data della prima importante azione collettiva di protesta conosciuta come il boicottaggio di Montgomery. McAdam ne esamina le radici riconducendole all'apertura della struttura delle opportunità politiche nei due decenni precedenti, tra il 1931 e il 1954. Tra gli eventi responsabili di tale cambiamento, in primo luogo, viene identificato il declino dell'industria produttiva del cotone: diminuisce la domanda di lavoro agricolo nelle piantagioni cotoniere, l'occupazione principale degli afroamericani, e di conseguenza si produce un flusso migratorio dagli Stati del Sud verso le città del Nord, dove emerge una nuova classe sociale urbana di afroamericani, dotata di nuove risorse anche grazie alle nuove posizioni occupazionali nel mercato del lavoro. Una seconda dimensione riguarda il cambiamento delle alleanze elettorali. Il voto degli afroamericani degli Stati del Sud era infatti storicamente orientato a favore dei repubblicani, poiché i Dixiecrat, i democratici del Sud, erano fortemente segregazionisti. In seguito alla sopracitata emigrazione, il voto degli afroamericani si sposta verso il Partito Democratico. Una terza dimensione riguarda le decisioni giuridiche da parte della Corte Suprema che, durante gli Anni Cinquanta e Sessanta, favoriscono il processo di desegregazione razziale. L'ultima importante dimensione riguarda le alleanze internazionali. Gli Stati Uniti si presentavano come il paese che difendeva i principi della libertà contro la chiusura e la repressione del regime comunista sovietico, una narrazione che contrastava con gli alti livelli di segregazione sociale degli afroamericani. McAdam analizza anche la capacità organizzativa della comunità afroamericana, strutturata intorno a tre tipi di reti organizzative: le chiese battiste, le università e la National Association for the Advancement of Coloured People. La crescita della capacità organizzativa avviene, come detto, soprattutto dal 1931 al 1954 quando, accanto alle chiese, sia i campus universitari che la NAACP diventano spazi che facilitano la mobilitazione delle risorse e il collegamento tra località altamente disperse. La terza dimensione riguarda il processo di liberazione cognitiva: nel momento in cui passano le decisioni del Congresso e le sentenze della Corte Suprema a favore della desegregazione razziale, aumenta la percezione da parte degli afroamericani sull'efficacia politica e sulla capacità delle loro azioni di poter migliorare le condizioni vissute. Nel suo sviluppo il movimento per i diritti civili è stato caratterizzato dall'uso di un vasto repertorio delle azioni che ha incluso boicottaggi, sit-in, cortei, manifestazioni pubbliche, che conoscono il loro apogeo a metà degli Anni Sessanta. Nella fase finale, quando il movimento diventa una minaccia per le autorità politiche, aumentano le misure di repressione e controllo sociale, che portano a un declino verso la fine degli Anni Sessanta: le cause furono sia gli arresti, i pestaggi, gli incendi dolosi e gli omicidi, a cui parteciparono organizzazioni come il Ku Klux Klan, sia il venir meno di importanti leader del movimento quali Malcolm X e Martin Luther King, rispettivamente assassinati nel 1965 e nel 1968. sfruttamento e all'oppressione da parte del sistema capitalista. Si riscontrano anche azioni violente da parte di alcuni gruppi, che emergono in reazione all'adozione di misure di repressione da parte delle forze dell'ordine. L'autunno caldo in Italia L'11 settembre 1969 è considerata la data iniziale del cosiddetto autunno caldo, un periodo caratterizzato da un'ondata di scioperi e mobilitazioni nel modno del lavoro. Il caso italiano è particolarmente importante per la sua estensione, la sua durata e la sua intensità. Pizzorno [1978] ne identifica tre fasi distinte. La prima fase è collegata all'azione da parte di un nucleo collegato all'ambiente degli operai specializzati, appoggiato dai sindacati. La seconda fase è di mobilitazione allargata: è contraddistinta dalla partecipazione degli operai comuni e dall'unione con altri settori della popolazione, quali i giovani, le donne, ma anche dagli impiegati. La terza fase, che emerge dopo l'autunno caldo, è caratterizzata da due processi: l'estensione delle rivendicazioni a settori quali i servizi e il credito e lo sforzo sindacale di coordinare rivendicazioni disparate. | protagonisti del movimento operai sono soprattutto operai comuni od operai-massa. Le loro rivendicazioni concernono una serie di diritti tendenti all'egualitarismo e, fino al 1971, sono condivise anche dagli operai specializzati e dagli impiegati che, nella fase iniziale del movimento, esperiscono il fermento e l'entusiasmo collettivo che permettono di superare le potenziali divergenze tra categorie e gruppi con obiettivi diversi. Successivamente, tale unione tenderà a frammentarsi. Per Tarrow è l'apertura della POS, coincidente con l'incorporazione nel governo di un partito di sinistra, il PSI, e con la diffusione di un clima favorevole al dissenso politico, ad essere fondamentale per l'emergere delle proteste, mentre alcuni studiosi, tra cui soprattutto Franzosi [1995], sostengono che la POS si sia aperta solamente dopo l'ondata di scioperi svoltasi tra il 1959 e il 1962. Solamente in un secondo momento, l'apertura del 1963 diventa cruciale per le mobilitazioni successivamente osservate tra il 1968 e il 1972. Un altro elemento decisivo è la capacità organizzativa degli operai specializzati. Questi costituiscono la componente principale del sindacato e riescono a coordinare la fase iniziale delle proteste grazie alle risorse che derivano dalle loro precedenti esperienze nel sindacato e nel partito. È solamente durante l'autunno caldo che gli operai comuni e le altre categorie quali gli impiegati, spinti da interessi comuni, partecipano in massa alle azioni. | fattori appena discussi sono spiegazioni strutturali. Pizzorno enfatizza tuttavia anche l'importanza della costruzione d'una nuova identità collettiva tra gli operai: la mobilitazione è strettamente connessa alla richieta di riconoscimento di una nuova identità, al diritto di essere riconosciuti come categoria e a poter essere rappresentati a livello politico come attori con specifici interessi. Le richieste operaie implicano anche il ritiro della delega all'organizzazione sindacale: il conflitto oltrepassa le rivendicazioni avanzate dai principali sindacati e organizzazioni. Il tentativo è cercare di coinvolgere direttamente i lavoratori nelle azioni rivendicative. A conferma del distacco della base dei lavoratori dal sindavato centrale, nel 1970 aumentano gli scioperi a livello locale e a livello di fabbrica. Il picco degli eventi di protesta si ha nel 1971 dopo il quale, secondo Tarrow, la protesta tende a diminuire. Le conclusioni dello studio di Tarrow evidenziano la piena maturità della democrazia italiana in quel periodo, grazie alla presenza di un esteso repertorio di azioni di partecipazione democratica, un'ampia agenda politica e una nuova cultura politica. La fase finale del ciclo è caratterizzata da azioni collettive che identificano tre processi che prevalgono durante gli Anni Settanta: una parte degli attori è coinvolta in un processo di istituzionalizzazione della protesta; un'altra è coinvolta invece in un processo di radicalizzazione, caratterizzato dall'emergere della violenza; infine, si frammentano progressivamente i gruppi e le azioni. La fase di declino del ciclo Gli anni successivi al 1971 sono associati alla fase di declino dei movimenti sociali, in particolare di quelli studentesco ed operaio. Il movimento femminista continua invece ad essere attivo durante tutto il corso degli Anni Settanta. Le ricostruzioni storiche che enfatizzano la prevalenza di azioni violente, basate su una narrazione memorialistica o giornalistica e tese a ricercare l'effetto narrativo hanno schiacciato la visione degli Anni Settanta sulla dimensione della violenza, accompagnata da immagini che ne ricordano soprattutto le stragi: l'uso dell'espressione "anni di piombo" ne è una testimonianza. L'evidenza empirica dimostra tuttavia come le dinamiche e le caratteristiche di quella realtà si sovrappongano solo parzialmente a tale rappresentazione. Prima di tutto, gli Anni Settanta sono caratterizzati dal passaggio di alcune riforme estremamente importanti per la società italiana, frutto del ciclo di proteste. Oltre a quelle risposte istituzionali, possiamo osservare, empiricamente parlando, altri tre processi: il primo è la progressiva istituzionalizzazione di una parte dei gruppi sociali e del repertorio delle azioni; il secondo riguarda la frammentazione di azioni e gruppi sociali attivi in quel periodo; il terzo riguarda la radicalizzazione dell'azione collettiva e l'uso degli atti di violenza politica di alcuni attori. Il processo di istituzionalizzazione della protesta indica la prevalenza di gruppi organizzati, formali e stabili e di azioni che tendono ad essere gestite e controllate direttamente da quei gruppi. La struttura decisionale è fortemente centralizzata, la membership è organizzata a livello nazionale, la specializzazione delle funzioni è accresciuta. Inoltre, le azioni sono consensuali, routinarie e prevedono la negoziazione tra le parti piuttosto che il conflitto aperto. Gli obiettivi sono moderati e rivolti alla sopravvivenza dell'organizzazione piuttosto che al cambiamento sociale e politico. Nel caso italiano, il processo di istituzionalizzazione si diffonde in primo luogo tra gli stessi protagonisti delle proteste della fine degli Anni Sessanta. Anche la componente politica del movimento femminista utilizza canali istituzionali consensuali. Tali trasformazioni sono osservabili persino in alcuni gruppi della sinistra extra-parlamentare che operano nel corso degli Anni Settanta: Lotta Continua, Potere Operaio, Avanguardia Operaia evolvono verso strutture più centralizzate ed esclusive, e alcuni dei loro membri vengono eletti in parlamento. La frammentazione riguarda invece il progressivo isolamento dei gruppi e la diffusione di azioni collettive di protesta non sempre collegate l'una con l'altra. | protagonisti dei conflitti sociali degli Anni Settanta sono gruppi piccoli, informali, a struttura decentrata, come quella del movimento femminista, che è reticolare e segmentata: al suo interno, le singole unità orientano le proprie risorse verso la costruzione e il mantenimento di forti legami di solidarietà interna. In tali reti, la leadership è diffusa e Melucci [1986] parlerà di movimenti politcefali. La frammentazione e la decentralizzazione coinvolgeranno anche i movimenti giovanili attivi in quegli anni, come il movimento del '77. Infine, gli Anni Settanta sono protagonisti di alcune dinamiche di radicalizzazione della protesta e di uso della violenza politica: pur rimanendo minoritarie, queste sono per eccellenza associate alle proteste degli Anni Settanta. In primo luogo, gli attori protagonisti delle azioni violente mostrano profili molto diversi da quelli degli studenti universitari protagonisti della fase iniziale del ciclo delle proteste: occupano basse posizioni socioeconomiche, sono spesso collegati a gruppi sociali marginali, principalmente giovani con bassi livelli educativi. In secondo luogo, la maggior parte dei sessantottini scelse vie pacifiche e modalità di azione convenzionale. In terzo luogo, anche se tra i gruppi della sinistra extra-parlamentare dopo l'autunno caldo erano diffusi la retorica e l'uso simbolico della violenza, questa non era necessariamente connessa alla pratica. La possibilità di utilizzare la violenza produce infatti aspre divisioni all'interno dei gruppi stessi. Infine, l'evidenza empirica mostra che dal 1969 al 1973 il 95% degli atti di violenza è collegato a formazioni di estrema destra, quali Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale. Solamente dopo il 1974 emergono azioni violente da parte di gruppi che si riconoscono in orientamenti associati alla cultura della sinistra. Il picco della radicalizzazione avviene tra il 1977 e il 1980. Le Brigate Rosse reclamano il ruolo di interprete delle forze lavoratrici e si percepiscono come l'avanguardia della classe operaia: le azioni violente sono necessarie per combattere la classe dirigente del sistema capitalista. gare la radicalizzazione della protesta Molti studi sociologici spiegano l'emergere della violenza politica negli Anni Settanta sottolineando che è frutto di un processo di radicalizzazione collegato a condizioni specifiche del contesto politico e alle interazioni tra i gruppi sociali istituzionali e non. Inoltre, questo segue un andamento che è caratteristico di altri paesi europei, dove aumenta la violenza in generale. L'uso della violenza politica rimane comunque proporzionalmente limitato rispetto alla frequenza di azioni violente di matrice non politica. Altri elementi includono la presenza di un ambiente organizzativo altamente competitivo, il ruolo del repertorio delle azioni pregresse, la disponibilità di ideologie radicali utilizzate per giustificare la violenza. È stata avanzata anche l'ipotesi di una contrapposizione con il passato fascista: non è un caso, secondo alcuni, che proprio in Italia e in Germania la violenza politica di sinistra sia stata così rilevante. Infine, altri autori richiamano il ruolo delle passioni, dei sentimenti e dell'irrazionalità delle azioni, sottolineando come l'adesione a una particolare ideologia fosse quasi una vocazione politico-religiosa dei brigatisti, collegata alla possibilità di salvare il mondo. Secondo l'ipotesi che interpreta l'emergere della violenza politica di sinistra come un processo collegato alle condi: del contesto esterno, questa è frutto di interazioni con vari attori, principalmente con le forze dell'ordine e con alcuni gruppi di destra. Essa fiorisce infatti in un clima di divisioni interne alla sinistra e di generale instabilità delle alleanze politiche: il compromesso storico produce una forte spaccatura tra la sinistra storica e la cosiddetta Nuova Sinistra. La crisi economica aveva colpito soprattutto i giovani, allontanandoli dalla sinistra istituzionale. Per quanto riguarda i gruppi di destra, tra la fine degli Anni Sessanta e l'inizio degli Anni Settanta avvengono una serie di eventi, identificati con la nozione di stragismo, i cui responsabili sono alcune organizzazioni di estrema destra tra cui spicca Ordine Nuovo. Le stragi si inseriscono in un clima identificato con l'espressione di "strategia della tensione": molti ipotizzano l'esistenza di una rete di collaborazione tra le forze dell'ordine, i servizi segreti e gli ambienti neofascisti. Nel 1970 fallisce il golpe di Junio Valerio Borghese, e questo contribuisce alla diffusione di un clima di sospetto e paura e alla diminuzione della fiducia del pubblico di sinistra verso le istituzioni statali. Infine, la violenza politica è una risposta all'accresciuta attività di controllo della protesta da parte delle forze dell'ordine in termini di ordine pubblico. Il periodo dal 1977 al 1979 è collegato all'immagine di un ritorno dello Stato autoritario: Dalla Porta [1995] avanza l'ipotesi che l'uso di tecniche repressive diffuse scoraggino la partecipazione a proteste pacifiche e di massa, favorendo invece le frange più radicali. L'aumento della repressione si riflette anche nell'inserimento di varie disposizioni a tutela dell'ordine pubblico per rispondere all'emergenza terrorismo. Frames, performances La teoria della mobilitazione delle risorse e il modello del processo politico forniscono spiegazioni che prediligono un'analisi strutturale, tralasciando alcune importanti dimensioni utili per comprendere l'azione collettiva: ignorano la dimensione soggettiva relativa all'analisi delle percezioni e dei significati attribuiti all'azione collettiva e marginalizzano l'analisi della cultura intesa come insieme di simboli e pratiche che incorporano significati specifici. L'esclusione deriva, in parte, dalle modalità che portano alla nascita della RMT e del modello del processo politico, in contrapposizione alla centralità delle frustrazioni e delle spiegazioni legate alla psicologia sociale nelle teorie del collasso sociale. Questa marginalizzazione è parzialmente rettificata grazie alla svolta culturale che avviene intorno agli Anni Ottanta del secolo corso. La sociologia culturale si esprime attraverso varie prospettive che esaminano aspetti quali le culture dei movimenti, i significati attribuiti alle azioni collettive di protesta - i frames - e le identità collettive, le performances. Gli oggetti di studio comprendono quindi i discorsi, le narrative, le retoriche, le norme, i valori, le pratiche rituali, le cerimonie, gli artefatti che rendono intelligibile la cultura. Come argomentato da Swidler [1995], la sociologia culturale è caratterizzata da due tradizioni teoriche che si sono manifestate, a loro volta, nell'analisi di specifiche dimensioni. La prima è la tradizione weberiana, collegata allo studio del significato attribuito all'azione da parte degli individui, il cui scopo è cogliere le modalità attraverso le quali idee o visioni del mondo influenzano e definiscono il comportamento individuale: questo è l'approccio del framing, che esamina le dinamiche dei movimenti sociali a livello micro per cogliere i significati individuali e collettivi attribuiti alle azioni collettive di protesta. La seconda tradizione culturale è di matrice durkheimiana, e concepisce la cultura in termini di simboli condivisi pubblicamente e rappresentazioni collettive che costituiscono la vita sociale: la cultura è un sistema di significati incorporati, embodied, in simboli pubblici. Significati e identità culturali sono incorporati in performances espresse dai movimenti sociali stessi attraverso eventi, rituali e testi. Ci soffermeremo tuttavia non soltanto su frames e performances, ma anche sulle modalità attraverso le quali, negli ultiumi due decenni, il ruolo delle emozioni è stato rielaborato in relazione ai movimenti sociali. La prospettiva del framing La svolta culturale entra nel dibattito sui movimenti sociali principalmente attraverso il concetto di framing, che dal punto di vista epistemologico è favorito dal diffondersi del costruttivismo sociale, un approccio che enfatizza il processo cognitivo di costruzione dei significati. La nascita di questo filone di riflessioni è collegata soprattutto al contributo di David Snow e Robert Benford [1992], che definiscono il frame come uno schema interpretativo che semplifica e condensa la realtà esterna, codificando in modo selettivo oggetti, situazioni, eventi, esperienze e sequenze di azioni di fatti presenti o passati. | frames permettono così agli individui di descrivere la realtà, e sono utilizzati per organizzare l'esperienza e guidare l'azione, individuale e collettiva. Possono essere elaborati attraverso i discorsi, le conversazioni, le comunicazioni scritte I movimenti non sono quindi solamente organizzazioni che agiscono in pubblico, ma rappresentano anche sistemi di significato nei quali gli attori sociali posizionano se stessi e gli altri: le azioni di massa indirizzano i significati a queste associati a un pubblico di potenziali sostenitori. Sono quindi una forma di agire in pubblico, in cui gli attori protagonisti e gli antagonisti competono per influenzare le interpretazioni da parte del pubblico rispetto a una certa questione, utilizzando un insieme di tecniche che richiamano quelle utilizzate a teatro. Nella maggior parte dei casi gli studi si focalizzano dunque sul concetto di performance a livello macro, per comprendere lo svolgimento di rappresentazioni su larga scala da parte di attivisti e attori sociali. Altri studi si focalizzano invece a livello micro, sulle modalità attraverso cui le performances operano a livello di interazioni sociali. Un movimento esprime e comunica le frustrazioni e lo scontento diffusi, con l'obiettivo di promuovere cambiamenti nelle attitudini e nelle pratiche dei membri e degli individui esterni: in questo senso, è un agente-chiave per le trasformazioni culturali, e i suoi effetti includono la trasformazione di rappresentazioni culturali e di norme, la ridefinizione della sfera culturale e politica, e la ricostituzione di identità collettive, sfidando le categorie utilizzate per interpretare la realtà e fornendo contesti per formare nuove espressioni e risorse culturali. L'analisi delle performances permette quindi di esplorare sia i significati che le identità che si esprimono attraverso le pratiche culturali: qualsiasi oggetto o azione può veicolare un messaggio al pubblico. Jasper [2010] identifica i seguenti elementi come embodiments culturali concreti: il corpo, i discorsi, gli stili di vita, le arti dello spettacolo, la musica, la danza, il teatro, i rituali, gli eventi stessi e i testi, tra cui le poesie, i libri e i graffi Le emozioni Un terzo aspetto sulle quali si sono indirizzate le analisi culturali dei movimenti sociali attiene alle emozioni, e si è sviluppato solamente con il nuovo millennio. Se, a partire dagli Anni Settanta, nelle prospettive strutturali le emozioni erano state marginalizzate e precedentemente la teoria della deprivazione relativa aveva considerato sopratutto e quasi soltanto le emozioni negative, associate a stati di frustrazione e di aggressività, perfino la svolta culturale non è riuscita a ridare centralità alle emozioni, poiché si è soprattutto orientata verso una prospettiva cognitiva, come se i partecipanti fossero capaci di processare meccanicamente i simboli. Goodwin, Jasper e Polletta [2001] riconoscono tuttavia che la sociologia della cultura ha favorito l'emergere di un contesto ricettivo nei confronti dell'analisi delle emozioni. Le emozioni sono diventate nuovamente centrali per l'analisi politica e per comprendere le dinamiche di partecipazione ai movimenti sociali. Le emozioni possono essere esaminate come un elemento che riguarda tutte le azioni e le relazioni sociali e sono definite da aspettative e regole sociali, ma sono anche emanazioni di personalit individuali, dipendono da tradizioni e da valutazioni cognitive, da processi di apprendimento collettivo e da meccanismi sanzionatori collegati a comportamenti devianti. Le emozioni includono gli affetti più durevoli nel tempo, che accompagnano o caratterizzano relazioni sociali di lungo periodo: queste sono definite emozioni affettive. Tuttavia, possono anche consistere in brevi risposte a specifici eventi e informazioni, identificate come emozioni reattive. | sentimento possono essere relativi a singoli oggetti o a sentimenti più generali, quali gli umori, che trascendono il riferimento specifico a un oggetto. Possono essere di breve durata o di lunga durata, e differiscono inoltre per la fonte e la forma che assumono: possono essere più immediate e universali, oppure collegate a un evento particolare. Ad ogni modo, le emozioni sono costruzioni sociali e culturali e il loro studio è complesso. Prima di tutto, quest'opera è difficile poiché sono ancora fortemente presenti falsi dualismi nel processo di categorizzazione della realt: , che distinguono tra emozioni e razionalità, corpo e mente, femmina e maschio, privato e pubblico. Gli studi tendono anche a distinguere tra azioni strumentali ed espressive, nonostante anche le azioni strumentali possano essere cariche di emozioni ed espressività. In secondo luogo, la complessità dello studio delle emozioni deriva dalle difficoltà metodologiche relativa alla raccolta di dati sulle emozioni. Gli attivisti stessi reprimono infatti le loro emozioni e la riluttanza nell'esprimerle rientra nella tendenza a giudicarle in modo negativo, che è compresa nei falsi dualismi utilizzati per categorizzare la realtà in Occidente. Il ruolo delle emozioni per i movimenti sociali Le emozioni più rilevanti per l'analisi delle azioni collettive di protesta tendono a essere precedute da un intenso lavoro di costruzione cognitiva e sociale: sono il frutto di precise visioni del mondo, collegate a percezioni soggettive, a obblighi morali, a diritti e informazioni che gli individui percepiscono in maniera diversa in quanto culturalmente e storicamente variabili. Le emozioni sono innanzitutto rilevanti per l'analisi di varie fasi dello sviluppo di un movimento sociale. | meccanismi che permettono il passaggio dalla fase in cui gli attori esperiscono uno shock alla fase di reclutamento e all'impegno in azioni collettive implicano il processo di politicizzazione di alcune emozioni, attraverso il riconoscimento di un "nemico" contro cui indirizzare le frustrazioni, portando gli individui ad agire e a reagire a situazioni di difficoltà. Il lavoro della politicizzazione delle emozioni è spesso associato alla presenza di imprenditori politici nei movimenti sociali, capaci di trasformare e indirizzare i sentiomenti di rabbia in sentimenti di indignazione orientata verso un obiettivo specifico e contro un nemico a cui è attribuita la responsabilità della situazione, attraverso l'attribuzione di determinati significati ad attori e temi. Le emozioni sono anche presenti durante la fase di espansione, di crescita e di diffusione delle attività dei movimenti sociali. Le componenti culturali di un movimento contengono aspetti emotivi importanti: più e ricca la cultura di un movimento, maggiori sono le emozioni positive associate alle azioni collettive e ai piaceri connessi alla partecipazione. Infine, le emozioni riguardano anche la fase di declino dei movimenti. Questo è evidente nei casi di partecipazione ad azioni collettive di protesta che, rispetto ad altre forme di partecipazione, richiedono molto coinvolgimento emotivo: gli attivisti tendono a dedicarsi molto ai movimenti, e possono di conseguenza rischiare di esaurire le proprie energie o essere più facilmente suscettibili a delusioni collegate ad aspettative disattese o poco realistiche. Identità collettiva e nuovi movimenti soci In Europa, gli studiosi si scontrano con l'incapacità degli approcci marxisti, concentrati sui conflitti di classe della società industriale, di spiegare nuovi fenomeni e movimenti che presentano caratteristiche molto diverse rispetto a quelli precedenti. Emergono così le teorie dei nuovi movimenti sociali, o NMS - nella seconda metà degli Anni Settanta, "nuovo" sta a indicare la contrapposizione con le forme storiche del conflitto di classe - che si trovano a sfidare sia l'egemonia americana della POS e della RMT, sia gli approcci marxisti. I nuovi movimenti sociali rimettono in discussione la dipendenza da un'immagine di attore strettamente razionale e la posizione dello Stato, delle autorità e delle élite politiche come target principale dei movimenti sociali. Il punto di partenza è l'analisi delle modalità attraverso le quali emergono gli attori collettivi stessi e la ricerca di riconoscimento di nuove identità. Il paradigma dell'identità di Alain Touraine e di Alberto Melucci contribuisce all'analisi dei conflitti culturali che implicano la contestazione delle categorie dominanti e lo stile di vita tipico delle società industriali: le rivendicazioni dei NMS concernono la richiesta di riconoscimento delle identità di cui sono portatori i gruppi coinvolti in tali dinamiche. Per tutto il periodo degli Anni Ottanta, il cleavage collegato all'appartenenza di classe perde visibilità nel dibattito politico. | gruppi sociali protagonisti dei movimenti non hanno confini definite dalle classi di appartenenza dei membri, ma sono accomunati da tratti culturali che formano quasi comunità ideologiche caratterizzate da solidarietà condivise su base etnica, religiosa, o di genere. Gli attori dominanti fanno parte della classe media, dei settori non produttivi dell'economia, i cui confini non sono definiti dalla condivisione di interessi ma dalla presenza di comunità ideologiche basate su nuove forme di solidarietà. L'enfasi e l'oggetto del contendere non riguarda più quindi temi materialisti tipici della società industriale, ma valori collegati alla qualità della vita, all'autorealizzazione e alle differenze culturali. | NMS sono interessati a cambiamenti dello stile di vita degli individui, toccano anche le questioni riguardanti i significati attribuiti agli eventi: i processi comunicativi, i media e i frames acquisiscono una rilevanza centrale. I nuovi movimenti so. I NMS sono movimenti culturali orientati al riconoscimento di identità collettive che riguardano nuove modalità di intendere e rivendicazioni, all'affermazione di identità alternative e controculture collegate alle politiche dell'identità, a motivazioni religiose e a nuovi stili di vita. L'obiettivo di Alberto Melucci [1977; 1982; 1985; 1996] è quelo di comprenderne la formazione. Sia la RMT e la POS hanno, per Melucci, un'attitudine "realistica", come se gli attori collettivi esistessero di per sé, indipendentemente dai singoli individui e dai processi di interazione che li strutturano. La sua analisi è orientata invece a comprendere le modalità attraverso le quali un movimento sociale riesce a costruirsi e a mantenere la sua struttura: così sposta l'attenzione dai fattori necessari alla mobilitazione delle risorse alle reti che collegano gli attori protagonisti dei movimenti. La prospettiva adottata è costruttivista e, come per l'approccio del framing, si concentra sulla capacità umana di costruire i significati e di elaborare un'identità collettiva grazie alla presenza di tali reti sociali. La formazione di un attore collettivo: l'identità collettiva Melucci adotta un approccio processuale all'analisi dell'identità collettiva, che è intesa come una definizione interattiva e condivisa prodotta da un insieme di individui o di gruppi in relazione tra loro. Essa riguarda l'orientamento delle azioni e il campo delle opportunità e delle costrizioni in cui avviene l'azione, la membership e i confini dei gruppi, le visioni, le risorse e le relazioni con l'ambiente esterno. L'identità collettiva è prodotta da individui che interagiscono tra loro, è socialmente costruita attraverso un processo di negoziazione e condivisione tra attori che si influenzano reciprocamente. Essa permette agli individui di riconoscersi e di essere riconosciuti come parte dello stesso gruppo: di conseguenza, dipende sia dal grado di accettazione da parte degli attori esterni, sia dall'investimento emotivo degli individui stessi. Attraverso una connessione morale, cognitiva, emozionale degli individui a una comunità, una categoria, un'istituzione più ampia, gli individui percepiscono uno status o una relazione condivisa. Le motivazioni individuali che spingono alla partecipazione sono quindi collegate ai processi di costruzione dell'identità collettiva del movimento e di solidarietà interne al gruppo. Le rivendicazioni che concernono la richiesta di riconoscimento di identità collettive possono fornire criteri che competono con motivazioni più strumentali e razionali nelle scelte individuali. La logica all'interno dei NMS è di tipo espressivo piuttosto che strategico: la questione dell'identità precede l'esistenza di interessi comuni, in quanto permettono di spiegare come gli attori collettivi diventano tali e come emergono gli interessi. Piccoli gruppi e reti nei nuovi movimenti sociali L'analisi delle reti diventa centrale per quest'approccio: identità personali, interessi, valori e credenze individuali necessitano una continua negoziazione per potersi allineare l'uno con l'altro. Le reti sociali a cui si riferisce Melucci sono soprattutto le reti di interazioni che emergono all'interno di piccoli gruppi. Rispetto alle prospettive per le quali l'organizzazione era considerata l'attore centrale dei movimenti sociali, i NMS sono costituiti da reti composte da legami tra piccoli gruppi informali, spazi che permettono l'emergere delle identità collettive. | gruppi informali sono soprattutto contraddistinti dall'assenza di una struttura stabile e i ruoli e le posizioni dei membri non sono definiti da criteri fissi e prestabiliti. | NMS tendono a rimanere fuori dai canali istituzionali e a una crescente autonomia dal modello politicamente organizzato. Le azioni di protesta riguardano soprattutto la vita quotidiana e l'esperienza individuale e le pratiche sociali coinvolgono le risorse simboliche necessarie alla creazione di solidarietà interne al gruppo. Le relazioni sociali tra gli attivisti avvengono soprattutto attraverso quella che Melucci definisce una rete latente di reticoli intrecciati alla vita quotidiana: i movimenti tendono così ad essere decentralizzati e policefali. Inoltre, poiché i gruppi e le unità sono autonomi, i NMS assumono una struttura segmentata e frammentata. Il reclutamento avviene principalmente attraverso solidarietà pre-esistenti e la presenza di legami precedenti tra i membri motiva la partecipazione grazie alla presenza di norme di obbligo e reciprocità. I movimenti della società che Melucci definisce reti complesse sono reti invisibili di gruppi, una struttura sommersa composta da circuiti di solidarietà che diventano la condizione per forme di resistenza personali a livello collettivo. Le reti latenti rappresentano infatti legami quotidiani, che non sono visibili come le attività collettive di protesta in cui gli attori si mobilitano pubblicamente. Ciononostante, le reti latenti sono la base di importanti simbolico-culturali. Per Melucci: "La latenza crea nuovi codici culturali e permette agli individui di praticarli". Il repertorio dei NMS è quindi più ampio delle sole azioni visibili di protesta, ed è collegato alla costruzione di nuove identità e circuiti di solidarietà. Queste nuove pratiche si realizzano all'interno di piccoli gruppi informali e di reti latenti tra tali gruppi che formano la base strutturale dei NMS. Gli studi hanno anche sottolineato alcune conseguenze collegate alla presenza di tali reti. Le relazione costruite all'interno dei gruppi informali durano di meno rispetto a quelle generate da strutture più stabili. | piccoli gruppi tendono inoltre ad avere problemi collegati all'efficienza, sono caratterizzati dall'assenza di una leadership centrale. Le solidarietà contingenti ed effimere rendono difficile la gestione dei processi decisionali e la presenza di identità collettive durevoli nel tempo. | gruppi informali sono così sottoposti a un costante rischio di frmamentazione e non riescono a perseguire obiettivi a lungo termine. In aggiunta, poiché le identità collettive rimangono ancorate a pochi membri e a questioni locali e i legami primari tra gli attori coinvolti rimangono ancorati a reti costruite su piccola scala, la condivisione di obiettivi più ampi tra i gruppi può essere difficoltosa. In primo luogo, la personalizzazione riguarda i contenuti dell'azione connettiva poiché ognuno sceglie quale messaggio, tema o contenuto far circolare, quale rilanciare ai propri contatti e quale ignorare. La partecipazione implica infatti la selezione delle informazioni trasmesse sul web. In secondo luogo, la personalizzazione coinvolge anche le modalità attraverso le quali circolano le informazioni. Gli individui scelgono come diffondere i propri messaggi e decidono cosa e come comunicare. La logica dell'azione connettiva implica quindi un ripensamento delle prospettive dominanti rispetto al ruolo delle SMO ma anche delle identità collettive che sostengono le dinamiche di un movimento sociale: gli individui connessi grazie alla rete virtuale non necessitano né di un'organizzazione né di uno schema ideologico condiviso per partecipare. 1 1.32 - La rete virtuale come forma organizzativa Alcuni sostengono, alla luce di quanto esposto, che le SMO stiano perdendo la loro centralità nel lavoro di mobilitazione delle risorse. Lo sviluppo di azioni online non è associato infatti alla capacità delle SMO di reclutare nuovi membri o di gestire le proprie attività attraverso la ricerca di sostegno finanziario. Sono gli stessi individui che hanno la possibilità di mobilitare le risorse collegate al capitale sociale necessario per il reclutamento, il supporto e il coinvolgimento degli individui nelle azioni di protesta. Bennett e Segerberg [2012; 2013] sostengono che i processi comunicativi che avvengono online sono importanti forme di organizzazione. | social media facilitano la possibilità di "organizzarsi senza organizzazioni" e di coordinare l'azione collettiva senza dover disporre di infrastrutture organizzative costose e complesse. Le reti online mettono in discussione la definizione stessa di cosa significhi essere un membro di un'organizzazione. Le azioni collettive di protesta sono, pertanto, mediate digitalmente, e le SMO possono anche essere percepite come parte del problema stesso contro cui gli individui in rete si mobilitano. Gli studiosi hanno mostrato che alcuni attori o nodi nella rete risultano essere più centrali, influenti e visibili rispetto ad altri. L'assenza di mediazione da parte delle SMO non significa quindi che il ruolo giocato da tutti i partecipanti sia equivalente o ugualmente cruciale per spiegare le dinamiche di azione connettiva. Il coinvolgimento diretto e allargato degli individui non significa assenza di leadership. La capacità di coordinamento dell'azione da parte di alcuni nodi è infatti collegata alla loro posizione della rete. Alcuni studiosi evidenziano inoltre che, a fronte di maggiore personalizzazione e disintermediazione, le organizzazioni di movimento non perdono totalmente di importanza. Piuttosto si adattano al nuovo contesto, in due modi: passano dal ruolo di facilitatrici e coordinatrici dell'azione collettiva alla possibilità di funzionare come "connettori tra i vari gruppi e individui che si mobilitano più spontaneamente; abbandonano mobilità tipiche dell'azione collettiva, "ibridando" i propri repertori, fornendo spazi per il confronto diretto con gli individui e i singoli attivisti e allentando i criteri di membership. L'azione connettiva tende inoltre ad essere definita un'azione spontanea rispetto alle classiche fomre di azione collettiva di protesta. Alcuni autori hanno identificato nelle folle i protagonisti di queste azioni. Il richiamo alle folle nello spazio online necessita tuttavia di alcune precisazioni. Queste non presentano infatti le stesse caratteristiche tipiche dei comportamenti collettivi: esse sono capaci di gestire processi associati alle SMO al fine di promuovere alcune idee e frames, e filtrare o limitare la presenza di altri. Le folle online stabiliscono norme partecipative e tendono quindi a porsi in posizione intermedia tra i gruppi sociali che agiscono intenzionalmente e in modo organizzato e i comportamenti collettivi che agiscono invece in maniera spontanea e disorganizzata. 1 1.4 - Media digitali e identità collettiva Le caratteristiche collegate alla personalizzazione dell'azione connettiva hanno portato alcuni autori ad enfatizzare la mancanza di un'identità collettiva tra gli attori protagonisti di tali azioni. Gli studi in questo campo si sono concentrati spesso su questioni strutturali, ignorando il ruolo dei media nella formazione delle identità collettive, un orientamento associato al dominio di alcuni concetti all'interno delle teorie mainstream e alla prevalenza dell'analisi di dimensioni quali la rete, le strutture organizzative, i flussi di comunicazione, il repertorio dell'azione, la diffusione dei frames. La marginalizzazione dell'analisi dell'identità collettiva negli spazi online è anche collegata alla tendenza a sottolineare la mancanza di cristallizzazione delle relazioni virtuali e l'assenza di fiducia reciproca tra gli individui. Uno dei motivi associati a tale argomentazione è il fatto che la comunicazione virtuale non necessita di contatti interpersonali durevoli nel tempo né di relazioni forti. Di conseguenza, la presenza di reti online e informali tende a essere associata a un costante rischio di frammentazione dei gruppi e delle reti come pure all'incapacità di perseguire obiettivi a lungo termine. Inoltre, la mancanza di una leadership può creare alcuni problemi in termini di efficienza. Si costruiscono, sulla base di legami e strutture reticolari in cui gli attori sono distanti e le relazioni deboli, delle identità collettive i cui riferimenti possono mutare velocemente, basate sulla giustapposizione di contenuti e preferenze personali, molto differenti dalle identità collettive condivise che emergono grazie al persistere di scambi e relazioni sociali durevoli. Autori come Bennett e Segerberg sostengono infatti che le azioni connettive stiano progressivamente contribuendo all'indebolimento di meccanismi di costruzione d'identità collettiva. Altri invece argomentano che le piattaforme digitali non eliminano la necessità di processi collettivi di identificazione, ma cambiano le modalità attraverso le quali essi avvengono. Secondo Milan [2015], poiché vi è un elevatissimo numero di attori che tentano di distinguersi e ottenere visibilità sul web, a una "politica dell'identità" si è sostituita una "politica della visibilità" che enfatizza la centralità dell'esperienza soggettiva e privata dei singoli individui. Per altri ancora, le reti online facilitano il senso di appartenenza a comunità più ampie e questo coinvolge anche gli individui che tendono all'isolamento sociale poiché aumentano la probabilità di costruire relazioni e ne abbassano i costi associati. Certamente, quello che cambia sono i modi in cui le identità collettive si possono costruire online, perché entrano in gioco le cosiddette affordances, le potenziali funzionalità, delle varie piattaforme. Attraverso le reti online gli individui e i gruppi possono manifestare la loro volontà di appartenenza attraverso i nomi attribuiti agli account pubblici, icone e avatar, foto di profilo, condivisioni e caratterizzazioni di meme, personalizzazioni di contenuti attraverso l'uso di video, immagini, mash-up che facilitano la costruzione o rafforzano identità collettive condivise. | messaggi e le immagini sono veri e propri simboli scambiati in rete, tendenzialmente molto semplici per essere facilmente comunicati e trasmessi all'interno di un pubblico sempre più ampio, aumentando la possibilità di costruire un'identità collettiva e dei confini verso l'esterno: le reti online diventano degli "intermediari" nel processo di attribuzione del significato. 1 1.5 - Le folle virtuali tra comportamenti collettivi e movimenti sociali Di per sé, le azioni collettive di protesta non necessitano di una base identitaria condivisa: possono riguardare anche dinamiche organizzative o coalizioni ed emergere grazie alla condivisione di specifici interessi o in presenza di eventi contingenti collegati a singoli temi. Ne consegue che siamo in presenza di dinamiche che si collocano in posizione intermedia tra i comportamenti collettivi e le azioni. 5 1 10 - L'analisi delle proteste in contesti non democratici 6 11- Introduzione Vogliamo ora riflettere sulle azioni collettive di protesta che si sviluppano in contesti non occidentali, come ad esempio le Primavere arabe, per cercare di comprenderle. Ciò ci costringerà tuttavia a ripensare le categorie e le teorie precedentemente presentate per spiegare casi osservati nelle società occidentali, al fine di costruire nuovi concetti ed applicarli a contesti non occidentali e non democratici. Le Primavere arabe sono un caso che mostra le difficoltà associate alla definizione degli eventi di protesta osservati. Alcuni autori le hanno definite come rivoluzione passiva, mutuando il termine da Gramsci. L'analisi dei fattori associati allo sviluppo di tali eventi ha inoltre permesso di ripensare le teorie dominanti sull'analisi delle azioni collettive, soprattutto dal punto di vista del ruolo della struttura delle opportunità politiche e delle strutture intermedie di mobilitazione. 3 1.2- La relazione tra repressione e livelli della protesta Analizzare le azioni collettive di protesta in contesti non democratici implica innanzitutto considerare i limiti imposti dalla presenza di varie misure repressive che caratterizzano uno Stato autoritario. Nei paesi autoritari, la repressione è la dimensione che prevale nel determinare le opportunità per le azioni collettive di protesa e può definire altre dimensioni della POS: essa rappresenta l'insieme di ostacoli posti dallo Stato o dai suoi agenti che influenza le azioni individuali e collettive dei challengers, in seguito all'aumento dei costi associati allo svolgimento di azioni collettive di protesta. Una parte del dibattito ha analizzato la relazione, piuttosto controversa, tra contesti repressivi e livelli di protesta. Alcuni studiosi hanno messo in evidenza come la repressione faciliti le proteste, evidenziando la presenza di partecipazione "reattiva" da parte di individui a cui è negata la possibilità di partecipare alla sfera politica attraverso i canali più convenzionali. Altri hanno invece sostenuto che la repressione limita il coinvolgimento nelle proteste in seguito alla numerosità dei rischi associati alla partecipazione. Davenport [2005] sintetizza suggerendo che, di fronte alla repressione, i dissidenti possono scappare, combattere in maniera più violenta o fare entrambe le cose allo stesso tempo. Gli studiosi hanno identificato quattro ipotesi, che sostengono l'esistenza di una relazione lineare positiva, una relazione lineare negativa, una relazione curvilineare a U e una relazione curvilineare a U rovesciata. Chi appoggia la prima ipotesi, collegata al processo cosiddetto dibacklash, argomentano che un aumento della repressione possa favorire le azioni collettive di protesta, soprattutto in Stati repressivi in cui i governi hanno una capacità militare limitata. Ciò non si osserva invece in Stati con solide strutture militari. Chi sostiene la seconda ipotesi, secondo la quale l'apertura delle opportunità politiche facilita lo sviluppo delle proteste, argomenta che all'aumento della repressione le proteste tendono a diminure. Le altre due ipotesi sostengono infine che la relazione tra repressione e protesta sia moderata da alcuni fattori, in particolare dalle strutture intermedie di mobilitazione delle risorse. 3 1.3- La relazione tra repressione e repertorio delle azioni Nei contesti repressivi, il cosiddetto spazio libero o free space, dove i challengers possono operare e agire liberamente, è molto limitato. Le misure repressive indiscriminate possono avere effetti deleteri sulle possibilità dei challengers di poter mobilitare le risorse necessarie per il coordinamento, la partecipazione e la gestione delle azioni collettive di protesta. Gli studiosi hanno esaminato l'effetto della repressione sul tipo di repertorio osservabile formulando alcune ipotesi. Una di queste sottolinea che la repressione provochi una radicalizzazione della protesta; una seconda sostiene che la repressione tenda a moderare i repertori della protesta; una terza mette in evidenza lo sviluppo di alcuni processi di trans-nazionalizzazione della protesta. Ricordiamo ad esempio che, nell'ambito dell'analisi del cosiddetto ciclo delle proteste italiano, della Porta [1996] aveva messo in evidenza che l'uso di tecniche repressive, diffuse e servere era associato alla diminuzione della protesta di massa e pacifica, e all'aumento della violenza delle frange più radicali. Tarrow [1996] ha invece documentato le dinamiche di trans-nazionalizzazione della protesta: in contesti repressivi, questa riguarda soprattutto le organizzazioni che operano nell'ambito dei diritti umani e del diritto internazionale umanitario. Questi meccanismi possono facilitare la continuità delle attività delle organizzazioni che operano in contesti autoritari. Tuttavia, alcuni studi hanno messo in evidenza che le attività sostenute da tali gruppi sono lontane dall'includere proteste contro il governo. Un altro meccanismo riguarda l'uso di repertori moderati che permette di operare in contesti repressivi attraverso l'attivazione di varie pratiche di resistenza: attraverso queste, si oltrepassano i divieti, senza risultare apertamente in conflitto con il sistema sociale e la cultura dominante, e si afferma, si esplora, si manifesta la propria identità in contrapposizione alla repressione subita e alle esperienze di dolore e di disperazione vissute. Simili fenomeni hanno operato anche nei contesti repressivi del Medio Oriente e del Nord Africa. Infine, talvolta i meccanismi descritti si sovrappongono. In particolare, dinamiche di radicalizzazione della protesta si possono mescolare con la trans-nazionalizzazione della protesta: i volontari della jihad ne sono un chiaro esempio. 3 14- La struttura sociale intermedia che permette di mobilitare le risorse Alcuni studiosi hanno analizzato la relazione tra repressione e protesta sostenendo che essa sia moderata da alcuni fattori. Se la repressione scoraggia o incoraggia i movimenti di protesta dipende da un insieme di condizioni che rendono molto più complessa la relazione: gli allineamenti dei partiti o delle élite, il grado di supporto o di opposizione da parte del pubblico, la presenza di movimenti alleati e di eventuali contromovimenti, il ruolo dell'esercito e delle forze militari, la rilevanza dell'unità della coalizione che governa e il ruolo della struttura internazionale delle alleanze politiche. L'effetto della repressione sulla protesta dipende anche dalla presenza di meccanismi che permettano a gruppi e organizzazioni che operano in contesti repressivi di mobilitare le risorse necessarie per le azioni collettive, poiché questa non è sempre realizzabile. Da una parte, l'evidenza empirica mostra che l'impegno dei singoli individui in alcuni tipi di organizzazione è positivamente correlato con le proteste anche in contesti non democratici. Dall'altra, le ricerche mostrano che le caratteristiche della struttura organizzativa sono diverse se le organizzazioni
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