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Riassunto Manuale Settis e Montanari "Una Storia Civile" vol.2 - Storia dell'Arte Medievale, Sintesi del corso di Storia dell'arte medievale

Riassunto Manuale Settis e Montanari "Una Storia Civile" vol.2

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Riassunto Manuale Settis e Montanari "Una Storia Civile" vol.2 - Storia dell'Arte Medievale e più Sintesi del corso in PDF di Storia dell'arte medievale solo su Docsity! I LUNGHI SECOLI DEL MEDIOEVO. Medium Aevum, Età di Mezzo è un’espressione che nacque nel Quattrocento per indicare quel periodo che si estendeva dalla Fine del Mondo Antico, alla sua Rinascita tra XV e XVI Secolo, il Rinascimento; considerare quest’epoca come un intervallo tra due antichità vuol dire sminuirla e quindi questa è una definizione negativa che considera il Medioevo come non-antico, una fase di passaggio tra due epoche ben definite. Oggi nel linguaggio quotidiano spesso si utilizza Medioevo con un senso negativo, come un sinonimo di miseria culturale e barbarie, anche se poi si è affascinati da romanzi ambientati in monasteri sperduti o film ambientati in castelli favolosi. L’età che corrisponde al Medioevo corrisponde a più di un millennio di storia nel quale ci furono una serie innumerevole di avvenimenti, innovazioni, etc… Dal punto di vista Culturale durante il Medioevo ci troviamo di fronte ad una pluralità di esperienze e forme artistiche che non si possono ricondurre ad un unico schema; infatti è impossibile avere un’unica chiave di lettura per i Mosaici di San Vitale a Ravenna e per Giotto, per le Oreficerie Longobarde e per le Cattedrali Gotiche e per gli Scultori Romanici e le opere di Simone Martini. Il Legame Con Gli Antichi. In un’epoca così vasta però bisogna cercare di rintracciare alcuni tratti comuni, come il Rapporto con la Tradizione Classica; l’uomo medievale nella sua esperienza religiosa e nella sua vita sociale intraprende strade differenti rispetto a quelle percorse dall’uomo antico, però non perde mai la Memoria della Grandezza della Storia che l’aveva preceduto e della sua ricca cultura letteraria e artistica. Con il termine Rinascenza si segnalava l’attrazione che certe fasi del Medioevo ebbero per la Classicità, però gli studiosi si accorsero che avrebbero dovuto parlare di continue Rinascenze in Età Romanica, in Età Carolingia, nell’epoca di Federico II, etc… Durante il Medioevo il legame con la cultura e l’arte classica, anche se ha passato fasi di alterno vigore, non si è mai spezzato del tutto perché da una parte l’armoniosa chiarezza del linguaggio classico ha sempre affascinato gli artisti e i committenti, perché per loro sembrava un modello indiscutibile, mentre dall’altro canto le forme architettoniche, i simboli, i colori del potere imperiale mantennero per secoli un’autorevolezza ineguagliabile, con infinite ripercussioni sulla produzione e l’uso di immagini. Il Ruolo Della Religione Cristiana. La cultura medievale ha le proprie radici in Quattro Testi redatti in greco durante il I Secolo D.C., i Vangeli, e in una serie di Scritti che formano il Nuovo Testamento. I Vangeli offrivano all’uomo medievale i contenuti fondamentali della fede cristiana, le storie e i principi in cui credere, i comportamenti da adottare nei confronti degli altri e la prospettiva di una vita dopo la morte; il Nuovo e l’Antico Testamento erano la Ta Biblia, ossia i libri per eccellenza, la Bibbia. Nella Bibbia gli uomini medievali trovarono le strade per una nuova esperienza spirituale nel presente e per la vita che si aspettava dopo la morte. Mentre appare una visione completamente nuova della storia umana, il Cristianesimo riscrive completamente l’idea di bellezza. Mentre i Valori della Religione Greca-Romana erano tutt’uno con i miti che raccontavano le vicende di dei ed eroi, nel Cristianesimo il credo religioso è ancorato ad un Dio che si è rivelato in un preciso contesto storico e geografico che parla tramite i quattro evangelisti; il mito greco non ebbe mai un libro che ne raccontasse l’autentica versione, ma esso veniva tramandato in forma orale e quindi variava facilmente, mentre al contrario la Storia Sacra trasmessa dalla Bibbia era ancorata ai testi canonici in quanto ispirati a Dio. Questa rivoluzione spirituale nel corso del Medioevo richiese nuovi tipi di edifici sacri, nuovi tipi iconografici e un uso nuovo delle immagini. La Funzione Didattica Delle Immagini. Durante il Medioevo nelle chiese le immagini assunsero una funzione più importante del solo abbellimento degli edifici, ossia assunsero la funzione di insegnare i contenuti della fede alle persone comuni non alfabetizzate e quindi incapaci di avvicinarsi in modo diretto ai testi sacri. Verso l’anno 600 Papa Gregorio Magno, rivolgendosi al Vescovo di Marsiglia Severo disse che adorare le immagini è una cosa, mentre insegnare con il loro aiuto è un’altra, perché tramite le immagini gli ignoranti vedono ciò che devono ricevere e leggono in esse ciò che non possono leggere nei libri. La funzione didattica delle Opere d’Arte non consiste solo nel raccontare le Storie di Gesù, di Maria e dei Santi, perché spesso gli artisti propongono ai fedeli immagini piene di simboli, infatti gli stessi Vangeli favoriscono una lettura simbolica della realtà. Quindi l’uso intelligente della metafora, presente anche nella tradizione classica, diventa un ingrediente tipico della cultura e dell’arte cristiana. Le Opere e I Committenti. Le Chiese, i Monasteri e i Conventi sono i luoghi per eccellenza dell’arte medievale, però è sbagliato pensare che solo i vescovi, i sacerdoti o i monaci fossero gli unici a prendere l’iniziativa per costruire, abbellire decorare gli edifici sacri; nella realtà i committenti sono i detentori del potere e gli esponenti delle aristocrazie mossi dal desiderio di rafforzare il proprio prestigio, mentre altre volte sono i singoli individui che commissionano opere come segno della propria devozione o come mezzo per la salvezza della propria anima, Pro Remedio Animae. In altri casi sono le comunità intere dei fedeli ad impegnarsi nella costruzione della Chiesa Cattedrale, ad esempio sulla Facciata del Duomo di Pisa un’iscrizione descrive la conquista di Palermo e ricorda di come il bottino di guerra servì per costruire l’edificio nel 1064 secondo la volontà dei cittadini di Pisa di qualsiasi livello sociale, mentre un altro esempio è dato dal fatto che quando nel 1124 il Duomo di Fano andò a fuoco i fedeli si incaricarono della sua ricostruzione, come descrive un’epigrafe contemporanea. In certe città, come nella Siena tra Duecento e Trecento, numerose opere d’arte vennero promosse e pagate dal Comune sia che fossero destinate a Chiese o a Edifici Pubblici. La Chiesa Cattedrale è il luogo in cui per secoli si identificava la città, era il centro della comunità sia nelle grandi feste che nella quotidianità, come descrisse perfettamente nel primo Ottocento un filosofo tedesco di Nome Hegel. Medioevo: Un Paesaggio Vicino. Umberto Eco disse che c’è una differenza fondamentale tra il modo in cui ci accostiamo all’antichità classica o al Medioevo, perché le rovine antiche, classiche, si visitano, mentre in quello che ci resta del Medioevo ci si abita; infatti la grande maggioranza dei luoghi che incontriamo è a nostra disposizione, ossia non occorre pagare un biglietto per visitarli, ossia nella maggior parte delle Chiese Medievali si celebrano quotidianamente le Messe e in quasi tutti questi edifici medievali si entra liberamente e si può sostare a piacimento. Una buona parte dei monasteri o dei conventi medievali ospita ancora monaci, mentre quelli che non accolgono più le originarie comunità religiosi sono diventati scuole, ospedali, caserme e uffici pubblici e in più non tutte le case medioevali sono diventate musei, ma alcune di esse oggi sono ancora abitate, per non parlare delle piazze abitate e vissute oggi come nei secoli del Medioevo. Il sociologo francese Pierre Bourdieu ha visto come questa convivenza con i monumenti della fede cristiana genera una specie di specializzazione dello sguardo, infatti entrando in una chiesa i fedeli che vi si recano per pregare si distinguono immediatamente dai turisti che si aggirano in cerca delle opere d’arte e quindi la devozione artistica e la devozione religiosa si intrecciano. Questa percezione guidata dalla disposizione al piacere estetico comporta un errore di categoria, eppure può convivere con la presenza e la devozione dei CAPITOLO 2: L’ARTE BIZANTINA E LA FIORITURA DELL’ARTE ISLAMICA. Lo Studio della Flora e il Dioscuride di Vienna. A Costantinopoli, come già in epoca tardo antica, vennero fatti codici illustrati destinati a personaggi della Corte imperiale ed uno degli esempi più straordinari è il Dioscuride Di Vienna del VI Secolo; questo grosso codice, quasi 500 fogli di pergamena, contiene un trattato sulle proprietà medicamentose delle piante e dei minerali scritto nel I secolo da Pedanio Dioscuride. Le illustrazioni di questo codice, quindi, riguardano soprattutto il mondo delle erbe e delle piante, descritte nelle foglie, nei fiori e nelle radici secondo una tradizione illustrativa ancor più antica. Una delle prime miniature del codice raffigura Anicia Giuliana,alla quale era dedicato il lussuoso codice: Anicia Giuliana, in questa miniatura, è seduta tra le personificazioni della Magnanimità e della Saggezza, mentre ai suoi piedi si inginocchia la Gratitudine delle Arti, e lì accanto è raffigurato il Desiderio per Colei che Favorisce le Costruzioni. I Dittici in Avorio. Sono di provenienza costantinopolitana anche i dittici in avorio di Areobindo, un uomo politico vissuto tra la fine della V secolo e gli inizi del VI secolo che nel 478 sposò Anicia Giuliana e nel 506 venne nominato console; a questa data, 506, risalgono 5 dittici consolari, due dei quali integri e tre frammentari. I dittici erano coppie di tavolette in avorio, dette Valve, tenute insieme da una cerniera, e in età tardoantica, quando un magistrato entrava in carica ne faceva dono ad altri magistrati e colleghi. Il dittico della cattedrale di Lucca, conservatosi grazie al suo utilizzo liturgico, presenta, in entrambe le Valve, cesti ricolmi di frutti sopra i quali erano scolpite due cornucopie, simboli di abbondanza già utilizzati nel mondo classico; un rampicante con foglie a forma di cuore avvolge le cornucopie e si sviluppa al di sopra fino alla tabella che riporta il nome del console e le tappe più importanti della sua carriera politica, mentre al centro, tra le cornucopie, è presente una piccola croce e il monogramma del nome di Areobindo. Il senso dell'immagine è chiaro, ossia il suo consolato sarà un tempo di pace e di prosperità. Il Codice di Rossano. La cittadina di Rossano Calabro, provincia di Cosenza, conserva uno dei più importanti libri illustrati della prima età cristiana, ossia il più antico codice illustrato dei Vangeli, il Codex Purpureus Rossanensi. Il Codice di Rossano, di cui ci restano 188 fogli originariamente doveva contenerne il doppio; i testi dei Vangeli sono illustrati da miniature a volte a piena pagina mentre altre volte con scene di minori dimensioni disposte nella parte alta e bassa. Oltre al Codice di Rossano sono noti altri codici purpurei come la Genesi di Vienna e i Vangeli di Sinope a Parigi, anch'essi del VI Secolo; questi erano manoscritti di lusso commissionati probabilmente dai membri della Corte imperiale di Costantinopoli , come ci viene suggerito dal colore che ne riveste le pagine e questa speciale destinazione è confermata, nel codice di Rossano, dal fatto che i titoli e le prime righe di ogni Vangelo sono in inchiostro d'oro, mentre il resto è scritto in argento. Nel Codice di Rossano la scena in cui Cristo viene condotto davanti a Pilato occupa quasi tutto lo spazio della pagina; il governatore romano è raffigurato seduto su un trono, dietro di lui sono presenti due guardie e in più accanto sono piazzati due quadri su cui sono raffigurati personaggi a mezzo busto, probabilmente dei ritratti ufficiali. Questo e altri dettagli dimostrano che il miniatore descrive la scena pensando ai processi giudiziari del suo tempo. L'artista ha prestato grande attenzione ai gesti e agli atteggiamenti, infatti nella parte inferiore della pagina Barabba viene costretto a piegare la testa e a tenere le mani legate dietro la schiena come si addice ad un prigioniero; Tra le molte ipotesi sul posto di esecuzione del codice prevale l'ipotesi siriaca, forse Antiochia, però quello che è certo è che l'autore di questo codice aveva familiarità con la tradizione pittorica ellenistica, come si deduce dal suo interesse per la resa naturalistica dei corpi dentro uno spazio verosimile. 3. L’Arte Islamica. Gerusalemme tra Mondo Cristiano e Mondo Islamico. L’imperatore Giustiniano intraprese un’impegnativa politica di rinnovamento urbano anche in Palestina: a Betlemme fece ingrandire la basilica della Natività, edificata da Costantino, mentre a Gerusalemme venne risistemata la arteria porticata che tagliava da nord a sud la città e venne costruita una grande cisterna, però nel 543 venne fondata una basilica dedicata a Maria, chiamata dal popolo nuova chiesa e questa chiesa, circondata da portici e preceduta da un atrio che la collegava al cardo, non aveva paragoni. La chiesa, progettata da Teodoro, è riconoscibile accanto al cardo nella cosiddetta “Mappa di Madaba”, un documento eccezionale, anche se è in parte perduto, perché è una rappresentazione topografica della Palestina a mosaico che copre il pavimento della chiesa di San Giorgio a Madaba; questa grandiosa carta geografica, ricca di didascalie con i nomi dei luoghi, era destinata ai pellegrini che già dai primi secoli del Medioevo si recavano in Terra Santa. Dopo la chiesa del Santo Sepolcro voluta da Costantino, la Nuova Chiesa accentuò la dimensione cristiana della città, a discapito di quella ebraica, però questa fu una situazione effimera perché nel 614 Gerusalemme fu conquistata dai persiani, successivamente nel 630 fu espugnata dall'imperatore Eraclio ed infine nel 637 venne conquistata dagli Arabi e quindi il volto della città cambiò e gli edifici della religione islamica si addensarono nella zona orientale, detta Spianata delle Moschee. In questa zona sorgeva il Tempio di Salomone che venne distrutto dall'imperatore Tito nel 70 D.C., però l'unica struttura superstite è il cosiddetto Muro del Pianto, luogo santo per l'ebraismo anche se collocato in una difficile e delicatissima contiguità con gli spazi sacri dell’Islam. La Cupola della Roccia a Gerusalemme. Il primo edificio che sorse sulla Spianata per volontà di Abd Al-Malik fu la Cupola della Roccia, un edificio a pianta centrale che conserva ancora la struttura originaria anche se venne modificato nel corso dei secoli; una cupola sovrasta il rilievo roccioso sacro per ebrei, cristiani e musulmani, ossia il luogo del sacrificio di Abramo ma anche dell’ascesa al cielo di Maometto. La cupola poggia su una serie di pilastri alternati a tre colonne, segue poi un ambulacro a pianta ottagonale a sua volta costituita da pilastri e coppie di colonne. Il ricorso all’ottagono e alla cupola è la prova che i modelli di riferimento furono quelli dell’architettura tardo antica e bizantina e con ogni probabilità provennero da Costantinopoli gli artisti attivi all'interno , come si può vedere dall' iconografia e dallo stile dei mosaici, perché su fondo oro si sviluppano elaborati motivi vegetali su cui si innestano corone e gioielli e scritte coraniche. La Grande Moschea di Damasco. la grande moschea di Damasco in Siria; anche qui, come a Gerusalemme, è presente lo stratificarsi di esperienze religiose differenti sul medesimo luogo , con le conseguenti commistioni e sovrapposizioni. In questo punto della città, originariamente, sorgeva un santuario dedicato al Dio siriano Hadad, successivamente in età romana venne eretto un tempio a Giove Dolicheno, che i cristiani sostituirono con una chiesa intitolata a San Giovanni. Per la moschea vennero riutilizzate, articolata in tre navate lunghe, mentre un'altra navata si interpone in modo perpendicolare al centro e si affaccia sulla Corte con un ingresso a triplice arcata. Questa facciata è in asse, all'interno, con il Mihrab, la nicchia che indica l'invisibile presenza del profeta e il muro in cui è ricavata la nicchia coincide con il limite meridionale dell'antico recinto e serve da Qibla, ossia indica la direzione della preghiera verso la città Santa della Mecca. Anche a Damasco, all'interno della moschea e del porticato, artisti bizantini eseguirono mosaici in cui la figura umana è assente e dove palazzi e architetture di fantasia si dispongono in un paesaggio di prati, alberi e fiumi e questa decorazione lussuosa serve ad evocare le bellezze paradisiache, come accade a San Vitale a Ravenna. CAPITOLO 3: ITALIA “BIZANTINA” TRA VI E VII SECOLO. 1: Dalla Città Antica alla Città Cristiana: Santa Maria Antiqua. La Cristianizzazione dei Templi Pagani. Durante l'età tardoantica Roma perse lentamente il suo ruolo centrale nell’impero perché prima la capitale venne spostata a Milano e poi venne spostata a Ravenna e solo pochi anni dopo l'insediamento della Corte a Ravenna, Roma venne devastata dai visigoti nel 410; l’Urbe, che in età imperiale superò il milione di abitanti, si avviò verso uno spopolamento impressionante e una delle conseguenze di questo avvenimento fu il progressivo abbandono dei templi Pagani non più frequentati e di altri edifici pubblici. Nel 609 uno dei più importanti templi della Roma imperiale, il Pantheon, venne trasformato in chiesa cristiana e venne cambiata l'antica dedicazione a tutti gli dei, ma la chiesa non perse il plurale perché venne chiamata Santa Maria ad Martyres. Il fenomeno della cristianizzazione dei templi Pagani e più in generale dei monumenti della città antica iniziò diversi decenni prima, infatti per ospitare la chiesa di Santa Maria Antiqua nel Foro romano vennero modificati e adattati alcuni ambienti a ridosso del Colle Palatino, probabilmente il vestibolo dell’antico palazzo imperiale; l'edificio ebbe una vita breve perché venne abbandonato verso la metà del IX Secolo. Su quest’area in Età barocca sorse la chiesa di Santa Maria Liberatrice che però venne abbattuta agli inizi del secolo scorso per consentire gli scavi archeologici in questo settore dei fori. Una ricca serie di affreschi fa di Santa Maria Antiqua uno dei più importanti monumenti dell’alto medioevo infatti tra il VI e il IX i dipinti si succedono sulle pareti interne con un ritmo incalzante e impressionante. verso Bari, il sasso caveoso, fatto come la cavea di un teatro, e al centro lo sperone dove sorge la Civita, con al centro la cattedrale romanica; i due sassi ospitano abitazioni in parte ricavate scavando la roccia, lungo le pareti che scendono i corsi d'acqua che hanno scavato le due profonde gole. Da questa particolarissima struttura deriva quella sovrapposizione verticale di case e chiese, che mescolando la città dei vivi e dei morti, colpiva la fantasia barocca dell’abate. Nel 1945 Il Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi svelo all'Italia e al mondo la città dei sassi, e se il libro di Levi mise sotto gli occhi dell’Italia le disumane condizioni di vita dei sassi, oggi Matera è vista come il modello di un altro modo di vivere ed abitare, capace di nutrire il più avanzato dibattito sulla forma delle città del futuro. SEZIONE II: L’ETÀ LONGOBARDA Romani e Longobardi: Una Non Facile Convivenza. Per un certo periodo popolazione romana e Longobardi vissero l'una accanto agli altri nelle città e nelle campagne, mantenendo però ciascuno le proprie abitudini culturali e i propri ordinamenti giuridici, e quindi queste due popolazioni convivevano; anche sul piano religioso erano presenti delle divergenze, infatti Longobardi si erano convertiti alla fede cristiana, aderendo però alla predicazione di Ario. Questa coesistenza tra romani e Longobardi fu molto difficile e instabile, e in più in un primo momento, i Longobardi mantennero la consuetudine del seminomadismo e questa scelta di non insediarsi in modo stabile in un luogo e di cambiare periodicamente la zona di residenza non aiutò la ripresa delle città, le quali già da secoli erano provate dallo stallo del sistema economico ed erano sempre più ridotte nel numero degli abitanti. Dunque, il risultato di questa migrazione, almeno in un primo momento, fu l’aggravarsi della crisi economica e un generale degrado delle condizioni di vita. Le Sepolture Longobarde. La diversità culturale dei Longobardi è ben visibile anche nelle diverse testimonianze riguardanti le loro sepolture, infatti se i romani continuarono a seppellire i loro defunti nelle necropoli o nelle chiese, con i tradizionali riti funerari, i Longobardi, per un certo periodo, seppellirono i loro defunti in campo aperto. I corredi funerari Longobardi rispecchiano, in linea di massima, il genere dei defunti e il loro rango sociale e rispetto ai corredi di età romana, in questi corredi Longobardi la presenza delle armi è una novità assoluta, del resto nella vita quotidiana erano le armi a di mostrare la posizione di guerriero e la sua rilevanza sociale. L’Integrazione tra Romani e Longobardi. L'età compresa tra VI e VIII secolo fu segnata da ostilità, contrasti e nette contrapposizioni con i romani, però nei Longobardi nacque ben presto il desiderio di assorbire la cultura del popolo romano e le arti figurative offrono preziose indicazioni sulla complessità delle relazioni intercorse tra i due popoli e sulla progressiva integrazione culturale dei nuovi arrivati. CAPITOLO 4: IL PAESAGGIO TRA LA FINE DEL MONDO ANTICO E GLI INIZI DEL MEDIOEVO 1. UN PAESAGGIO IN TRASFORMAZIONE. L’Abbandono e l’Incuria degli Edifici Romani. La fine del mondo antico consegnò al medioevo un paesaggio unico nel suo genere, infatti l'enorme area dell'impero di Roma era costellata da un numero straordinario di edifici ed infrastrutture pubbliche, mai visto in precedenza come strade, ponti, fori, templi, Terme e altre costruzioni civili e anche residenze private, Domus e insulae, collocate nei grandi o piccoli centri urbani e le ville all'esterno di essi e anche, infine, le necropoli lungo le vie pubbliche appena fuori città, chi è presentavano imponenti monumenti funerari affiancati a sarcofagi e stele funerarie di modeste dimensioni. Questo paesaggio di edifici ed infrastrutture cadde abbandonato e in rovina perché da una parte era scomparsa l’organizzazione che ne assicurava la continua manutenzione, d’altra parte il progressivo calo demografico lasciò paesi o città poco abitate o disabitate. Questo scenario è testimoniato da Sant’Ambrogio il quale attorno al 387 percorse la Via Emilia trovando cadaveri di città semidistrutte e tanti villaggi con un aspetto funereo; Bologna, Modena, Reggio e Piacenza furono città fiorenti in epoca romana, ma adesso agli occhi di Sant’Ambrogio appaiono quasi irriconoscibili e quindi si deduce che ben presto la crisi dell'impero lasciò segni sul paesaggio. Nuove Destinazioni per Vecchi Edifici. A Roma molti edifici cambiarono funzione, come abbiamo già visto con il Pantheon; il teatro di Marcello venne adibito a palazzo e fu per secoli residenza di famiglie patrizie, mentre le arcate della parte inferiore vennero occupate da botteghe e attività commerciali fino agli inizi del XX secolo. Sempre a Roma, lungo la via Appia antica, accanto al sepolcro di Cecilia Metella, sorse il Castello dei Caetani, ancora integro fino al secolo scorso; quindi nelle città vennero sfruttati in modo particolare i luoghi destinati agli spettacoli. Questo sfruttamento accade sia nelle grandi città che nei piccoli centri come Pollenzo in Piemonte, dove alcune case del centro compongono ancora oggi la forma ellittica di un anfiteatro; a Firenze, in zona Santa Croce, alcuni edifici presentano un andamento curvilineo che indica che anche qui le strutture dell’antico luogo di spettacoli furono la base per abitazioni private sin dal medioevo, e in più i nomi delle vie sono un'altra conferma, ossia Via Torta, ossia storta, e Via del Parlascio, dal latino perilascium, ossia pietra in giro, antico nome usato per gli anfiteatri. Il caso più straordinario è quello di Lucca, dove una grande piazza nel centro storico della città Toscana presenta una pianta singolarmente ellittica perché anche in questo caso, su tutto il perimetro dell'anfiteatro della Luca romana, vennero edificate nei secoli case di proporzioni e di altezze diverse. Edifici che Mantengono la Loro Identità. In questo panorama di rovine abbandonate, riusate e riadattate, sono presenti anche degli episodi speciali, ossia gli edifici antichi rimasti integri e che mantennero la loro funzione originaria; fino alla fine del Cinquecento chi entrava a Ravenna passava attraverso la Porta Aurea, una magnifica costruzione marmorea di età romana, detta la Porta d'oro e infatti nel Trecento il Comune di Ravenna la raffigurò sul sigillo della città e dalla bellezza di questa porta ne rimase impressionato anche Andrea Palladio, importantissimo architetto del Rinascimento, che ne fece un prezioso disegno. Da secoli e anche oggi a Rimini continua a essere usato il Ponte di Tiberio. Come luogo di spettacoli è utilizzato tutt'oggi l'anfiteatro romano di Verona, l'Arena, che ha attraversato quasi indenne il medioevo e l'età moderna; questo monumento lo si individua in modo abbastanza semplice anche in un documento eccezionale, la cosiddetta Iconografia Rateriana, una veduta di Verona nel X Secolo realizzata su indicazione del vescovo della città, Raterio. In questa veduta l'Arena non è l'unico monumento romano ad essere dipinto, infatti ci sono anche il porticato del antico foro, la cinta muraria e le porte antiche, il teatro, il ponte sull’Adige e il palatium di Teodorico; lungo le mura si vedono le torri fortificate, mentre all'interno spiccano i campanili delle chiese, in tal modo il vescovo Raterio voleva celebrare la città cristiana e la città romana e tardoantica, tramite i suoi monumenti più distintivi. 2. Tra Città e Campagna: Le Mura. Il tono elogiativo dell'iconografia veronese non deve ingannare perché il volto delle antiche città romane cambiò e non solo a causa dell'abbandono e delle trasformazioni subite dai grandi edifici pubblici; quasi ovunque nei centri urbani dell’Italia contemporanea constatiamo che il livello archeologico di età romana è separato dal piano di calpestio attuale da più strati, i quali si sono formati durante i secoli del medioevo a causa di più fattori come il crollo e le demolizioni che si depositarono sulle pavimentazioni romane, le inondazioni che portarono fango e detriti e i rifiuti e le acque sporche che si accumularono a causa della mancata manutenzione o rottura delle fogne. Allo stesso tempo preso il sopravvento un’edilizia povera che ricorreva a materiali di recupero o di scarsa qualità come il legno; nuovo è anche il caso di zone destinate alla coltivazione all'interno della città, soprattutto durante i periodi di guerra, e l'inedito fenomeno delle sepolture entro il perimetro urbano, derivante dall’influenza sempre più forte del cristianesimo. Come si vede nell’antichissima veduta veronese, Iconografia Rateriana, il ruolo delle mura rimaneva strategico, perché le mura sono il primo elemento architettonico che distingue gli agglomerati urbani dai semplici villaggi, infatti quando il viandante si avvicinava ad una città, la prima cosa che incontrava era la cinta fortificata che segnava un confine; le mura funzionavano come una specie di diaframma che separava la vita della campagna della vita urbana, ma lo stesso tempo metteva queste due vite in comunicazione tramite le porte urbiche, sorvegliate da uomini e fortificazioni, tramite le quali si entrava e si usciva dalla città. 3: Le Campagne: I Castelli. L’Incastellamento. Rispetto al paesaggio antico, Due grandi novità vennero introdotte in età altomedievale dando forma al paesaggio italiano di oggi e queste novità sono: il Castello e il Monastero. Con l'arrivo dei Longobardi si accentuò un fenomeno già iniziato in età tardoantica, ossia la militarizzazione della società, una conseguenza della frammentazione del potere; i Longobardi non occuparono tutta la penisola italica e quindi larghe parti rimasero sotto il dominio bizantino e quindi ci furono diversi scontri e reciproci sconfinamenti nelle aree di frontiera, e quindi il crescente bisogno di sicurezza e di controllo dei territori e delle vie di comunicazione portò al fenomeno dell’Incastellamento, ossia i cittadini furono spinti a occupare i siti d’altura, che divennero sede di contingenti militari ma anche dei veri e propri insediamenti abitativi fortificati, mentre a volte vennero fortificate strutture già esistenti come monasteri, borghi, villaggi e chiese. In età medievale il termine castello, dal latino castellum legato al termine castrum ossia accampamento, era associato ad architetture anche molto diverse per struttura, dimensioni e posizione, infatti il castello poteva comprendere edifici residenziali, alloggi per guarnigioni militari, edifici di culto, etc…; in ogni caso l'elemento costante in ogni castello è la presenza di strutture fortificate come palizzate, mura , torri, fossati e porte e alcune volte all'interno di una prima cerchia difensiva sorgevano costruzioni signorili, sembra fortificate, le rocche. La situazione variava a seconda delle zone della penisola, dei tempi, delle motivazioni e delle soluzioni architettoniche e urbanistiche adottate; in alcune regioni il fenomeno dell’incastellamento fu più intenso rispetto ad altre, però senza dubbio per tutta la penisola questo fu un mutamento enorme nell’organizzazione del territorio e nelle forme di popolamento. La prova della pluralità Il Reliquario del Presepe. CAPITOLO 6: CAPITALI ITALIANE DELL’ARTE LONGOBARDA E CONTATTI CON IL NORD EUROPA. 1. Cividale. Per entrare in Italia i Longobardi attraversano le Alpi orientali del Friuli e la città di Cividale, Udine, fu uno dei primi centri in cui si stabilirono; dal 2011 Cividale è presente nella lista Unesco dei siti patrimonio dell'umanità, e all'interno di questa lista figurano altri centri Longobardi come Brescia, Spoleto e Castelseprio. Cividale in epoca romana si chiamava Forum Iulii, nome che si estese successivamente alla regione Friuli, mentre il nome attuale della città deriva da Civitas Austriae o Civitatum, nome con cui il centro urbano veniva indicato nell’alto medioevo. A Cividale troviamo, nel corso dell’VIII Secolo, una serie di sculture che avevano una precisa funzione nell’arredo liturgico delle chiese locali. - Un Altare Offerto da Ratchis. - Il Fonte Battesimale di Callisto. Il Pluteo di Sigualdo. Uno degli 8 lati del fonte battesimale presenta un Pluteo , una balaustra, commissionata da un successore di Callisto, il patriarca Sigualdo, in carica tra il 762 e il 776; il tema di questo pluteo è quello della Croce e dei quattro esseri viventi dell’Apocalisse di Giovanni , cioè i simboli dei quattro Evangelisti, l'aquila, l'uomo, il Toro e il leone. In questo Pluteo tutte e quattro le figure stringono un cartiglio su cui sono riportati i versi che il poeta latino del V secolo, Sedulio, dedicò agli autori dei Vangeli; anche in questo caso, come nel caso dell’altare di Ratchis, lo scultore è alle prese con una iconografia dalla lunga tradizione e mostra il suo impaccio, le sue difficoltà, semplificando le figure, appiattendole e trattandole come motivi decorativi. Tre Scultori e un Ciborio. Lo schema utilizzato per il fonte battesimale di Callisto è diffuso anche in altre località lungo l’VIII Secolo; in un paese dell’attuale provincia di Verona, San Giorgio di Valpolicella, si conserva un momento simile per struttura e decorazioni, destinato ad ornare il fonte battesimale della chiesa, il cosiddetto Ciborio di Orso, Gioventino e Giovano. In questo ciborio si riscontrano formule decorative del repertorio classico, ma anche motivi del tutto nuovi come quello che decora gli archivolti, cioè un ramo che ondeggia e ha foglie dalle nervature concentriche; quello che rende speciale questa scultura è la firma degli autori presente su una delle colonnine e questa iscrizione in latino non classico dice “Il maestro Orso, con i suoi discepoli Gioventino e Giovano, innalzo questo ciborio”. Questa non è una firma come quella dei quadri dell’Ottocento e del Novecento, e non è neanche una sigla in calce a un documento, questa iscrizione venne redatta da un diacono di nome Gondelmo, che si dichiara umilmente indegno; come le firme moderne, anche questa firma serve ad assumersi la responsabilità di un’opera e in più scrivere il proprio nome sulla pietra è un modo per dichiarare il proprio orgoglio e per farlo resistere nei secoli, perché il ciborio è sotto gli occhi di tutti ed è collocato nel luogo più importante per la comunità dei fedeli, in più i tre nomi sono accostati a quello del re longobardo Liutprando e quindi possiamo datare questo ciborio in modo preciso. - “Il Tempietto di Cividale”. 2. Brescia. La Chiesa di Desiderio e Ansa. Un'altra importante città longobarda in Italia settentrionale fu Brescia, la romana brixia; nel 753 il duca Desiderio, futuro re longobardo dal 756 al 774, e sua moglie Ansa fondarono il monastero femminile di San Salvatore, che rimase sotto la protezione e il controllo della famiglia dei fondatori e pian piano si arricchì di beni nella stessa Brescia, di una rete di proprietà fondiarie e di monasteri dipendenti dall’Austria fino alla Campania. La chiesa del complesso monastico fu concepita come segno visibile del potere dei fondatori e anche per questo motivo Ansa fece portare qui importanti reliquie come quella di Santa Giulia dall'isola di Gorgona; la nuova dedica a Santa Giulia del monastero apparve solo dopo il 915 e coesistette con quella di San Salvatore fino alla fine dell’XI Secolo. La chiesa di San Salvatore divenne un mausoleo della dinastia perché vi furono sepolti Desiderio e Ansa; alcuni frammenti di sarcofagi di età romana scoperti all'interno del successivo pavimento di età romanica, soprattutto quello con il mito delle amazzoni, fanno pensare che essi siano stati portati in questa chiesa personaggi della più alta aristocrazia. In età longobarda iniziò un fenomeno che durò tutto il medioevo sia in Italia che in Europa, cioè la sepoltura dei sovrani, alti prelati ed esponenti delle aristocrazie nei sarcofagi romani. La prima chiesa eretta tra VII e VIII secolo era ad aula unica con transetto e tre absidi, mentre l'edificio costruito da Desiderio aveva tre navate con colonnati, secondo il modello ravennate è sempre da Ravenna, soprattutto da Battistero Neoniano e da San Vitale, deriva anche l'idea di decorare a stucco gli intradossi e le ghiere degli archi; a Brescia venne utilizzato lo stucco ma senza aggiunte di colore, e questo fa pensare che si cercasse di riprodurre l'aspetto candido del marmo, però in compenso nei fiori che ornavano le ghiere furono inserite ampolline di vetro azzurro e verde, come quelle in Santa Maria in Valle a Cividale. Dalla chiesa di San Salvatore proviene un bassorilievo in marmo con una figura di Pavone e il profilo obliquo della lastra indica che in origine era il parapetto della scala di un ambone, un elemento che non poteva mancare nell’arredo liturgico delle chiese, come abbiamo visto a Ravenna con l'ambone del vescovo Agnello; la figura del Pavone è attestata sia a Ravenna che nell’iconografia paleocristiana, infatti il Pavone era interpretato come simbolo dell'immortalità dell'anima e tutto lo spazio attorno al Pavone venne riempito da rami di vite con grappoli i pampini, disposti lungo curve e controcurve in un ritmo regolare, mentre in basso il bordo era costituito dall'intreccio di quattro nastri. Anche in quest’opera colpisce soprattutto la riuscita compresenza di motivi ornamentali bizantini e barbarici. La Croce di Desiderio. A Desiderio viene collegata una grande croce gemmata documentata del monastero solo dal Cinquecento però gli studi recenti assegnano questo pezzo ad un’epoca successiva al re longobardo tra alla fine dell’VII e gli inizi del IX secolo; la croce ha una struttura in legno rivestita da una lamina in metallo cui sono applicate gemme e pietre preziose e la modalità di inserimento delle pietre a tappeto è un elemento che fa pensare ad analoghe oreficerie della prima età carolingia. Infine, il piccolo rilievo con Cristo in trono è un inserimento del X secolo, perché come accade a molte opere di oreficeria durante il medioevo anche questa croce subì durante i secoli sostituzione e modifiche. Sui due lati della Croce sono incastonati 212 pezzi, tra i quali 58 cammei, ed essi sono pezzi antichi di soggetto e di cronologia differente che vanno dalla tarda età ellenistica fino al IV secolo D.C., e tra essi spicca, nel lato principale, un tondo con ritratti su foglia d'oro raffigurante una dama dell'alta aristocrazia nei suoi ricchi abiti, affiancata da due figli; probabilmente questo tondo venne apprezzato per la materia e la tecnica, e non per il carattere naturalistico dei ritratti. Accanto a questi pezzi antichi ci sono intagli parzialmente rilavorati di età altomedievale e intagli medievali L’Evangelario di Lindisfarne. Su una piccola isola vicina alle coste della Northumbria venne scritto e ornato uno dei capolavori della miniatura altomedievale, l’Evangelario di Lindisfarne, così chiamato in onore del nome del monastero in cui venne realizzato; una nota aggiunta più tardi sotto il testo dei Vangeli fornisce una carta d'identità del codice e le notizie fornite da questa nota sono preziose perché permettono di dare un nome e un ruolo a chi scrisse e decorò il codice. la pagina con l'inizio del Vangelo di Giovanni si apre con una specie di esplosione delle prime tre lettere di “in principio”, tracciate in una scala maggiore rispetto alle altre esse si suddividono all'interno in più scomparti per ospitare una complessa sequenza di intrecci che si distendono poi nelle estremità, e quindi nello spazio restante ed infine alle altre lettere. Questa esaltazione delle lettere non è casuale perché il Vangelo di Giovanni inizia proprio con la celebrazione della parola come essenza stessa di Dio; accanto a pagine come questa con un intreccio ricco, troviamo quelle con le figure degli Evangelisti, inquadrate in modo simile a quella dello scriba Esdra del Codex Amiatinus, e questa è la prova che anche a Lindisfarne arrivarono modelli grafici da centri monastici italiani. La nota permette di osservare come l’attività attorno al codice non si fermò con la morte di Eadfrith, infatti anche il suo successore lavorò alla rilegatura e allo stesso modo fece un Monaco che la arricchì di decorazioni ed infine un sacerdote aggiunse dei commenti, glosse, in inglese al testo latino dei Vangeli. Codici Miniati a Bobbio. Diversi codici irlandesi arrivarono a Bobbio insieme ai pellegrini diretti a sud e di uno di essi resta il frammento di sole quattro pagine appartenente a un evangeliario degli inizi del IX secolo e oggi conservato a Torino; in questi frammenti dieci file di personaggi con un libro in mano, ciascuno di essi chiuso dentro una specie di casella, circondano un Cristo imberbe e di grandi proporzioni che tiene una croce tra le mani, mentre un piccolo Angelo con la tromba, in alto a destra, appena fuori dalla cornice annuncia quella che gli studiosi interpretano come la seconda venuta di Cristo. L’interesse per la resa spaziale che aveva caratterizzato tutta l'arte classica e che resistette nelle opere tardo antica e bizantine, in questa opera è del tutto assente infatti il pittore immagina il momento solenne del secondo ritorno di Cristo come una scena del tutto astratta dalla realtà. 6. La Decorazione a Intreccio. Una delle principali innovazioni dei secoli che stiamo osservando nel campo dell'ornamentazione fu l'introduzione e la diffusione dell’Intreccio; nell'arte classica prevalsero motivi ornamentali ispirati alla natura vegetale, soprattutto basati sull’acanto, mentre in questo periodo si preferisce l'uso dell’intreccio, la cui idea non deriva dalla natura ma è tratta da oggetti fabbricati dall'uomo, come i canestri realizzati con i vimini, ossia rami flessibili del Salice, quindi questo è un processo di lento distacco dal mondo naturale, che le immagini e le opere registrano in modo fedele. La Mimesis che contraddistinse l'intera civiltà classica in questo periodo venne sostituita dal piacere per la decorazione astratta e i committenti apprezzavano sempre di più linee che si piegano e si ripiegano, che tracciano nodi e che disegnano trame elaborate; gli artisti, da parte loro, si lasciano trasportare dall'amore dell'infinito, ossia il desiderio di sormontare tutte le restrizioni, di non farsi condizionare da alcun limite e quindi sia artisti che committenti sono attratti dalla complessità, da quelle forme complicate che l'artista escogita senza guardare al mondo attorno a sé. Dipinti o scolpiti, gli intrecci viminei potevano rivestire qualunque oggetto e qualunque immagine, persino le lettere come si vede nella iniziale di un manoscritto proveniente da Bobbio, oggi a Torino, che ci mostra come nello scriptorium bobbiese arrivavano sia esemplari dal nord, ma allo stesso tempo venivano prodotti nuovi codici. Un altro codice che riporta le Institutiones di Cassiodoro descrive in maniera sintetica il monastero di Vivarium in Calabria; nella zona più bassa della pagina alcuni pesci che entrano ed escono da una vasca in muratura rappresentano il vivaio, in latino vivarium, il luogo che fornì a Cassiodoro la metafora per il monastero da lui fondato nei pressi di Squillace no in Calabria, mentre più in alto è dipinto un edificio sacro affiancato da due campanili e in questo caso l'intreccio diventa tutt’uno con l'architettura. Le possibili varianti sono numerosissime infatti su una lastra sepolcrale di Bobbio dei nastri formano due serie di tre cerchi concentrici, che contengono a loro volta matasse di nastri annodati, mentre su un pluteo frammentario di inizio IX secolo si vedono delle serie di cerchi annodati e congiunti a nastri disposti in diagonale e anche la cornice è a nastri che formano però nodi a due punte. La complessità non è fine a sé stessa, infatti la laboriosa difficoltà cui è chiamato l'artista per predisporre gli intrichi dell’intreccio e l’impegnativa fatica che deve compiere il fedele spettatore per penetrarne i meccanismi sono entrambi un modo per celebrare e onorare Dio. SEZIONE III: UN NUOVO IMPERO CRISTIANO: DAI CAROLINGI AGLI OTTONI LINEAMENTI STORICI. Carlo Magno e la Rinascita dell’Impero Romano d’Occidente. Grazie alle vittorie contro i bavari, i sassoni, i Longobardi nel 774 e gli arabi in Spagna, il territorio dominato dalla popolazione di origine germanica dei Franchi guidati da Carlo Magno, 768-814, raggiunge un'estensione che non si vedeva dal crollo dell'impero romano d'occidente e per questo motivo, la notte di Natale dell'anno 800, Carlo si fece incoronare imperatore da Papa Leone III in San Pietro; risorgeva quindi, almeno nelle intenzioni e nei progetti, quell’impero romano d'occidente di cui l'ultima parte della V secolo aveva visto la fine senza rumore come disse Arnaldo Momigliano. Un Impero Sotto il Segno della Fede. La visione politica di Carlo Magno risulta chiara nelle monete che fece coniare, infatti sul dritto era raffigurato l'imperatore di profilo, in modo simile a come gli imperatori romani erano rappresentati sulle loro monete, e in più era presente una scritta che lo descrive e diceva “nostro signore Carlo, Augusto imperatore e re dei franchi e dei Longobardi”; mentre sul rovescio delle monete era presente una chiesa che assomigliava alla facciata di un tempio classico ed era presente la scritta Christiana Religio. Quindi il nuovo impero nacque sotto il segno della fede cristiana; Carlo capì che l'identificazione tra religione della Chiesa di Roma e potere politico poteva essere vantaggiosa per entrambi, cioè la fede poteva essere un fattore decisivo nel suo grande sforzo di trasformazione politica, di riorganizzazione amministrativa e di unificazione dell’impero sotto i Franchi. Un mosaico romano oggi perduto ma che si può ricostruire con sicurezza, illustrava bene questo rapporto stretto tra la dimensione religiosa e quella politica; questo era un mosaico che ornava il Triclinio lateranense, un ambiente che accoglieva gli ospiti illustri all'interno del palazzo dei Papi e che sorgeva accanto alla cattedrale di Roma di San Giovanni in Laterano. In questo mosaico San Pietro in trono affida Papa Leone III il pallio, una delle insegne liturgiche dei pontefici, con la mano destra, mentre con la sinistra consegna un’insegna militare a Carlo Magno inginocchiato in preghiera; il senso dell'immagine è evidente, ossia è dall’autorità di Cristo e degli apostoli che derivano sia il primato spirituale della Chiesa di Roma sia quello temporale dell'imperatore. Gli Scriptoria. Da questo ruolo centrale attribuito alla religione cristiana deriva la scelta di Carlo e dei suoi successori di fondare nuove chiese e nuovi monasteri e di offrire sostegno economico a quelli già esistenti; Carlo fu anche attento all’istruzione infatti istituì scuole vescovili e nei monasteri favorì l'attività degli Scriptoria, ossia scuole officine dedicate alla scrittura dove venivano realizzati e decorati i codici manoscritti destinati all'uso liturgico e in più i monaci ricopiavano, salvandole e consegnandole ai secoli successivi, le opere degli autori classici. In questi stessi Scriptoria carolingi si sviluppò nel corso del sacro romano impero un tipo di scrittura chiaro e già sperimentato nell’abbazia di Corbie, Francia, dal 765, ossia la Minuscola Carolina, che dal Trecento sarà alla base della scrittura umanistica. La Memoria di Roma Antica, Strumento di Propaganda. Un aspetto fondamentale del progetto di Carlo Magno fu il tentativo di collegare la propria politica con la memoria di Roma antica, infatti i sigilli imperiali carolingi presentavano la scritta renovatio romani imperii, cioè rinnovamento dell’impero romano; il continuo richiamo alla memoria di Roma fu uno strumento di propaganda politica, infatti l'immagine di Carlo Magno guadagnava in autorevolezza quando assomigliava a quella degli imperatori antichi, come si vede in un bronzetto conservato al Louvre, modellato sulla statua bronzea di Marco Aurelio a cavallo e all'epoca questo bronzo antico era collocato accanto al palazzo del Laterano a Roma perché si credeva raffigurasse Constatino, il primo imperatore cristiano. La Dissoluzione dell’Impero Carolingio e l’Inizio del Sistema Feudale. Gli sforzi di Carlo Magno non furono sufficienti ad assicurare una lunga stabilità, infatti la fase storica che si aprì con la morte di Carlo il Grosso, 888, uno dei suoi successori è molto complessa; prima di tutto si ha la dissoluzione dell'impero carolingio, che già decenni aveva perso la sua compattezza e unità, che avviò quel processo di disgregazione del potere centrale a vantaggio dei poteri locali, noto come sistema feudale. I nuovi rapporti che si determinavano tra l'autorità imperiale e i signori locali incisero sulla forma del paesaggio, infatti le aree di pianura e quelle collinari erano punteggiate da rocche, castelli e insediamenti fortificati. La loro distribuzione geografica, spesso slegata alle vie di comunicazione moderne, era il risultato di una organizzazione del potere politico, delle attività economiche e delle strutture militari sul territorio, incentrata sulle esigenze difensive e sulla segmentazione degli spazi, spesso determinata dalla concezione del potere come subordinato alla suddivisione proprietaria tra i figli del sovrano. Le Nuove Invasioni Barbariche e l’Affermazione di Ottone di Sassonia. Nel frattempo, si verificarono nuove turbolenze ai confini dell'Europa che richiamavano le invasioni barbariche; già alla fine del IX secolo e poi nel secolo successivo gli Ungari, una popolazione delle steppe asiatiche, si addentrarono nell’Italia settentrionale con assalti, saccheggi e distruzioni, mentre in altre regioni europee andarono intensificandosi incursioni e scorrerie da parte dei Normanni e degli Arabi, i quali si erano installati in Sicilia nella prima metà del IX secolo. Il combinarsi della minacciosa pressione di questi popoli e della grande instabilità politica all'interno fece pensare ai contemporanei scenari cupi, come affermato anche dai vescovi francesi della provincia ecclesiastica di Reims nel 909. Verso la metà del X secolo il Duca Ottone di Sassonia, re dei Germani dal 936, ristabilì l’autorità imperiale su gran parte dell'Europa dopo aver fermato gli slavi e gli ungari; dopo una convulsa stagione di anarchia dove i signori CAPITOLO VIII: L’ARTE DELL’ETÀ OTTONIANA 1. Gli Ottoni e l’Idea di Roma: Le Miniature. - L’Evangeliario di Liuthar. - Bernoardo a Hildesheim. 5. Il Vescovo Ariberto a Milano. Negli anni del suo episcopato, Ariberto da Intimiano, 1018-1045, fu protagonista della vita e dei conflitti politici, fu il pastore della diocesi di Milano, e non si sottrasse a un confronto anche aspro con le fazioni interne alla città, con i monasteri e i poteri delle aree confinanti. San Vincenzo a Galliano. Prima di diventare vescovo, Ariberto fece restaurare la chiesa e Battistero di San Vincenzo a Galliano, Cantù, che furono consacrati nel 1007; egli fece decorare l’abside, come si deduce da uno gli affreschi in cui appare egli stesso nell'atto di offrire un modello della chiesa e una scritta in cui si dice “io, Ariberto suddiacono ho fatto dipingere”. Al centro della calotta absidale si staglia una grande figura di Cristo in piedi, circondato da una mandorla glorificante e accanto a lui gli arcangeli Michele e Gabriele e più sotto i profeti Geremia ed Ezechiele ; negli affreschi tra le finestre, oltre al ritratto di Ariberto, sono raffigurati episodi del martirio di San Vincenzo, a cui la chiesa era dedicata. Il pittore assimilò sia il linguaggio della pittura orientale: la sua ottima conoscenza dell'arte bizantina emerge dal grande uso delle lumeggiature, improvvise chiazze e filamenti bianchi, soprattutto sui volti, mentre la figura del profeta Geremia, quasi piegato a terra nell’adorazione di Cristo, ricorda il tentativo ricorrente tra gli artisti carolingi di cogliere atteggiamenti momentanei e scatti improvvisi. 6. Il Meridione Bizantino. All'epoca dell'imperatore Basilio I, 867-886, ampi territori Longobardi in Puglia, Basilicata e Calabria entrarono nell'orbita politica di Bisanzio e allo stesso tempo, profughi dalla Sicilia invasa dagli arabi e monaci e militari dell'impero orientale diedero un’impronta linguistica e culturale greca ad alcuni centri urbani e ad alcune aree rurali; nei centri dell'Italia meridionale dov'è la presenza di un’aristocrazia ed un clero greci era più consistente vennero costruiti edifici che ripetevano schemi architettonici nati nel mondo bizantino. San Pietro a Otranto. L'influenza dell'arte bizantina è evidente in San Pietro a Otranto, Lecce; la pianta quadrata, e all'interno quattro colonne sostengono una cupola centrale semisferica e quindi la chiesa presenta una struttura cruciforme, in cui i bracci della Croce hanno la medesima lunghezza e sono coperti da volte a botte. San Pietro a Otranto era una chiesa privata edificata da un esponente dell'aristocrazia locale e questa iniziativa va forse collegata alla maggiore importanza assunta dalla diocesi di Otranto nel 968, quando venne promossa a livello di metropoli all'interno della provincia bizantina dell'Italia meridionale, Catepanato; forse in questa occasione sulla volta della Prothesis, ossia lo spazio a sinistra dell'abside, vennero dipinte la Lavanda dei Piedi e l'Ultima Cena. Queste due scene vennero impaginate l’una opposta all'altra sui lati lunghi della volta a botte, con una certa difficoltà a causa della superficie curva, però questo non toglie il merito del pittore, il quale riuscì a dare al racconto momenti di improvvisa vivacità. Nella scena della Lavanda dei Piedi, mentre gli apostoli attendono in piedi il loro turno, Pietro si è seduto davanti a Gesù, il quale stringe con la sinistra un asciugamano bianco con ricami azzurri, mentre l'apostolo si è tirato su la toga, lasciando scoperte le ginocchia e ha già un piede in un bacile d'acqua, successivamente mentre Gesù gli si avvicina, Pietro porta la mano destra sulla fronte e solleva l'altra verso il petto, movimenti che il pittore scelse per indicare la sorpresa di fronte al gesto di umiltà del figlio di Dio. SEZIONE IV: IL ROMANICO: QUANDO LE CATTEDRALI ERANO BIANCHE LINEAMENTI STORICI. Un Nuovo Nome Per Una Nuova Forma D’Arte. Duecento anni fa alcuni studiosi francesi iniziarono ad utilizzare la parola “Romanico” per indicare la produzione artistica tra l’XI secolo e il XIII secolo circa; essi si resero conto che l'arte europea di quel periodo aveva caratteri propri che la distinguevano sia rispetto all’arte altomedievale sia a quella del Duecento in poi, ossia la stagione artistica del Gotico e quindi in questo periodo venne coniata la parola “Romanico”. L'archeologo francese Charles Duherissier de Gerville nel 1818 scrisse ad un amico “vi ho qualche volta parlato di architettura romanica. Tutti concordano nel ritenere che questa architettura pesante e grossolana sia l’Opus Romanum snaturato e poi degradato dei nostri rozzi antenati; allora anche la lingua Latina storpiata divenne lingua romanza”. Da questi studi degli inizi dell’Ottocento che si svilupparono soprattutto in Francia in Gran Bretagna, svilupparono le prime accurate ricerche sull’architettura e sulla scultura dell’XI secolo e del XII secolo. Il termine Romanico rimandava a Roma Antica, con l’intenzione di collegare l'arte del pieno medioevo a quella dell’età imperiale; Certamente l'arte classica continuò a essere in quei secoli un punto di riferimento fondamentale soprattutto per gli scultori e gli architetti, però i modi con cui ci si avvicinò a questi modelli antichi cambiavano continuamente infatti uno scultore come Wiligelmo guardava la scultura antica con estrema ammirazione, mentre Nicolò, un artista a lui di poco posteriore, ebbe un atteggiamento molto più distaccato. Un Repertorio, Non Uno Stile. Anche oggi utilizziamo il termine “Romanico” ma non per indicare uno stile, infatti se osserviamo edifici, sculture, dipinti realizzati in Italia tra l’XI e il XIII secolo, troviamo tanti aspetti comuni, ma anche tanti elementi stilistici discordanti e a volte contrastanti. Non esiste insomma uno stile romanico, ma esisteva un repertorio romanico, ossia un vocabolario artistico nelle cui pagine si possono individuare idee derivate dal mondo classico, da quello bizantino e da quello ottoniano; da questo vocabolario architetti e scultori attinsero elementi e modelli, dando forma al loro individuale stile, a volte anche con innovazioni straordinarie. Quello che accomuna i fenomeni artistici romanici non è uno stile, ma è il contesto storico che li esprime, la nuova situazione sociale ed economica che impresse una diversa direzione alla storia dell'arte e trasformò il paesaggio delle campagne e delle città. Un Nuovo Scenario Urbano. Un passo del Monaco e cronista francese Rodolfo il Glabro, 985-1047, descrive lo stupore degli stessi contemporanei per questo rinnovamento quasi improvviso dello scenario urbano: “si era quasi all'anno terzo dopo il 1000 quando nel mondo intero, soprattutto in Italia e nelle Gallie, si ebbe un rinnovamento delle chiese basilicali… pareva che la terra stessa, come scrollandosi e liberandosi della vecchiaia, si rivestisse tutta di un candido manto di chiese”. Questo passo ispirò uno dei maggiori architetti dell’900, Le Courbousier che scrisse il saggio “quando le cattedrali erano bianche”; le chiese di cui parla Rodolfo, bianche perché rivestite di pietra, sono prima di tutto le cattedrali, le chiese che nelle città avevano l'onore di ospitare la cattedra del vescovo, infatti fu nelle città che avvennero i cambiamenti più profondi. Già nell’XI secolo le città si ripopolarono grazie al dinamismo di artigiani, mercanti, finanzieri, piccolo nobili; l'aumento della popolazione si tradusse in un maggiore peso politico dei centri urbani nei confronti dell'autorità imperiale e degli altri centri di potere, come i signori locali e i monasteri. I due casi del Duomo di Pisa, 1063, e del Duomo di Modena, 1099, sono emblematici perché entrambe queste cattedrali sorsero all'interno del grande feudo dei Canossa, eppure in tutte e due le città ci sembra che la gran contessa Matilde, fosse più spettatrice che promotrice di questa straordinarie imprese architettoniche. Le Cattedrali, Centro delle Città. In questo periodo la comunità cittadina si strinse attorno alla propria cattedrale, sede del vescovo e il luogo di conservazione delle acque del Santo patrono, e quindi essa fu capace di difenderla da guerre, carestie ed epidemie; in questo modo in quasi tutte le città, il Duomo non era più il risultato dell'iniziativa di un vescovo, ma il frutto delle scelte di una comunità nelle sue diverse componenti. La struttura architettonica delle cattedrali e le loro decorazioni scultoree o pittoriche oggi ci sembrano l'espressione della società nelle sue tensioni spirituali, nelle sue visioni culturali e anche nei suoi conflitti politici interni; il Duomo divenne il centro della città, infatti negli spazi che affiancavano la cattedrale, in particolar modo le piazze, si amministrava la legge, si svolgevano gli incontri e le assemblee del comune, avvenivano gli scambi commerciali e quindi il Duomo divenne oltre che un momento religioso, un complesso civico. La Centralità Dei Monasteri. in Francia, potentissima grazie ai possedimenti terrieri e ai tanti monasteri ad essa collegati, come quello di Moissac; Cluny fu uno dei luoghi in cui si provò a reagire all’invadenza che il potere imperiale e quello dei grandi feudatari tentava di esercitare nei confronti dello spazio religioso e infatti la risposta fu una profonda riforma monastica che tenne a bada le intromissioni esterne e recuperò i valori autentici dell'esperienza religiosa cristiana. I testimoni ci spiegano i contenuti di questa riforma, ossia una vita monastica più rigorosa, una preghiera continua e comunitaria, la cura per il canto corale, le messe senza interruzioni durante il giorno; questa insistenza sulla dimensione spirituale della vita monastica è alla base della potenza dell’abbazia, perché essa attirava donazioni di vario genere da parte di coloro, soprattutto, che chiedevano preghiere per i familiari defunti. Le cerimonie sacre a Cluny dovevano avere un risalto speciale per solennità e splendore e così la chiesa che ospitava, però ce ne restano poche tracce dell'antica costruzione, ma sappiamo che le forme architettoniche sperimentate in questo luogo della Borgogna si estesero anche alle abbazie collegate come quella di Moissac. Oltre alle abbazie, un ruolo maggiore venne assunto dalle cattedrali, infatti nelle città che riuscirono a guadagnarsi una relativa autonomia rispetto al potere imperiale e feudale, la chiesa del vescovo divenne spesso l'immagine del nuovo corso politico e venne sentita come il luogo più importante della vita sociale. La Chiesa Abbaziale di Saint-Philibert a Tournus. La solenne facciata della chiesa abbaziale di Saint-Philibert a Tournus è un esempio dell'uso generalizzato della pietra, infatti la robusta compattezza delle superfici murarie esterne viene ravvivata da alte lesene e da file di archetti pensili; la chiesa vera e propria è preceduta da un atrio che è affiancata da due torri di diversa altezza e la facciata affiancata da torri, soluzione frequente nel gotico, deriva dall'architettura carolingia e dal Westwerk, ossia una struttura che precedeva la chiesa a ovest. La Chiesa Abbaziale di Jumièges e la Cattedra di Spira. L'idea della facciata inquadrata da due torri è presente nella chiesa abbaziale di Jumièges, oggi in rovina, infatti qui la navata era coperta da un soffitto in legno, ma i sostegni sono pilastri cilindrici che si alternano a pilastri dal profilo più complesso, perché ad essi si congiungono alte semicolonne. La Cattedrale di Spira offre uno degli esempi più antichi di adozione delle volte e di un coerente sistema di sostegni in pietra, infatti quando alla fine dell’XI secolo, l'imperatore Enrico IV decise di ricostruire la chiesa precedente, vennero innalzate grandi volte a crociera appoggiate agli archi trasversali; quest’ultimi scaricano il loro peso su possenti semicolonne che si congiungono ai pilastri, definendo una sequenza di sei grandiose campate. Capitelli e Portali Scolpiti. Alcuni dei più straordinari capitelli figurati dell'arte romanica furono eseguiti nella chiesa di Saint- Lazare ad Autun, da Gislebertus, un artista che lasciò il proprio nome nel timpano col giudizio universale che decora lo stesso edificio; questo artista fu capace di passare dalla mostruosa violenza della morte di Giuda, un suicidio manovrato da due demoni, alla placida serenità del sogno dei Magi, dove mentre i tre dormono nello stesso letto con le corone in capo, un Angelo si avvicina per avvertirli di non tornare da Erode, sfiorando la mano di uno di essi. I Capitelli figurati potevano costituire un intero ciclo, come avvenne nell’abbazia di Saint-Pierre a Moissac, collocata lungo la strada che portava a Santiago de Compostela, la città spagnola dove si conservano le lingue di San Giacomo maggiore, e quindi per questo era una delle più importanti mete dei pellegrinaggi medievali; anche se vantava una storia secolare nel 1047 l'abbazia entrò nell’orbita di quella di Cluny e questo incise sulla sua successiva sorte storica e storico artistica, infatti 50 anni dopo venne completato il chiostro per iniziativa dell'abate Ansquitil. Nel chiostro oltre 70 colonnine, semplici alternata a doppie, reggono capitelli con episodi dell'antico e del nuovo testamento; i pilastri angolari e i pilastri centrali presentano, sul lato interno, grandi bassorilievi con figure di apostoli e tra essi c'è anche il ritratto dell’Abate Durand, che resse le sorti dell’abbazia una volta che Cluny divenne la casa madre. Uno degli esempi più rilevanti di portare scolpito è proprio a Moissac; la scena nel grande timpano è tratta dall' apocalisse di San Giovanni dove alla fine dei tempi, Cristo si manifesta tra i simboli dei quattro Evangelisti e alla presenza dei 24 anziani, chiamati anche i vegliardi, mentre più in basso, da un lato e dall'altro, sono presenti le figure di Isaia e San Pietro, mentre sul pilastro che sostiene l'architrave al centro, chiamato Trumeau, si rispondono coppie di leoni e leonesse. CAPITOLO 10: LE CATTEDRALI E LE CHIESE DELLE CITTÀ: VENEZIA E IL NORD ITALIA 1. Una Basilica sull’Acqua: San Marco a Venezia. L’eccezionalità di San Marco non sorprende in una città unica in Europa come Venezia; gli isolotti della laguna veneta si erano popolati lentamente tra il VI e il IX secolo grazie alle genti che, fuggendo dei centri dell'entroterra, si recarono qui in cerca di rifugio e quest’area rimase sotto il dominio bizantino e per questo mantenne a lungo rapporti via mare con Ravenna, un centro abbastanza vicino, però pian piano che il centro urbano si rafforzava e si aggregava attorno all'isola di Rialto, i legami con Bisanzio si allentavano e la città arrivò a darsi dei comandanti autonomi, ossia i duchi o dogi. Un episodio che segnò il volto futuro della città fu il trasporto delle reliquie di San Marco trafugate da Alessandria d'Egitto, nella cappella annessa al Palazzo Ducale, 828-829, e poi nella Basilica di San Marco, la quale divenne allora il centro politico e religioso di una città che basò sul commercio la propria economia e sulla marineria la propria forza militare; già nel IX secolo si definì la situazione che caratterizzerà la città lagunare anche nei secoli successivi, cioè il potere dei dogi e quello religioso erano strettamente congiunti, così che San Marco si avviò a diventare una vera e propria cappella palatina e una chiesa di Stato, infatti non a caso l'ambone sul lato destro dell’altare, quello verso il Palazzo Ducale, era quello su cui venivano fatti salire e presentati al popolo i nuovi dogi. In questo rito, come nel saldo legame tra sfera religiosa e politica, Venezia dimostrava le profonde relazioni che la univano da secoli a Costantinopoli e alla cultura bizantina. Un'altra prova del ruolo statale di San Marco sta nel fatto che fu un'autorità politica, il doge Domenico Contarini, 1041-1071, a decidere di costruire una nuova chiesa al posto di quella altomedievale e questa nuova basilica venne fondata nel 1063 e riprendeva lo schema della basilica costantinopolitana dei Santi Apostoli. La ragione va ricercata nel fatto che i veneziani vantavano in possesso di reliquie importanti, quelle di San Marco, non un apostolo ma autore di uno dei quattro Vangeli; come per la chiesa dei santi apostoli, oggi distrutta, anche per la basilica di San Marco si adottò una pianta a croce greca con 5 cupole, una per ciascun braccio e una maggiore all'incrocio è il primo aspetto della chiesa doveva essere molto diverso da quello attuale, perché aveva mattoni a vista all'esterno e una scarna decorazione a mosaico all'interno. I Mosaici. A partire dalla fine dell’XI secolo e nel corso dei due secoli successivi, la basilica iniziò ad assumere un aspetto vicino a quello odierno; all'interno la parte bassa delle pareti bene rivestita da lastre marmoree, come avvenne nel mausoleo di Galla Placidia o in San Vitale a Ravenna. Come in questi edifici la zona più alta delle pareti, cioè le volte e le cupole vennero destinati a una decorazione a mosaico; la superficie disponibile era vastissima e quindi iniziò un cantiere in cui operarono maestranze diverse e in tempi quanto mai lungi, e da un certo punto di vista si trattò di un cantiere sempre aperto, infatti fino al Settecento furono attivi mosaicisti incaricati di restaurare e completare i cicli decorativi iniziati in piena età medievale. In epoca rinascimentale accade che questi maestri traducessero in mosaico scene sacre disegnate per la basilica da grandi artisti veneti come Tiziano, Jacopo Palma il Giovane, Tintoretto e altri ancora; nello stesso tempo i magistrati della Repubblica emanarono più volte degli editti per proteggere i mosaici della basilica evitando in questo modo che si distruggessero quelli più rovinati. Il risultato dell'attività dei mosaicisti, soprattutto quelle operanti tra il XII il XIII secolo, è un imponente quanto complesso programma iconografico che si sofferma su episodi dell'antico testamento, racconta la vita di Cristo e della Madonna, degli apostoli e del Santo più importante a Venezia, San Marco. La Cupola Dell’Ascensione. Per gli studiosi non è facile ricostruire la storia di una così grande distesa di mosaici, tuttavia non ci sono dubbi sul fatto che uno dei punti più alti della campagna decorativa del XII secolo sia la cupola centrale detta dell'Ascensione; il nome deriva dal soggetto posto al centro della volta: Cristo, seduto su un arcobaleno in un clipeo stellato retta da quattro angeli, sale in cielo, mentre più sotto, sempre su fondo d'oro, una serie di alberi con esile chiome separano l’una dall'altra le figure degli apostoli, della vergine e di due angeli. nella parte inferiore della calotta, tra una finestra e l'altra, sono raffigurate 16 personificazioni delle virtù, ciascuna identificata da una scritta Latina e recante in mano un cartiglio che ne mostra il carattere, e in ognuno dei quattro pennacchi raccordanti la cupola agli arconi che la sostengono è raffigurato un Evangelista che scrive proprio testo, mentre sullo sfondo si vedono alti e complicati edifici di altrettante città, ed infine sotto di loro, nel punto in cui i pennacchi si assottigliano, vediamo le personificazioni dei quattro fiumi del paradiso terrestre. Il Pavimento. Risale al XII secolo anche il pavimento della basilica interamente rivestito di marmi colorati, ora in piccole lastre a formare decorazioni geometriche, opus sectile, ora in minutissime tessere che compongono scene figurate o elaborate decorazioni vegetali; agli inizi del Settecento il pittore architetto Antonio Visentini, realizzò uno straordinario e complesso disegno dove descrisse minuziosamente il pavimento di San Marco. L’opera consente di osservare come le zone del grande tappeto di pietra, anche se diverse tra di loro per schemi e tecniche, si integrino nella struttura decorativa generale, cioè porzioni quadrangolari, poligonali e circolari si accostano le une alle altre e si suddividono al loro interno in altre partizioni minori ; in questo caso domina la geometria, infatti si cercano simmetrie e corrispondenze tra le pareti, ma si evita la ripetizione, il nome di quel desiderio di varietà tipico del gusto artistico medievale. La Celebrazione di San Marco. Solo nel secondo e nel terzo decennio del XIII secolo iniziò la decorazione delle cupolette dell’atrio della basilica con storie dell'antico testamento, partendo dal libro della genesi; la decorazione dell'Interno di San Dalla Basilica Paleocristiana alla Chiesa Romanica. La chiesa di Sant'Ambrogio Milano è l'edificio che conserva le reliquie del Santo patrono della città; Ambrogio, una delle figure più importanti della chiesa e della cultura tardoantica, fu vescovo di Milano dal 374 fino alla morte e tra le sue iniziative architettoniche ci fu la costruzione della basilica martyrum, intitolata ai martiri Gervasio e Protasio, però edificio cambiò dedica quando il Santo venne sepolto nel 397. La struttura della basilica paleocristiana si mantenne fino al 784, quando presso la chiesa venne fondato un monastero benedettino e si insediò una comunità di sacerdoti; le diverse esigenze liturgiche portarono all’adattamento della chiesa alle nuove funzioni e l'area presbiteriale fu sistemata per accogliere lo splendido Altare realizzato da Voulvinio e dalla sua bottega tra l’824 e l’859. Nell’XI secolo iniziarono i lavori destinati a trasformare interno ed esterno ed essi proseguirono nel secolo successivo; la chiesa, senza transetto, è preceduta da un grande quadriportico, in modo che sull'ingresso si forma un atrio e al di sopra un loggiato, mentre in alto, lungo il bordo degli spioventi, corre una cornice di archetti pensili, i quali si ritrovano anche nel quadriportico e nella navata interna, e questo è un motivo decorativo tipico dell'architettura romanica in Europa. Da una parte e dall'altra della facciata si innalzano due campanili a pianta quadrata, a destra quello dei monaci e a sinistra quello dei canonici e le occasioni in cui suonare le campane furono una delle ragioni di contrapposizione, nei secoli, tra le due comunità che condividevano l'uso della chiesa. L’Interno. L’interno riserva grandi novità, con soluzioni che provengono in gran parte dall'architettura ottoniana, come l'adozione di pilastri e volte a crociera; scompaiono le colonne della primitiva chiesa fondata da Sant’Ambrogio, per far spazio ad una serie di massicci pilastri che si alternano a pilastri minori , poiché questi grandi supporti servono a sostenere le ampie volte a crociera costolonate che coprono la navata maggiore, e ad ognuna di esse corrispondono due volte a crociera nelle navatelle, ed infine sulla navata maggiore, sopra le navate minori, si affacciano i matronei. Si rinnovarono le strutture e quindi anche l’aspetto dello spazio interno. Le prime basiliche cristiane consistevano in una grande aula attraversata da due file di colonne, ma chi entra in entra in Sant’Ambrogio non trova un ambiente unitario, ma uno spazio suddiviso in grandi volumi accostati l'uno all'altro, definiti dai pilastri maggiori e in alto dalle volte, cioè le campate ; a questa scansione dell’interno si adeguano anche i capitelli, il cui schema complesso deriva dalla struttura articolata dei pilastri, infatti su di essi scorre un repertorio iconografico variegato di animali, intrecci, motivi vegetali. Nell’area lombarda, durante l'età romanica, tanti edifici presero a modello sia questo vivace repertorio scultoreo che le nuove soluzioni architettoniche messa a punto nella chiesa milanese. - Il Capolavoro di Lanfranco e Wiligelmo: il Duomo di Modena. Wiligelmo: Antichità e Modernità. - I Bassorilievi con le Storie della Genesi. 5. Nicolò a Ferrara: Il Duomo. A Ferrara le diverse classi sociali e i contrapposti gruppi di potere raggiunsero un accordo attorno al culto di San Giorgio, dopo che nel 1110 Matilde di Canossa donò alla città le reliquie del Santo. Il Duomo fu voluto dalle diverse forze politiche della città e non solo dal suo vescovo, e nel 1173 se ne ha un'altra conferma, perché in questa data vennero incisi nel marmo, sul lato meridionale della cattedrale, gli statuti del comune, in modo che le leggi della città fossero ben visibili sulla piazza pubblica del mercato. Come a Modena, anche a Ferrara un protiro precede il portale vero e proprio: due telamoni, giovane e vecchio, poggiano su due leoni accosciati e sostengono le colonne, mentre San Giovanni Evangelista e San Giovanni Battista indicano, nel punto più alto dell’arco, Gesù rappresentato come Agnus Dei. La facciata conserva in gran parte la struttura e le decorazioni di età romanica, a partire dal portale maggiore firmato da Nicolò, uno dei maggiori scultori di età romanica che non lasciò vuota la lunetta, come fece Wiligelmo nel duomo di Modena, ma vi collocò lotta di San Giorgio con il drago nel suo momento culminante, ossia dopo aver conficcato una lancia tra le fauci del mostro. Appena sotto la lunetta, l'architrave accoglie dentro piccole arcate episodi della vita di Gesù come la Visitazione, la Natività, l'annuncio ai pastori, l'adorazione dei Magi, la presentazione al tempio, la fuga in Egitto e il battesimo di Gesù, mentre l’Annunciazione trova spazio sulla strombatura del portale. la venuta del Redentore è annunciata da altre quattro figure che si incuneano tra le strombature del portale, i profeti Geremia, Daniele, Isaia ed Ezechiele , tutti raffigurati con cartigli che contengono lunghe scritte e quindi anche in questa occasione Nicolò lasciò spazio alla scrittura. - 6. Nicolò a Verona: San Zeno. 7. Nicolò a Verona: La Cattedrale: Il Portale. Il lavoro di Nicolò e della sua bottega a San Zeno fu così apprezzato che l'artista venne chiamato anche nella cattedrale, danneggiata dal terremoto del 1117; lo scultore, che anche qui si firmò come artifex gnarus, cioè esperto artista, ripropose, con alcune variazioni, lo schema già utilizzato nei portali e nei protiri di Ferrara e di San Zeno. I soggetti furono adeguati al nuovo contesto: nella lunetta ora è protagonista la Vergine, a cui è intitolata la chiesa e accanto alla Madonna con il bambino in trono sono scolpiti l'annuncio ai pastori e l'adorazione dei Magi; anche in questo portale lo scultore cercò delicate disarmonie, cioè al centro una Madonna rigida e rigorosamente frontale, mentre ai lati l’agitarsi delle mani e delle gambe dei pastori e dei magi. l'architrave ospita tre medaglioni con le personificazioni della fede, carità, speranza, virtù cristiane per eccellenza. Un altro cambio di tono è quello delle strombature del portale, infatti due slanciate figure di guerrieri armati di tutto punto presidiano l'ingresso e sulla spada di uno dei due si legge Durindarda, un nome strano che non lascia dubbi nei fedeli che entravano in chiesa perché era il nome della spada di Orlando; quindi i due guerrieri sono Orlando e Oliviero, gli eroi delle chansons de geste, il ciclo epico che narra le imprese dei paladini di Carlo Magno. CAPITOLO 11: LE CATTEDRALI E LE CHIESE DELLE CITTÀ: PISA E IL SUD ITALIA. 2. Un Grandioso Scrigno di Pietra: Il Duomo di Pisa. In lunghe scritto su pietra, incise sulla facciata della Cattedrale di Santa Maria Assunta cioè il Duomo di Pisa, si parla di guerra, infatti sono raffigurate le spedizioni che le flotte dei Pisani condussero sul mare contro gli arabi ottenendo schiacciante vittoria a Messina, in Sardegna, e a Bona. In una di queste epigrafi, in lettere capitali all'antica, viene descritta, come in un reportage di guerra, la conquista di Palermo e viene ricordata la Fondazione del Duomo 1063; i due fatti sono accostati apposta perché il bottino di guerra servì proprio per finanziare la cattedrale, la quale era stata voluta dai cittadini di Pisa, i quali senza distinzione di classe avevano partecipato all'assalto del porto di Palermo. Il Progetto Buscheto. La grandiosa cattedrale dedicata a Maria Assunta divenne espressione visibile dell’imponente espansione politica e mercantile della città nel Mediterraneo e segno delle sue ambizioni ad allargare i propri domini territoriali e il proprio prestigio internazionale; la celebrazione delle imprese militari e l'esaltazione delle imprese architettonica sono un tutt’uno, per questo le iscrizioni vengono concentrate nella zona sinistra della facciata del Duomo nel punto in cui la città espone la propria memoria. In questa zona è collocata anche l'epigrafe in ricordo del vescovo Guido, sotto il quale iniziò la costruzione, ma è in questa zona che si legge, incisa sulla fronte di un sarcofago classico, una delle più belle iscrizioni in onore di un artista medievale, quella per Buscheto, il primo architetto della cattedrale, la quale a una conclusione che non lascia spazio a dubbi poiché si dice che il tempio non ha un modello ed è stato creato solo dall'ingegno di Buscheto. Il colore bianco della chiesa, data dai calcari e dei Marmi, è quanto l'iscrizione vuole sottolineare, visto che era proprio quello che colpiva gli uomini dell'epoca; era stato infatti un Monaco, Rodolfo il Glabro, a notare che tutta l'Europa si stava allora rivestendo di un candido manto di nuove chiese e quindi a Pisa anche il colore, oltre alle dimensioni, contribuiva a far spiccare la cattedrale rispetto agli edifici circostanti e nel paesaggio poiché era ben visibile da lontano. L’Iscrizione in lode di Buscheto affermava che il tempio in candido marmo non aveva precedenti, però l’architetto fece lo stesso i conti con la tradizione, ossia, il progetto di Buscheto è originale, ma egli fece proprie soluzioni architettoniche che avevano una storia e una geografia molto variegata; prima di tutto l'idea di avvolgere il corpo della chiesa con un paramento in pietra in cui si alternavano fasce di colore e di dimensioni differenti era molto simile a le zebrature applicate all'esterno di mosche in Oriente e in Spagna, soprattutto a Cordova. È sempre in Oriente che si trovano precedenti esempi di losanghe che percorrono, sotto le arcate cieche, tutto l'esterno e questa è un'idea che avrà un grande successo anche in chiese erette più tardi nelle aree soggette all'influenza politica pisana. Uno dei segni più impressionanti di questo sguardo rivolto all’arte orientale è il Grifone bronzeo posto al culmine dell'abside maggiore, che si trattava originariamente di un getto di Fontana realizzato nella Spagna araba nell’XI Secolo; collocare in un punto così visibile dell'esterno un oggetto così singolare era un modo per richiamare le vittorie sulle flotte saracene, ma era anche una maniera per rendere omaggio a un linguaggio artistico del tutto diverso da quello romanico. Questo bronzo era un'eccezione anche per un altro aspetto, infatti nel progetto originario, l'attenzione dell'architetto era per le strutture architettoniche e la scultura aveva solo un ruolo marginale, nulla di paragonabile a quello che accade nelle chiese della pianura padana come Modena, Ferrara e Verona. Da Buscheto a Rainaldo. magister Diotisalvi noto grazie alle firme su pietra. Diotisalvi riprese i lineamenti dell’Anastasis e nel 1163 fece arrivare dalle cave della Sardegna e dell'isola d'Elba 8 colonne, proprio come nella chiesa della Terra Santa, e allo stesso tempo provò a armonizzare interno ed esterno del Battistero con il Duomo di Rainaldo, sia per il rivestimento in blocchi di marmo di due colori sia per la sequenza di arcate cieche; i legami con la tradizione dei battisteri paleocristiani però non si interrompe, infatti quasi 100 anni dopo, Guido Bigarelli, realizzò un fonte battesimale con una ornatissima vasca di forma ottagonale. Rispetto al tempo di Diotisalvi l'aspetto esterno del Battistero è cambiato a causa della loggetta esterna, i cui capitelli e sculture vennero eseguiti nel Duecento dalla bottega di Nicola Pisano, il quale fu autore anche dell'ambone. 5. Il Battistero di San Giovanni a Firenze. Nella prima cantica della Commedia, Dante racconta un fatto che gli era successo anni prima, cioè mentre assisteva a un battesimo, un ragazzo immerso nell'acqua rischiò di annegare e quindi per salvarlo Dante ruppe la vasca di terracotta; la scena si svolse in quello che il poeta chiamò “il mio bel San Giovanni”, cioè il Battistero di Firenze. La bellezza di questo edificio è indiscussa da secoli, mentre fu oggetto di dibattiti infiniti la sua datazione, infatti nel Trecento il cronista Giovanni Villani sosteneva che prima questo era un tempio pagano dedicato a Marte e quindi da allora si sono alternate opinioni contrastanti sul Battistero tra chi lo voleva antico, chi lo considerava paleocristiano, chi di epoca romanica. Il fatto è che mancavano e mancano punti di riferimento cronologici affidabili e in più stupiva il carattere così classico del Battistero, che per alcuni studiosi era un indizio chiaro della sua antichità; alla fine le indagini recenti hanno tolto ogni dubbio, infatti il Battistero di San Giovanni è un edificio medievale, perché da un documento del 1128 si dice che le funzioni battesimali vennero spostate dalla primitiva cattedrale Fiorentina di Santa Reparata, al Battistero e quindi intorno a questa data la costruzione doveva essere in buona misura completata. La pianta dell'edificio è ottagonale, quindi ha quella forma tipica dei battisteri di età paleocristiana come si vede a Ravenna e come venne ancor utilizzata in Italia nel Duecento e nel Trecento; agli inizi del XIII secolo su uno dei lati venne aggiunto un vano a pianta rettangolare, che a Firenze chiamarono “scarsella”. La Struttura Architettonica e i Suoi Modelli Antichi. Proprio come nel duomo di Pisa, l'esterno del Battistero di Firenze è rivestito di pietra, però se nel duomo di Buscheto e Rainaldo dominava il candore delle pietre bianche e grigie, qui a Firenze vennero utilizzati il serpentino verde di Prato e il bianco di Carrara; il punto di riferimento è quindi il Duomo di Pisa, ma il risultato è completamente diverso. Nel Battistero le pietre bianche e verdi vennero tagliate e congiunte in modo tale da formare compartimenti geometrici sempre varianti per profilo e misura; nella zona più bassa due lesene dividono il lato in tre campi entro cui si dispongono delle serie di rettangoli di altezza diversa e anche nella zona mediana viene ripresa la scansione ternaria, ma in questo caso le lesene sostengono tre arcate cieche a tutto sesto su ogni lato e a loro volta le arcate accolgono una finestra ciascuna, le quali con un andamento alternato, ora sono ricavate sotto un’arcatella, ora sotto un architrave e un frontoncino e infine nella zona più alta, sotto la cupola, il verde di Prato disegna specchiature rettangolari. Nel Battistero regna un ordine misurato, un ritmo regolare di superfici scandite da pochissimi elementi scultorei e a quanto pare nel progetto originale non c'era alcuna scultura figurata, e infatti le prime figure appaiono agli inizi del Duecento con i doccioni con teste di animali, le porte bronzee di Andrea Pisano, 1336, e le porte quattrocentesche di Lorenzo Ghiberti; il classicismo dell’anonimo architetto del Battistero quindi consiste in questo desiderio di esattezza, di precisione, nelle cornici che separano gradatamente una zona dall’altra, nei profili minuziosamente scolpiti delle finestre. L’architetto sembra affermare che la specificità dell'architettura classica non consiste nella grandiosità, ma nell’attenzione al dettaglio, come la lisciatura della pietra, la giunzione dei blocchi e la millimetrica definizione delle cornici, e del resto sono proprio questi elementi che caratterizzano il romanico fiorentino, infatti essi si ritrovano anche nella facciata della Chiesa di San Miniato al Monte. Questa metrica severa dall'esterno prepara lo spettacolare omaggio all'architettura degli antichi che troviamo all'interno; probabilmente l'architetto del Battistero si ispirò al Pantheon di Roma, infatti in questo tempio dell’età di Adriano, l'anonimo architetto fiorentino e medievale trovò le idee che rielaborò: prima di tutto la coppia di colonne che reggono un architrave nella zona inferiore e poi la soluzione del rivestimenti in marmi policromi. Le combinazioni di marmi verdi e bianchi nella zona più bassa quali sono ancora semplici come all'esterno, ma si fanno più complesse pian piano che si sale e al livello dei matronei, essi diventano vere e proprie tarsie, però dopo si semplificano di nuovo a livello del tamburo della cupola, dove si sussegue una sequenza di compartimenti quadrati; anche all'interno la scultura sottolinea i passaggi architettonici con scansioni sottili quanto nette, infatti le lesine sono scanalate e rudentate come nell'architettura antica e sui modelli antichi sono pensati i capitelli e i semi capitelli delle lesene. Questi modelli erano molto vicini, infatti una colonna antica reimpiegata sul lato orientale forniva un esempio a portata di mano per le scanalature e i rudenti; attorno al 1128 edificio era completato quasi del tutto, però non esisteva ancora il vasto ciclo a mosaico che riveste la cupola, il quale venne realizzato solo nella seconda metà del Duecento. L’architetto romanico si affidò anche per l'interno alle partiture marmoree e al repertorio ornamentale classico, infatti ritenne questo linguaggio il modo migliore per rendere grandioso il luogo del battesimo e per onorare San Giovanni Battista. Dai Tessuti al Pavimento. Tra il XII e il XIII secolo la gestione dell’edificio passò nelle mani dell’Arte di Calimala, una potente corporazione; una delle iniziative più rilevanti di questa fase è la decorazione del pavimento, nella quale si attenua il rigore del progetto iniziale del Battistero, infatti ai marmi chiari e scuri si aggiungono anche nuovi colori e si lascia più libero corso al piacere della decorazione. la superficie ottagonale viene suddivisa in tanti settori, triangolari, quadrati o rettangolari e in alcuni gli artigiani rinnovarono l’opus tessellatum romano, imitando anche diversi schemi decorativi, mentre in altri settori crearono partiture ornamentali del tutto assenti nell'arte classica però sia negli uni che negli altri i musicisti seppero tessere stesure perfette. L’area in prossimità della porta orientale, quella che è in direzione della facciata della cattedrale, è super abbondante di motivi e di soluzioni nuove, infatti qui si trova il grande “riquadro dello zodiaco” con figure bianche su fondo scuro, in accordo con la bicromia chi governa l'esterno e l'interno del Battistero; il quadrato contiene un doppio rosone: nel primo i 12 tondi con i segni zodiacali sono separati da colonnine e circondati da una elaborata vegetazione, mentre al centro del secondo rosone si riconosce l'immagine del sole, circondato da una frase speciale “io sole avvitandomi su me stesso compio dei cicli e ruoto con il fuoco” e questa frase è una scritta palindroma in cui il sole allude alla propria influenza sulle orbite dei pianeti. Anche qui il paragone con i tappeti non è solo metaforico, infatti gli artigiani preso come modello pattern decorativi tipici di stoffe e tessuti del mondo arabo, perché i mercanti fiorentini commerciavano sia con l'Africa settentrionale sia con Al-Andalus, cioè la penisola iberica sotto l'occupazione araba, e quindi le stoffe prodotte lì erano note anche in Toscana. Tutt’attorno al rosone maggiore ruota una lunga iscrizione, accuratissima nelle forme grafiche e dove vi si dichiara l'orgoglio per l'opera compiuta e vi si celebra il committente, ossia la città tutta, “la Florida Firenze, che ha a disposizione tutti i beni”. 6. Una Bellezza Cinematografica: San Pietro a Tuscania. Fino alla fine del XII secolo, la diocesi di Tuscania ebbe grande importanza nel Lazio settentrionale, grazie la sua posizione lungo la strada che portava verso la Toscana e l'Umbria, però una volta perso il ruolo di cattedrale, la chiesa di San Pietro si avviò verso l'abbandono e infatti l'attuale isolamento della chiesa nel paesaggio collinare, anche se affascinante, è frutto della minore rilevanza del centro urbano di Tuscania, del suo lento ridursi come dimensioni, fino a staccarsi del tutto da quello che era stato il suo centro religioso; rimane a testimonianza dell'antica funzione di cattedrale, la presenza accanto a San Pietro del palazzo episcopale. L'odierno edificio, danneggiato dal terremoto del 1971, ebbe fasi costruttive diverse, come si vede dalla decisa irregolarità nella pianta; un punto di riferimento cronologico, soprattutto per la zona del presbiterio e della cripta sottostante, è il 1093, data incisa sul ciborio. L’esterno presenta una serie di lesene e una fila di archetti pensili che movimentano la superficie; il materiale prevalente è il tufo, una pietra porosa facilmente reperibile in centro Italia e facilmente lavorabile, e quindi qui i materiali impiegati sono un riflesso del paesaggio naturale circostante e accanto al tufo, in alcune zone soprattutto l'abside, ci sono filari in mattoni disposti in modo da ottenere motivi decorativi. La Facciata. Il repertorio dei materiali utilizzati dai costruttori si arricchisce in facciata, grazie all'uso di marmi e di travertino nella zona superiore, al di sopra della galleria di ridotte dimensioni che corre circa a metà; anche la decorazione della facciata è avvenuta in momenti differenti, come si vede dalla sua disomogeneità, tra la fine del XII e i primi anni del XIII secolo. Lo spazio rettangolare del timpano triangolare e la galleria nana sembra un inserto che si staglia con il suo improvviso candore e la sua esuberanza ornamentale sul resto della facciata; questo inserto a un ritmo ternario: un rosone, distinto da tre cerchi concentrici, una bifora a sinistra e un’altra a destra. Le sculture si affollano attorno a queste tre aperture: i simboli dei quattro Evangelisti bordano il rosone, attorno alla bifora di sinistra c'è una sequenza di tondi che contengono l'agnello di Dio, arcangeli e santi, mentre più sotto c'è un bassorilievo con una figura di telamone seminudo; attorno alla bifora di destra, un’animata vegetazione fuori esce dalla bocca di un essere demoniaco a tre facce e si raccordo più in alto con un'altra triplice testa mostruosa. A questo ritmo irregolare si aggiunge un altro elemento stupefacente, cioè le file di mostri e di animali che inseguendosi si buttano verso terra ai due bordi del rosone, poiché la sorpresa è che sono a tutto tondo e percorrono non lo spazio fittizio dei bassorilievi, ma quello reale della parete e quindi è come se appartenessero a un mondo prospettico diverso da quello delle altre scene, con un effetto di disorientamento. L’Interno. In tutt'altra maniera si trovano marmi anche all'interno perché nei sostegni della navata vennero messi in opera capitelli e colonne di spoglio; questo è quel fenomeno del reimpiego che attraversa tutta l'architettura medievale e che diventa più intenso negli edifici che sorsero accanto a siti antichi come San Pietro. Nella navata maggiore c'è un elemento che ricorre quasi solo in questa chiesa, ossia i grandi archi a doppia ghiera interrotti da sporgenze rettangolari. 7. Una Chiesa Sopra l’Altra: San Clemente a Roma. A Roma una storia di millenni si concentra in uno stesso spazio geografico e capita spesso di assistere a un vertiginoso sovrapporsi d’epoca in un solo monumento come nella chiesa di Santa Maria Antiqua nel foro; la successione di fasi storiche differenti è ancor di più emblematica nella chiesa di San Clemente al Laterano vicino al Colosseo, infatti sotto la chiesa si trova una complessa stratificazione archeologica che va dai primi secoli dell’Impero Romano fino al medioevo inoltrato. Negli strati più bassi troviamo i resti di edifici residenziali che subirono interventi nei secoli successivi, e uno dei più rilevanti fu la costruzione di un mitreo, un piccolo tempio dedicato al culto di mitra; proprio nella IV secolo sull'area fu costruita una basilica cristiana frequentata per tutto l'alto medioevo, e in questa chiesa, oggi sotterranea perché nel XII venne parzialmente abbattuta, venne dipinto uno dei più importanti cicli di affreschi di età romanica in Italia, il ciclo con le storie dei santi Clemente e Alessio. orientali, come si vede anche dalle figure degli animali appiattite e appena stagliate sul fondo. Tutt’altra cosa è la zona inferiore dell’opera, che si anima improvvisamente con sculture a tutto tondo, infatti l'artista ha immaginato che il piano della cattedra sia sostenuto in parte da piccole colonne e in parte da figure umane; nella parte posteriore, in mezzo alle tre colonnette, due leonesse stanno azzannando degli uomini, mentre sul davanti, due uomini seminudi e inginocchiati sorreggono la cattedra, e il loro sforzo è evidente sia nella posa del corpo che nelle bocche aperte e nei volti tirati. In mezzo ai due telamoni, un altro aiuto è offerto da un personaggio in piedi e vestito con un cappello in testa e un bastone; senza dubbio queste sculture, soprattutto i due telamoni, hanno un sapore antico, infatti va ricordato che l'arcivescovo Elia alla sua morte nel 1105, venne sepolto in un sarcofago romano con figure di filosofi, oggi posto lungo la scala d'accesso alla cripta, nella cui iscrizione si legge un chiaro apprezzamento per il pezzo antico. Ogni tanto nella storia dell'arte ci imbattiamo in alcuni problemi e la cattedra di Elia è uno dei maggiori problemi per quanto riguarda l'Italia meridionale in età romanica, perché anche se la forma complessiva dell'opera ha dei precedenti, non hanno precedenti né iconografia né lo stile, ossia non c'è alcun confronto nell’arte meridionale dell’epoca, mentre il richiamo all’antico e la forte espressività delle figure ricordano il linguaggio di Wiligelmo nel Duomo di Modena, il quale apprezzava molto anche il motivo del telamone. L'abate Elia morì nel 1105, proprio negli anni in cui si stava costruendo il Duomo di Modena, e quindi alcuni studiosi ipotizzano che la cattedra sia stata realizzata non al tempo di Elia, ma alcuni decenni più tardi in commemorazione di un protagonista della storia di Bari e anche per sottolineare il ruolo centrale dei vescovi nella città pugliese; l'anonimo artista dunque avrebbe viaggiato e potuto studiare il romanico dell'Italia settentrionale. 9. Una Dichiarazione di Libertà: il Duomo di Troia. La città di Troia venne fondata nel 1019 su un Colle dell'attuale provincia di Foggia, non distante della via traiana, antica strada di età imperiale che collegava Benevento a Brindisi e che era uno dei più importanti collegamenti verso l'attuale Campania; la città, con un robusto sistema di mura, doveva servire a difendere la Puglia dagli attacchi dei Longobardi di Benevento e quindi un ruolo così strategico spiega la crescente importanza del centro urbano, che nel 1030 divenne sede vescovile. Le circostanze conflittuali in cui Troia venne fondata e la situazione politica instabile fecero sì che i vescovi assumessero un ruolo importantissimo e quindi ecco spiegato il loro grande interventismo nelle iniziative architettoniche e artistiche tra l’XI e il XII secolo. Il Duomo e il Vescovo Girardo. Fu il vescovo Girardo a fondare nel 1093 la cattedrale, i cui lavori si interruppero ben presto per continuare nel 1097, dopo la sua morte, con il successore Guglielmo; un passo della “storia del ritrovamento delle reliquie di San Secondino” della prima metà dell’XI secolo, riferisce che alcuni abitanti della città si misero a perlustrare le rovine dell'antica città romana di Aecae, nelle vicinanze del nuovo centro urbano e le reliquie vennero trovate proprio mentre costoro scrutavano con attenzione qua e là, alla ricerca dei materiali e pietre adatti alla costruzione delle nuove chiese. Qui a Troia accadde lo stesso fenomeno che si verificò anche altrove durante la costruzione delle cattedrali romaniche, cioè le antiche rovine fornirono abbondanti materiali per gli edifici moderni. L’edificio esterno è rivestito da grandi blocchi di pietra, mentre una serie di sottili lesene consumi capitelli all'antica sorregge un motivo già incontrato più volte in età romanica, cioè una sequenza di arcate cieche e sulla facciata alcune di esse contengono una losanga all'interno, cioè un motivo che non può non ricordare l'esterno del duomo di Pisa; sul fianco settentrionale, questo motivo subì notevoli variazioni, infatti al posto della losanga troviamo esagoni realizzati con marmi colorati o piccoli tondi con figure di animali, questi sono motivi decorativi di derivazione araba, a testimonianza dell'animato panorama culturale del medioevo pugliese. All’interno la chiesa è in tre navate divise da colonne monolitiche, uno dei capitelli è di reimpiego, mentre gli altri sono realizzati su modelli classici, ma con l'inserimento di volatili, animali, maschere di fauno. La Prima Porta di Bronzo. Quello che rende straordinaria la cattedrale troiana è la presenza di due porte bronzee, una sulla facciata e l'altra sul fianco occidentale, entrambe ben documentate, infatti conosciamo la data rispettiva, 1119 e 1127, il committente, il vescovo Guglielmo II e il fonditore, Oderisio da Benevento e sappiamo anche che l'artista eseguì le porte bronzee di San Giovanni Battista delle monache a Capua, 1122, e quelle di San Bartolomeo a Benevento, 1150-1151, però entrambe andarono distrutte. I due battenti della prima porta presentano in totale 28 pannelli, 9 però frutto di restauri tra Cinque e Seicento; nella fila più alta compare lo stesso Oderisio con accanto un personaggio elegantemente vestito indicato da una scritta come Berardo, mentre nel pannello accanto c'è Cristo come giudice e in quelli seguenti il vescovo Guglielmo II e i santi Pietro e Paolo. Oderisio adottò per queste figure la tecnica bizantina dell’Agemina, cioè i profili e i volti erano leggermente incavati per essere poi riempiti d'argento. Nella fila successiva quattro maschere di leoni stringono tra le fauci un grosso anello, questo è un motivo già presente nell’arte romana, in quella carolingia e in quella ottoniano. Più sotto due Draghi alati tengono tra i denti un grande anello con funzione di battente e accanto a essi due pennelli ospitano croci coronate da foglie e nella fila successiva compaiono ancora quattro maschere leonine; il linguaggio di Oderisio è sorprendente per il modo in cui alterna figure dal rilievo prepotente e figure concepite come preziosi disegni, e quindi abbiamo parti decisamente sporgenti, come le cornici con le grosse borchie e le teste di leone e draghi, e abbiamo zone trattate con delicatezza, come i pannelli con le ageminature e i bordi dei due battenti. La Seconda Porta di Bronzo. Nel 1127, in un momento delicato per le sorti della città, Oderisio eseguì un'altra porta per il fianco occidentale della cattedrale; questa volta i pannelli bronzei sono 24 e si è ridotta la sovrabbondanza decorativa che caratterizzava i battenti della prima porta. Una fila di maschere leonine divide la porta in due parti: al disotto ben 8 pannelli sono dedicati a un’iscrizione, mentre al di sopra delle maschere di leone ci sono 12 pannelli figurati ad agemina, la cui lettura inizia ad altezza d'uomo seguire verso l'alto; ci sono le vivaci figure degli 8 vescovi che precedettero Guglielmo II dalla Fondazione di Troia, e poi dopo questa sfilata, che racconta la storia della città tramite i suoi vescovi, si arriva in alto ai pannelli in cui l'attuale vescovo, Guglielmo II, vedi che la città ai santi Pietro e Paolo quindi in una sequenza serrata la storia presente si riannoda a quella passata. La lunga iscrizione dice che la porta fu pagata da Guglielmo con le proprie finanze e precisa che l'opera venne realizzata nell’anno in cui morì a Salerno Guglielmo, terzo duca dei Normanni, e in quel momento il popolo di Troia, per salvaguardare la propria libertà distrusse la Rocca e fortificò la città con un vallo e con le mura; la Porta del 1127 e un impressionante documento del periodo in cui la città subì l’inevitabile espansione normanna e cercò di reagire, infatti nel 1127, quando morì il duca normanno, i cittadini insorsero, distrussero la rocca e fortificarono la città con nuove mura. I battenti bronzei rivendicano questo episodio, dedicando uno spazio al testo che lo rammenta, quasi come se si trattasse della pagina di un libro di cronache; la storia religiosa e quella civica si saldano assieme e trovano la propria sintesi nella figura tutta religiosa e politica di Guglielmo II, definito nell’epigrafe “colui che regola la giustizia, liberatore della patria”. Grandangolo: Trani. L'inconfondibile paesaggio urbano di Trani nasce da una scelta compiuta alla fine del V secolo D.C., ossia quella di costruire la cattedrale a pochi metri dal mare; questo edificio sorto in età tardoantica venne rinnovato alla fine dell’XI secolo, quando si decise di riporvi le reliquie di San Nicola Pellegrino, morta a Trani nel 1094. La ricostruzione avvenne in forme grandiose, l'architetto avvolse tutto l'edificio con un massiccio paramento di pietra chiara e si mantenne, però, l'orientamento a est, che era una scelta di carattere simbolico; la luce non ostacolata da nessun edificio investe la cattedrale a cominciare dalle altissime absidi, per poi illuminare il transetto e tutto il corpo possente della chiesa, mentre accanto alla facciata sorge il campanile, eretto nel XIII secolo da Nicolò “sacerdote e protomaestro” che fece incidere a grandi lettere il proprio nome al di sotto della prima cornice marcapiano. L’attività costruttiva non si fermò con la cattedrale, infatti agli inizi del XII secolo sorsero anche la chiesa della Trinità, oggi San Francesco, e quella di Sant'Andrea e più a ovest bene retta la chiesa di Santa Maria de Russis, oggi San Giacomo; sorge sul mare anche il castello Svevo, eletto verso la metà del XIII secolo e progettato da un nobile di Cipro, Filippo Cinardo, aiutato da un architetto locale, Stefano di Romualdo Caraberese. 10. Mille Storie e un Pavimento: Il Duomo di Otranto. Molti edifici sacri di età romanica, fin dall'inizio, ebbero dei pavimenti riccamente decorati e camminare su di essi doveva essere impressionante per l'uomo medievale; le tecniche adottate nella realizzazione dei pavimenti furono diverse: lastre finalmente congiunte l’una all'altra, intarsi marmorei come nel Battistero di Firenze o mosaici realizzati con tessere in pietre di diversi colori. Questi mosaici pavimentali potevano presentare motivi unicamente ornamentali o immagini e cicli narrativi; pavimenti figurati di questo tipo sono attestati in edifici romanici dell'Italia settentrionale e meridionale, con picchi di intensità in Piemonte e in Puglia. In nessuno di questi casi, però, è arrivato fino a noi un pavimento figurato delle dimensioni e della ricchezza di quello della cattedrale di Santa Maria Annunziata a Otranto, in Puglia. Il fusto di un enorme albero che poggia su due elefanti attraversa tutta la navata centrale e centinaia di figure sono come appese ai rami della pianta, in più il mosaico si distende poi nel presbiterio, nell’abside, e nei due lati del transetto, dove riappare lo schema dell'albero e delle sue diramazioni. I temi raffigurati sono numerosi e vanno da episodi dell'antico testamento, come le storie di Adamo ed Eva e dei figli, di Noè, il diluvio universale e la torre di babele, a scene paradisiache e infernali; c’è poi un tema tipico dell'età medievale, quello dei mesi dell'anno personificati tramite i lavori agricoli svolti in quell’arco di tempo e accompagnati dai simboli zodiacali, in più ci sono anche personaggi della mitologia e della storia classica come Atlante che sostiene la sfera celeste e Alessandro Magno che vola in cielo. Quest’ultimo è un episodio della leggenda del grande sovrano ellenistico, nel quale si rappresenta il momento in cui Alessandro ha infilzato delle esche di carne su due lance e le tiene davanti a due Grifoni in modo che essi volando lo portino in cielo; questo è un esempio perfetto di tracotanza, temerarietà e superbia. In questo mosaico c'è posto anche per una figurazione leggendaria tipica del medioevo, Re Artù, ma poi ci sono ancora decine e decine di figure che non compongono nessuna storia come animali, mostri, centauri e creature favolose; le fonti letterarie di queste iconografie appartengono al mondo occidentale più che a quello bizantino, e quindi rispecchiano le vicende politiche della Puglia, passata dalle mani dei bizantini a quelle dei Normanni. La Firma di Pantaleone. Verso la metà della navata, all'altezza delle storie di Noè e all'inizio della navata stessa, sono presenti due iscrizioni che danno informazioni preziose sul mosaico, infatti esse dicono che il mosaico venne realizzato per volontà di Gionata, arcivescovo di Otranto, dal prete Pantaleone, nel 1165, sotto il regno del re normanno Guglielmo I, 1154-1166. Quello che spiazza il visitatore moderno è l’impressione di disordine; è vero che le scene sono disposte da una parte e dall'altra del tronco d'albero o all'interno di tondi, ma l'effetto complessivo è quello di un labirinto, di un assieparsi di immagini in cui è possibile perdersi; ci viene spontaneo cercare un programma, ossia uno svolgimento coerente in cui siano ben leggibili il prima e il dopo, i protagonisti e le comparse, le cause e le conseguenze, ma questa è una nostra idea di programma iconografico e non è detto che sia sempre stato così. Pantaleone è cosciente chi è il pavimento non è il luogo in cui parlare della verità della fede cristiana, ma esso è il luogo adatto per descrivere il mondo in cui un libro aperto in cui si legge un passo del Vangelo di Giovanni, sia in greco che in latino, mentre la mano destra benedice secondo la maniera che era in uso nella chiesa orientale; la barba, l'acconciatura, il colore e la disposizione delle vesti e minimi dettagli come la forma della barba, si ripetono quasi uguali in tutti e tre i mosaici e quindi gli esecutori hanno utilizzato uno stesso modello. Questo avvenne perché nella cultura bizantina seguire uno schema già fissato dalla tradizione era la garanzia che la santità di un’immagine veniva rispettata e resa efficace; da parte loro, gli artisti ripropongono questo modello come fanno i musicisti che interpretano il brano di un altro compositore, cioè la musica è la stessa, ma ogni esecuzione offre la possibilità di sottili e significative variazioni. Le Porte Bronzee. Guglielmo II volle che l'aspetto del Duomo risultasse magnifico anche all'esterno, e quindi decise di abbellire con delle porte bronzee addirittura due ingressi, quello principale e quello sul fianco settentrionale, chiamando due artisti come Bonanno Pisano e Barisano da Trani; pochi anni prima Bonanno Pisano eseguì le porte della facciata del duomo di Pisa, distrutte da un incendio cinquecentesco, e infatti rimane oggi nel Duomo pisano la sua porta di San Ranieri, molto simile nella struttura a questa porta siciliana. Anche Barisano era un affermato fonditore infatti eseguì le porte del duomo di Ravello, 1179, e quelle di Trani. Il Chiostro e Le Sue Sculture. La decorazione del chiostro è altrettanto fastosa, infatti 228 colonnine sostengono a due a due altrettanti capitelli scolpiti; i temi di queste sculture sono quanto mai vari infatti sono presenti storie dell'antico e del nuovo testamento e anche motivi profani come il ciclo dei lavori dei mesi. Vari sono anche i linguaggi degli scultori, infatti possiamo dedurre che nel chiostro furono attive diverse botteghe, alcune di artisti del meridione, altre di scultori dell’Italia settentrionale accompagnati forse da alcuni maestri d'oltralpe. Se si considera il complesso degli edifici di Monreale, la vastità e la varietà delle loro decorazioni, si rimane impressionati dallo sforzo culturale ed economico compiuto da Guglielmo II, infatti furono tantissimi gli artisti al suo servizio, specializzati in tecniche differenti, però l'aspetto che più colpisce è la riuscita convivenza di culture artistiche lontane l'una dall'altra. Grandangolo: Palermo. Percorrere le strade di Palermo significa incontrare la complessa stratificazione culturale e artistica che contraddistingue la storia del capoluogo siciliano dalla Fondazione fenicia alla modernità; in via degli Schioppettieri, sono ben visibili i resti delle fortificazioni puniche, mentre in altre vie del centro storico, come corso Vittorio Emanuele, sono visibili l'assetto della città greca e romana, con ampie strade che si incrociano ad angolo retto e proprio su corso Vittorio Emanuele si innesta, all'incrocio con via Maqueda, uno dei monumenti più importanti dell'architettura e dell'urbanistica barocca, la piazza dei quattro canti. Il lungo periodo della presenza araba che va dall’831 al 1072 lascia consistenti segni nella forma urbana, partendo da i nomi di zone quartieri, come cassaro e Kalsa; almeno fino dall' epoca bizantina l'area dell'attuale Palazzo dei Normanni fu sede del potere infatti è qui che si trova la cappella palatina eretta per volontà di Ruggero II tra il 1130 e il 1140. Importanti edifici in cui si vede la sintesi tra culture diverse sono anche la chiesa di Santa Maria dell’ammiraglio, la vicina chiesa di San Cataldo e la stessa cattedrale, ricostruita dall’arcivescovo Gualtiero e consacrata nel 1185; nel tardo medioevo, uno dei più importanti esempi dell'architettura civile è lo Steri vicino al porto, ossia un palazzo fortificato voluto dalla potente e nobile famiglia dei Chiaramonte. CAPITOLO 12: CHIESE FUORI CITTÀ: PIEVI, MONASTERI E SANTUARI DI PELLEGRINAGGIO 1. Le Pievi. La grande spinta di rinnovamento artistico dell’età romanica si estese anche nelle chiese fuori città, soprattutto allievi delle campagne; la Pieve è la chiesa di una comunità locale, lontana dalla città e dal vescovo. Chiamate anche chiese matrici, le pievi erano il punto di riferimento di una circoscrizione territoriale, sia dal punto di vista religioso che civile; una delle funzioni più importanti svolte dalle pievi era la celebrazione dei battesimi e questo spiega perché spesso accanto a esse sorgano dei battisteri. Il territorio di ogni diocesi era punteggiato da una serie di chiese attorno alle quali si riunivano le comunità locali ecco perché ancora oggi in pianura, in collina o nelle vallate alpine, si vedono degli edifici sacri di modeste dimensioni circondati da piccoli nuclei di abitazioni o del tutto isolati. 2. San Casciano a Settimo. L’Influenza Pisana. San Casciano a Settimo era una Pieve della campagna pisana e in origine l'edificio era intitolato a San Giovanni Battista; la facciata della chiesa è derivata da quella della cattedrale di Pisa, infatti come nel duomo di Buscheto e Rainaldo, le arcate cieche comprendono al loro interno losanghe decorative. Una grande opera d'arte provoca sempre un eco di imitazioni, riprese e citazioni e il motivo arcata losanga, così frequente nelle chiese legate all'influenza pisana ne è un esempio. Il Portale Centrale. Lo scultore decorò l’architrave del portale centrale con tre scene, una di seguito all'altra: la guarigione dei ciechi di Gerico, la resurrezione di Lazzaro e l'entrata di Cristo a Gerusalemme. L’artista eseguì anche gli architravi dei due portali laterali, i capitelli interni, e forse ricoprì il ruolo di architetto; la sua firma comincia sul sepolcro nella scena di Lazzaro e prosegue sul bordo alto dell’architrave e questa è una firma piena di orgoglio simile per questo aspetto a quella di Guglielmo, nella cui bottega pisana l'artista di questa chiesa, Biduino, si era formato, infatti Biduino, a Pisa collaborò alla decorazione della facciata e della zona inferiore della torre pendente, dove eseguì i capitelli e i fregi. Biduino rappresentò la tomba di Lazzaro come un sarcofago, ma questo tipo di sepoltura non era usato al tempo di Gesù ed era assente nell’iconografia dall’età paleocristiana in poi, inoltre Il Vangelo di Giovanni diceva che il sepolcro di Lazzaro era in una grotta; l'artista inserì questo sarcofago perché conosceva bene i sarcofagi classici, che dall’XI secolo, vennero utilizzati per seppellire i membri delle più illustri famiglie pisane. Allora essi erano collocati tutto attorno al Duomo, mentre oggi sono nel camposanto di Pisa e tra questi figura un sarcofago all'antica, che imitava la forma e le decorazioni di un pezzo classico e questo sarcofago presentava la firma di Biduino, che lo eseguì per il giudice Giratto. Familiarità Con Gli Antichi. La dimestichezza con i sarcofagi classici ci aiuta a capire il linguaggio di Biduino, che presenta figure alte quanto lo spazio disposizione e fittamente disposte l'una accanto all'altra; anche nella ripresa di certi dettagli l'artista conferma la sua confidenza con la scultura di età romana, ma allo stesso tempo se ne distacca quando inserisce torri e arcate di città complimento al loro interno figurine di uomini che assistono agli eventi, perché in questo modo si perdeva la proporzione tra le figure che caratterizzava la scultura antica. Questa perdita la vediamo nell’architrave con un episodio della vita di San Nicola che l'artista eseguì per San Salvatore a Luca: a pochi giorni dalla nascita, il Santo si mette in piedi mentre viene accudito dalle levatrici; lo stupefacente evento viene osservato da vecchi e giovani sotto arcate e torricini in edifici orientaleggianti. I Portali Laterali. Gli animali sono i soli protagonisti degli architravi dei due portali laterali della facciata, infatti a destra, due grandi Grifoni stanno azzannando un orso, mentre a sinistra due uomini si aggirano in un bosco; le piante si nascondono sul fondo e ai margini e sono gli animali a occupare la scena, infatti due arieti brucano l'erba tranquilli, ma stanno per essere assaltati da un leone e tutti gli altri o attaccano o vengono aggrediti, quindi i due uomini si muovono in un mondo pieno di pericoli. Siamo di fronte a una tematica molto frequente nell’arte romanica eh già presente nelle pagine miniate e nei capilettera; il significato simbolico giustificava l'inserimento di scene come queste in un contesto sacro, ma c'era anche desiderio di offrire a chi entrava in chiesa figure sorprendenti e forme seducenti. Biduino, ripropose un motivo presente da secoli nell’arte orientale, ossia la lotta tra una fiera e un'altra bestia, ma qui lo ripete variando di continuo le specie animali; raramente, durante il XII secolo, la fantasia di uno scultore fu così attratta dagli scatti bestiali, dalle grinfie e dai morsi. 3. L’Abbazia di San Michele della Chiusa. Anche nei secoli successivi all'anno 1000, entrare in monastero veniva considerata la forma perfetta di vita cristiana e quindi grandi monasteri nata in età longobarda, come Bobbio e Nonantola, mantennero la loro importanza, mentre ne furono fondati di nuovi al tempo degli ottoni, come l’abbazia di San Michele della Chiusa in Val di Susa, Torino. Una Posizione Eccezionale. La sua posizione geografica è straordinaria, infatti l'abbazia sorge sul Monte Pirchiriano, una punta rocciosa che domina la valle e la strada che conduce in Francia e quindi un punto di passaggio obbligato per i pellegrini; una sede così impervia e solitaria non venne individuata a caso, infatti in età medievale era normale cercare luoghi separati dalla città e lontano dagli affari della vita mondana per i monasteri, ma qui la scelta di un picco montuoso è particolare e va messa in connessione con la leggenda di una miracolosa apparizione di San Michele. Anche in precedenza si narrava che l'arcangelo si fosse manifestato ai fedeli in luoghi elevati sulle montagne, come nel santuario a Monte Sant'Angelo nel Gargano o in Francia, nell’isolotto roccioso sulle coste della Normandia di Mont-Saint-Michel; il monastero piemontese in questo modo si trovava a metà strada tra quello francese e quello pugliese. Durante l'alto medioevo si diffuse il racconto connesso ad un singolare rilievo nel paesaggio, di un apparizione dell’Arcangelo sulla mole del mausoleo di Adriano a Roma e da allora l'edificio venne chiamato a Castel Sant'Angelo. La speciale conformazione topografica della rupe di San Michele resi necessari lavori per rendere abitabile il luogo e per far sì che il monastero fosse accogliente anche per i pellegrini; una cronaca delle vicende del monastero, scritta da un anonimo verso il 1061, da l’idea dello sforzo necessario per innalzare in un luogo così difficile la chiesa che era mirabile per l’operosa visibilità ricca di segni spirituali. Un imponente sistema di strutture architettoniche fa da basamento alla chiesa abbaziale, appoggiandosi sulle rocce e saldandosi con esse; il Pellegrino medievale si inerpicava prima sul sentiero, poi sulla scalinata ricavata in parte nella roccia che porta fino alla terrazza più alta. Durante il medioevo i monasteri furono edificati in luoghi di massima visibilità, a dominare il paesaggio dall'alto e questa era una nuova geografia sacra, dove le architetture imprimevano il segno della fede cristiana sulla natura circostante; non stupisce che la decisione di costruire una linea dei treni ad alta velocità Tav in Val di Susa, in un paesaggio così marcato dalla storia e dalla cultura medievale, abbia aperto una questione politica e civile accesissima anche a livello nazionale. Il Portale Dello Zodiaco. abbaziale è una natura impegnata di umanità, nella quale si manifesta la presenza umana nella cura quotidiana della terra; in parole povere, l'uno e l'altra, il paesaggio e la chiesa, sono opere dell'uomo medievale. Se possiamo apprezzarli entrambi è perché gli uomini che sono venuti dopo non hanno cercato di alterare la semplicità di questo loro rapporto, anzi tentarono di mantenerlo saldo. Dopo una fase di grande vigore nel XII secolo, il monastero visse un lungo periodo di declino fino ad arrivare all’abbandono, però, alcuni decenni fa nelle poche strutture monastiche superstiti accanto alla chiesa abbaziale, si è insediata una comunità religiosa e quindi il nuovo uso dell’edificio non entra in conflitto con la sua storia ma ne diviene la coerente prosecuzioni. L’Edificio e i Modelli Francesi. Anche se non conosciamo con sicurezza i fondatori, sappiamo che un cenobio esisteva in questa posizione già nell’alto medioevo, però l'attuale chiesa appartiene a una fase successiva; quello che conosciamo sulla vicenda della costruzione lo impariamo dalla chiesa stessa, perché a Sant’Antimo sono due iscrizioni a fornirci dati preziosi. La prima è una lunga epigrafe sui gradini dell'altare che contiene la trascrizione su pietra di un atto notarile del 1118, in cui il Conte Bernardo degli Ardengheschi donava il proprio patrimonio all’abbazia; è possibile che il cantiere della nuova chiesa si avviò poco dopo il 1118 proprio grazie a questa grande somma di denaro. La seconda iscrizione si trova sull'architrave del portale della facciata e dice che il Monaco Azzo dei Porcari fu il promotore e l'amministratore del cantiere e quindi dobbiamo anche ad Azzo la scelta di una pianta piuttosto rara in Italia, quella che prevede un prolungamento delle navatelle con un deambulatorio che gira attorno all’abside, in cui si aprono cappelle a raggiera; queste soluzioni architettoniche sono diffuse nel romanico francese, soprattutto nelle chiese poste lungo le grandi vie di pellegrinaggio verso Santiago de Compostela, in questo modo veniva risolto il problema dell'ingresso e dell'uscita di un gran numero di pellegrini e si potevano offrire più altari per le celebrazioni, però non sappiamo se anche qui a Sant’Antimo la forma della chiesa fosse in funzione dei pellegrinaggi diretti a sud verso Roma, lungo le diverse varianti della via Francigena. Il Maestro Di Cabestany. La pianta non è l'unico aspetto che ricollega la chiesa abbaziale di Sant’Antimo con il romanico al di là delle Alpi; sulla seconda colonna a destra un capitello descrive il profeta Daniele tra i leoni, e questo è un episodio biblico frequente nell'arte paleocristiana e in quella medievale, il quale racconta la condanna da parte dei babilonesi alla fossa dei leoni nei confronti di Daniele, il quale era fedele al Dio di Israele, però un Angelo condusse miracolosamente il profeta Abacuc in questo luogo, il quale porta del cibo Daniele. Quest’ultimo momento è quello scelto dallo scultore, il quale ritrae Daniele mentre invoca Dio alzando le braccia, e in più Daniele prega con le ginocchia lievemente piegate, in un atteggiamento non solenne, e allo stesso tempo si gira verso l'angelo e Abacuc, mentre attorno incombono i leoni, alcuni strisciando, altri montando sulle schiene dei vicini, in un groviglio di teste, criniere e zampe. Da molti anni gli studiosi hanno notato che in questo capitello è presente un linguaggio diverso da quello degli scultori romanici attivi in Toscana e in Italia, e anzi vi hanno riconosciuto lo stile di un maestro attivo nella zona dei Pirenei chiamato Maestro di Cabestany, dal nome della località francese dei Pirenei da cui proviene la sua opera; la figura di questo maestro è un esempio di come la storia dell'arte sia riuscita a ricostruire, la storia di un'artista itinerante di cui non sappiamo neppure il nome e le sue opere così distanti tra di loro dimostrano anche che in piena età romanica gli artisti circolavano facilmente in Europa, diffondendo forme, tecniche e iconografie. 7. Un Grande Monastero Distrutto: Montecassino. L'abbazia di Montecassino sorge su un’altura di circa 500 m, in una posizione che domina la valle del fiume Liri; il complesso degli edifici del monastero venne ricostruito dopo il tremendo bombardamento avvenuto nel 1944, durante la Seconda guerra mondiale, perché gli alleati temevano che l’altura e il monastero stesso si potessero trasformare in una roccaforte dell’esercito tedesco e per questo la rasero al suolo. La distruzione di un luogo così importante nella storia religiosa e artistica della penisola fece impressione su un Italia che non era ancora uscita dal conflitto, ma significativo fu il fatto che la prima pietra della ricostruzione del monastero venne posta già il 15 Marzo 1945, alla presenza dell’allora capo del governo Bonomi; lavate in carica volle che l'abbazia venisse ricostruita “com'era, dov'era e nelle preesistenti linee architettoniche e volumetriche”. L’Abate Desiderio. Su questo rilievo montuoso che in età classica fu l'acropoli dell'antico municipio romano di Casinum, San Benedetto da Norcia fondò un monastero già agli inizi del VI secolo, però nella vicenda medievale dell’abbazia, la data chiave e il 1066, anno in cui l'abate Desiderio decise di ricostruire la chiesa. I bombardamenti del 1944 hanno cancellato le strutture medievali, però ci venga in soccorso le fonti letterarie, scritte da testimoni oculari delle iniziative artistiche di Desiderio; uno di essi, il Monaco Leone Marsicano, racconta che Desiderio spese molto denaro per acquistare a Roma “colonne, basi, capitelli e marmi di vario colore” i quali per arrivare fino a Montecassino fecero un enorme viaggio molto faticoso soprattutto verso la fine. Lo sforzo costruttivo fu imponente ed era segno del grandioso progetto culturale e religioso dell’abate, è un'altra prova di questo sforzo è la decisione di dotare la chiesa di un ingresso del tutto speciale, infatti nel 1066, Desiderio ordinò una porta bronzea a maestri fonditori bizantini dopo che l'anno prima vide la porta della cattedrale di Amalfi. Alfano, prima Monaco a Montecassino e poi arcivescovo di Salerno, è un altro testimone della costruzione della chiesa, una grande basilica a tre navate con transetto, preceduta da un grande atrio porticato; Alfano era un testimone speciale vista la sua competenza artistica e suoi erano quei versi, ora perduti, chi si trovavano nell'atrio della chiesa e dicevano “questa casa è stata realizzata grazie al fervore del padre Desiderio, incantevole per la bellezza, i materiali e l'arte”. Maestranze da Costantinopoli. Alfano ci dice che Desiderio fece venire maestranze da Bisanzio perché “i costruttori italiani non erano all'altezza del compito”; questa dichiarazione con cui Alfano spiega decisione di Desiderio è sorprendente e preziosa per la sua chiarezza, infatti era da secoli che la lavorazione a mosaico non era più praticata in occidente e per questo l’abate voleva ripristinare una tecnica che ebbe momenti di splendore in età paleocristiana, però allo stesso tempo voleva riproporre soggetti a forme di quella stagione artistica e culturale. Il ricchissimo arredo liturgico che Leone Marsicano descrive consisteva in gran parte in oggetti, oreficerie e icone, proveniente da Costantinopoli ed ora perse per sempre; alla fine Alfano, in modo coerente, paragona la bellezza della chiesa addirittura a quella di Santa Sofia a Bisanzio, la quale venne eretta da Giustiniano. Il Programma Culturale dell’Abate. Era destinato alla chiesa abbaziale un lezionario per le feste dei santi Benedetto, Mauro e Scolastica, il quale oggi è conservato alla biblioteca vaticana; in mancanza delle tante opere perdute, la pagina iniziale del codice può essere letta come un vero e proprio manifesto del programma culturale di Desiderio, egli fu una figura di spicco nella chiesa del tempo, e nel 1087 venne eletto Papa con il nome di Vittore III. La miniatura mostra a sinistra Desiderio con il nimbo quadrato, mentre offre a San Benedetto un libro e china con reverenza il capo; alle spalle dell’Abate e del Santo vi sono edifici sacri di Montecassino, mentre a terra sono raffigurati altri volumi e più sotto piccole chiese provviste di campanili indicano le tante proprietà del monastero e i pochi ciuffi di erba e un Monte roccioso ricordano che esse sono disseminate nel territorio e costituiscono un elemento essenziale del paesaggio. I Rotuli e la Liturgia. A Montecassino e in altri centri del meridione italiano ben realizzati dei codici che appartenevano alla tipologia dei rotuli liturgici; sono arrivati fino a noi circa 30 di questi rotuli, quasi tutti i prodotti nell’Italia meridionale di cultura longobarda e quasi tutti del tipo detto Exultet. Questi rotuli di pergamena, a volte lunghi 2 m e altre volte anche 9 m, contenevano testi e immagini miniate e in molti casi invertiti gli uni rispetto alle altre, in modo che quando l’officiante leggeva il testo dall’ambone i fedeli davanti a lui potevano vedere le immagini miniate. Il nome Exultet deriva dalla prima parola del canto latino con cui si annunciava la risurrezione di Gesù e questo canto costituiva solo uno dei momenti della veglia Pasquale che celebrava con solennità e gioia l'evento cardine della fede cristiana; la cerimonia ruotava attorno al cero Pasquale, una grande candela che veniva accesa accanto all'altare per simboleggiare la presenza di Cristo e in un testo prodotto a Benevento vediamo proprio questo momento, cioè un diacono è salito su un ambone riccamente decorato e ha appena acceso il grande cero Pasquale, mentre dall’alto la mano benedicente del Signore si stende sul vescovo, che a sua volta è rappresentato nell'atto di benedire con la destra, mentre si avvicinano i chierici vestiti di bianco e con la tonsura sul capo. 8. Sant’Angelo in Formis. Una chiesa nei pressi di Capua, in Campania, Sant'Angelo in Formis, ci riporta a Desiderio; infatti qualche mese dopo la consacrazione di Montecassino, Riccardo principe di Capua, donò un’area a Desiderio nel 1072. Quest’area era tutt'altro che un territorio qualunque perché fin dal IV secolo A.C. in questa zona sorgeva il santuario di Diana Tifatina, e persino il nome del monastero, in formis, deriverebbe dal nome che si dava nel medioevo agli archi degli acquedotti che portavano l'acqua dal Monte Tifata verso Capua; la cosa più sorprendente però è il fatto che la chiesa è stata costruita su quella che era la base in blocchi di tufo dell'antico tempio di Diana, al punto che il perimetro della chiesa e quello del tempio praticamente coincidono e rimangono in uso parti dell'originale pavimentazione. In questa chiesa di Capua siamo davanti ad un clamoroso episodio di reimpiego di strutture antiche e allo stesso tempo, alla sostituzione di un'antichissima divinità femminile con un culto particolarmente amato dai Longobardi, quello dell’Arcangelo Michele, però del resto, Alfano di Salerno raccontava la stessa cosa per Montecassino, cioè dove sorse un altare di Apollo, San Benedetto fondò il suo monastero. Prima che Riccardo donasse l'area all’abate Desiderio esistevano una chiesa e un monastero, che però vennero risistemati alla fine dell’XI secolo; sull'architrave del portale leggiamo infatti il nome dell'abate di Montecassino e nel testo della scritta si riconosce una citazione della celebre sentenza che era scolpita sul tempio di Apollo a Delfi “conosci te stesso”, e quindi come le strutture del tempio di Diana vennero trasformate in chiesa, così l'antica esortazione greca viene riutilizzata in una frase che celebra le virtù cristiane di Desiderio. Un Intero Ciclo di Affreschi. Poco dopo la ricostruzione promossa dall’Abate, l'interno della chiesa venne decorato ad affresco con storie dell’antico e del nuovo testamento; nell’abside centrale, Gesù in trono è circondato dai simboli degli Evangelisti, su uno sfondo squillante d'azzurro, mentre nel registro sottostante San Michele è in piedi tra altri due arcangeli e sulla sinistra è raffigurato Desiderio, con il nimbo, che gli offre il modellino della chiesa e questo gesto di dedica si ricollega a quello di 70 anni prima in San Vincenzo a Galliano e a quello del VI secolo, in San Vitale a Ravenna. Al Cristo in trono dell’abside corrisponde un altro Cristo in maestà sulla parete opposta, la controfacciata e su questa parete Cristo in maestà è al centro di un grandioso giudizio universale, un soggetto che nel mondo bizantino era collocato in questa zona della chiesa, come si vede 1. ” Dalle Cose Materiali a Quelle Immateriali”: Suger e Saint-Denis. Suger, Abate con Grande Sensibilità Artistica. Difficilmente si ha l'occasione di conoscere così bene la personalità di un protagonista della storia dell'arte medievale come nel caso di Suger, 1081-1151, Abate di Saint Denis; questa Abbazia dipende importante da un lato per la presenza delle venerate reliquie di San Dionigi, dall'altro perché vi venivano sepolti i re di Francia. Suger guidò Saint Denis dimostrandosi abile sia nell'ambito della vita religiosa, sia nel campo delle relazioni politiche, grazie ai suoi legami con i sovrani; me la risistemazione della chiesa abbaziale l'abate dimostrò una grande intelligenza artistica, che viene confermata dai suoi scritti, nei quali il suo atteggiamento nei confronti dell'opera d'arte si può riassumere in questo concetto: l'arte è un mezzo per accostarsi a Dio, e quindi la bellezza della casa di Dio annuncia la bellezza della vita eterna. Saint-Denis: La Facciata. Poco prima del 1140, Suger fece ampliare verso ovest la chiesa abbaziale preesistente e fece aggiungere due torri, un rosone e un triplo portale; nella strombatura del portale comparvero per la prima volta, 20 statua-colonna, cioè figure in piedi saldate alle colonne, e addirittura lavorate nel medesimo blocco di pietra. Queste 20 statue raffiguravano re e regine, patriarchi e profeti dell'antico testamento e personaggi che avevano lo scopo di mostrare la lunga storia della redenzione cristiana; purtroppo questa facciata non ci arriva nella forma originale perché venne alterata tra Settecento e Ottocento, però la sua importanza è fuori discussione, perché nel giro di pochi anni l'idea delle statue-colonna fu ripresa in altre cattedrali e soprattutto nella facciata occidentale di quella di Chartres. Il Nuovo Coro. Nel 1140 iniziarono i lavori a est per un nuovo coro; l'anonimo architetto realizzò un doppio deambulatorio in cui le cappelle erano collegate l'una all'altra senza muri divisori e leggendo gli scritti di Suger capiamo le evidente intenzione dell’abate, infatti con l'apertura di grandi finestre entrava nella navata una grande quantità di luce, luce che Suger metteva in relazione con Dio. Le Vetrate. L’insistenza sulla luminosità nella chiesa non è un modo per sfoggiare la propria bravura poetica, ma è un modo per dichiarare la propria idea, ossia la luce ha una natura spirituale, proviene da Dio e conduce a lui. Con coerenza, tra il 1140 e il 1147, Suger fece arricchire le finestre del deambulatorio del coro e delle cappelle con grandi vetrate; nonostante i danni subiti dalla chiesa durante la rivoluzione francese, oggi è possibile analizzare il complesso delle vetrate volute da Suger e ricollegarle ai suoi scritti, infatti riusciamo a ricostruire in gran parte i programmi iconografici su cui egli stesso si soffermò, e riusciamo a capire l'entusiasmo dell'Abate per la bellezza dei colori del vetro. Nella scena dell'Annunciazione è raffigurato Suger stesso, in abiti monastici e prostrato umilmente ai piedi della Madonna. 2. Gli Elementi dell’Architettura Gotica. La Luce e Le Finestre. Il desiderio di fare entrare una quantità sempre maggiore di luce, come voleva Suger, modificò completamente la forma delle chiese e cambiò l'idea stessa di edificio sacro; per aumentare la luce interna c'era un solo mezzo, allargare le finestre, ma in tal modo si indebolivano i muri, ai quali era affidato il compito di sostenere le pesanti volte in pietra. Gli architetti gotici e i loro committenti non vollero rinunciare alle volte, ma anzi esse diventarono ancora più grandi rispetto a quelle delle chiese romaniche, e divennero sempre più proiettate verso l'alto grazie all’utilizzo diffuso del arco acuto o a ogiva; inoltre, il peso che gravava sui muri non era solo quello delle volte, perché al di sopra di esse erano fissate le enormi travi che reggevano il tetto, quindi, in altre parole, se si adottavano le volte non si poteva alleggerire il sistema dei sostegni. I Pilastri. La soluzione ideata dagli architetti codici fu molto efficace a livello funzionale: per mezzo di grandi archi, detti Archi Rampanti, il peso delle volte e del tetto sovrastante veniva trasferito all'esterno su enormi pilastri, detti Contrafforti, collocati al di fuori del perimetro dell'edificio; l'obiettivo di aprire enormi finestre fu così raggiunto senza mettere in pericolo la stabilità delle costruzioni. Questo insieme di soluzioni tecniche ebbe ripercussioni a livello estetico, perché l'aspetto delle chiese cambiò completamente, sia all'interno che all'esterno, e già i critici del Settecento paragonarono le strutture architettoniche delle cattedrali gotiche al fitto intreccio di una foresta; a questo si aggiunge anche l’esasperazione che gli architetti ebbero nei confronti di due direttrici spaziali, quella verticale e quella longitudinale, infatti l'occhio dello spettatore è attratto dalla spettacolare altezza della navata centrale, e allo stesso tempo, dalla sua nuova e inedita lunghezza. Le Vetrate Istoriate. La ingrandimento delle finestre stimolò la produzione di grandi vetrate istoriate con episodi delle scritture, figure di profeti o dei santi; questa era una tecnica complessa e delicata vista la fragilità dei materiali, che però consentiva di realizzare grandi superfici multicolori. Le lastre di vetro venivano ritagliate secondo il disegno prestabilito, poi si poteva ridurre l'uniformità dei colori e ottenere effetti di chiaroscuro con la pittura a Grisaille, ossia una tecnica basata sull'uso di una vernice grigiastra, ottenuta dalla macinazione del vetro, che veniva temprata a fuoco per farla aderire all'interno delle vetrate stesse. Le differenti porzioni di vetro, una volta lavorate, erano poi congiunte le une alle altre con listelli di piombo, e quindi venivano inserite all'interno di armature metalliche, che a loro volta venivano montate nel vano delle finestre. Per la realizzazione di opere come queste non era sufficiente un solo maestro vetraio, ma era necessaria la collaborazione di maestranze dotate di competenze differenti, tutte coordinate dall’architetto. Le vetrate gotiche ebbero il ruolo di raccontare la storia della salvezza, ma anche di dimostrare la multiforme vivacità della luce, simbolo della luce divina; grazie a esse, interno ed esterno dell’edificio sacro venivano messi in perpetua comunicazione, infatti nella chiesa di città, la luce portava con sé qualcosa della struttura urbana, mentre nella chiesa di campagna qualcosa del paesaggio circostante. La nuova architettura, anziché isolare il fedele dentro lo spazio chiuso del culto e del rito, si presentava come il punto d'approdo di un percorso di avvicinamento, e tramite gli squarci di luce ne conservava la memoria. La Sainte-Chapelle a Parigi e il Gotico Rayonnant. Luigi IX, re di Francia dal 1226 al 1270, fece edificare e decorare la Sainte-Chapelle, ossia la cappella del Palazzo Reale, per ospitare e venerare le preziosissime reliquie della passione di Cristo, che si procurò spendendo somme elevatissime; per questo motivo, tutto il programma decorativo della chiesa e non solo delle vetrate si concentrava sulla Passione. In questa cappella siamo di fronte alla fase del Gotico, attorno alla metà del XIII secolo, denominata Gotico Rayonnant, ossia radiante, perché le proporzioni delle chiese si esasperarono in lunghezza e in altezza e di conseguenza anche le vetrate subiscono un processo di assottigliamento e allungamento in verticale; in più, nella Sainte-Chapelle, le vetrate diventano le protagoniste principali dello spazio architettonico, tanto da sostituire quasi del tutto le pareti in pietra. L’Organizzazione dei Cantieri. Le chiese altomedievali e romaniche erano concepite al loro interno come aule rivestite di immagini dipinte o a mosaico, adesso invece le chiese gotiche concentrano la decorazione solo in alcuni punti chiave come i portali all'esterno e le vetrate delle grandi finestre all'interno; la conseguenza è che le stesse strutture architettoniche divennero le protagoniste, infatti adesso c'è una nuova grandiosità, dove svettano torri, pinnacoli, guglie, archi rampanti, mentre all'interno i pilastri, le pareti, le volte, le nervature vengono realizzati con estrema precisione, segno di una efficace organizzazione del cantiere e quindi tutte le strutture ora acquistano visibilità, risaltano nella loro perfezione e si mostrano come parti di un magnifico organismo vivente, il tempio del Signore. Gli architetti gotici dovettero assumere compiti che dall’età moderna in poi sono ben distinti, poiché si assunsero da una parte la progettazione e dall’altra la direzione dei lavori; per questa ragione hai ista venivano richieste profonde basi culturali e grande rigore progettuale e adeguate capacità organizzative, come il riferimento al trasporto dei materiali, la scelta e il coordinamento delle maestranze, e quindi non stupisce che alcuni di essi vengono celebrati solennemente dai contemporanei. 3. Perfetta Fusione Fra Architettura e Scultura: La Cattedrale di Chartres. A Chartres nel XII secolo esisteva già una cattedrale, ma di questa chiesa rimangono solo la facciata, affiancata da due enormi torri, e il cosiddetto portale dei re, perché nel 1194, un incendio distrusse gran parte dell’edificio e così iniziò un nuovo progetto di un architetto anonimo che venne completato attorno al 1221, durante il quale si aggiunse un grande rosone alla facciata e si cambiò totalmente l'assetto della chiesa ispirandosi a modelli recenti. Internamente le tre navate vennero interrotte da un transetto, anch'esso a tre navate, e a sua volta il transetto si raccorda con le navatelle che bordano le quattro campate del coro, per poi saldarsi con il doppio di ambulatorio della abside coronata da Cappelle Radiali. La Navata centrale è spettacolare per l'altezza e per la chiarezza con cui si offrono alla vista le strutture architettoniche, ordinatamente disposte su livelli diversi: in alto le volte costolonate, più sotto le grandi finestre, a due a due e poi ogni coppia sormontato da un rosone, quindi una sequenza continua di piccole arcate, triforio, e infine i grandi archi della navata sostenuti dai pilastri; possiamo seguire costoloni che innervano le volte nel loro scendere lungo le pareti e trasformarsi nelle semicolonne che serrano i pilastri a pianta circolare. Il nostro sguardo può osservare queste nervature di pietra verso il basso o verso l'altro, ma in qualsiasi direzione, il meccanismo complessivo dell'edificio si offre nella sua struttura e nella sua trasparenza; uno sopra l'altro, come i pentagrammi di una partitura musicale, i diversi livelli dell’interno appaiono nella loro veste funzionale e fanno sembrare naturale un sistema architettonico quanto mai complesso sia sotto il profilo della progettazione che quello della realizzazione tecnica. Il Portale dei Re. Sia all'interno che all'esterno sono le strutture architettoniche a regolare il dialogo con le immagini, che in tal modo si inseriscono con ordine nel ritmo solenne dell’edificio; in facciata, le sculture del triplice ingresso, detto portale dei re, hanno ancora la ricchissima varietà iconografica del romanico, infatti nei tre timpani sono scolpite la Madonna in trono con il bambino e altre scene dell'incarnazione, a sud, Cristo come giudice, al centro, e l'ascensione di Cristo, a nord. Nei 24 capitelli che si susseguono nelle strombature ci sono storie della vita di Cristo, mentre la decorazione degli archivolti è fittissima perché ci sono i 24 anziani dell'apocalisse, le 7 arti liberali, i segni zodiacali e i mesi dell'anno; le arti liberali sono affiancate da scrittori e scienziati antichi, gli stessi che venivano studiati nell’università attiva presso la cattedrale. L’aspetto più straordinario del Portale Dei Re sono le 24 statue-colonne, arrivate fino a noi solo 19: le figure, personaggi dell'antico testamento, sono disposte nelle strombature, assecondando la lunghezza delle colonne e quasi assumendo la sottigliezza dei fusti; i volti guardano in avanti, le braccia non fuoriescono dal contorno dei corpi e le pieghe degli abiti sono fittissime e sottili. In alcuni portali romanici, essi vennero affiancati da profeti biblici, ma qui l'idea viene amplificata e il fedele che entrava in chiesa i monaci e rovinare l'atmosfera di concentrazione e preghiera che caratterizzava questi luoghi. Nella visioni di San Bernardo c’è una notevole differenza con quella di Suger, il quale considerava l'arte un mezzo per accostarsi a Dio; in conclusione San Bernardo e Suger vissero tutti e due e l'esperienza monastica, si conobbero e si stimarono reciprocamente, però avevano una diversa posizione nell’accostarsi alle opere d'arte. Una Nuova Austerità. Bestie feroci, centauri, esseri favolosi, mostri, scene di caccia o di combattimento sono le immagini che abbiamo scoperto prima sui codici in età altomedievale e poi nella scultura romanica europea della seconda metà dell’XI secolo fino al XIII secolo compreso, e alcuni esempi di questa scultura ci vengono offerti da Wiligelmo e da Nicolò, il quale lavorerò anche in contesti monastici come nella chiesa di San Zeno a Verona e nella Sacra di San Michele a Susa. Il rigore delle riflessioni di Bernardo ci aiuta a capire il carattere austero dell'architettura cistercense, però le sue parole sono importanti anche perché ci lasciano intravedere modi diversi con cui ci si accostava all'arte di età medievale, infatti basta pensare alle parole completamente diverse di Suger; la scena più vivida che Bernardo ci lascia immaginare è quella dei monaci curiosi che osservano le sculture di un chiostro una per una e le commentano ad alta voce, richiamando questo o quel passo letterario, ma la cosa che ci colpisce di più nelle parole di San Bernardo è l'indifferenza per il versante simbolico. I temi contro cui si scaglia l'abate di Chiaravalle sono nati in una sfera estranea a quella cristiana, ma poi sono stati riassorbiti al suo interno; non c'è dubbio che la loro così frequente presenza nell’iconografia romanica forse giustificata da una interpretazione allegorica, eppure c'era chi come San Bernardo, avvertiva il rischio che immagini nate con un significato sacro si trasformassero in occasioni di un esteriore piacere per gli occhi. L’Abbazia di Fontenay. Bernardo nel suo ruolo di Abate non si limitò a porre dei divieti, infatti il fatto che tutte le abbazie dipendenti da Chiaravalle avessero strutture architettoniche quasi identiche fa pensare che egli avesse scelto un modello di base, quello della casa madre, che veniva applicato via via alle abbazie che ne dipendevano; questo modello prevedeva attorno al chiostro, di forma quadrata, la disposizione dei vari ambienti conventuali, seguendo sempre lo stesso rigoroso schema, per fare due esempi, la sala capitolare è di norma sul lato orientale del chiostro, mentre le cucine e il refettorio sono su quello meridionale, mentre le chiese abbaziali presentano una pianta a tre navate con transetto e coro dal profilo rettilineo. L’Abbazia di Fontenay in Borgogna, fondata da San Bernardo di Chiaravalle nel 1118 e terminata pochi anni prima della sua morte, è una delle migliori testimonianze della forma di monastero voluta dal Santo. 2. Le Abbazie Cistercensi in Italia. Lo schema di Fontenay si ritrova anche nelle abbazie italiane, alcune delle quali ebbero non a caso il nome della chiesa madre, come Chiaravalle milanese o Chiaravalle di Ancona; le tradizioni costruttive locali vennero spesso mantenute, come l'utilizzo dei mattoni accanto alla pietra, però le forme delle chiese e dei vari ambienti conventuali seguirono in tutto e per tutto i modelli provenienti dalla Francia. La stessa cosa accade per la decorazione, generalmente sobria, infatti gli spazi destinati ai monaci dovevano presentare quella stessa semplicità e purezza che si richiedeva alla loro vita spirituale, ed è impressionante il rigore dei primi edifici cistercensi, sei confrontati con edifici romanici anteriori o di pochi anni contemporanei; la facciata del duomo di Pisa, risale circa la metà del XII secolo, quando l'abbazia di Fontenay era già stata costruita e paragonando questi due edifici vediamo da una parte esuberanza di decorazioni e colori, dall’altra forme essenziale e spoglie. Anche Italia l'interno e l'esterno delle abbazie cistercensi ha ornamentazioni sobrie e raramente figurative, infatti le figure umane sono quasi assenti e solo ogni tanto degli animali compaiono tra le foglie di qualche capitello. Nello stesso tempo i cistercensi si mostrano aggiornati sulle novità architettoniche che stavano prendendo piede in Francia e infatti i loro edifici assorbirono ben presto le nuove soluzioni del gotico, adattandole e rendendole funzionali alle esigenze spirituali e pratiche del nuovo ordine monastico; infatti, rispetto alle grandi cattedrali delle città, nelle abbazie cistercensi il senso dell'ordine che tanto caratterizza il gotico si manifesta in un altro livello, cioè le chiese e gli edifici conventuali non svettano in altezza con torri e pinnacoli, non hanno portali affollati di statue o bassorilievi, ma sono costruiti su schemi razionali e sono regolati da studiate le proporzioni metriche. 3. Gotico Del Nord e Gotico in Italia: Due Linguaggi a Confronto. Osservando gli edifici gotici d'oltralpe e quelli presenti nel nostro paese notiamo consistenti differenze; prima di tutto spicca lo scarto tra le rispettive dimensioni planimetriche, ossia la lunghezza della maggior parte delle cattedrali francesi e inglesi supera nettamente quella degli edifici costruire in Italia secondo lo schema Francigenum, infatti la cattedrale di Siena è una costruzione senza dubbio grandiosa rispetto alla media degli edifici sacri dell’Italia medievale, però se confrontata con le cattedrali di Laon e di Coutances, risulta molto più modesta, ed infatti nel 1339 si decise l'ampliamento della cattedrale senese, ma il progetto non andò a termine come si vede dalle strutture architettoniche non Ultimate a ridosso del fianco destro della chiesa. A differenziale gli edifici gotici italiani non è solo la minore lunghezza delle navate, perché gli edifici francesi e inglesi evidenziano planimetrie più elaborate e complesse, per la presenza, nella zona dell'abside, di deambulatori a volte accompagnati dal susseguirsi di cappelle radiali, ad esempio nella chiesa di Notre Dame a Coutances il deambulatorio è addirittura doppio. Per portare avanti edifici così impegnativi è ovvio che occorrevano cantiere efficienti, ben organizzati e dotati di un sostegno finanziario robusto e continuativo; la cattedrale di Laon, venne iniziata nel 1155 e conclusa solo dopo un secolo, mentre la basilica di Sant'Andrea Vercelli fu realizzata in un arco di tempo molto minore, tra 1219 e 1227. SEZIONE VI: IL GOTICO E LA FONDAZIONE DELL’ARTE ITALIANA DEL DUECENTO LINEAMENTI STORICI L’Età di Federico II. L'impronta che Federico II di Svevia, 1194-1250, lasciò sullo scenario politico italiano fu notevole soprattutto per la sua capacità di riorganizzare gli apparati statali nel meridione italiano; congiungendo nella sua persona la dinastia dei re Normanni di Sicilia e la casa tedesca degli Hohenstaufen, Federico si mostrò sensibile alla pluralità delle culture rappresentate nell’Italia meridionale e volle affermare il suo pieno dominio sopra un territorio vastissimo. Di uguali dimensioni furono i segni che egli lasciò nel panorama culturale artistico della prima metà del XIII secolo, infatti gli uomini del suo tempo furono sorpresi dalla sua abilità nel governare saldamente l’impero e di assecondare i suoi spiccati interessi culturali; Federico fondò la prima università laica d’Europa a Napoli, e in più la rete di castelli e di residenze che fece costruire o adattare nell’Italia centrale o meridionale e la Fondazione stessa di nuove città come Gela, sono prove dell’intelligenza con cui egli riuscì a tenere assieme il controllo del territorio, la apprezzamento per gli scenari naturali, la passione della caccia e l'interesse per l’architettura. Federico e La Memoria dell’Impero Romano. In campo artistico, il tratto distintivo dell’età di Federico II è la rinnovata importanza dei modelli classici, come si vede nella porta di Capua; le ragioni che spinsero Federico in questa direzione furono molteplici: egli richiamava la memoria dell'antico Impero Romano per mostrare e legittimare l'origine del suo potere imperiale e per sostenere il proprio prestigio e il proprio progetto politico. A partire dal 1231, anno della promulgazione della costituzione di Melfi, furono coniati gli augustali, monete d'oro che derivano direttamente da quelli di età romana: sul recto, parte anteriore, è presente la figura di Federico di profilo e incoronato d'alloro proprio come gli antichi imperatori, mentre sul verso, è presente un’Aquila con le ali spiegate altro motivo dell’iconografia imperiale antica. L’Adozione Del Gotico da Parte dei Domenicani e dei Francescani. Gli sviluppi del linguaggio gotico in Italia sono legati a un nuovo soggetto storico nato agli inizi del Duecento, cioè gli ordini mendicanti, soprattutto domenicani e francescani; la predicazione di San Domenico di San Francesco modificò quell’idea di vita religiosa che si sviluppò per tutto il medioevo e portò a forme di organizzazione completamente nuove. I membri di questi ordini mendicanti vivevano di elemosine, però l'innovazione destinata ad avere un maggiore impatto sulle città europee fu la collocazione dei nuovi conventi all'interno delle città, perché l'obiettivo di questi ordini era di restare in contatto con il popolo cristiano, confortarlo con la predicazione e assisterlo nelle tribolazioni quotidiane; sia i francescani che i domenicani adottarono il gotico nei loro conventi, perché le forme gotiche erano viste come moderne e quindi erano le più adatte per incarnare una visione spirituale del tutto nuova. È all'interno della chiesa francescana di Assisi, che avvenne una vera rivoluzione artistica, cioè quella che Giotto realizzò affrescando le storie di San Francesco; l’esperienza del fatto cristiano anche Francesco visse e propose trovò in Giotto un interprete straordinario, capace di tradurla in un mondo di immagini profondo e inedito. CAPITOLO 15: PAESAGGIO NELL’ETÀ DEI COMUNI. 1. Paesaggio in Trasformazione. Nell'età dei comuni il paesaggio italiano diventa più ricco e complesso: le campagne sono punteggiate da castelli e piccoli villaggi, si diffondono a macchia d'olio i luoghi di preghiera come monasteri, Pievi, cappelle e oratori e in più la costruzione di nuovo infrastrutture come ponti e canali modificano il territorio, le città si dotano di mura, porte, torri e campanili e le piazze assumono una nuova importanza, così come anche gli edifici che si affacciano su di esse e le strutture che le raccordano ad altri luoghi della città, come i portici. 2. Le Campagne. Verso la fine dello Duecento il Comune di Perugia diede a Bonifacio da Verona l'incarico di scrivere un'opera sulla storia della città e così nacque il poema latino “Eulistea”; in alcuni versi di questo poema, il poeta veronese descrive Perugia e il paesaggio che la circonda, il quale è ridente e tutti gli elementi naturali si fondono in modo armonioso con le opere dell'uomo, e questo scenario è molto simile a quello dipinto poco tempo dopo da Ambrogio Lorenzetti nell’opera “effetti del buon governo”. Quindi, per l'uomo medievale non c'è separazione netta tra il mondo della campagna e quello della città, infatti l’uno interagisce sempre con l'altro anche se questi due mondi mantengono sempre le proprie caratteristiche particolari. Castelli e Villaggi. Durante il medioevo il volto dei paesaggi italiano nelle campagne cambiò, e questo fu un mutamento lento ma ben visibile; i boschi continuarono ad avere una grande importanza anche dopo l’XI secolo, visto che il legno rimase essenziale nella vita quotidiana, però le aree a boschive incolte andarono lentamente riducendosi, perché molti terreni una volta abbandonati, ora vennero coltivati anche grazie alla diffusione Sul territorio italiano, tra il XII e il XIV secolo, si verificò un fenomeno inedito, quello delle Villenuove, ossia la Fondazione di nuovi centri urbani; questi nuovi centri servivano per rispondere all’accrescimento della popolazione, o furono fondati dai comuni per proteggere il proprio territorio dalle possibili aggressioni di altre città o signori del contado, o sorsero con lo scopo di migliorare lo sfruttamento agricolo dei terreni. Per facilitare la permanenza in questi insediamenti, i comuni concedevano delle franchigie, cioè o sospendevano le tassazioni o concedevano agevolazioni fiscali, però non mancano fondazioni anche da parte di signori o dell'imperatore, come nei casi di l'Aquila e Lodi. Un notevole esempio di nuova Fondazione è Monteriggioni, vicino a Siena: in questo caso un piccolo numero di edifici venne circondato da una forte cinta muraria con torri a intervalli regolari e questo il luogo colpì anche Dante Alighieri, il quale lo usò per una similitudine nel suo Inferno. Siena decise di costruire Monteriggioni come centro fortificato destinato a difendere il territorio della città e nel caso di Monteriggioni è possibile osservare un piccolo centro medievale quasi intatto, contornato da una campagna ancora molto simile a quella del medioevo e quindi è come osservare un monumento e il suo contesto antico originario. Fondare un nuovo centro significava avere le mani libere da strutture urbane preesistenti e avere la possibilità di dare un aspetto ordinato all'insediamento, e per questo le Villenuove hanno il più delle volte un impianto caratterizzato da strade che si incrociano ad angolo retto secondo intervalli regolari e non si può escludere che in alcuni casi gli architetti abbiano preso a modello la forma delle antiche città romane. Episodi particolari sono i “Ricetti” in Piemonte; infatti in questa zona nel medioevo, alcune comunità rurali si organizzarono in modo autonomo e costruirono piccoli villaggi fortificati che dovevano servire a difendere le famiglie dai dei contadini e a conservare i raccolti e il Ricetto di Candelo, in provincia di Biella è quello meglio conservato e l'insediamento medievale è ancora oggi ben riconoscibile perché l'abitato moderno si è esteso al di fuori delle mura antiche, ancora in buona parte in piedi. 4. Le Città. Le Mura e Le Porte. Le mura cittadine furono uno degli elementi caratterizzanti del paesaggio in età comunale, però purtroppo sono pochissimi i centri urbani in cui resta l'intera cinta muraria o buona parte di essa, e uno di questi è Montagnana in provincia di Padova. La funzione basilare delle mura era la difesa dagli attacchi nemici, e questo spiega la grande attenzione che le leggi delle varie città, come Bologna o Reggio Emilia, ebbero nei confronti del restauro e della manutenzione della cerchia muraria, perché le mura costituivano una parte essenziale del sistema difensivo civico. Per chi entrava in una città, le porte erano a volte il primo luogo in cui si incontrava la scrittura monumentale e il primo contatto con la realtà politica di quel centro urbano; a Genova l'iscrizione di Porta Soprana nomina i consoli in carica in quel momento, 1155, e fa parlare Genova in prima persona sottolineando proprio la qualità della cinta muraria, mentre a Milano, su Porta Romana vengono iscritti i nomi dei Consoli e quelli dei costruttori, e a Mantova, l'iscrizione che ricordava l'opera di Pitentino era collocata su porta Cittadella o Porta Mulina, infine a Viterbo è addirittura Porta Sonsa a parlare in prima persona, infatti l'iscrizione Latina dichiara che chi fosse entrato in città in condizione di servitù sarebbe diventato libero cittadino. Esistono casi di lunghissima continuità funzionale, ossia porte di città usate come tali da oltre duemila anni, come il cosiddetto Arco di Augusto e la Porta Marzia a Perugia o la Porta dell'Arco a Volterra. In moltissime città italiane, dopo le distruzioni delle mura avvenute tra Otto e Novecento, è rimasta la toponomastica a dichiarare l'antica importanza delle porte, cioè una volta scomparsa la struttura architettonica, il loro nome si è trasferito alle strade o nei quartieri in cui una volta esse sì trovavano. Lo Skyline Delle Città. Lo sguardo di un viandante medievale che si avvicinava a una città era colpito dal profilo acuto dei campanili e delle torri; al di là dell’analogia nell’altezza, la funzione di questi due tipi di edifici era totalmente diversa. La funzione delle torri era prima di tutto militare, perché durante gli scontri di piazza tra un clan familiare e un altro o tra fazioni politiche, avere una torre in cui rifugiarsi era certamente un’opportunità decisiva; però accanto a queste ragioni di carattere difensivo contava molto anche di prestigio, infatti avere un'alta torre accanto alla casa era una continua sfida alle altre fazioni cittadine ed era una dimostrazione di ricchezza e potere. Il Paesaggio Sonoro. Jacques Le Goff, uno dei maggiori studiosi del medioevo, sosteneva che una delle più straordinarie innovazioni dell’età medievale, a partire dal VII secolo, fu quella delle campane; per diffondere il loro suono, che batteva le ore del giorno e annunciava una cerimonia, vennero costruiti alti campanili, che erano le uniche strutture che potevano gareggiare con le torri erette dalle famiglie nobili e potenti; la loro importanza è confermata dal fatto che un buon numero di firme di architetti medievali riguarda proprio questi edifici e non a caso uno degli ultimi incarichi affidati a Giotto fu quello del campanile di Santa Maria del Fiore a Firenze. Le Piazze. Nel medioevo nasce il concetto di piazza come lo intendiamo oggi; l'area antistante l'ingresso della cattedrale o della chiesa principale, sagrato, in questo periodo assunse un’importanza nuova, infatti era qui che si radunavano i fedeli prima di entrare in chiesa e all'uscita delle cerimonie e in più era dal sagrato che partivano le processioni, i quali percorsi proclamavano a tutti i cittadini quali erano i punti chiave della vita civica, quindi il sagrato era molto di più di un vuoto davanti alla chiesa, era una specie di diaframma tra la pratica religiosa e le attività quotidiane, era una sorta di spazio dei fedeli cittadini. Per questo motivo, in diverse città, il palazzo del comune sorge nei pressi della chiesa cattedrale, come nei casi di Modena o Perugia, e molto spesso questi palazzi ebbero una veste architettonica e una decorazione interna molto impegnativa, come il palazzo pubblico di Siena. Le piazze medievali furono l'evoluzione della piazza sagrato, infatti non nacquero secondo un progetto prefissato, ma in seguito a una serie di aggiustamenti con cui l'area accanto alla chiesa principale venne sottratta ai privati per privilegiarne il valore pubblico; pian piano alla dimensione religiosa e a quella politica di questi spazi si aggiunse quella commerciale, infatti l'area davanti o accanto alla cattedrale divenne la piazza del mercato e per questa ragione all'esterno di alcune chiese cattedrali furono incisi o murati campioni delle unità di misure ufficiali. In alcune città l'intensità della vita politica ed economica reclamava spazi appositi, e quindi il polo laico e quello religioso iniziarono a distinguersi nettamente; a Verona, piazza delle erbe è congiunta a quella dei signori, però entrambe sono lontane dal Duomo e dalla chiesa dedicata al Santo patrono, San Zeno, e la prima, piazza delle erbe, sorge sull’area del foro dell'antica città romana e ancora oggi essa è dedicata al mercato, mentre la seconda, piazza dei signori, ospita gli edifici della politica. I Portici. In alcune città medievali si notò che l'interesse pubblico riguardava anche le case dei privati; i punti cruciali erano i lati della casa che si affacciavano sulla strada pubblica, perché quando una casa aveva un portico che dava sulla strada, allora questa struttura incideva in modo diretto sulla vita comune, perché c'era uno spazio coperto per il passaggio, per le attività artigianali e per le botteghe. Durante questo periodo ad un certo punto alcune città tentarono di pianificare la costruzione dei porticati: verso il 1133 a Genova i Consoli imposero che i proprietari di case, soprattutto quelle sulla fronte del porto, costruissero i portici davanti alle loro abitazioni in modo uniforme, però il caso più straordinario è quello di Bologna, dove oggi il suo centro storico offre oltre 30 km di vie porticate, e questo straordinario scenario è dovuto dal fatto che già agli inizi del Duecento il governo della città stabilì che i portici avessero ruolo e importanza pubblici, tema che venne reso esplicito negli statuti del 1288. Nel caso di Bologna, mentre in altre città ci si limitava ad abbattere portici di privati che avevano occupato il suo pubblico, nella città emiliana si obbligava a costruire prevedendo anche il portico, così si toglieva spazio alle case private ma si offrivano beneficio a tutti. Le Fontane. La piazza principale di Perugia ospita una delle più belle fontane del medioevo, quella realizzata dalla bottega di Nicola Pisano, il quale ne realizzò un'altra anche a Piombino, Livorno; oggi noi la consideriamo come un monumento, ma prima di tutto essa nacque come opera utile alla città e punto conclusivo di un complesso dispositivo architettonico che portava l'acqua fino al centro cittadino. All’epoca era così importante avere acqua a disposizione, che pochi anni dopo venne realizzata sempre a Perugia una seconda Fontana, stavolta da un allievo di Nicola, Arnolfo Di Cambio, però la sua opera realizzata nel 1281, venne smontata già nel 1308, e ce ne rimangono solo 5 figure, tre assetati e due giuristi; l'idea di Arnolfo nelle tre sculture degli assetati è inedita, perché immagina persone che si accostano proprio a una Fontana, e come in uno specchio è l'opera stessa a spiegare la propria fondamentale funzione sociale, e in più la fontana di Arnolfo è un episodio straordinario perché prima di allora non si era mai visto, fuori dal contesto religioso, la presenza di immagini con un così grande spessore espressivo. Anche in altre città italiane vennero costruite fontane su iniziativa pubblica, come all'Aquila, città che ne conserva un esempio di grandi dimensioni e ben documentato, la cosiddetta Fontana delle 99 cannelle o della Rivera; l'aspetto attuale dell’opera deriva da una serie di interventi e ampliamenti avvenuti nel corso dei secoli: tramite una scalinata che scende in un piazzale dalla pianta irregolare, delimitato su tre lati da paramenti murari in conci di pietra rossa e bianca disposti a scacchiera; nella parte inferiore, una lunga serie di mascheroni umani e animali, fa uscire l'acqua nelle vasche sottostanti e un’iscrizione celebra la costruzione per volontà di Luchesino da Firenze, governatore dell’Aquila per conto del re Carlo I d’Angiò e in questa iscrizione si capisce che una delle prime opere pubbliche nella città da poco fondata fu la nuova Fontana. Un’altra iscrizione nella Fontana dell’Aquila ricorda il nome del progettista, il magistero Tancredi da Pentima di Valva e la data, 1272. MOLTE ARTI SOTTO FEDERICO II 1.I Codici Miniati. Federico, Uomo di Cultura, e lo Studium di Napoli. Solo uno statista colto e lungimirante come Federico II poteva capire che stimolare la cultura avrebbe avuto effetti positivi anche sulla vita politica ed economica dell’impero, per questo motivo egli prese la decisione di fondare lo Studium di Napoli nel 1224, ossia la prima università statale. Attorno all'imperatore si riunirono uomini di cultura stranieri, come il filosofo scozzese Michael Scot, Michele Scoto, chi è dedicò l'imperatore il proprio Liber Phisionomiae, un trattato di filosofia e di Scienze della natura, però Federico II fu un uomo di cultura in prima persona. La Caccia Con i Falconi. Il cronista Riccobaldo Ferrarese del XII secolo, nella sua opera historia imperatorum, descrisse in questo modo Federico II: “saggio con gli uomini, colto, conoscitore delle lingue, abile maestro in tutte le arti meccaniche a cui si dedicò. Ebbe una passione speciale per la caccia con uccelli”. Quest'ultimo aspetto è confermato dalla Cronaca di Jasmilla, una delle fonti più preziose per il periodo di Federico e del figlio Manfredi, e l'opera a cui si riferisce il cronista e il trattato “de arte venandi cum raffinatezza degli ambienti interni e alcuni accorgimenti strutturali, fanno pensare che Castel del Monte sia nato come residenza temporanea destinata al sovrano o sotto la sua diretta influenza. CAPITOLO 17: GLI SPAZI DELLA VITA RELIGIOSA: ARCHITETTURA, SCULTURA E PITTURA TRA XII E XIII SECOLO 1. Benedetto Antelami Scultore. La Deposizione di Gesù dalla Croce. Una delle testimonianze più importanti della scultura dell’Italia settentrionale nella seconda metà del XII secolo si trova all'interno del Duomo romanico di Parma, ed è il bassorilievo marmoreo raffigurante “La deposizione di Gesù dalla croce”, scultura oggi inserita nel muro del transetto di destra, ma in origine faceva parte della recinzione del presbiterio. Un’epigrafe che corre in alto ci Riviera con esattezza l'autore e la data, ed essa dice: “nell'anno 1178, nel secondo mese, lo scultore concluse; questo scultore fu Benedetto, detto Antelami”; il nome Antelami, deriva dal latino antelamus, il quale indicava l’odierna Intelvi, valle della Svizzera, e più volte nel corso del XII secolo, vennero definiti magistri antelami quegli scultori che provenivano dalla valle d'Intelvi. A Genova questi scultori si riunirono addirittura in una corporazione ed è significativo, che proprio in questa città, siano stati attribuiti a Benedetto Antelami i due leoni stilofori posti ai lati della facciata della cattedrale di San Lorenzo. I numerosi personaggi della Deposizione parmigiana sono riconoscibili anche grazie a didascalie in caratteri gotici posta accanto a essi; in questa scena sulla sinistra vediamo le donne che, secondo i Vangeli, assistettero alla morte di Gesù, e poi vediamo un apostolo e la Vergine Maria, che stringe la mano di Gesù, e questo gruppo, sopra il quale volo un Angelo, è preceduto da una figura femminile più piccola, Ecclesia, la personificazione della chiesa, la comunità dei fedeli che impugna una bandiera mossa dal vento. Già schiodato dalla croce, il corpo di Gesù scivola in basso ed è sostenuto da un altro personaggio citato nei Vangeli, Giuseppe d'Arimatea, mentre dalla parte opposta, su una scala c'è Nicodemo, che si appresta a togliere il chiodo dal braccio sinistro di Cristo; accanto a questo personaggio c'è, anch’essa più piccola, Sinagoga, la personificazione della religione ebraica che è costretta dall' Arcangelo Raffaele in volo a piegare la testa davanti a Gesù e nel frattempo le fa cadere la bandiera delle mani. In questa parte, verso destra, si vede il centurione che secondo il Vangelo di Matteo si sarebbe convertito davanti alla croce di Cristo, e dietro di lui un gruppo di spettatori, in parte coperti dai quattro soldati, che secondo i Vangeli, si giocarono a dadi le vesti di Gesù. In alto e ai lati corre un fregio d’acanto realizzato a Niello, una tecnica adottata per decorare oggetti metallo che consisteva in una pasta nera a base di piombo, zolfo, rame e argento inserita nelle elaborate incisioni praticate nel marmo; appena sotto questa cornice sono scolpiti i volti del sole e della luna, personificazioni del giorno e della notte che spesso troviamo nelle raffigurazioni della Passione. La scena quindi è impostata su due piani che si sovrappongono, quello simbolico dato dalla contrapposizione tra chiesa cristiana e sinagoga, e quello narrativo, che vuole aderire con precisione al racconto dei Vangeli; lo scultore, Benedetto Antelami, conosceva senza dubbio le opere di Wiligelmo del Duomo di Modena, ma conosceva anche le prime testimonianze della scultura gotica in Francia, come si può vedere dalle sottilissime pieghe verticali degli abiti. In ogni caso lo scultore fu capace di esprimere un linguaggio del tutto personale, sensibile all'atmosfera sentimentale, infatti il dolore composto delle donne e di Giovanni aumenta in modo improvviso d'intensità nel gesto della Vergine che aiutata dall’Angelo porta la mano del figlio verso di sé per accarezzarla con la guancia; un atteggiamento non così diverso quello della vergine, da quello di Giuseppe d'Arimatea, che nel sorreggere il corpo di Gesù preme il proprio volto contro il suo costato e sembra baciarne la ferita. Dalla parte opposta del bassorilievo c’è raffigurata l'indifferenza più profonda, come si vede dai soldati che neppure guardano verso la croce perché impegnati a strattonare e a tagliare le vesti di Cristo crocifisso. 2. Benedetto Antelami e il Battistero di Parma. La Storia e la Pianta Ottagonale. Il Battistero di Parma fu edificato nell'area tra la facciata del Duomo e quella del palazzo vescovile e la costruzione iniziò nel 1196, come si legge sull’architrave del portale settentrionale, la quale ci dice anche il nome dello scultore, Benedetto. I primi battesimi vennero celebrati nel 1216, però probabilmente l'edificio non era ancora del tutto finito e anche il frate e cronista Salimbene de Adam ci racconta che fu battezzato qui; sempre lo stesso cronista ci riferisce che nel 1248, Il Carroccio preso ai Cremonesi venne esposto come bottino di guerra nel nuovo edificio e il cronista parmigiano ci ricorda che un certo Guidolino D’Enzola si sentiva un po' come il custode dell'edificio, tanto che sgridava ripetutamente e mandava via a cinghiate i ragazzini che tiravano sassi contro le sculture. La decisione di costruire questo Battistero fu presa sicuramente con un accordo tra comune, clero e vescovo e il rito battesimale certificava l'ingresso dei bambini nella comunità cristiana, il quale coincideva nel medioevo con la comunità dei cittadini. L’iscrizione ci informa che il regista del Battistero fu Benedetto Antelami, definito sculptor, infatti lui e la sua squadra eseguirono le sculture che si addensano in modo particolare nei tre portali, ma probabilmente Benedetto fu anche progettista dell’intero Battistero; egli adottò la pianta ottagonale, ponendosi nel solco di una tradizione che risaliva ai primi secoli della chiesa, però la scelta di uno schema così carico di storia non impedì ad Antelami di escogitare soluzioni del tutto nuove, come le logge esterne architravate e su tre degli 8 lati del Battistero si aprono i portali, con profonde strombature ornate da colonnine. Il Portale Della Vergine. Il portale settentrionale è dedicato alla Vergine; sugli stipiti in marmo rosso di Verona sono scolpiti, tra girali d'acanto, i 12 figli di Giacobbe a sinistra e i 12 discendenti di Jesse a destra, tutti riconoscibili grazie alle iscrizioni e la presenza dei due alberi genealogici serviva per ricordare ai fedeli gli avi di Gesù e di Maria, e in questo modo si riaffermava la continuità tra i racconti della Bibbia e quella dei Vangeli, il legame tra la storia di Israele e quella cristiana. Sulle stupide di destra, tutto in marmo rosso, l'unica figura in mano bianco è quella di Maria, senza bambino, infatti era su di lei che gli scultori volevano attirare l'attenzione dei fedeli. Sull’architrave sono narrate le storie di San Giovanni Battista a cui era dedicato l'edificio; Benedetto Antelami e la sua squadra cercano di attribuire ai personaggi una gestualità più vivace, anche modificando le iconografie tradizionali, infatti Gesù benedice Giovanni mentre questi si avvicina per abbracciarlo, Erode esprime la sua sorpresa per la richiesta di Salomè toccandosi in modo perplesso la barba e appoggiandosi alla spalla della moglie. Nella Lunetta i tre Magi si avvicinano a Maria e al bambino, mentre lì accanto Arcangelo Gabriele convince Giuseppe a fuggire; sull’archivolto 12 profeti seduti sui rami di un albero tengono in mano tondi che contengono i busti dei 12 apostoli e quindi anche qui vengono associati personaggi biblici a personaggi dei Vangeli. Sono presenti nella Bibbia anche Davide e Abacuc, il re Salomone e la regina di Saba, le cui statue originariamente erano in due nicchie esterne, mentre al di sopra del portale settentrionale, altre due nicchie ospitavano gli arcangeli Michele e Gabriele e quindi anche qui a Parma statue di profeti e di re biblici accoglievano in modo solenne i fedeli che si avvicinavano all’edificio sacro. Il Portale Del Redentore. I temi del portale occidentale sono proiettati nel futuro, a quel giudizio universale a cui stanno correndo nudi i beati e i dannati scolpiti sull'architrave; al di sopra, nella lunetta, Cristo alza entrambe le mani e mostra loro le ferite sul costato e questa visibile memoria delle sue sofferenze diventa un gesto di misericordia per gli uni e di minaccia per gli altri. Sullo stipite sinistro anche qui in marmo rosso di Verona, sono scolpite le opere di misericordia, ossia quelle azioni di carità verso gli altri che Gesù dichiara necessarie per essere salvati nel giudizio finale. Mentre sullo stipite destro, viene raffigurata la parabola della vigna, che in parole povere dice che il padrone di una vigna ingaggia operai in diverse ore del giorno, ma li paga tutti allo stesso modo alla fine della giornata; solo dopo un attento sguardo, anche grazie alle iscrizioni, ci accorgiamo che i braccianti sono prima fanciulli e poi sempre più grandi di età, perché da San Gregorio Magno in poi, questa parabola veniva interpretata come allegoria delle età dell'uomo e degli stadi della storia del mondo. Le immagini del portale esortavano a comportarsi secondo la carità evangelica e a impiegare le proprie disponibilità economiche per i poveri e i diseredati. Il Portale Della Vita. Secondo alcuni studiosi, il portale meridionale del Battistero serviva per l'ingresso dei bambini e dei loro padrini durante il rito del battesimo. Il soggetto delle sculture della lunetta è rarissimo, infatti qui appare per la prima volta in Europa; nella lunetta un ragazzo è salito su un albero e non si accorge che sotto due animali stanno rosicchiando il tronco e che è sopraggiunto un drago, mentre ai due lati del tronco, due tondi ospitano il carro del sole a sinistra e il carro della luna a destra e al di sopra dei tondi più piccoli ripetono le personificazioni dei due astri. L'immagine centrale deriva dal Romanzo di Barlaam, un testo diffuso agli inizi del Duecento nel quale si narrava la leggenda di Josaphat, il principe indiano che venne convertito al cristianesimo dall’eremita Barlaam, ed è questo testo che ci dice che il ragazzo seduto tranquillo a prendere il miele simboleggia l'uomo che si gode i piaceri della vita senza rendersi conto degli inganni e dei pericoli del mondo. I due tondi con il sole e la luna, derivati dai manoscritti di sapere astrologico classico, indicano l'inesorabile succedersi del giorno e della notte, lo scorrere veloce del tempo che minaccia il peccatore inconsapevole. Il Fregio Esterno. Le sculture dall'esterno non sono solo quelle dei portali, infatti tutt’attorno ai lati dell'ottagono corre un fregio composto da 75 formelle con animali, mostri, figure della mitologia classica, ossia quel repertorio consueto nella decorazione esterna delle chiese romaniche, però qui a Parma questo repertorio assume l'aspetto di una sorta di enciclopedia illustrata. Le formelle scolpite si susseguono con regolarità e vanno ad impreziosire le facce dell'ottagono, a loro volta caratterizzate da apparecchiature murarie ordinate e abbellite dal chiarore rosato dei Marmi; siamo ancora una volta davanti al legame stretto tra architettura e scultura in età medievale, perché il cantiere è ben organizzato sia nell’esecuzione del programma scultoreo, che nella posa in opera della pietra, accurata e meticolosa. Le Sculture Dell’Interno. L’ottagono interno ha una struttura solo in parte analoga a quella esterna, infatti rimangono le logge architravate, ma in alto l'edificio è coronato da una cupola dal profilo ogivale, mentre in basso, ogni lato accoglie nicchie scompartite da colonne, e dai capitelli si dipartono nervature che attraversano la zona delle logge e si congiungono all’apice della cupola, dividendola in spicchi. Le lunette dei tre portali sono state scolpite anche all'interno, utilizzando il rovescio dello stesso blocco di pietra e quindi è certo che la scelta dei temi avvenne nello stesso momento in cui si progettava la decorazione esterna; a nord vediamo la fuga in Egitto, a est Cristo Pantokrator tra i simboli degli Evangelisti, a sud la presentazione di Gesù al tempio e a ovest Davide che suona l'arpa tra musicanti e danzatori. Anche in questo caso Antelami rinnova iconografie dalla lunghissima tradizione, come nel caso della fuga in Egitto dove inserisce tue donne ad accompagnare la Sacra Famiglia, e queste donne per il loro abito e il loro atteggiamento sono senz'altro donne del popolo; qui, come nelle altre lunetta interne, restano tracce consistenti di policromia che ci ricordano come nel medioevo le sculture fossero il più delle volte ravvivate da colori. I Lavori Dei Mesi Dell’Anno. data vicina a quella del pavimento 1231, e queste botteghe erano formate da artisti capaci di adattare il linguaggio bizantino a temi talvolta particolari, come si vede nell’affresco che presenta al centro una piccola figura maschile nuda, indicata dalla scritta homo, uomo; lo schema grafico in cui egli, l'uomo è inserito presenta 7 zone concentriche, divise in quattro quadrati da sottili linee bianche e il numero quattro è alla base dell’intero schema, infatti sono quattro gli elementi che secondo la filosofia e la scienza medievali costituiscono il mondo, dai quali derivano le caratteristiche climatiche delle quattro stagioni, che a loro volta corrispondono agli umori, ai temperamenti e alle quattro età dell'uomo. Ad esempio, all’elemento terra corrispondono l'autunno freddo e secco e poi nell’uomo l'età matura e il temperamento della melancolia, malinconia. La cultura medievale ha infatti assorbito dalla filosofia e dalla scienza antiche l'idea che l'uomo è un universo in miniatura, microcosmo, e l'universo, macrocosmo, è una specie di enorme organismo vivente e quindi le leggi che valgono per l'uno valgono anche per l'altro; per questo motivo nella parete al di sotto di questa volta troviamo due scienziati dell'antichità classica, Ippocrate e Galeno, con il primo che sta parlando e spiegando a Galeno cosa c'è scritto sui due banchi. I due personaggi sono seduti uno di fronte all'altro come se fossero contemporanei, ma Ippocrate è vissuto tra il V e il IV secolo A.C., mentre Galeno nel II secolo D.C., e quindi è la scienza medica ad accomunarli, quella scienza che è rappresentata dalle ampolle e dai contenitori di rotoli manoscritti che si vedono sulla destra. Agli occhi dell'uomo medievale un soggetto come questo aveva pienamente senso, perché sia la struttura dell'universo che quella degli esseri umani erano state create da Dio, e quindi ecco perché, negli affreschi di Anagni, possono stare assieme la fede, la devozione popolare e il sapere scientifico. 5. Il Complesso dei Santi Quattro Coronati. Alcuni dei pittori presenti ad Anagni nel terzo decennio del Duecento furono attivi poco dopo anche a Roma, nel complesso dei Santi Quattro Coronati, sul Colle Celio vicino al Colosseo e alla chiesa di San Clemente; durante il medioevo, attorno all'antica basilica romana dedicata a 4 martiri giustiziati al tempo dell'imperatore Diocleziano, sorsero una serie di edifici come un monastero, l'oratorio di San Silvestro e il palazzo cardinalizio. Un Monastero Fortificato. L’intensa urbanizzazione del XX secolo ha accerchiato il complesso dei Santi Quattro Coronati, che nel corso del Duecento venne fortificato con possenti mura, tanto da sembrare esternamente quasi un castello; nonostante le profonde trasformazioni che l'area ha subito negli ultimi 100 anni, il paesaggio attorno al complesso è diverso da quello di altre zone centrali della città, con strade strette e case di altezza modesta e quindi questo è un improvviso paesaggio medievale tra la città antica e quella moderna. Papi e Imperatori. L'oratorio di San Silvestro fu costruito nel 1246, durante un' acuta crisi politica che contrapponeva il Papa Innocenzo IV e l'imperatore Federico II, e infatti i soggetti affrescati all'interno dell’oratorio non vennero scelti a caso: furono dipinte infatti le storie di San Silvestro Papa e di Costantino, raccontando più di una volta come l'antico imperatore si fosse sottomessa al Papa; una scena è dedicata alla Donazione di Costantino, l'atto con cui l'imperatore riconosceva che il proprio potere era inferiore a quello papale e gli lasciava la sovranità sull’intera città. Tutti i dettagli di questa scena hanno un preciso valore simbolico: Costantino, avvolto in vesti preziose, si avvicina al Papa seduto su un trono, e gli porge la tiara, un copricapo di forma conica che l'imperatore indossava durante le funzioni religiose; Silvestro accettò questo copricapo, che divenne un attributo costante del papato, ma rifiutò la corona d'oro e di gemme, simbolo troppo legato alla tradizione imperiale e per questo motivo la corona rimane nelle mani di alcuni dignitari, spuntati sulle mura della città di Roma, e nel frattempo un alto dignitario porta avanti il sinnicchio, l'ombrello rituale che diventerà una delle insegne papali. In questa scena con la mano sinistra Costantino tiene le briglie di un cavallo bianco per indicare il servizio d'onore che l'imperatore doveva fornire in occasioni pubbliche, portando al Papa la cavalcatura su cui egli doveva salire; il cavallo non ha le zampe che poggiano sul terreno, e il corpo è del tutto sproporzionato sia rispetto agli edifici che alla figura di Costantino, però tutto questo per l'uomo medievale non era un problema, perché il cavallo bianco è un simbolo, che rappresenta la subordinazione del potere temporale a quello religioso e quindi per questo motivo, il modo in cui esso si inserisce nello spazio è secondario, infatti è più importante che si veda bene la staffa che l'imperatore offriva al Papa quando montava a cavallo. Il pittore aveva studiato in modo diretto o indiretto le opere bizantine, video di sicuro i mosaici che artisti veneziani eseguirono nell’abside della chiesa romana di San Paolo fuori le mura, però seppe adattare il linguaggio della tradizione bizantina alle iconografie nuove richieste dalla propaganda papale. Una Grande Scoperta: L’Aula Gotica. Il complesso dei Santi Quattro Coronati si è arricchito grazie a un'importante scoperta avvenuta nel 1996 all'interno del palazzo cardinalizio, infatti in un’ampia sala, detta aula gotica, è no stato rinvenuto un imponente ciclo di affreschi, i quali furono nascosti per secoli da nuovi intonaci. Le due campate della grande aula, al di sopra dell’oratorio San Silvestro, sono interamente dipinte sulle pareti e sulle volte, in una sequenza serrata di temi diversi, cioè sulle volte i segni zodiacali e le stagioni, sulle pareti i lavori dei 12 mesi e i personaggi dell'antico testamento come esempio di virtù cristiana e le arti liberali. Sono presenti altri protagonisti del racconto biblico appoggiati alle spalle di figure femminili in abito militare, come per accompagnarle e rassicurarle, e questi protagonisti sono le personificazioni delle virtù e delle beatitudini, che hanno ai loro piedi la personificazione del vizio opposto ad esse, però c'è persino un’iconografia derivata dal mondo della Roma pagana, cioè il Dio mitra che uccide il Toro; richiamano modelli antichi anche le figure femminili che guidano Cocchi, nella lunetta, e gli anziani sdraiati con una cornucopia in mano. Qui siamo davanti a una sorprendente enciclopedia per immagini, che può ricordarci quello ordinata folla di figure scolpite che decora i portali delle grandi cattedrali gotiche d'oltralpe. Un Luogo per la Giustizia? L'edificio venne fatto costruire dal cardinale Stefano Conti, grande uomo di legge, che per alcuni anni tra il 1245 e il 1251, rivestì la carica importante di prefetto della città; non si può escludere che in quest’aula egli amministrasse la giustizia e questo spiegherebbe i continui richiami alla Sapienza, alle virtù e alla figura di Salomone, il giudice saggio per eccellenza. I pittori inquadrano i diversi registri figurati all'interno di ricche cornici ricolme di riferimenti all’antichità classica, però queste continue citazioni dall'antico non assumono mai un tono dotto e non appesantiscono mai questa enciclopedia per immagini; un po’ dappertutto gli artisti interpretano un programma così impegnativo con accenti piena di brio, soprattutto nelle scene dei lavori dei mesi. Gli antichi descrissero Giano, il Dio delle porte e delle soglie, come bifronte, ossia con due volti contrapposti e saldati assieme e in questo modo spesso durante il medioevo venne descritto anche Gennaio, il mese che prese il nome dall’antica divinità perché costituiva la porta dell'anno. In questo caso di Roma i pittori ci presentano un uomo seduto che ci guarda fisso, con tre nasi, tre buche e due soli occhi, mentre accanto a lui due uomini stanno cuocendo parti del maiale. Il pittore descrisse in modo curioso i due contadini indaffarati, il paiolo agganciato a un’asta orizzontale, la legna che arde, le salamelle e i prosciutti appesi per la stagionatura, e anche il topo, abbastanza grosso, che si è arrampicato sulla stanga attirato dai salumi, e quindi in questo caso la realtà si prende le sue rivincite sul racconto fatto tramite i simboli. CAPITOLO 18: IL CONTRIBUTO DEGLI SCULTORI: NICOLA PISANO E LA SUA BOTTEGA 1. Nicola Pisano e l’Ambone di Pisa. Nel Duecento agli scultori era affidato il compito di abbellire l’arredo liturgico, infatti ogni rito richiedeva la presenza di un vario insieme di oggetti mobili e di strutture fisse come gli altari, i seggi per il clero, etc…; all'interno di questo arredo liturgico, gli amboni ebbero un ruolo di grande rilievo fin dalla prima età cristiana, perché su di essi saliva il lettore, che dall'alto proclamava al popolo le sacre scritture. Ancora una volta è La Toscana il luogo in cui avvengono grandi innovazioni ed è proprio nel campo della scultura che vediamo un’accelerazione tanto improvvisa e destinata a importanti sviluppi; nel 1259-60, il Battistero di Pisa si arricchì di un nuovo ambone, firmato e datato da Nicola Pisano nel 1260. È la prima volta che incontriamo questo scultore, però è impossibile che questo sia il suo primo lavoro, perché siamo di fronte a un'opera straordinariamente matura dal punto di vista stilistico e del tutto inedita come struttura; Nicola immaginò una piattaforma esagonale sostenuta da 7 colonne e altrettanti capitelli, e tre di esse poggiano sul dorso dei leoni, mentre quella centrale sulla schiena di tre telamoni, un motivo antico usato anche in età romanica. Il Programma Iconografico. I 5 parapetti che bordano l'esagono presentano episodi dell'infanzia di Gesù, la Natività, l'adorazione dei Magi e la presentazione al tempio, della passione, la crocifissione, e il giudizio universale; nella Natività si coglie subito la grande capacità dello scultore di organizzare il racconto, infatti in uno spazio modesto egli ha inserito anche l’Annunciazione in alto a sinistra e l'annuncio ai pastori, in alto a destra. In questa scena San Giuseppe è seduto in basso, mentre accanto a lui due serve stanno lavando il bambino, al centro ancora distesa su un giaciglio dopo le fatiche del parto, c'è la Vergine e la scena sembra ruotare attorno a lei, che guarda immobile davanti a sé; diverse vivacità ha Maria nella scena dell’annunciazione, poco sopra, infatti davanti all'angelo la Vergine si ritrae puntando la mano destra sul petto. Nonostante i gravi danni subiti nel tempo il giudizio universale non ha perso l'originale grandiosità; accalcate attorno alla figura di Cristo giudice e ai simboli degli Evangelisti, sono scolpite decine di personaggi, alcuni con toghe e abiti da cerimonia, assistono pacati alla scena, mentre sulla destra angeli e demoni si contendono le anime, mentre più in basso alcuni dannati vengono spinti verso un lucifero dalle mostruose sembianze animali. È Senz'altro in questa zona inferiore che Nicola ci offre lo spettacolo più sorprendente, perché ritroviamo il tono grottesco che caratterizza di solito questa scena, ma c'è anche molto di più, infatti non si era mai visto una così efficace descrizione del corpo in movimento; uomini sdraiati, seduti, accovacciati che quasi mai vengono inquadrati di fronte, ma descritti nel loro piegarsi, torcersi indietro, chinarsi e quindi in definitiva l'analisi dell'anatomia e dei movimenti, ossia lo studio del corpo umano era al centro degli interessi di Nicola Pisano. La Lezione Degli Artisti Antichi. Non c'è dubbio che i nudi di Nicola abbiano un sapore antico, infatti per ritrovare forme paragonabili bisogna risalire alla scultura di età imperiale e già nel Cinquecento, se ne accorse Vasari, quando provò a ricostruire il percorso seguito da Nicola; nel corso del medioevo le famiglie nobili pisane avevano reimpiegato sarcofagi classici come sepoltura per i propri congiunti e li avevano disposti all'esterno della cattedrale. Il primo esempio di questa consuetudine è da attribuire a Matilde di Canossa, che nel 1076, fece seppellire la madre Beatrice in un bel sarcofago di età imperiale su cui era raffigurato il mito di Fedra e Ippolito; a quest’opera si riferisce anche Vasari quando parla di Nicola Pisano, infatti lo studioso rinascimentale si riferì a questo sarcofago perché la figura di Fedra è in ogni suo dettaglio, dalla acconciatura all’abito e alla postura, il modello per quella di Maria rappresentata da Nicola nella Natività dell'ambone di Pisa, infatti, più tardi scrisse Giosuè Carducci in uno dei suoi versi dedicati a Nicola Pisano “Dalla gloria di Fedra esce Maria. una così grande attenzione, forse oggi non avremmo la possibilità di ammirare un monumento per vari aspetti unico. CAPITOLO 19: LA PITTURA IN ITALIA NELLA SECONDA METÀ DEL DUECENTO 1. Cappella Del Sancta Sanctorum a Roma. La Preziosità Delle Reliquie. Durante il medioevo furono due le basiliche più importanti di Roma: San Giovanni in Laterano e San Pietro in Vaticano; quest'ultima era la basilica in cui erano conservate le reliquie dell'apostolo Pietro, e qui il Papa era considerato come suo successore e quindi come capo della chiesa universale, mentre San Giovanni in Laterano era la cattedrale della città e qui il Papa aveva la sua cattedra perché era il vescovo di Roma. Accanto a San Giovanni si trovava il palazzo papale, che aveva al suo interno la cappella di San Lorenzo, cappella riservata ai Papi fino dall’alto medioevo che venne rinominata con un nome dell'antico testamento, cioè sancta sanctorum, ossia la santità della santità; il nome derivava dal fatto che qui si conservavano reliquie molto preziose, come la testa di sant’Agnese e oggetti legati alla passione di Gesù, e in più qua venivano venerate anche un’icona del Salvatore, che la tradizione voleva dipinta dall'Evangelista Luca e da un Angelo, e due icone dei santi Pietro e Paolo. Il Progetto di Maestro Cosma. Il piccolo edificio, oggi separato da Palazzo papale, fu ricostruito e decorato per volontà di Papa Niccolò III Orsini, 1277-1280; all'ingresso della cappella un'iscrizione dice “il maestro cosmato realizzò quest'opera”, e quindi si tratta di Cosma di Pietro Mellini, uno dei cosiddetti “Cosmati”. In questo caso egli fu sia l'architetto, che il responsabile dei rivestimenti marmorei, della sistemazione dei pezzi di reimpiego e della decorazione del pavimento; la parte inferiore delle pareti è rivestita da lastre marmoree prelevate da monumenti antichi, mentre più in alto, una serie di colonnine a spirale regge 7 archetti trilobati, e all'interno di questi archetti si trovano figure di santi dipinte in età rinascimentale che sostituirono affreschi del Duecento. La forma e la collocazione di questa sequenza di archetti è simile a quella che vediamo nel transetto della basilica superiore di Assisi, però sia l'una che l'altra derivano dalla galleria cieca, triforio, delle cattedrali francesi ed entrambi sono un esempio della penetrazione in Italia degli schemi costruttivi gotici; gli spazi al di sopra della galleria cieca, attorno alle finestre e sulla volta, sono affrescati e grazie ad un restauro recente si sono recuperati i vivaci colori originali, e quindi ora questi affreschi sono leggibili e costituiscono il più importante ciclo pittorico della seconda metà del Duecento a Roma. Le strutture architettoniche della cappella sono sottolineate da una ricca decorazione che da una parte ripropone motivi antichi, come i girali d'acanto, mentre dall'altra traduce in pittura le soluzioni ornamentali sperimentate dai cosmati nelle loro sculture. Gli Affreschi. Ciascuna parete culmina con una lunetta che ospita due riquadri figurati, su quello orientale, sopra l'altare, Nicolò III, affiancato da San Paolo, mette nelle mani di San Pietro un modellino della cappella, mentre a destra, Cristo in trono tra due angeli riceve il dono del Papa. Sulla parete ovest sono dipinte la lapidazione di Santo Stefano e il martirio di San Lorenzo, sulla parete settentrionale, la decapitazione di sant’Agnese e il miracolo di San Nicola, mentre sul lato meridionale sono affrescate la crocifissione di San Pietro e la decapitazione di San Paolo; quindi in quest'ultimo lato ritroviamo le immagini dei due santi che nella parete a fianco introdussero il Papa al cospetto di Cristo. 2. Le Croci e i Dossali Dipinti. Nel XII secolo le Croci e i Dossali dipinti sono piuttosto rari, però del Duecento emergono testimonianze di essi in numero crescente; le croci erano costituite da tavole di grandi dimensioni virgola in modo che, fatte prendere nella navata o fissate all’iconostasi, potessero essere ben visibile ai fedeli durante le celebrazioni liturgiche. Già nella prima metà del XII secolo le croci dipinte si pongono un duplice obiettivo, ossia suscitare le emozioni dei fedeli e sollecitare la loro memoria; la figura di Gesù era a grandezza naturale e veniva vista dal basso, in modo che i fedeli potessero rivivere le sue sofferenze la sua morte. L’Iconografia Del Cristo Trionfante. Guglielmo nella croce del Duomo di Sarzana del 1138, allargò le dimensioni della Croce vera e propria in modo tale da poter disporre una serie di scene attorno al corpo del Salvatore, infatti c'è posto così per episodi della passione, per figure di angeli, per i simboli degli Evangelisti e per una maestà di Cristo proprio sopra il volto del crocifisso; in altre parole, la croce serve a coinvolgere le emozioni dello spettatore, che vede il figlio di Dio inchiodato ad assi di legno, ma anche a narrare la storia di Gesù che culmina nella sua morte in croce. Per dimostrare la sua imminente vittoria sulla morte, nella croce di Sarzana Gesù guarda verso lo spettatore, questa è l'iconografia del Cristo Triumphans, la quale si affermò per prima, appunto trionfatore sulla morte e insensibile al dolore. L’Iconografia Del Cristo Morente. Il tipo iconografico del Cristo trionfatore continua ad essere presente anche durante il XIII secolo, però viene pian piano affiancato e poi sostituito dall'iconografia del Cristo Patients, ossia sofferente in agonia; uno degli esempi più antichi di questa iconografia è una Croce del museo nazionale di San Matteo a Pisa, chiamata Croce n.20, la quale risale ai primi anni del Duecento. Anche in quest’opera il crocifisso è accompagnato da una sequenza di scene che narrano il racconto della morte di Gesù fino alla sua ascensione; il linguaggio, anche nei minimi dettagli iconografici, è bizantino, tanto da far credere che la anonimo maestro potesse provenire da Costantinopoli o da un centro orientale, anche perché è in quest’area che viene per la prima volta proposta l'immagine doloroso di Cristo in croce, come si vede in uno dei mosaici del monastero di San Luca in Grecia. Il Crocifisso di Pisa è l'ennesima prova del fatto che la pittura dell’impero d'oriente continuava ad essere un punto di riferimento obbligato per artisti e committenti. Le Croci di Giunta Pisano. Giunta Pisano ha firmato tre croci dipinte, tutte e tre con l'iconografia del Cristo sofferente ed essi si trovano, una ad Assisi, uno a Pisa e un'altra in San Domenico; il legame con la Croce n.20 e con i modelli bizantini è evidente, ma rispetto a quest'ultima e a quella di Guglielmo a Sarzana, la scelta di eliminare le piccole scene dipinte tutto attorno ha un significato preciso, perché l'artista vuole concentrare l'attenzione del fedele spettatore sulla figura sofferente di Gesù e sul pianto di Maria e San Giovanni Evangelista. Nell’opera di Giunta il corpo del Cristo si incurva, oramai privo di energie, e la testa ricade verso la spalla, mentre gli occhi sono segnati da forti ombre e la bocca si piega all'ingiù in un'espressione di fatica. Può osservare il crocifisso dipinto su queste tavole è più che assistere a uno spettacolo tragico, anzi è la possibilità di identificarsi con Gesù, di meditare il suo sacrificio, capace di liberare gli uomini dal peccato e dalla morte; l'opera di Giunta Pisano serviva a spingere i fedeli verso una religiosità differente rispetto a quella dei secoli precedenti e non è casuale che crocifisso di Assisi fosse destinato ad una chiesa francescana, mentre quello di Bologna a una chiesa domenicana, perché questi erano i due ordini mendicanti che nel Duecento proposero e diffusero in tutta Europa una spiritualità completamente rinnovata. 3. Le Immagini Per Gli Altari. Nel corso del Duecento cambia il modo con cui vengono decorati altari, sia quello al centro del presbiterio ossia l'altare maggiore, che quelli delle cappelle laterali; infatti, se nell’alto medioevo veniva abbellita la parte frontale dell'altare, sotto il piano della mensa come nell’altare di Ratchis e di Vuolvinio, l’evoluzione della liturgia obbligò a nuove soluzioni, infatti le immagini sacre vengono dipinte su tavole lignee fissate al di sopra dell'altare, da risultare così ben visibili ai fedeli nella navata. Queste tavole inizialmente hanno una forma quanto mai semplice e riprendono il profilo rettangolare degli stessi altari, ma con il passare del tempo la loro forma si evolve, divenendo sempre più complesse e varia, e per questo motivo per questo genere di dipinti si usano nomi via via diverse a mano a mano che la loro struttura diviene più articolata. Immagini di San Francesco. Tra gli esemplari più antichi, risalenti alla prima metà del secolo, si ritrovano due dossali che celebrano San Francesco, il Santo di Assisi morto nel 1226, la tavola firmata da Bonaventura figlio di Berlinghiero a Pescia e la tavola del museo nazionale di San Matteo a Pisa, attribuita da alcuni studiosi a Giunta Pisano. Le due opere sono identiche per il profilo a cuspide, le dimensioni e la struttura decorativa, infatti il Santo, scalzo e in saio, è in piedi al centro, affiancato da due angeli, mentre sui due lati, una sopra l'altra, sono descritte sei storie del Santo, soprattutto miracoli di Francesco, gli stessi narrati nella biografia scritta da Tommaso da Celano poco dopo la sua morte. Entrambi i pittori costruirono le storie seguendo i modelli offerti dall’arte bizantina ed essi adottarono questo linguaggio sperimentato e nobile poiché riusciva a dare a Francesco un tono sacrale, quasi paragonandolo a Cristo, e nella stessa direzione va la scelta di descrivere i miracoli verificatisi dopo la morte del Santo. Nei due dossali le analogie nella struttura e nella scelta dei soggetti sono notevoli, tanto che è molto probabile che entrambe le opere dipendano da un modello precedente; un erudito francescano del Seicento ha lasciato la preziosa immagine di una tavola perduta datata 1228 e molto simile a queste due. Lo schema delle tavole di Pescia e di Pisa venne creato immediatamente dopo la morte di San Francesco ed ebbe ampia diffusione in Toscana; questo conferma che i pittori erano apprezzati non tanto per la loro originalità, ma per la bravura con cui replicavano modelli prestigiosi, come già avvenne per le più importanti icone di Maria. Immagini Della Madonna In Trono. Due tavole con lo stesso soggetto, ossia la Madonna in trono col Bambino, dipinti in Toscana, illustrano la direzione che stava prendendo la pittura attorno alla metà del secolo; la prima è firmata da Margarito d’Arezzo, citato da Vasari nelle sue vite come uno degli artisti che alla greca lavorano, ossia uno degli artisti che seguiva i modelli bizantini, mentre la seconda tavola è firmata da Coppo di Marcovaldo, un pittore fiorentino, ed è datata 1261, non molti anni dopo rispetto all'opera precedente, e questa opera di Coppo era destinata a Santa Maria dei Servi a Siena, città in cui l'artista fu prigioniero dopo la sconfitta dei fiorentini nella battaglia di Monteaperti del 1260. Le due opere sono identiche nel soggetto e nella composizione, ma sono ben differenti nell’impostazione formale, infatti in quella di Margarito, la Madonna con le guance rosse ci guarda in una posizione strettamente frontale, mentre la Madonna di Coppo mostra un sensibile al movimento delle gambe e della testa; nella tavola di Margarito il gesto della madre che accarezza il piede del bimbo viene contraddetto dalla generale rigidità della figura, mentre in Coppo esso trova un senso pieno nella maggiore animazione della Madonna, la quale è rivolta verso il figlio. Non stupisce che questo nuovo interesse di Coppo per il movimento abbia spinto lo studioso Roberto Longhi, ad attribuirgli il mosaico con l'inferno all'interno del Battistero di Firenze; questa è un'immagine impressionante per l’inedita varietà delle posture dei dannati e per la violenza praticata su di essi da diavoli, animali mostruosi e lucifero. Questa scena fa parte di un giudizio finale, a sua volta compreso nella decorazione a mosaico della cupola del Battistero, che è un’opera riferirla a lui anche quando sul finire del Settecento, un erudito scoprì i documenti che smentivano questa tradizionale attribuzione; si trattava del contratto stipulato nel 1285 tra la compagnia dei laudesi e Duccio, figlio di Boninsegna, pittore di Siena, che venne incaricato di decorare con una pittura bellissima una grande tavola in onore della Vergine Maria. I Laudesi era una confraternita che si riuniva nella chiesa di Santa Maria Novella a Firenze per cantare le laudi alla vergine in una propria cappella. CAPITOLO 20: IL CANTIERE DI ASSISI E GLI INIZI DI GIOTTO 1. Una Basilica Doppia. San Francesco morì nella città Natale, Assisi, nel 1226, e solo due anni dopo, alcuni ricchi cittadini fecero una donazione di terreni per il futuro convento e fu lo stesso Papa ad accettarla in modo solenne, e quindi fin dall'inizio la basilica di Assisi sorse sotto la protezione Pontificia. Iniziarono in questo modo, con la Sovrintendenza di frate Elia, i lavori per il convento e la chiesa e il luogo scelto per edificare era a nord ovest del centro urbano, su un Colle che domina la pianura e che si offre immediatamente alla vista di chi si dirige verso Roma. La basilica venne costruita su due livelli, perché essa non servì solo come chiesa conventuale ma anche come una sorta di reliquario e quindi la parte inferiore che era intesa come grande cripta ospitò la tomba di San Francesco. I costruttori approfittarono della forma del Colle e della conseguente differenza di quote, in modo da assicurare un ingresso alla chiesa inferiore e un altro a quella superiore. La differenza di quote è notevole anche rispetto alle circostanti strutture conventuali, in modo da assicurare all'edificio un effetto dominante sul paesaggio di questa parte dell'Umbria; nella struttura architettonica si vede la volontà di rifarsi ai modelli architettonici gotici, anche se le forme sono piuttosto pesanti e non hanno quello slancio e quella leggerezza che caratterizza le cattedrali del nord Europa. L'edificio è un esempio della fatica con cui linguaggio dell'architettura gotica si diffuse in Italia, perché sia all'esterno che all'interno ne riconosciamo il lessico, ma l'effetto complessivo è diverso da quello delle cattedrali francesi contemporanee, perché la sintassi dell'edificio resta ancora romanica, ad esempio sul prospetto orientale c'è un portale gotico, ma il resto della facciata ha il profilo e le proporzioni simili alle chiese del secolo precedente. La Decorazione Dell’Interno. Quando la chiesa venne consacrata nel 1253, lavori della parte architettonica erano ormai ultimati, mentre stavano solo iniziando i lavori per quello che riguardava la decorazione interna e quindi da questo momento in poi, Assisi divenne un vero e proprio cantiere artistico, in cui furono impegnate maestranze di provenienza diversa, dotate di competenze tecniche e artistiche differenti. La grandiosità di questa impresa collettiva è il riflesso diretto della diffusione della messaggio francescano; certamente Assisi fu il più importante cantiere artistico italiano tra Duecento e Trecento, tanto che alcuni tra i principali pittori attivi a cavallo dei secoli lasciarono il loro segno o nella basilica inferiore o in quella superiore, e alcuni artisti che passarono per Assisi furono Cimabue, Giotto, Pietro Lorenzetti e Simone Martini. Assisi fu un cantiere di proporzioni così vaste che attirò artisti da altre parti d'Europa, come maestri vetrai tedeschi o pittori forse inglesi attivi nel transetto superiore; questa cosa non deve stupire perché nella curia vaticana c'erano diversi cardinali dell’oltralpe che potevano fare la cerniera tra artisti del nord, Roma e Assisi e quindi in questo modo la basilica francescana divenne occasione per contatti diretti con il mondo gotico transalpino. All'interno della chiesa inferiore, la prima fase decorativa si svolse prima del 1260 e qui lungo le pareti venne dipinto il primo ciclo monumentale con le storie di San Francesco; è importante che l'anonimo pittore, detto maestro di San Francesco, abbia descritto questi episodi nella parete di sinistra e in quella di fronte abbia dipinto episodi della passione di Gesù, perché questa impaginazione celebrava il Santo di Assisi mettendolo in parallelo con la figura di Cristo. 2. La Basilica Superiore: Le Botteghe Romane. Nella basilica superiore la vicenda della decorazione è complessa perché non coinvolge solo gli affreschi, ma estende anche alle vetrate dell'abside, nel transetto e della navata; come le vetrate, anche gli affreschi presentano grandi problemi per gli storici dell'arte, vista la totale mancanza di documenti e quindi è da anni che si cerca di individuarne la cronologia e gli autori, e infatti l'esame degli intonaci è utile per ricostruire la sequenza delle fasi decorative, mentre è lo stile dell'uno e dell'altro a fresco che aiuta a distinguere almeno le differenti personalità. Cimabue fu il pittore che con la sua bottega fu attivo nel transetto, dove dipinse due grandiosi crocifissioni e la scelta di raddoppiare la scena è strana, però spiegabile con il desiderio di offrire a tutti i frati la visione del momento cruciale della storia della salvezza cristiana; in questo caso ci accorgiamo ancora una volta che nel medioevo italiano l'immagine ha un ruolo che va ben al di là della pura ornamentazione, ma si innesta direttamente nel modo di vivere e di vedere la realtà. Dal transetto le botteghe dei pittori si spostano pian piano verso la navata ed è questo il luogo della basilica superiore in cui sta per avvenire una svolta decisiva; la scelta iniziale fu quella di costruire una navata unica, un vasto spazio unitario articolato in quattro grandi campate, le quali sono contraddistinte da elementi architettonici schiettamente gotici. Sotto le grandi volte si aprono quindi, da una parte e dall'altra, grandi finestre archiacute provviste di vetrate e a fianco di esse, due per ogni campata, sono dipinte storie dell'antico testamento e del nuovo testamento, mentre appena sotto il livello delle finestre c'è un camminamento orizzontale che corre lungo le pareti e gira dietro i pilastri e questo passaggio segna una netta separazione tra la parte alta della navata e la parte più bassa dove saranno collocate le storie della vita di San Francesco. Sulla parete destra, la prima semilunetta che si incontra venendo dal transetto presenta la Creazione del Mondo, un affresco attribuito a Jacopo Torriti, dove la fissa solennità delle icone si congiunge alla pulsante vivacità del mondo creato; il pittore, forse appartenente all'ordine francescano, era legato alla Corte Pontificia e infatti gli vennero affidati i mosaici absidali di due celebri basiliche romane, San Giovanni in Laterano, 1291, e Santa Maria Maggiore, 1296. Da quello che sappiamo, Torritti e la sua bottega abbandonarono Assisi perché richiamato a Roma agli inizi degli anni '90, per ripercorrere le usuali strade della pittura duecentesca; questa partenza finì per sparigliare le carte nella navata della basilica superiore, dove fino a questo punto fu decisiva l'impronta dell’ambiente romano, ossia da questo momento la situazione si fa più fluida e si fanno strada maestri che fino ad allora erano rimasti in secondo piano, come il Maestro di Isacco. 3. Chi è il Maestro di Isacco? Due affreschi della terza campata della parete destra raffigurano una storia della Bibbia tra le più celebri, anche perché presenta elementi romanzeschi, ossia la storia di Isacco e dei figli Esaù e Giacobbe; nel primo riquadro Isacco, vecchio e quasi non vedente, viene ingannato dal figlio minore Giacobbe, che fingendo di essere il fratello maggiore Esaù, riceve la benedizione del padre e tutti i diritti della primogenitura, mentre nel secondo riquadro, Esaù, si avvicina al padre con la pietanza richiesta dal vecchio, ma il vecchio fa un gesto per respingere il figlio maggiore. Le due scene avvengono in un nobile edificio di cui vediamo l'interno e l'esterno, ed è abbellito da quelle decorazioni cosmatesche diffuse a Roma e nel Lazio; Isacco è disteso su un letto dotato di una base con colonnette lignee, mentre i personaggi si muovono accanto a lui circondati da tendaggi rossastri e il pittore riesce a farci percepire lo spazio che separa i personaggi tra loro e lo spazio degli oggetti. L'interesse per lo spazio comporta una speciale attenzione per i volumi, anche se secondari nel racconto e quindi i panneggi che rivestono i personaggi sono privi di quegli schieramenti improvvisi chi da secoli caratterizzavano la pittura bizantina, e fascino in maniera efficace i corpi e in più l'artista ha collegato lo spazio finito dei due interni allo spazio reale della basilica, perché è come se la luce dipinta che illumina Isacco e gli altri provenisse dalla finestra al centro. Anche se ci sono eccezioni, la maggioranza degli studiosi concorda sul fatto che questo pittore sconosciuto non si può identificare con nessun altro pittore attivo fino a quel momento nella basilica superiore, perché il suo linguaggio ha poco in comune con quello degli altri artisti, però è prossimo a quello che vedremo utilizzato nelle storie di San Francesco; questo è un maestro formatasi in Toscana e arricchitosi delle ricerche degli scultori, che ad un certo punto della sua carriera si aprì ad altre esperienze, grazie a un viaggio a Roma , e quindi non rimane dunque che pensare a un giovane, ma dotatissimo artista che sta muovendo i suoi primi passi, ossia Giotto. 4. Giotto e Le Storie di San Francesco. La decorazione della basilica superiore di Assisi è frutto di un programma organico elaborato al tempo di Nicolò IV, 1288-1292, il primo Papa francescano; chi entrava nella basilica e alzava lo sguardo al livello delle finestre poteva riconoscere, a destra le storie dell’antico testamento, mentre a sinistra lo spettatore vedeva episodi della vita di Gesù, ed infine e più in basso lo spettatore vedeva le storie di Francesco, il Santo a cui è dedicata la chiesa e il cui corpo riposava nella basilica sottostante, e le storie del Santo erano 28 scene, che partendo dalla crociera si distendono lungo la parete destra, la controfacciata e la parete di sinistra. Inserite come sono tra episodi dell'antico e del nuovo testamento, la vita e le opere di Francesco vengono proposte ai fedeli come un momento cruciale nella storia della salvezza, infatti non si era mai visto prima un così grandioso ciclo dedicato a un Santo, un Santo moderno e tramite le immagini si dichiarava l'unicità di Francesco, quasi come se nessuno avesse messo in pratica il Vangelo di Gesù come fece il Santo di Assisi. Architettura Reale e Dipinta. Per rendere leggibili le storie di San Francesco era necessario organizzare la sequenza degli episodi in modo chiaro e in un rapporto il più possibile armonico con l'architettura della navata, articolata in quattro campate; si pensò quindi di inserire tre episodi per campata, quattro in quella dinanzi all'ingresso che era più lunga e due episodi nella controfacciata, quindi il ritmo prevalente è quello ternario, una campata e tre storie francescane. A questo punto si decise di inquadrare le storie di Francesco in un’ulteriore architettura dipinta, ossia grandi colonne tortili reggono soffitti marmorei a cassettoni e sopra un'alta cornice a grandi mensole e sotto queste mensole, corrono listelli orizzontali che imitano le decorazioni cosmatesche a marmi policromi; tutte queste finte strutture architettoniche sono viste in prospettiva da un punto esattamente al centro della campata. Le storie di San Francesco si svolgono entro una doppia impaginazione architettonica, quella dipinta di estrazione classica che si innesta in una struttura reale di tipo gotico. Guidato dal ritmo solenne di questa doppia partitura, lo spettatore si trova davanti alle singole scene, le quali sono caratterizzate da un autonomo trattamento dello spazio, come in un mutevole teatro sacro; in questo modo già prima di osservarne le azioni, tramite questa solenne introduzione architettonica lo spettatore coglie la grandezza del Santo di Assisi. I Temi e il Racconto. Il racconto della vita di Francesco fa riferimento alla legenda maior, redatta da Bonaventura da Bagnoregio; infatti dalla morte del Santo, nell'ordine francescano si erano manifestate interpretazioni diverse della sua predicazione e circolavano diverse narrazioni della sua vita e quindi nel 1266 si decise che doveva essere uno soltanto il racconto della sua vita e si scelse quindi la legenda maior. Gli affreschi ripercorrono la vita di Francesco dalla giovinezza, cominciando da episodi in cui si manifestavano i primi segni della Sua Santità; poi le immagini raccontano le tappe della conversione, della predicazione, dei miracoli, dell'approvazione del nuovo ordine religioso ed infine si arriva a un momento cruciale, quello in cui Francesco riceve sul proprio corpo le stimmate, ossia i segni della passione di Cristo. Gli affreschi descrivono la morte del Santo, soffermandosi sul pianto dei confratelli e delle Clarisse e infine i miracoli e le apparizioni dopo la morte; sotto ogni riquadro, lunghe scritte in latino oggi illeggibili, spiegavano il contenuto della scena. Veramente Giotto? culturale fu più lento rispetto al nord; erano un'eccezione Napoli e le altre città regie governate da piccole aristocrazie locali. Verso Le Signorie. Le tensioni interne alle varie città sfociarono nella scelta di affidarsi a un Signore, una figura in cui si concentrarono tutti i poteri; a Milano con i Visconti o a Verona con gli Scaligeri, il ruolo del Signore passò di padre in figlio e quindi si misero le basi per dinastie signorili che dureranno anche nel secolo successivo e oltre, come nel caso degli Este. In alcune aree non venne mai meno un potere di tipo feudale, come a ovest il marchesato del Monferrato, più a nord il marchesato di Saluzzo e come il dominio dei Savoia in continua espansione. Un caso unico continuava ad essere quello di Venezia, cioè una Repubblica retta da un governo di tipo oligarchico che iniziò ad essere sempre più attenta verso l'espansione verso l’entroterra. Artisti e Committenti. La produzione artistica nella prima metà del secolo è in alcune aree straordinaria, infatti se consideriamo solo i primi 10 anni del secolo, vediamo quanto è notevole la sequenza delle opere eseguite da Giotto, da Giovanni Pisano e da Duccio di Buoninsegna; figure come quelle di Giotto o di Simone Martini dimostrano quanto stia cambiando il ruolo dell'artista, che ora è ingaggiato da committenti ragguardevoli e conteso da località diverse, e infatti in questo periodo il nome di alcuni pittori non è solo scritto sulle opere, ma viene anche celebrato da cronisti, letterati e poeti, come nel caso di Giotto celebrato da Dante nel purgatorio o come nel caso di Simone Martini ricordato con affetto da Petrarca in uno dei suoi versi. Quindi in questa epoca gli artisti sono dotati sia della perizia tecnica, ma possiedono anche nuove qualità intellettuali paragonabili a quelle degli uomini di lettere. Visto che cambia lentamente la figura dell'artista, cambiò anche la figura dei committenti; ad esempio a Padova la meravigliosa opera di Giotto si deve a Enrico Scrovegni, un ricco privato che volle costruire accanto al proprio palazzo una cappella personale. A Firenze furono attive le famiglie dei grandi mercanti e dei grandi banchieri, mentre i signori usavano le immagini in funzione propagandistica oppure chiamavano artisti affermati per abbellire i loro palazzi e grazie a commissioni del genere, i soggetti profani acquisirono un risalto del tutto nuovo. CAPITOLO 21: GIOTTO, UN SUCCESSO SENZA PRECEDENTI 1. Giotto a Firenze, Rimini e Pisa. I Crocifissi. All'inizio del Trecento la carriera di Giotto gli era già avviata verso un successo clamoroso, ad esempio in un breve arco di tempo in questi anni lavorò a Firenze, Rimini e Pisa; a Firenze eseguì un crocifisso per Santa Maria Novella e quest’opera dovrebbe risalire ai primi anni del Trecento, più o meno come il Crocifisso che fece per San Francesco a Rimini, chiesa oggi conosciuta come tempio malatestiano. Le due opere erano destinate a chiese dei domenicani e francescani e quindi il nuovo linguaggio di Giotto si coniugava con la nuova visione religiosa proposta da questi due ordini mendicanti, secondo la quale Gesù andava adorato come figlio di Dio e andava pianto nella sua sofferenza di uomo; su quest'idea convergevano sia le riflessioni teologiche dei seguaci di San Domenico sia l’esperienza di fraternità dei seguaci di San Francesco. San Francesco Riceve le Stimmate. Il rapporto con i francescani fu una costante della carriera artistica di Giotto, infatti non stupisce che un'altra sua opera fosse destinata alla chiesa di San Francesco a Pisa, cioè la tavola con “San Francesco riceve le stimmate”. In questa chiesa già da anni si trovava un'altra tavola con “San Francesco e sei storie della sua vita” probabilmente di Giunta Pisano e confrontando i due dipinti cogliamo con facilità differenze nella scelta dei temi e nel modo di impostare le scene; nella tavola più antica, quella di Giunta, Francesco era presentato nella sua esile figura di Santo asceta, ma autore di miracoli, mentre nell’opera di Giotto le scene che in basso bordano quella principale sono solo tre , ma vennero scelte con attenzione per il loro significato e queste scene sono “il sogno di Innocenzo III”, “l'approvazione della regola” e “la predica agli uccelli”, quest'ultimo risalta i nuovi contenuti della predicazione del Santo, mente i primi due raccontano come il Papa e la chiesa avessero da subito capito e riconosciuto la speciale importanza del poverello di Assisi. L'esaltazione di Francesco e dell'ordine francescano raggiunge l’apice nella scena principale nella quale i segni della passione di Gesù , le stimmate, si imprimono sul corpo del Santo come un marchio; Giotto costruisce una scena senza precedenti, infatti se nel ciclo di Assisi a Francesco appariva uno dei Serafini, in questa scena di Pisa tra le ali dell'angelo è visibile Gesù stesso in croce e dalle sue mani, dai suoi piedi e dal suo costato partono i raggi che imprimono le ferite della crocifissione sulla carne di Francesco. Una Bottega-Impresa. La tavola di Pisa è una delle poche opere firmate da Giotto, però non è detto che i dipinti firmati dall'artista siano stati realizzati solamente da lui, infatti nel mondo medievale la firma non era tanto certificazione della mano dell’artista, ma era piuttosto una garanzia della qualità dell’opera per mezzo del nome di un artista affermato e riconosciuto; in poche parole, le opere non erano eseguite dal solo maestro, ma anche dai suoi assistenti ossia la sua bottega. Quella di Giotto era una vera e propria piccola impresa, numerosa e con gradi diversi, infatti i pochi documenti disponibili parlano di soci e di compagni, cioè collaboratori quasi al livello del maestro, e aiuti con compiti e paghe inferiori; grazie a una struttura del genere Giotto riuscì a ottenere incarichi importanti in luoghi diversi della penisola, e in più l'artista fu particolarmente abile nell’intrecciare relazioni. Possiamo ipotizzare il funzionamento della bottega impresa di Giotto: quando si doveva eseguire una tavola impegnativa o un ciclo di affreschi, il maestro faceva il progetto e una serie di disegni, ma poi il compito di tradurre le sue idee nei dipinti veniva affidato anche a più pittori; questa è una varietà di combinazioni che mette in difficoltà gli studiosi moderni i quali a volte da una parte riconoscono senza esitazioni il vocabolario del pittore, mentre dall'altra si accorgono di differenze nel modo di dipingere. 2. Padova e la Cappella degli Scrovegni. Un Committente del Tutto Speciale. Giotto venne chiamato a Padova da Enrico Scrovegni, un ricco che si era arricchito anche grazie all’usura; la fama degli Scrovegni andò ben al di là delle mura di Padova, infatti nella commedia tra i peccatori di usura Dante incontra un dannato contrassegnato dallo stemma della famiglia padovana, probabilmente era il padre di Enrico, Rinaldo. Gli Scrovegni abitavano in un palazzo che sorse sulle rovine dell’anfiteatro romano, chiamato anche a Padova Arena. Nei Primi del Trecento, Enrico decise di far erigere una cappella e per abbellirla chiamò dalla Toscana due artisti di fama, Giotto e Giovanni Pisano; questa era una vera e propria cappella di palazzo, che in precedenza era un privilegio spettato unicamente ai sovrani e come se questo non bastasse, Enrico si fece raffigurare all'interno del giudizio universale mentre offre alla vergine la cappella a lei dedicata e anche questo motivo dell'offerta di un edificio sacro in passato fu utilizzato solo da personaggi eminenti, da vescovi o abati, però la straordinarietà del gesto di Enrico era parzialmente attenuata dalla presenza di un ecclesiastico che sosteneva sulla spalla il peso della chiesa in miniatura. Non sfuggì ai contemporanei che l'iniziativa serviva a dare nuovo prestigio al committente e in più chi entrava nel piccolo edificio non potevano non notare sullo sfondo delle diverse scene la profusione dell'oro e dei blu ultramarino ottenuto con i lapislazzuli, quindi questa fu una esibizione di una ricchezza che non aveva origini limpide. La Sequenza Iconografica. La controfacciata della cappella ospita il giudizio universale, mentre del tutto inusuale è inserimento al suo interno dell'offerta del modello della cappella; lungo le pareti vengono narrate le storie di Gioacchino, Anna e Maria, nel registro superiore, e quelle di Gesù, nel registro inferiore e mediano. Il registro mediano inizia con la Natività e si chiude con la cacciata dei mercanti dal tempio, mentre quello inferiore inizia con l'ultima cena e termina con la pentecoste; sull'arco trionfale l’annunciazione e la visitazione fanno da cerniera tra il primo e il secondo registro, mentre la rara scena del tradimento di Giuda collega il registro mediano con quello inferiore. Generalmente, Giotto sembra aver seguito la narrazione di San Giovanni anche perché tre episodi scelti sono presenti solo in questo Vangelo. La presenza delle sei finestre sul lato meridionale fa sì che le due pareti abbiano un ritmo diverso per il numero degli episodi e per la loro disposizione, infatti nella parete meridionale le 10 scene sono separate dalle alte finestre a profilo ogivale, mentre nella parte settentrionale le 12 scene sono intervallate da fasce verticali che contengono quadrilobi con piccole scene figurate; la presenza delle finestre condiziona anche il primo registro con le storie di Maria, infatti a sud i riquadri più alti si dispongono sopra le aperture, mentre a nord le scene dei tre registri sono del tutto allineate. Come si è visto studiate rispondenze simmetrie legano gli episodi sia sullo sviluppo orizzontale che nella loro successione verticale, in particolare nessi ora tematici ora visuali connettono gli episodi della predicazione di Gesù e quelli della passione. Infine, nello zoccolo, Giotto finse una serie di sculture in marmo con le personificazioni delle virtù e dei vizi, le quali erano tutte accompagnate da iscrizioni esplicative che servivano a chiarire il significato di queste allegorie a volte complesse; è da notare che al posto del tradizionale avarizia si trova il vizio dell'invidia. Un Nuovo Cambio di Passo. In quest’opera Giotto fece una nuova accelerazione verso un più pieno naturalismo, infatti in ogni punto degli affreschi padovani il pittore raffina la resa dello spazio e la resa dei volumi e quindi si può dire che tutto per lui è misurabile in termini di volume e di spazio, perfino gli angeli non sono creature eteree, ma sono dotati di un corpo ben visibile e quasi tangibile. Il vertice di questa piena padronanza prospettica dell’artista si raggiunge nei “corretti” cioè gli affreschi che suggeriscono in modo illusivo l'esistenza di due piccoli ambienti, poste ai lati dell'altare che si intravedono tramite due archi ogivali da un lato e dall'altro dell’abside; rientra in questa attenzione di Giotto alla resa prospettica dello spazio il ricorso alle figure di spalle, che consentono allo spettatore di misurare le distanze dei personaggi di uno stesso ambiente e che invitano lo spettatore a entrare nell’avvenimento narrato, infatti chi guarda viene a trovarsi nella stessa posizione di quelli visti da dietro. Allo stesso tempo, Giotto espone evidentemente i fatti, infatti ecco la maestria nella resa dei movimenti, delle fisionomie e delle espressioni. Nella Resurrezione di Lazzaro il pittore illustra la concitazione dell’evento con una regia sapiente, infatti Marta e Maria sono ancora piegate a terra per implorare Gesù, mentre dal sepolcro Lazzaro è già uscito; la fisicità e il colorito cadaverico sono l'opposto della solidità dei due apostoli che gli stanno accanto, uno dei quali ha ancora il volto coperto nel tentativo di evitare il fetore del cadavere, mentre quella sinistra si gira di scatto verso Gesù e lo guarda incredulo e vicino a lui un uomo con la tunica verde si protende verso Lazzaro. Tuttavia, una descrizione credibile delle persone e delle cose, una narrazione accurata degli avvenimenti narrati nei Vangeli al pittore non basta, infatti in quasi ogni scena egli inserisce soluzioni che servono ad avere un senso di presa sulle cose, sui gesti e i sentimenti, ossia Giotto mostra una salda aderenza alla realtà anche a costo di modificare o ribaltare convenzione iconografiche consolidate. Nel “il bacio di Giuda” Giotto rompe lo schema tradizionale che prevedeva Gesù visto di fronte e Giuda di profilo, infatti in questa scena Gesù guarda negli occhi colui che lo tradisce virgola e lo spettatore pensa che non si incrociano solo di sguardi, ma anche i pensieri e i sentimenti dei due protagonisti. Un altro esempio si trova nella resurrezione di Lazzaro: mentre tutti si stringono attorno a Lazzaro e a Gesù, due manovali sistemano la
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