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Riassunto manuale storia medievale Cardini Montesano, Dispense di Storia Medievale

Riassunto completo del manuale “Storia medievale” di Cardini e Montesano.

Tipologia: Dispense

2022/2023

In vendita dal 30/01/2023

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Scarica Riassunto manuale storia medievale Cardini Montesano e più Dispense in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Riassunto Storia medievale (Cardini, Montesano) Introduzione Oggi il termine “Medioevo” ha un uso negativo, ma nel corso della storia ha avuto frequenti rivalutazioni come quella ottocentesca. Media aetas cioè un’epoca che sta nel mezzo, dunque esso è visto in confronto a ciò che lo precede (l’antichità greco romana) e a ciò che viene dopo (l’età moderna). Percorrendo circa un millennio, esso viene diviso in Alto (V-X secolo) e Basso (XI-XV secolo). Il suo inizio è stato convenzionalmente indicato con il 476, ovvero punto di non ritorno del lungo processo di decadenza (tema caro all’età romantica) della pars occidentis, già avviato alla fine del III secolo con la divisione dell’impero da parte di Diocleziano e poi di Teodosio. La sua fine è invece identificata con il chiudersi del XV secolo, vale a dire la scoperta del Nuovo Mondo da parte di Cristoforo Colombo; ma la cosiddetta tesi del “lungo Medioevo” della scuola francese della Nouvelle Histoire lo farebbe proseguire fino all’età preindustriale (fine XVIII secolo). Il Tardoantico: continuità o rottura Alla base della crisi dell’impero romano d’Occidente vi erano vari fattori. Tra i primi la sua economia che, come dimostrato da Wickham, non era flessibile: con l’arrivo dei popoli da nord e da est, in cerca degli stessi privilegi di cui godevano i cittadini dell’impero, ovvero la redistribuzione delle imposte, il sistema non resse poiché l’unità territoriale era stata distrutta. Dunque il problema risultò provenire dall’interno. Nel Mediterraneo vi era un’economia soprattutto agraria e solo nelle città erano presenti attività commerciali e manifatturiere. Qui le condizioni si misuravano in base a tre fattori: il livello di autogoverno mantenuto con la sottomissione romana, tipi ed entità di tasse da versare e la concezione della cittadinanza romana. In alcune zone dell’impero si era sviluppata l’agricoltura (come in Africa) o il commercio (come nel Vicino Oriente); questo aveva portato all’accumulo di immense ricchezze o, per meglio dire, ad un livellamento tra il centro, quindi Roma, e le periferie. Al contrario, nella penisola italica si ebbe una crisi economica a seguito di un forte spopolamento: il periodo di pace non consentiva più l’approvvigionamento di schiavi (fonte di forza-lavoro) e ragioni socio-climatiche procurarono la fuga dei contadini verso aree maggiormente produttive. Inoltre il sistema economico non comprendeva finanziamenti su larga scala ed il mercato era debole data la scarsa capacità d’acquisto della plebe. Si aggiunsero poi problemi difensivi sul fronte siro-persiano: l’eccessivo ampliamento delle conquiste portò allo spostamento delle truppe dal confine alle fortificazioni interne, di conseguenza le frontiere divennero facile preda dei Persiani. Nel 284-285 ascese al potere Diocleziano. Egli subentrò ad un periodo di confusione politica e a lui si devono due provvedimenti fondamentali: il rafforzamento dell’autorità assoluta dell’imperatore che, tralaltro, acquisiva un carattere sacrale con l’uso del diadema, e la divisione dell’amministrazione dell’impero tra due Augusti (quello d’Oriente con capitale a Nicomedia e quello d’Occidente con Milano). Alle loro dipendenze stavano poi due Cesari che erano destinati a succedere loro, ma nel mentre uno governava l’area greco-balcanica con capitale Sirmio, l’altro il nord-ovest europeo con capitale Treviri. Questo sistema, denominato Tetrarchia, rimediava al problema della vastità dell’impero e doveva eliminare le lotte ereditarie. Roma era ancora capitale e città santa, ma la sua posizione le rendeva impossibile l’amministrazione dei suoi punti deboli (lontano est e nord). Venivano poi abolite le regioni augustee ed introdotte dodici diocesi rette da vicarii. Infine Diocleziano riformò l’esercito costituendolo in larga parte di limitanei (truppe stabilite in fortificazioni di confine) e vi affiancò dei reparti mobili detti comitatenses. Tutto ciò consentì importanti vittorie contro i parti e i germani, ma comportò un maggiore carico fiscale. Nel 305, come previsto da tempo, l’imperatore d’Occidente si ritirò a vita privata così come Massimiano (l’Augusto d’Oriente). Vi erano succeduti i due Cesari Galerio e Costanzo, ma i reparti militari delle varie diocesi avevano l’abitudine di elevare al potere i loro comandanti: approfittarono della morte di Costanzo per favorire suo figlio Costantino, scatenando una guerra tra quattro pretendenti. Alla fine, però, in Occidente Costantino prevalse su Massenzio e in Oriente Licinio sconfisse Massimino Daia. L’impero fu così diviso tra Occidente e Oriente fino al 324, quando Costantino attaccò e sconfisse Licinio il quale fu confinato in Tessalonica e ucciso. L’accumulo di ricchezze in Oriente aveva ormai spostato l’asse dell’impero, dunque l’imperatore aveva deciso di fondare una nuova capitale nell’area della vecchia Bisanzio: Costantinopoli. La Tetrarchia non venne restaurata ma si mantenne la divisione in quattro prefetture con le rispettive capitali dioclezianee (solo Costantinopoli si sostituì a Nicomedia). L’Oriente possedeva una crescente ricchezza interna ma era pesantemente minacciato dai Persiani; Roma era ancora la capitale morale ma la sua situazione interna aveva spinto gli imperatori a spostarsi in città amministrative più vicine ai confini: la plebe si trovava in una strana posizione di privilegio poiché si aspettava giornalmente elargizioni di beni e sontuose feste da parte della corte imperiale e delle aristocrazie senatorie. Con Teodosio I la divisione tra pars occidentis e pars orientis divenne definitiva. Il Cristianesimo si era diffuso nell’impero a partire dal I secolo d.C. ed ebbe un gran seguito presso tutti gli strati sociali: arrivò prima nelle città portuali e raggiunse un pò tutte le zone d’entroterra grazie all’efficiente sistema di comunicazione del Mezzogiorno. Al nord della penisola attecchì più lentamente, mentre raggiunse molte isole del Mediterraneo, la Gallia e la penisola iberica lungo le rotte navali. Alla morte di Gesù (indicata tradizionalmente con il 35 d.C.) i suoi fedeli figuravano solo all’interno del popolo ebraico, dove appunto si era creata una cultura giudeocristiana, ma con la predicazione di Paolo (l’apostolo delle genti) si fece strada l’idea che la religione di cui Gesù si era fatto Messia fosse diretta a tutti i popoli della terra. Vi furono quindi i primi casi di repressione da parte dell’impero: Claudio espulse gli ebrei da Roma nel 49, probabilmente poiché tra di loro si diffondeva la nuova religione, mentre Tacito ci racconta che Nerone incolpò i cristiani dell’incendio del 63. Uno degli aspetti che però li rendeva più ostili agli occhi del potere romano era il loro rifiuto della fedeltà all’imperatore, poiché visto come atto di idolatria. Tra II e III secolo vi erano stati sporadici tentativi di repressione, ma le vere persecuzioni iniziarono con l’imperatore Decio stanziati sui suoi confini (unni e tocari) poiché costoro erano abili allevatori e l’impero, dovendosi difendere ed essendo basato sull’agricoltura, doveva dotarsi di squadroni difensivi a cavallo. Grazie agli storici dell’impero abbiamo traccia dei popoli che si affacciarono al limes romano, altro elemento di destabilizzazione. Nell’est Europa presso il Mar Nero, già fra VIII e III secolo a.C., si erano stanziati gruppi seminomadi dediti all’allevamento (i greci li chiamavano geti e daci). Vi erano poi gli sciti: di stirpe nordiranica, erano abili cavalieri e organizzavano cerimonie che prevedevano stati di estasi indotta da sostanze allucinogene. Essi, insieme ai sarmati (nomadi, cavalieri e abili nella lavorazione del metallo, sempre di origine nordiranica), rappresentavano la principale causa per cui avvenivano i vari spostamenti al centro del continente euroasiatico. Tra III e IV secolo i germani furono spinti a spostarsi a causa del peggioramento climatico e dalla pressione di queste genti delle steppe che, a loro volta, andavano ad occupare i loro pascoli. Costoro vennero definiti “barbari” dai greci, facendo riferimento alla loro difficoltà nel parlare in greco (e poi in latino). Con questo termine si indicavano gli stranieri e, dunque fino al II-III secolo d.C., i romani lo usavano per riferirsi a persiani e sciti. Da questo momento in poi, spinti sempre dai popoli uralo-altaici, gruppi di germani iniziarono ad affluire nell’impero romano come ausiliari dell’esercito ed in cambio si offriva loro il diritto di insediarsi e lavorare alcune terre (rimediarono parzialmente allo spopolamento delle campagne). Questi popoli erano molto diversi fra loro, grazie anche agli apporti culturali greci, latini, slavi, celtici, ugro-finnici e scito-sarmatici. Della loro religione sappiamo poco poiché le fonti originali sono spesso di difficile interpretazione, mentre quelle romane sono poco obiettive: le divinità erano divise in Asi e Vani e tra le più importanti vi erano sicuramente Thor, destinato ad un culto solare, e Odino, mediatore tra il mondo dei vivi e quello dei morti. Inoltre la loro religiosità vedeva prevalere il culto degli elementi naturali come alberi e interi boschi. La società era invece strutturata in Sippe (sing. Sippen), ovvero gruppi di famiglie collegati da rapporti di parentela, ognuno dei quali si riconosceva in un’area territoriale. Gli uomini liberi avevano il diritto di portare le armi e, in caso di guerra, eleggevano un re; vi erano poi semiliberi e schiavi. Verso la metà del IV secolo le pressioni di alamanni, svevi, burgundi, franchi, vandali, ostrogoti, visigoti era diventata molto forte. Le loro incursioni sono state per molto tempo definite come invasioni barbariche, ma la storiografia tedesca le ha giustamente denominate “migrazioni di popoli”. La sconfitta dell’imperatore Valente ad Adrianopoli (378) aveva portato ad una ridefinizione dell’unicità della funzione imperiale riaffermata da Costantino: per volontà di Graziano, che si tenne l’Occidente, le terre orientali furono affidate a Teodosio I decretando la nascita della Diarchia. Teodosio I permise ai visigoti che lo minacciavano di stanziarsi nelle sue terre e li accettò in qualità di foederati dell’impero. Costoro, però, erano andati ad occupare anche territori privati causando un diffuso malcontento: durante una rivolta a Tessalonica venne ucciso un comandante goto e l’imperatore rispose massacrando la folla di tessalonicesi che assisteva ad una corsa di carri. Successivamente, su imposizione del vescovo Ambrogio, l’imperatore dovette pentirsi pubblicamente. Nel 383 Graziano era morto in battaglia contro un generale iberico di nome Magno Massimo: egli venne accettato come collaboratore dell’Augusto d’Occidente Valentiniano II, ma venne fatto giustiziare da Teodosio. Dunque la diarchia fu mantenuta formalmente fino alla morte di Valentiniano II, quando Teodosio governò da solo. Con l’insorgere di una malattia improvvisa, decise di affidare la pars orientis al figlio maggiore Arcadio e la pars occidentis al minore Onorio. Entrambi furono posti sotto la tutela di Stilicone, un prestigioso generale d’origine barbarica, che cercò di contrastare le rivalità tra i due fratelli e gli attacchi dei barbari: battè due volte i visigoti del re Alarico e quelli del re Radagaiso, ma condusse anche una politica d’intesa con loro procurandosi il sospetto di Onorio che lo fece uccidere a Ravenna con tutta la famiglia. Ricominciarono così le ostilità dei visigoti. I visigoti di Alarico ripresero la marcia in Occidente e riuscirono a saccheggiare Roma nel 410, mentre Onorio si era ritirato nella capitale Ravenna. Alarico partì da Roma portando con sé la sorella di Onorio, la principessa Galla Placidia, ma morì in procinto di passare il mare verso l’Africa. Il suo successore Ataulfo occupò la Gallia meridionale e la Catalogna. Alla metà del V secolo anche gli unni di Attila si riversarono sull’Italia: marciò su Roma e pretese in sposa Onoria, la sorella dell’imperatore Valentiniano III, ma il generale imperiale Ezio lo battè nel 451 presso i Campi Catalaunici. Attila ripiegò verso l’Italia e si arrestò sul fiume Mincio per poi ritornare in Pannonia: si pensa che il principe unno avesse avuto paura della reazione degli eserciti imperiali d’Oriente, ma secondo la tradizione fu l’incontro con papa Leone I che lo dissuase a fermarsi. Un secondo sacco di Roma, però, avvenne nel 455 da parte dei vandali di Genserico. Il rapporto tra barbari e romani non era costituito da uno scontro frontale, come mostrato nelle visioni convenzionali della storia, ma i primi tendevano ad ammirare la maestà dell’impero e cercavano di farne parte, ad esempio attraverso i patti di foederatio, entrando nell’esercito o divenendo guardie del corpo dell’imperatore. Fu proprio un mercenario barbaro di nome Odoacre a deporre nel 476 Romolo (detto Augustolo), il giovanissimo imperatore d’Occidente: lo esiliò, conquistò la capitale Ravenna ed inviò le insegne imperiali occidentali a Zenone (imperatore d’Oriente) che rispose nominandolo patricius. Dunque Odoacre governò l’Italia come funzionario pubblico fino all’arrivo dell’ostrogoto Teodorico nel 493. La migrazione dei goti aveva aperto la strada ad altri popoli: i vandali erano un gruppo etnico germano-orientale che giunse nella penisola iberica, per poi passare le Colonne d’Ercole e occupare l’Africa settentrionale (da ricordare che Sant’Agostino morì mentre i vandali assediavano la città di cui era vescovo, ovvero Ippona); svevi e burgundi si insediarono come foederati in Gallia nell’attuale Borgogna, e nella penisola iberica (nel primo caso fondarono un regno che reggerà fino all’arrivo dei franchi); juti, angli, sassoni e frisoni passarono la Manica per insediarsi in una Britannia e un’Irlanda ormai abbandonate dai romani (vi abitavano solo celti più o meno romanizzati). Gli spostamenti di angli e sassoni erano stati i più consistenti e avevano creato nel sud e nell’est dell’isola la cosiddetta Eptarchia, perché formata da sette regni (Northumbria, Mercia, Eastarglia, Wessex, Sussex, Essex e Kent). Consistente fu anche la migrazione dei franchi, un’alleanza militare di varie tribù, di cui non conosciamo una memoria comunitaria (tranne per il mito della casa regnante) né riscontriamo un’omogeneità culturale. Nel III secolo furono protagonisti, insieme ad altri popoli, di varie scorrerie nell’impero; nel IV secolo iniziarono ad entrare a far parte dell’esercito romano e molti di loro furono insediati come contadini o soldati foederati lungo il limes. Nel V secolo i franchi erano ormai foederati dell’impero in Gallia e difendevano la frontiera renana dagli attacchi di altri popoli germanici, sebbene abbiamo notizia di uno scontro con l’impero da cui uscirono sconfitti. Con il disfacimento della compagine imperiale occidentale, essi poterono espandersi e fondare alcuni regni a sud-ovest del Reno: il re Clodoveo battè presso Soissons (486) il capo gallico Siagrio, che aveva fondato un regno in quell’area, e lo fece uccidere. In questo modo i franchi si rendevano fautori della legalità imperiale rappresentata da Zenone, unico Augusto ancora in carica. Goti, longobardi e franchi: esperimenti egemonici Dal 476 i sovrani orientali vivevano nella costante preoccupazione tesa a riaffermare il loro diritto a governare l’intera area corrispondente all’impero, senza però dover intervenire nella regione ormai decaduta e impoverita. Fu per questo che gli imperatori d’Oriente accettarono l'instaurazione delle monarchie romano-barbariche in Occidente, a patto che i loro capi riconoscessero la sua autorità come a capo di un impero unitario. I goti costituirono la migrazione barbarica più consistente e furono di fatto una confederazione di gepidi, alani e unni, anche se il loro nucleo originario proveniva dalla Germania settentrionale. Dal III secolo risultano divisi in due gruppi: i visigoti insediati fra Baltico e Mar Nero, gli ostrogoti nell’odierna Ucraina. Nel IV secolo si convertono in larga parte al cristianesimo, nella sua confessione ariana, e successivamente il vescovo Ulfila tradurrà la Bibbia in goto attraverso l’utilizzo della prima vera scrittura germanica (fondeva i caratteri greci alle rune). Mentre gli ostrogoti per il momento rimarranno nell’Europa centro-orientale, i visigoti si muoveranno verso la Spagna e la Gallia, dopo la sosta in Italia, per fondare un regno e insediare la corte a Tolosa: qui i re redassero opere legislative molto importanti come il codex euricianus, il più antico codice di leggi germaniche. All’inizio del VI secolo, però, subirono una sconfitta contro i franchi di Clodoveo e dovettero ritirarsi nella penisola iberica dove costituirono un regno dotato di leggi scritte di chiara influenza romana. La fede ariana fu abbandonata con la conversione al cattolicesimo del re Recaredo. Il regno visigoto ebbe vita fino all’arrivo dei mussulmani, ovvero al principio dell’VIII secolo. Gli ostrogoti erano subordinati agli unni nella pianura pannonica e in seguito divennero foederati dell’impero d’Oriente, ma il governo di Costantinopoli li incoraggiò a stanziarsi in Italia poiché preferiva non averli ai suoi confini: venne concesso il titolo di patricius al loro re Teodorico così da permettergli il controllo dell’Italia e della Dalmazia, nonché la difesa della città di Roma. Teodorico vinse e uccise Odoacre instaurando un regno in cui lui stesso figurava, sulla base dei privilegi arrogatisi, più come un vice imperatore che un re. Tuttavia egli non si fece mai chiamare imperator ma solo rex, per non causare dissidi con Bisanzio. La sua politica estera fu improntata ad un’alleanza con i visigoti di Spagna, i franchi di Gallia e i burgundi. Nel suo regno egli era l’unico goto a possedere la cittadinanza romana, perché la popolazione era divisa tra goti (foederati dell’impero occupati nelle cose militari) e romani nel 687 con la battaglia di Tertry, Pipino II detto “di Heristal” (frutto del matrimonio che unì arnolfingi e pipinidi) riuscì ad unificare nuovamente il regno dei franchi. I longobardi avevano avuto una conversione piuttosto tardiva elemento che, insieme alla compresenza della dominazione romano-orientale nella penisola (sul litorale adriatico e la zona a sud della Toscana), non aveva facilitato i rapporti con i latini. La crescente “romanizzazione” dei costumi aveva fatto sì che l’identità longobarda si perdesse quasi totalmente. Il re Liutprando si ripropose di recuperare quell'identità nazionale scalzando via il potere imperiale e approfittando della crisi iconoclasta, ma per farlo avrebbe dovuto iniziare dal ducato romano (le terre imperiali in cui viveva il vescovo di Roma): nel 728 strappò all’impero il castello di Sutri, ma il papa riuscì a farselo consegnare. Nasceva dunque il primo nucleo del potere temporale della Chiesa. La situazione precipitò di nuovo quando Liutprando pose l’assedio a Roma e il papa, non potendo chiedere aiuto all’esarca di Ravenna né a Costantinopoli, impegnati a respingere l’attacco del califfato di Damasco, si rivolse a Carlo Martello (Maestro di Palazzo dell’Austrasia). Egli intervenne solo diplomaticamente ma questo bastò a spingere il re longobardo ad abbandonare l’assedio. Il nuovo papa Zaccaria si mostrò incline ad accordarsi a Liutprando in cambio di alcuni territori da lui appena conquistati. Il conflitto con il papato riprese con il re Rachis e poi con Astolfo. Papa Stefano II si recò in Francia nel 754 e proclamò re il Maestro di Palazzo Pipino: i due ratificarono un accordo secondo il quale il re franco sarebbe dovuto scendere in Italia e avrebbe dovuto sconfiggere Astolfo per consegnare al pontefice le ex terre imperiali settentrionali e centrali (l’impero d’Oriente, assediato dai mussulmani, non era in grado di reagire). L’atto veniva legittimato dal fatto che l’imperatore orientale era un iconoclasta, quindi un eretico, ma soprattutto attraverso un documento appositamente confezionato, ovvero la Donazione di Costantino: Costantino, partendo per la nuova capitale, aveva lasciato al papa la città di Roma e le relative insegne imperiali. Il testo fu ritenuto autentico fino al Quattrocento, quando l’umanista Lorenzo Valla ne dimostrò la falsità. Nell’VIII secolo nasceva così il Patrimonium Petri. Chiesa e vita religiosa in Occidente Odoacre come Teodorico avevano continuato a governare da Ravenna. Roma era affidata al Senato ma qui la figura del vescovo, scelto tra le famiglie dell’aristocrazia senatoria, assumeva rilevanza sempre maggiore ed infatti veniva chiamato papa (da “abba”, padre) o pontifex. Tra IV e V secolo si affermò l’idea, riconosciuta anche dal concilio di Calcedonia, che la sua autorità fosse superiore a quella dei vescovi delle altre arcidiocesi patriarcali poiché derivante dal Principe degli Apostoli, ovvero Pietro. In questo però il vescovo di Roma venne ostacolato dagli arcivescovi e dai vescovi della pars orientis, i quali credevano piuttosto che il ruolo di capitale della Chiesa dovesse coincidere con quello della capitale politica dell’impero, dunque guardavano a Costantinopoli. Il disgregarsi della compagine politica occidentale e quindi, l’esposizione a mille pericoli, aveva portato la Chiesa romana ad accettare anche responsabilità politiche. Al contrario la Chiesa d’Oriente, ancora soggetta ad un potere forte, si immischiò prevalentemente in dispute teologiche. Un’altra differenza tra le due fu l’uso del latino per la prima e del greco per la seconda. La Chiesa di Roma si propose come erede della memoria dell’impero pagano soprattutto nell'estetica artistica ed urbanistica che richiamava l’età augustea. Con la frammentazione della pars occidentis, quello romano si presentava come unico potere universalistico rimasto, mentre il ceto senatoriale appariva tagliato fuori dai ruoli chiave del settore amministrativo (cariche ormai affidate a uomini provenienti dall’esercito o dal ceto equestre). La cultura classica era dunque utilizzata a sostegno di quella cristiana: il senatore Cassiodoro divenne primo consigliere di Teodorico ma in tarda età, deluso dalle vicende politiche, si ritirò fondando il monastero di Vivarium dove si praticava ritiro spirituale e lo studio delle sette arti liberali. In Occidente poche furono le dispute teologiche: ricordiamo quella del monaco irlandese Pelagio il quale, opposto anche da Sant’Agostino, respingeva il concetto di peccato originale. La volontà di preservare le memorie antiche cominciò ad attenuarsi già nel VI secolo quando il papato iniziò a voler cristianizzare la sua città, anche sotto il profilo architettonico: si attribuiscono a Gregorio I Magno la distruzione del tempio di Apollo sul Palatino e la dedicazione del Mausoleo di Adriano all’arcangelo Michele. Successivamente furono costruiti i primi edifici di culto cristiani all’interno del Foro, centro nevralgico della memoria classico-pagana. Nel Tardoantico nacque il culto dei martiri e dei santi: in corrispondenza dei loro luoghi di sepoltura e delle loro reliquie, nelle zone extramurarie, vennero costruite importanti basiliche. Secondo la tradizione romana non era possibile profanare il loro riposo e dunque spostarli, ma ciò divenne necessario quando, nel VII secolo, oltre le mura si viveva un clima di pesante insicurezza. Con la traslationes sistematica di queste reliquie molte catacombe cominciarono ad essere trascurate, mentre Roma diveniva una città-santuario. Già dal VI secolo principi e vescovi germanici ricevettero in dono alcune di queste reliquie per la fondazione di nuove chiese (tanto più prestigiose quanto più illustri erano le reliquie che contenevano). Il cristianesimo aveva sviluppato una continua dialettica fra due aspirazioni: il disprezzo dei beni terreni che scaturiva la fuga dal mondo e l’amore per il prossimo che invece induceva a impegnarsi nella vita terrena. Espressione di quest’ultimo erano stati i martiri che avevano offerto la loro vita per salvare quella eterna dei fratelli, mentre espressione della prima furono i monaci. Fenomeno venuto dall’Oriente, il monachesimo (dal greco “mònos”, solo) si sviluppò come esperienza ascetica nel III secolo in Egitto, in Siria e in Palestina: era infatti chiamato monachesimo anacoretico, eremitico (celebri gli stiliti che vivevano su alte colonne). La Chiesa nascente non vedeva di buon occhio queste pratiche poiché potevano dare vita a deviazioni dottrinali e stravaganze comportamentali, ma favorì il monachesimo di tipo cenobitico (come quello di San Pacomio). Benedetto da Norcia è stato proclamato patrono d’Europa dalla Chiesa cattolica poiché, nei duri anni tra V e IX secolo, i monasteri benedettini hanno portato sicurezza e pace alle plebi disorientate del tempo. Il monachesimo benedettino è tipicamente romano in quanto non esalta l’esperienza mistica, ma l’equilibrio tra la vita dello spirito e la vita quotidiana. Benedetto nacque a Norcia nel 480 e, dopo un periodo a Roma in cui fu molto deluso dalle condizioni della città, si ritirò a Subiaco dove raccolse i suoi primi discepoli. A causa dell’ostilità del clero locale si trasferì a Montecassino: su una vetta già consacrata ad un santuario pagano fondò un monastero, mentre non lontano sua sorella Scolastica fondava il primo cenobio femminile. Attorno al 540 redasse la Regola: importanti sono la preghiera privata, la messa in comune e la lettura sacra, ma anche il lavoro utile a contrastare l’ozio, ovvero il nemico dell’anima. Altra norme fondamentali erano la stabilitas loci (l’obbligo di risiedere tutta la vita nello stesso monastero al fine di contrastare il vagabondaggio tipico di alcuni monaci dalla dubbia vocazione) e la conversatio (la buona condotta morale e l’obbedienza all’abate). Nelle biblioteche benedettine si conservavano i testi dell’antichità e negli scriptoria i manoscritti venivano copiati dai monaci per essere poi diffusi nelle abbazie sorelle di tutta Europa, è a loro infatti che si deve il salvataggio della cultura classica. Nacquero quindi grandi abbazie benedettine come Farfa, Nonantola, Novalese, San Vincenzo al Volturno, Reichenau, Tours, Saint-Denis e Cluny. Intanto la nuova fede si stava espandendo anche tra i popoli che si trovavano oltre il limes dell’impero. Patrizio, vescovo d'Irlanda, fu il fautore della sua cristianizzazione (figlio di un diacono bretone, venne rapito da pirati caledoni e venduto schiavo in Irlanda). Nel V secolo egli aveva dato vita ad un monachesimo strutturato in comunità di villaggi, che erano al tempo stesso monasteri. I monaci irlandesi, fedeli al vecchio principio del monachesimo anacoretico, avevano elaborato un loro sistema di vita basato sul pellegrinaggio. Fu così che attraverso piccole imbarcazioni coperte di cuoio essi si spinsero in Scozia, nelle Orcadi e in Islanda (secondo alcuni potrebbero aver toccato il continente americano) e a piedi in Europa raggiunsero Francia, Fiandre, Germania e Italia dove attuarono una rievangelizzazione poiché il cristianesimo, già presente, non vi si era però mai radicato. Tra i numerosi missionari, ricordiamo i fratelli Colombano e Gallo i quali fondarono nel continente europeo i monasteri di Bobbio, Luxeuil e San Gallo. Nei monasteri irlandesi, oltre alla copiatura dei testi classici, non era andato perduto l'uso della lingua greca, cosa che non accadde nell’Occidente continentale. All’inizio del VII secolo, le isole britanniche sotto l’influenza del monastero di Iona parevano accettare l'egemonia della Chiesa irlandese, differente da quella romana in alcune pratiche, provocando così la reazione di papa Gregorio I che inviò dei monaci benedettini per imporre la sua egemonia ed impedire la formazione di una Chiesa indipendente. Tra i benedettini lì insediati, l’esponente più autorevole di nome Agostino divenne primate delle diocesi e la sua sede venne fissata a Canterbury. Nel 633 con il sinodo di Whitby venne definitivamente sancita la sua dipendenza da Roma. Attraverso l’azione evangelizzatrice dei monaci irlandesi si diffuse il sistema di penitenze a tariffa (una forma di penitenza legata all’itineranza che, originariamente praticata dai monaci, veniva adattata ai laici): all’interno dei cosiddetti libri penitenziali, ad ogni peccato corrispondeva obblighi più o meno duri da adempiere. Dovendo sommare le penitenze dei vari peccati si potevano totalizzare pene più lunghe della vita stessa, dunque venne introdotto il sistema di commutazione secondo cui si potevano scambiare penitenze più lunghe con altre più brevi ma gravose, oppure ancora si poteva versare direttamente un contributo pecuniario (compositio). Durante il periodo carolingio si andò definendo che i peccati corrispondenti a reati andassero puniti pubblicamente, mentre gli altri potevano essere affidati alla penitenza tariffata; il pellegrinaggio, invece, divenne un equivalente della penitenza pubblica. Secondo quanto riportato nei libri penitenziali, le colpe per cui si richiedeva il pellegrinaggio erano Venne stipulata una tregua, a patto che i bizantini versassero ai persiani un ingente tributo in oro. Questo contribuì a deteriorare la situazione dell’impero, il quale era anche attraversato da un’epidemia fra 542 e 546 (la peste di Giustiniano). Lo storico Procopio di Cesarea ci offre, in un’opera non resa pubblica all’epoca, ovvero “Storia segreta”, un ritratto di Giustiniano e Teodora alquanto differente rispetto alla storiografia ufficiale, ma soprattutto ci racconta le carneficine che l’imperatore perpetuò nei confronti dei vandali, nel nord Africa, e degli ostrogoti, in Italia. I successori di Giustiniano dovettero abbandonare il sogno di riconquista in Occidente soprattutto a causa delle minacce presenti ad est. Alla fine del VI secolo l’imperatore Maurizio riuscì a contenere le pressioni àvare e slave nei Balcani, mentre in Occidente fondò due Esarcati: quello di Ravenna doveva contenere la pressione longobarda e Cartagine doveva arrestare le tribù berbere non sottomesse. Egli riuscì poi a riconquistare l’Armenia. L’offensiva persiana infatti aveva ripreso arrivando a conquistare Gerusalemme, ma la riscossa romana si ebbe con l’imperatore Eraclio che riuscì a batterli, a entrare nella Città Santa da vincitore e ad occupare Ctesifonte, la capitale nemica. Eraclio riorganizzò l’amministrazione centrale in logotesie (alle dipendenze di logoteti), mentre divise il territorio dell’impero in 32 distretti (chiamati temi e governati da uno stratigos), organizzò una sorta di milizia di soldati-agricoli (stratiotai), infine sostituì il titolo di imperator con quello di basileus. Nel VII secolo si assiste dunque ad un definitivo sopravvento della lingua greca su quella latina nella pars orientis, ormai impero bizantino. Nascita e diffusione dell’Islam Da oltre un millennio prima di Cristo nella penisola arabica abitavano tribù nomadi di allevatori, capeggiate ognuna da uno sceicco, che si spostavano di oasi in oasi. Oggi li conosciamo come beduini (abitanti della solitudine, del deserto) e sappiamo che erano sovente coinvolti in guerre tribali a causa di reciproche razzie. Essi vivevano anche di commercio, infatti nella penisola convergevano molte rotte commerciali, sia terrestri (la Via dell’Incenso o delle Spezie) che marittime. Nelle oasi sorsero prospere città carovaniere, dove lo sceicco di ogni tribù garantiva il passaggio delle merci. Il mondo arabo dunque si trovava alla periferia di tre grandi imperi (quello romano, persiano e cinese), lo sconto tra i quali ne aveva favorito la formazione. Sul piano della religione gli arabi avevano ereditato alcuni culti a carattere astrale dai regni moabiti, edomiti e nabatei, ma avevano subito anche l’influenza del popolo ebraico: dunque, verso il VI secolo, costoro professavano in maggioranza una sorta di monoteismo imperfetto (enoteismo), poiché al Dio biblico vi affiancavano vari idoli minori. Era già nato il culto per alcune pietre di origine celeste, come la Pietra Nera della Kaaba (annerita a causa dei peccati degli uomini). Tra le genti della penisola arabica erano moderatamente diffusi anche il cristianesimo (ad esempio gli etiopi erano monofisiti, mentre il nestorianesimo fu portato dai persiani) e l’ebraismo. Verso il 610 la vita della Mecca venne sconvolta dalla predicazione di Muhammad, un membro quarantenne della più importante famiglia cittadina: sebbene le fonti sulla sua vita siano scarse, sappiamo che egli visse l’infanzia e la giovinezza sotto la tutela dello zio con il quale viaggiò lungo le carovaniere. La sua vita cambiò quando sposò la facoltosa proprietaria di un’impresa carovaniera, Khadigia, dal cui matrimonio nacque la figlia prediletta Fatima. Successivamente egli avrebbe iniziato a dare segni della propria vocazione: durante lunghi ritiri spirituali sentiva voci che gli parlavano e aveva visioni angeliche accompagnate da sintomi fisici simili a convulsioni. Dunque Muhammad era solito ritirarsi in preghiera sul monte Hira ma, una notte del 611, in una caverna gli apparve l’arcangelo Gabriele che lo mise al corrente della sua vocazione profetica. Quando iniziò la sua predicazione, egli si oppose fermamente alla tradizione idolatrica causandosi dunque l’inimicizia dell’aristocrazia mercantile della Mecca, la quale si arricchiva grazie ai pellegrinaggi verso la pietra della Kaaba. Nel 622 si rifugiò nella città carovaniera di Yatrib (poi chiamata al-Madina) dove il suo messaggio fu accettato: questo è l’inizio dell’Egira che corrisponde al principio di una nuova era per tutti i paesi musulmani (sistema calendariale nuovo). Da qui ebbe inizio la conquista della penisola arabica che portò allo scontro con le varie comunità ebraiche e cristiane e alla sottomissione della stessa Mecca. Per segnare con decisione la distanza con le altre due religioni abramitiche, Muhammad definì La Mecca Città Santa e il culto della Kaaba, liberato dagli idoli, diverrà il centro del culto islamico. L’Islam è una fede universalistica, ovvero non è connessa ad un popolo eletto, ma essendo nata storicamente nella penisola arabica è legata all’arabo (lingua sacra) e l’Arabia ne è la terra santa; inoltre Muhammad si configura come restauratore del monoteismo abramitico. L’Islam consiste nell’intima adesione del fedele alla volontà di Dio, il quale non è Padre ma Signore e Padrone. Al suo interno non esiste il clero: vi sono ad esempio figure come quella dell’imam che presiedono alla preghiera, ma comunque non sono veri sacerdoti. La dar al-Islam rappresenta i territori su cui è imposto il potere politico e giuridico dell’Islam e possono essere abitati, sebbene in qualità di sottomessi (dhimmi), dai non musulmani monoteisti ovvero le genti del Libro (ebrei e cristiani ma anche buddhisti e zoroastriani). Al contrario i politeisti non sono ammessi e, anzi, contro di loro si esprime la guerra pia e giusta (jihad). La Parola di Dio è contenuta nel Corano (114 sure): libro sacro e immutabile si distingue dagli altri testi di origine divina, come la Bibbia, poiché non contaminato dalla malizia e dall’errore degli uomini. Esso è stato elaborato oralmente attraverso la predicazione del Profeta e non è solo fonte teologica, ma anche giuridica. Infine è da ricordare la Sunna perché contiene la biografia di Muhammad. La Mano di Fatima è il simbolo dei cinque pilastri dell’Islam: professione di fede, preghiera (cinque volte al giorno e rivolti verso la Kaaba), pellegrinaggio alla Mecca almeno una volta nella vita, digiuno dall’alba al tramonto durante il nono mese dell’anno ovvero il Ramadan (mese in cui fu rivelato il Corano) e l’elemosina legale (originariamente era un prelievo sui beni superflui di ciascuno per coprire le spese della comunità). Secondo alcuni se ne aggiunge un sesto chiamato jihad: uno sforzo invocato ogni volta che la comunità musulmana si trova in pericolo. Esso è spesso inteso dai non musulmani come “guerra santa” anche se il suo significato più profondo coincide con una lotta interna a sé stessi per la distruzione del peccato (come nell’ambito cristiano ascetico è la pugna spiritualis). La vera fortuna di Muhammad fu l’incontro con le tribù beduine le quali, dopo aver abbracciato la nuova fede, continuarono a darsi a razzie e a conquiste: in pochi anni il Profeta fu a capo di un vero e proprio impero. Dunque il jihad divenne una norma di base della nuova religione (con lo scopo più di assoggettare che convertire) e Muhammad si configurava come un capo spirituale e politico. Egli, durante il suo ultimo pellegrinaggio alla Mecca, aveva lasciato un testamento che tuttavia non parlava dell’assetto politico che la sua comunità avrebbe dovuto assumere dopo di lui e, con la sua scomparsa, il testo fu oggetto di interminabili discussioni; era certo però che bisognasse mantenere il regime teocratico, mentre la comunità aveva in odio qualsiasi istituzione simile alla regalità poiché considerata caratteristica dei popoli pagani. Si era diffusa l’idea che la guida del popolo musulmano spettasse ad un successore del Profeta (da vicario, khalifa, doveva interpretare correttamente la legge di Dio), ma egli non aveva avuto figli maschi dunque la scelta ricadde su Abu Bakr (padre della nuova moglie Aisha). A ciò si oppose la fazione sciita che invece proponeva Ali, cugino e genero di Muhammad, poiché credeva che il successore dovesse appartenere ad una più stretta cerchia familiare. A quel punto tra le tribù berbere scoppiò una rivolta, poi respressa duramente da Abu Bakr, (la guerra della ridda) la quale rivendicava il fatto che il loro giuramento di fedeltà, ora che Muhammad era morto, non valesse più. Alla morte del primo califfo successe Umar. Sotto di lui si verificò un’espansione straordinaria che li portò a controllare molti territori costieri e dunque a dotarsi di una potente flotta: vennero conquistate Damasco e Gerusalemme, nel 637 fu presa Ctesifonte comportando la fine dell’impero sasanide, ma vennero anche sottratte all’impero bizantino la Siria, la Palestina e l’Egitto, ci si spinse fino alla Tripolitania ed ebbero inizio le prime scorrerie nel Mediterraneo. In Siria ed in Egitto gli arabi erano stati accolti come liberatori poiché lì la popolazione monofisita veniva vessata dai bizantini mentre sotto di loro essi avrebbero dovuto pagare solamente un tributo, oppure avrebbero potuto convertirsi. Umar diede avvio al califfato elettivo poiché ottenne la formazione della shurà, ossia il consiglio a cui spettava l’elezione del nuovo califfo. Due erano i candidati alla sua successione, Uthman (membro di un clan qurayshita) e Ali, e quando il califfo venne assassinato la scelta ricadde sul primo. Una volta in carica egli iniziò a favorire i suoi congiunti elevandoli a posizioni di rilievo, proprio come accadde con suo cugino Muawiya che divenne governatore della Siria. Questo comportamento causò malcontento fra i musulmani, dunque Uthman venne assassinato: i suoi seguaci accusarono subito Ali e i sospetti crebbero quando questi salì al potere; allora i qurayshiti insorsero per essere poi sconfitti nella battaglia del Cammello. La guerra si concluse con un patto che doveva vedere al potere Muawiya, ma la situazione cambiò con l’assassinio di Ali: i seguaci di Uthman diedero vita alla dinastia degli omayyadi (sunniti), mentre i sostenitori di Ali creano la prima scissione all’interno dell’Islam (sciiti). I sunniti riconoscevano come eleggibili tutti i membri della tribù qurayshita, al contrario, gli sciiti limitavano l’ambito ai soli discendenti del Profeta; inoltre i primi eleggevano un califfo mentre i secondi designavano un imam (il solo interprete delle Scritture, quindi superiore alla comunità, l’importanza del quale comporterà una maggiore difficoltà nella scelta). Tra gli stessi sciiti si produrranno varie spaccature come quella dei kharigiti, oggi scomparsa: costoro non avevano accettato l’arbitrato che aveva concluso la guerra con i seguaci di Uthman, ma soprattutto credevano che il califfo potesse provenire da qualsiasi comunità musulmana. proprio centro in un’area diversa e determinando l’abbandono di interi quartieri che furono ridotti a cave di materiale edilizio. La circolazione della moneta era andata scomparendo per essere sostituita da scambi in natura o in oggetti preziosi: qualche sovrano barbarico continuava a battere moneta d’oro, come i bizantini ma essa era comunque scarsa in Occidente, dunque poteva servire per l’acquisto di pregiate merci orientali da parte delle corti o, al massimo, per prestigio. La netta prevalenza delle importazioni sulle esportazioni in Europa impoverì in fretta le riserve auree determinando così una prima svalutazione della moneta (VI secolo). L’Europa carolingia Tra VII e VIII secolo, durante il pericolo causato dall’agitazione di alcuni gruppi di germani stanziati al margine del regno franco (alamanni e bavari) e dalle incursioni saracene nella penisola iberica, l’aristocrazia franca si riconobbe nella forte dinastia di maggiordomi austrasiani dei pipinidi: Carlo Martello guidò la celebre battaglia di Poitiers che, come si dirà per molto in Europa, sconfisse i musulmani salvando il futuro della Cristianità. In realtà lo scontro non ebbe questa grandissima risonanza, né determinò vincitori o vinti; semmai sarà l’imperatore d’Oriente Leone III Isaurico a fermare l’invasione musulmana di Costantinopoli, ma certo non si poteva considerare eroico il gesto di un iconoclasta, quindi di un eretico. Tuttavia Carlo Martello ebbe il merito di riorganizzare le proprietà agrarie del regno per poter disporre di una buona forza di proprietari-guerrieri che, facendo parte di famiglie a lui fedeli, avrebbero anche potuto aiutarlo nell’ascesa al potere contro i re fannulloni. Inizialmente la dinastia incontrò una certa resistenza da parte della Chiesa poiché, con la riforma, gli erano state sottratte diverse terre ecclesiastiche ma egli rispose esautorando alcuni prelati ostili, isolando ancora di più la chiesa franca e instaurando saldi rapporti con il papato. Alla morte del re Teodorico IV (737), Carlo Martello si avvalse delle sue prerogative di maggiordomo per non concedergli un successore e alla sua stessa morte (741) il regno veniva diviso tra i suoi due figli: a Carlomanno andarono Austrasia, Alemannia e Turingia; a Pipino detto “ il Breve” la Neustria, la Borgogna e la Provenza. Dopo una debole tentativo di reazione, Carlomanno si ritirò in un’abbazia, lasciando Pipino a capo del regno: egli, conscio del fatto che il suo era a tutti gli effetti un tentativo di usurpazione del trono, cercò appoggio in un’altra forza provvista di autorità sacrale (i re merovingi possedevano un privilegio sacro di derivazione pagana): papa Stefano II lo unse re nel 754. Dunque la sua era una sacralità più alta che andava a stabilire l’inizio di una nuova era. Pipino aveva ottenuto l’unzione anche per i figli (Carlo e Carlomanno) che, alla sua morte, gli successero. Carlo Magno (742-814) è stato spesso identificato come il fondatore dell’Europa moderna e, secondo Pirenne, egli non sarebbe mai esistito senza la rottura dell’equilibrio meditteraneo determinato dalle conquiste islamiche. Per molti storici tedeschi, il suo impero non si sarebbe potuto creare senza l’avvento dei monaci benedettini sassoni che cristianizzarono la Germania centrale, tra cui ricordiamo san Bonifacio. Inoltre egli porterà l’Occidente a creare un nuovo modello di governo che supererà quello delle monarchie romano-barbariche. La critica attuale è restia nell’accettare le notizie sulla figura privata dell’imperatore contenute nelle opere dei cronisti del tempo poiché esse, probabilmente, sono state scritte sulla base di schemi letterari derivati dall’antichità: ad esempio, il suo biografo Eginardo scrisse ispirandosi alle Vitae di Svetonio e dunque producendo un ritratto ideale dell’imperatore. Secondo la tradizione, nel Natale del 770 si celebrò il matrimonio tra Carlo Magno e la principessa longobarda Desiderata (l’Ermengarda del Manzoni), ma l’anno seguente ella fu ripudiata. La motivazione di questo atto ci è oscura, ma possiamo ipotizzare che il re franco cercasse di liberarsi dalla rete tessutagli dalla madre per non inimicarsi il pontefice. Carlo dovette dunque superare le resistenze di coloro che non avevano approvato la sua azione e intanto cercò di stringere i rapporti con il fratello Carlomanno, anche lui al trono e sposato con una longobarda. Ma poco tempo dopo egli morì lasciando Carlo alla guida dell’intero regno. Desiderio, re longobardo, non avendo trovato un accordo pacifico con i franchi passò all’attacco: non riuscendo ad ottenere la consacrazione regale dei due figli del defunto Carlomanno da parte di papa Adriano I, iniziò una campagna che mirava ad assediare Roma. Il papa dunque si preparò e resistette a lungo all’attacco, ma poi dovette chiedere aiuto a Carlo. Egli inizialmente, non sicuro dell’appoggio dell’aristocrazia franca, offrì una forte somma a Desiderio perché si ritirasse dai territori della Chiesa, il quale però non accettò. Dunque Carlo, nel 773, si mosse su due fronti per accerchiare i longobardi e vi riuscì provocando il ripiegamento di Desiderio verso Pavia: la capitale longobarda venne assediata e costretta alla resa, Desiderio finì i suoi giorni in monastero, mentre il figlio ed erede al trono Adelchi (celebre per la tragedia manzoniana) non resse l’assalto nella Valle d’Aosta dove il padre lo aveva posto in difesa del territorio (la sua sorte ci resta ignota). Carlo dunque si sostituì ai sovrani longobardi lasciando intatte leggi e consuetudini. Dopo aver represso alcuni focolai di resistenza, egli si recò a Roma per battezzare con il nome di Pipino e consacrare re d’Italia uno dei suoi figli, mentre il minore Ludovico ottenne la corona d’Aquitania. Carlo si adoperò alla conversione dei sassoni che abitavano lungo il basso Weser e l’Elba. Si volse poi alla sottomissione della Baviera: il duca Tassilone aveva già giurato fedeltà a Pipino il Breve ma di fatto egli continuava una politica autonoma, per cui Carlo lo affrontò e lo sconfisse (in primo momento lo lasciò al potere, ma poi lo fece rinchiudere in monastero dotando i bavari di un altro capo). Successivamente avviò una campagna distruttiva nei confronti degli àvari (insediati a est della Baviera), i quali non rappresentavano più una grande minaccia e dunque gli consentirono una vittoria facile al fine di rafforzare il suo prestigio e per portare dalla sua parte la nobiltà francese che ancora gli era ostile. Alla desolazione causata da questo massacro fu posto rimedio con migrazioni di gruppi di contadini. Carlo aveva in precedenza tentato di intromettersi nelle lotte fra i piccoli emirati aragonesi ma, nonostante avesse fallito, l’episodio dell’imboscata di Roncisvalle (778) diverrà molto celebre e darà vita alla più tarda Chansons de Roland (dal nome del comes Rolando che vi perse la vita); in quel contesto, però, i franchi furono battuti da montanari baschi cristiani ostili al passaggio nelle loro terre, non da musulmani. Ad ogni modo il re franco riuscì ad organizzare la marca di Catalogna con lo scopo di effettuare ulteriori espansioni nella penisola iberica. Mantenne rapporti anche con la corte califfale di Baghdad (Harun ar-Rashid lo proclamò protettore dei Luoghi Santi di Gerusalemme). Carlo dunque sembrava puntare all’unificazione dell’Occidente romano-barbarico, escluse le isole britanniche, per potersi poi considerare erede degli imperatori romani d’Occidente; strumentale a questa politica era il rapporto con il papa il quale, volendosi liberare dal controllo bizantino e longobardo al fine di creare un territorio su cui esercitare un potere temporale esclusivo, aveva finito per legarsi eccessivamente a Carlo Magno. Il papato si trovava geograficamente troppo distante dall’unico potere che considerava legittimo, ovvero l’impero bizantino, dunque le serviva un centro di potere in Occidente con cui interloquire. Inoltre Carlo Magno era venuto in contatto con Costantinopoli nel momento in cui si era affacciato alla penisola italica e continuava ad avere interesse nel comunicarci, come testimoniato dalle trattative per il matrimonio tra uno dei suoi figli e la figlia dell’imperatrice Irene. Alla morte di Adriano I, venne eletto papa Leone III, un sacerdote che aveva fatto carriera nella burocrazia del precedente pontefice: il fatto suscitò subito invidie per le umili origini del papa e soprattutto per l’eliminazione, dal suo entourage, di influenti personalità del precedente pontificato. Il 25 aprile del 799 il papa si era recato in processione per celebrare la festa delle Litanie Maggiori e, mentre sostava presso la chiesa di S. Lorenzo in Lucina fu assalito e fatto prigioniero in un monastero, dove però riuscì ad evadere. Si rifugiò a Spoleto per poi partire verso Paderborn al fine di trovare la protezione di Carlo ma, contemporaneamente al suo arrivo, giunse una fazione di aristocratici romani che lo accusavano di lascivia e spergiuro. Il re franco avrebbe potuto accettare che il pontefice venisse deposto tuttavia decise, probabilmente alla luce di un attento calcolo politico, di reintegrarlo così da spingerlo in una condizione di debito nei suoi confronti. Dopo un anno di trattative diplomatiche, Carlo scese a Roma il 24 novembre dell’800 dove fu accolto secondo il cerimoniale dell’adventus Caesaris. Dopodichè il papa venne definitivamente reintegrato con la cerimonia della Purgatio per sacramentum in cui doveva negare, sotto giuramento, le colpe imputategli (era comunque un’umiliazione, per questo accettò solo il 23 dicembre) ed infine, nella celebre notte di Natale dell’800 nella basilica di S. Pietro, Carlo Magno venne incoronato imperatore da Leone III. Secondo gli Annali franchi, dopo il gesto dell'incoronazione, il papa si prostrò ai piedi dell’imperatore come da usanza orientale. Carlo dunque divenne capo di un impero che non era la ripetizione di quello romano: era nato direttamente cristiano e latino. Nelle terre dell’impero era diffusa la tendenza all’autonomia e all’autarchia, a causa del precedente periodo di polverizzazione dei poteri centrali, e anche l’aristocrazia franca non aveva il senso della cosa pubblica poiché abituata all’obbedienza tribale nei confronti del loro re. Nonostante ciò Carlo Magno amministrò il suo territorio tramite la divisione in marche e contee che affidò principalmente ad aristocratici franchi: ogni circoscrizione pubblica (contea) era assegnata ad un comes (conte), mentre le marche erano costituite da contee di confine più forti oppure da raggruppamenti di contee. Per ovviare al problema della possibile e progressiva autonomia delle zone, l’imperatore istituì i missi dominici: funzionari itineranti con il compito di controllare il comportamento di conti e marchesi. Vennero poi istituiti i Placita, cioè grandi riunioni presiedute dall’imperatore stesso durante le quali giudicava le cause che gli venivano presentate. Le nuove leggi, invece, venivano pubblicate attraverso speciali raccolte normative chiamate Capitolari. L’unità della moneta era scomparsa assieme alla pars occidentis dunque, durante il regno merovingio, si era assistito ad una proliferazione imporre la propria egemonia sui regni angli e sassoni, tranne nel Wessex dove il re tenne loro testa. I continui pericoli caratteristici del IX-X secolo diedero vita alla ridefinizione di nuovi organismi, con lo scopo di sanare i vuoti di potere. Nacquero quindi centri di potere aristocratico, per lo più sostenuti dalla forza delle armi e legittimati in seguito dal fatto che si erano assunti il potere in assenza di altri che potessero farlo. In Italia furono spesso i vescovi ad organizzare la difesa della vita politica ed economica cittadina, circondandosi di armati e creando un consiglio di cittadini più ricchi che lo coadiuvasse. In questo modo, gradualmente, l’Europa si avviava alla nascita dei Comuni. All’epoca gran parte delle vie di comunicazione erano impraticabili: il sistema viario romano era andato destrutturandosi e tanto dell’insicurezza dei viaggi era dato dalle incursioni delle masnade, le quali attorniavano gli esponenti dell’aristocrazia guerriera. Eppure, signori ecclesiastici e laici appartenenti a famiglie possidenti si impegnarono per ristabilire una convivenza civile restaurando strade, ponti ed edificando ospizi per i viandanti; a loro dunque si deve la rinascita dell’Europa occidentale con la ripresa dei commerci e degli spostamenti, scenario in cui si innesta il fenomeno del pellegrinaggio. Il bisogno di difesa aveva determinato la nascita di nuove strutture di potere, ovvero le signorie locali: all’interno di un castello, quindi di un insediamento fortificato, si trovavano la dimora del signore e del suo personale (unito al proprietario terriero da un legame di dipendenza) oltre alle varie unità produttive. Questo fenomeno è detto “incastellamento” e caratterizza, in misura e tempi diversi, tutta l’Europa occidentale tra IX e XI secolo. Il sistema vassallatico-beneficiario si basava su tre elementi fondamentali: quello reale ovvero l’oggetto concreto della concessione (beneficium); quello personale costituito dalla condizione di fedeltà (vassallaggio) che il vassus giurava al suo dominus o senior; quello giuridico cioè l’immunità giudiziaria che, nei casi di rapporti tra aristocratici d’alto rango, era il diritto ad esercitare il potere giudiziario stesso (districtus o giurisdizione). Il termine feudo deriva da una parola germanica che in origine designava gli animali da allevamento, ovvero la principale ricchezza del mondo nomade. Quando poi i popoli germanici divennero sedentari, il termine finì per rispondere al concetto di “bene posseduto”; lo stesso con cui si indicavano i terreni che i principi barbarici usavano offrire, come possesso e non come proprietà, ai guerrieri del loro seguito. Ciò significava che in origine i feudi non si potevano vendere, né alienare, né lasciare in eredità. Inoltre questo primo feudalesimo era sì caratterizzato dalla divisione di territori, ma il feudo poteva anche consistere in somme di denaro, come una sorta di salario. Il rapporto di vassallaggio poteva essere stipulato con un sovrano o un grande signore, come anche con un modesto proprietario terriero e veniva sancito dalla cerimonia chiamata “omaggio”: il vassus poneva le sue mani giunte (da qui il gesto cristiano di preghiera) tra quelle del senior e si dichiarava suo homo. In cambio il signore gli dava la sua protezione o in altri casi, tramite la cerimonia dell’investitura, gli forniva un feudo che veniva simboleggiato da un oggetto concreto, come una zolla di terra o, nel caso della concessione del diritto giurisdizionale, da una bandiera. Il terzo e ultimo elemento, quello giuridico, concedeva ai detentori di signoria feudale il privilegio di non subire, entro i confini della propria signoria, alcun controllo da parte dell'autorità pubblica. Il feudalesimo è caratteristico dei secoli X e XII ma, dopo un periodo di stallo dato dal miglioramento dell’economia monetaria, avrà una nuova esplosione tra XIV e XVI secolo e rimarrà in vigore a lungo, mentre in Francia la rivoluzione ne determinerà l’abolizione. In questo sistema però esistevano anche complesse interdipendenze: si poteva essere dominus per qualcuno e allo stesso tempo vassus di un altro signore. Come già specificato i feudi non erano ereditabili, condizione che giovava ai signori poiché si sapeva che un un bene, assegnato con diritto di farne oggetto di eredità, difficilmente sarebbe tornato al legittimo proprietario. Tuttavia con la crisi dell’impero carolingio (seconda metà del IX secolo) i grandi feudatari si mossero per appropriarsi di fatto dei feudi loro assegnati: Carlo il Calvo con il capitolare di Quierzy (877) parlava a favore della consuetudine di non togliere i feudi ai figli di un vassallo in guerra o morto, alludendo ad un principio di ereditarietà; infine con la Costitutio de feudis (1037) di Corrado II si garantiva la trasmissibilità e l’irrevocabilità anche ai feudatari minori. Nel contesto feudale esistevano anche proprietà private in cui il contadino-guerriero era un uomo libero (allodiere) la cui condizione era, però, molto pericolosa: spesso le loro terre venivano offerte ad un signore senza il loro consenso e successivamente potevano riaverle indietro divenendo suo vassallo (si parlava di feudo oblato). La signoria feudale fu dunque la risposta necessaria alla situazione dell’Europa occidentale, sia dal punto di vista difensivo che da quello economico. Infine sul piano politico, in assenza di poteri centrali, i feudatari dovettero dotarsi di fedeli collaboratori (ministeriales) in grado di coadiuvarli nelle decisioni politiche, amministrative ed imprenditoriali. L’impero “romano-germanico” e la Chiesa La polverizzazione dei poteri si presentava in rapporto a popolazioni in cui nascevano nuovi caratteri nazionali; fu infatti dallo scontro tra gruppi celtici, germanici e latini che scaturirono i primi nuclei di quelle che poi saranno le nazioni moderne. In Germania però non si delineò un destino unitario, poiché lì la popolazione era distinta in quattro grandi etnie, ognuna legata più da una compattezza linguistica che etnica: i bavari, i franconi, gli svevo-alamanni e i frisoni. Ciascun gruppo aveva a capo un dux (duca) i cui poteri derivavano da antiche tradizioni giuridiche e mitico-religiose, sebbene ora il cristianesimo fosse diffuso tra loro. Dal IX secolo i germani, inseriti nel sistema carolingio, venivano chiamati “franchi dell’est” ed il loro re veniva eletto tramite un confronto tra i quattro duchi, da questo deriverebbe il particolare carattere federale tedesco attuale. Carlo Magno aveva conquistato territori molto ad est del Reno inglobando popolazioni, anch’esse germaniche, ma non ancora o non del tutto cristianizzazione e poco permeate di cultura latina. I quattro gruppi etnici, dopo l’843, rimasero assegnati a un regno denominato Francia orientalis: il sovrano era franco, al contrario della popolazione che invece parlava una lingua aderente alle antiche parlate germaniche e divisa in vari dialetti. Sotto il profilo formale era l’aristocrazia franca a governare, ma essa doveva fare i conti con i duchi delle varie etnie che non rinunciavano alle loro antiche libertà. Il regno quindi si andò configurando come una federazione di popoli tra cui si distinsero, per la formazione di ducati, quelli che avevano a capo un dux (Franconia, Svevia, Alamannia, Sassonia e Baviera sono ancora oggi regioni storiche della Germania). Il re continuava ad essere eletto dai quattro duchi, ma aveva solo un potere formale. La situazione cambiò all’inizio del X secolo con l’elezione di Enrico l’Uccellatore, già duca di Sassonia, il quale fece costruire vaste fortezze che erano centri difensivi ma anche di gestione politica ed economica, inoltre sconfisse gli ungari (955) e assoggettò gli slavi tra Elba e Oder. Dato il suo successo, alla sua morte, i duchi elessero il figlio Ottone I: egli battè definitivamente gli ungari e gli slavi, si fece affiancare nel governo da colti membri dell’alto clero tedesco ed iniziò ad affidare varie contee ai vescovi, assicurandosi che a capo delle diocesi vi fossero sempre uomini di sua fiducia. Essi dunque si ritrovavano ad esercitare, separatamente, sia un potere laico che uno temporale (non si può parlare di vescovi-conti poiché le due funzioni erano ben distinte). Fino ad allora i vescovi venivano eletti dall’aristocrazia locale, anche se teoricamente il compito era affidato al clero e al popolo di ciascuna diocesi, ma con l’intervento regio i prelati scelti erano in linea di massima più colti, dando così un impulso positivo alla riforma morale della Chiesa occidentale. Con il legame tra istituzioni politiche ed ecclesiastiche andò scomparendo anche la consuetudine di dare in eredità l’esercizio degli uffici pubblici: i vescovi, non potendo avere figli, alla loro morte, erano costretti a restituire i beneficia affidati loro dal sovrano. I provvedimenti di Ottone I misero quindi un freno al processo di disgregazione del regno e di decadenza delle istituzioni ecclesiastiche. Le direttrici della sua politica furono sostanzialmente tre: il mantenimento della pace nel regno di Germania attraverso l’ereditarietà della corona all’interno della famiglia ducale di Sassonia, ma senza intaccare l’equilibrio dei ducati etnici; porre un freno alla disgregazione feudale mediante la concessione di feudi ad ecclesiastici ed il maggiore controllo sulla Chiesa; dialogare con l’impero bizantino per contrastarne l’egemonia in Italia. Ottone I non poteva non guardare all’Italia, sia perché voleva avviare un rapporto diretto con il papa sia perché lì si sarebbe potuto scontrare in modo diretto con l’impero bizantino. Il regno d’Italia era in preda all’anarchia feudale e la stessa corona imperiale era ormai priva di significato. Il re Berengario II aveva inflitto pesanti persecuzioni ad Adelaide, vedova del suo predecessore Lotario II e, dietro richiesta d’aiuto della donna, Ottone I colse l’occasione per scendere in Italia: sconfisse Berengario, entrò a Pavia (antica capitale del regno), sposò Adelaide e cinse la corona d’Italia collegandola a quella di Germania (955). Egli avrebbe voluto proseguire per Roma ma le minacce ungare in Germania lo costrinsero a rientrare. Anche il pontificato era in crisi poiché alla nomina papale provvedevano le varie famiglie aristocratiche romane che cercavano a tutti i costi di insediarvi un proprio membro. Tra IX e X secolo, Roma venne dominata dalla famiglia dei Tuscolo e alla scomparsa del capostipite Teofilatto, la figlia Marozia prese il potere eleggendo ben quattro papi (tra cui uno dei suoi figli, Giovanni XII). La sua condotta provocò la reazione di un altro suo figlio, Alberico, che nel 932 la costrinse all’esilio ed instaurò un regime di moralizzazione della città. Lo stesso fratello, ovvero il papa, cercherà di consolidare la sua posizione invitando Ottone I in Italia: il 2 febbraio 962 egli ricevette la corona imperiale in San Pietro, ma pretese dal papa fedeltà; inoltre si assicurò, con il privilegium Othonis, che l’elezione pontificia avesse da allora in poi la conferma imperiale. categorie di laboratores (mercanti, banchieri, artigiani…) che non potevano essere assimilate ai contadini. Come è noto, la Chiesa era divisa in chierici e laici e, a loro volta, i primi potevano appartenere sia al clero secolare (preti) che a quello regolare (monaci). A partire dai secoli XII e XIII, tra gli Ordini religiosi nasceranno alcune variazioni come quelle degli Ordini monastico-cavallereschi e quelli detti mendicanti; inoltre già dal X secolo sorgeranno congregazioni riformate dell’Ordine benedettino: cluniacensi, camaldolesi, vallombrosani, certosini, cistercensi… La schiavitù era stata limitata alle condizioni dei prigionieri non-cristiani, quindi pagani e musulmani. Nell’età precarolingia il contadino era che guerriero, ma adesso le esigenze di combattimento si erano complicate, determinando l’uso del cavallo e di equipaggiamenti più costosi: si era prodotto una sorta di “disarmo di massa” in cui l’esercizio dell'arte militare spettava ai suoi specialisti, i milites. Dall’XI secolo con l’affermarsi di nuovi ceti di mercanti, banchieri e artigiani, nelle città nacquero delle primitiva scuole primarie (private) che insegnassero a leggere, scrivere e fare di conto; mentre i ragazzi più grandi venivano avviati alla professione mercantile con le scuole di “abaco”. Dunque iniziavano a formarsi figure di professionisti come quelle dei notai o dei cronisti (scrivevano le memorie della città) che possono essere considerate l'antefatto di quella borghesia che si svilupperà solo nell'età moderna. All’interno del rapporto feudale il termine dominus, con il suo significato latino di padrone, iniziò ad essere sostituito con quello di origine militare, senior, ovvero signore e giudice. Esistevano varie categorie di vassi: le guardie del corpo del signore, la masnada, erano ricompensate con il sostentamento e con beni mobili; i vassi casati ricevevano un bene immobile su cui vivevano e, quando non avevano obblighi verso il senior, lo coltivavano. Dal X secolo va emergendo sempre più la figura del miles, il cavaliere. Egli in genere riceveva da un senior il necessario per procurarsi il costoso armamento e, con il tempo, la sua conscia appartenenza ad un'élite, porterà allo sviluppo di una letteratura specifica (chansons de geste). Con la formalizzazione del diritto feudale anche l’ingresso della cavalleria comincerà ad essere regolato da una cerimonia, l’addobbamento, che consisteva nella concessione delle armi e in segno (uno schiaffo o un colpo sulla nuca del neocavaliere, come lo schiaffo che si dava al soldato romano e che nel rito cristiano della cresima si è trasformato in una specie di carezza). L’idea che all’alba dell’Anno Mille la popolazione si fosse radunata tremante presso chiese e monasteri in attesa del Giudizio Finale è da considerarsi falsa, infatti essa corrisponde alla visione romantica attribuita dalla storiografia ottocentesca. Inoltre all’epoca era impossibile determinare in modo uniforme quando esso dovesse scattare, poiché il “Capodanno” era assegnato ad un periodo diverso dell’anno ma soprattutto lo stesso conteggio degli anni non era uniforme: la datazione di Dionigi il Piccolo (VI secolo), che aboliva l’era dei martiri e introduceva quella di Cristo fissando la nascita di Gesù al 25 dicembre dell’anno 753 di Roma, era stata accettata a stento ma non aveva toccato ad esempio la penisola iberica e le aree culturalmente bizantine. Dunque la Fine dei Tempi era sì attesa dai cristiani, poiché contenuta nell’Apocalisse, ma non costituì un fenomeno unitario. Dall’VIII secolo l’economia cominciò a registrare una tendenza positiva, soprattutto grazie al miglioramento che si ebbe nel settore agricolo: venne introdotta la rotazione triennale che, dividendo il terreno in tre parti (cereali invernali, cereali estivi e riposo), permetteva un raccolto maggiore rispetto all’antica tecnica romana; la diffusione sempre più massiccia del mulino ad acqua, dell'aratro a versoio (quello romano però rimase diffuso nei paesi mediterranei) e dell’attacco “di spalla” degli animali da tiro. Inoltre, nei primi del X secolo, si verificò un miglioramento climatico e un conseguente incremento demografico. Le fonti ci consentono di affermare che l’aumento della popolazione fu costante fino al XIII secolo, quando si verificò un ristagno a preludio della regressione del Trecento. Ovviamente la crescita demografica non fu uguale in tutta Europa, ma fu più forte nella zona dell’Ile-de-France, del Reno, nella pianura padana e in Toscana. I beni pregiati cominciarono ad essere maggiormente richiesti (ad esempio per l’armamento dei milites), per fare ciò ci si rivolgeva agli empori orientali come Alessandria e Costantinopoli che però non potevano essere pagati con la modesta valuta argentea che circolava in Europa. L’oro infatti era molto raro e veniva utilizzato principalmente per il vasellame ecclesiastico e i reliquiari, dunque le signorie territoriali si adoperarono per diffondere le proprie monete attraverso fiere e commerci; attività che comportavano grande affluenza di gente, quindi il miglioramento delle vie di comunicazione e una gestione del proprio feudo sempre più imprenditoriale. Le strade romane erano state costruite grazie alla forza schiavistica ma, nell’Alto Medioevo, in Occidente, queste erano state in prevalenza deviate (ad esempio invase dalle paludi o ridotte a cave di pietra per la costruzione di edifici, in maggioranza chiese). Le strade medievali, al contrario, erano sterrate e tortuose perché seguivano la naturale conformazione del terreno; inoltre il loro attraversamento era pericoloso, se non anche molto costoso a causa dei dazi imposti. Dunque, nel momento della rinascita commerciale, il trasporto delle merci si configurava come misto: per via fluviale aveva costi minori ed era più sicuro, ma a volte non era possibile continuare né in barca né per via terrena e si doveva ricorrere al dorso di mulo, come nel caso dei passi di montagna. Il mondo musulmano tra VIII e X secolo Il califfato omayyade di Damasco si era ormai trasformato in una sorta di impero ereditario ma la situazione mutò con il crescente contrasto tra la dinastia e la potente famiglia degli abbasidi: costoro avevano il loro centro di potere in una zona marginale, il Khorasan, ma lì iniziarono a trovare un punto in comune con i locali islamizzati nella critica alla politica fiscale degli omayyadi. Essendosi conquistati le simpatie degli sciiti, quando questi sconfissero il califfato omayyade provocandone il rovesciamento (749), gli abbasidi scelsero il califfo nella propria linea di discendenza ponendo al potere Abu Abbas (discendente da uno zio di Muhammad, scelse il nome di al-Mansur ovvero “il vittorioso”). Egli fondò la città di Baghdad e la scelse come nuova capitale ad indicare lo spostamento del baricentro del califfato nell’area mesopotamica-persiana e l’abbandono del modello bizantino. Un membro della famiglia omayyade riuscì però a raggiungere Cordoba, nella penisola iberica, dove fondò un emirato (dall’arabo “emir” significa principe) per poi ottenere il titolo di califfo. Un discendente della famiglia di Ali di nome Idris, sfuggito alla repressione omayyade, trovò rifugio nella zona che oggi è il Marocco e vi attuò un’opera di unificazione delle tribù berbere che, nonostante non aderissero al ramo sciita, lo elessero loro imam. Diede vita alla dinastia degli idrisidi che, come gli abbasidi, aveva dalla sua parte la volontà delle popolazioni islamizzate di sottrarsi alla leadership araba per attivare governi locali. La regione marocchina aveva come punti di forza le città romane come Tangeri e Volubilis, in cui era ancora attivo il commercio, ma Idris e suo figlio Idris II fonderanno la città di Fez che sarà anche la capitale dell’emirato. Con la morte di Idris II il territorio passò sotto suo nipote Muhammad, ma egli decise di tenere per sè solo la regione di Fez e di dividere il resto tra i suoi sette fratelli. Nel Maghreb centrale si impiantò invece una dinastia legata al kharigismo, quella dei bani rustam e successivamente, tra le tante che vi si avvicendarono, ritroviamo quella degli aghlabiti che doveva governare per conto degli abbasidi. Secondo la tradizione, dalla Siria partì nel 652 la prima spedizione degli “agareni” (per la Bibbia figli di Agar, più noti come saraceni) verso le coste nord-ovest del dominio bizantino, ovvero la Sicilia. Più drammatico fu poi l’assalto a Siracusa (669) da parte di corsari provenienti dall’Egitto, ma l’azione più incisiva veniva organizzata dagli emirati maghrebini in Sicilia, nel Tirreno e nel sud della penisola iberica. Il governo bizantino riuscì a reagire solo in un secondo momento costruendo torri di guardia costiera e istituendo un servizio di squadre navali che intercettasse i vascelli corsari; inoltre il basileus strinse rapporti diplomatici con alcuni emiri arabo-berberi, così come si dice che Napoli abbia invocato l’aiuto dei saraceni per contrastare bizantini e longobardi: dunque la fede con costituiva ragione di alleanze militari, tant'è vero che lo scopo dei saraceni non era quello di annientare gli “infedeli” ma la ricerca di basi strategico-commerciali (nel caso della Sicilia, erano attratti dalla ricchissima produzione di grano). La conquista della Sicilia fu principalmente opera della dinastia aghlabita: partendo dall’emirato di Tunisi nell’827 la conquista fu completata solo ai primi del secolo successivo, ma la ritorsione franca si abbattè poco dopo sulle coste tunisine dove una campagna militare venne guidata dal comes toscano Bonifacio (a lungo è stata impropriamente definita come prima precrociata). A loro volta i tunisini assalirono il porto di Roma nell’829, Centumcellae (Civitavecchia), giungendo nella Tuscia, nella Maremma, nella Sabina e addirittura saccheggiando le basiliche suburbane di San Pietro e San Paolo, subito fuori le mura di Roma. Successivamente l’Urbe subì altri due attacchi e in occasione dell’ultimo (849) papa Leone IV fece circondare di mura l’area del santuario vaticano, da qui “città leonina”. Le incursioni continuavano a risalire il Tirreno raggiungendo Ponza ed Ischia, ma si diressero anche in Calabria, in Sardegna e in Corsica. I litorali tusco-laziali però erano indenni dal flagello poiché già dal 780 Carlo Magno aveva fatto organizzare due distinte flotte, la classis Aquitanica e la classis Italica, per fronteggiare il pericolo. Nuove razzie e violenze furono poi favorite dalle discordie tra bizantini e longobardi, oltre al fatto che gruppi di saraceni impiantati nel territorio salernitano fecero pervenire notizie all’emiro di Palermo: venne assalita Taranto e una squadra navale veneziana (intervenuta in aiuto dei bizantini e per salvaguardare le proprie rotte verso Alessandria), mentre a Bari venne fondato un emirato. Principali scopi delle incursioni erano la razzia di beni e di gente con cui alimentare il commercio schiavistico, l'instaurazione di colonie militari e la creazione di veri insediamenti. La storiografia occidentale ha descritto tutto ciò definendola pirateria e dimenticandosi che, attorno agli inizi dell’XI secolo, la situazione si permetteva floridi raccolti e spettacolare era la reggia del califfo (prima nella capitale e poi poco fuori la stessa). Nel califfato di Cordoba però gli arabi non si erano mai veramente integrati ai berberi perché, considerandosi i soli autentici eredi del Profeta, li disprezzavano. Tuttavia andava consolidandosi una moderata integrazione tra arabo-berberi e discendenti dei latini, dei celti e dei germani. Dopo Abd ar-Rahman III, si distinse per il suo operato il visir (consigliere, ministro del califfo) al-Mansur: egli obbligò il regno cristiano di Leon a riconoscersi vassallo del califfo di Cordoba e nel 997 saccheggiò il santuario di Santiago di Compostela, ma le reliquie non vennero profanate. Alla sua morte erano scoppiate delle contese dinastiche all’interno della famiglia califfale che avevano portato alla creazione di vari emirati nella Spagna musulmana, ovvero i cosiddetti “reinos de taifas” (regni delle fazioni); le genti basco-navarre invece erano riuscite a mantenere una certa indipendenza e insieme a galiziani, cantabrici e asturiani organizzarono, verso la metà del IX secolo, il principato di Navarra da cui poi sarebbe partito il fenomeno della reconquista. I regni cristiani che, nell’XI secolo, si andranno a formare nella penisola iberica saranno caratterizzati da una società dominata dalla guerra e dallo spirito di avventura cavalleresca, al pari di quelli al di là dei Pirenei, ma saranno arretrate economicamente rispetto al mondo arabo e bizantino. L’Africa settentrionale era divisa tra dominio fatimide (sciita) e omayyade (sunnita) ed è per questo che i territori al confine tra i due divenivano facilmente aree di conflitto. Dunque i califfi si Cordoba, timorosi dell’espansione sciita, cercarono di creare una zona cuscinetto nel Marocco settentrionale: si diedero da fare per rendere sunnite le dinastie tribali berbere dell’area. Anche il mondo musulmano asiatico fu soggetto a continue lotte dinastiche, ma questo non arrestò certamente l’affermarsi di principati anche molto potenti. Ad esempio, l’età dell’oro per l’Islam in Asia centrale si verificò con la dinastia samanide, formalmente sotto gli abbasidi ma di fatto autonoma: i commerci si estendevano dalla Cina all’Europa orientale, e perfino alla Svezia; soltanto l’avanzata selgiuchide ne determinerà la fine. Sotto la dinastia abbaside dunque il dominio musulmano si estendeva dalla Cina all’oceano Atlantico, ma con molteplici contrasti interni e squilibri sociali. I commerci erano floridi e, sebbene gli uomini dei singoli convogli mercantili si muovessero solamente di oasi in oasi, le merci viaggiavano moltissimo insieme ad idee e culti. Bisanzio e l'Oriente europeo Con il fallimento giustinianeo nell’ambito dell’unificazione dell’impero, Costantinopoli aveva sviluppato sempre più un’influenza sull’Asia sud occidentale e sull’Europa orientale ma ora, con l’avvento dell’Islam, aveva perso terreno. Inoltre i rapporti con l’occidente erano ormai scarsi, considerato soprattutto il crescente potere della sede patriarcale romana: le rimanevano solamente i territori dell’Italia meridionale e le due isole che, tuttavia, le stavano anch'essi sfuggendo di mano. La pars orientis aveva conservato le istituzioni romane, ma il suo esercito era in gran parte costituito da mercenari barbari e il greco si era ormai sostituito completamente al latino (per questo, tra VII e XV secolo, lo denominiamo impero bizantino). Con la pressione dell’Islam, l’impero necessitò di una forte militarizzazione e ad essa provvidero le riforme del basilues Maurizio e poi di Eraclio. I successori di quest’ultimo, dovendo concentrare tutte le forze dell’impero contro gli arabi, furono obbligati ad abbandonare la penisola balcanica poiché preda degli slavi; per quanto essi dovettero, grazie all’azione risoluta di Costante II e poi di Costantino IV Pogonato, riconoscere formalmente la sovranità imperiale bizantina. Intanto, tra 674 e 678, gli arabi giungevano ad attaccare Costantinopoli. Nel VII secolo la potenza musulmana aveva strappato ai bizantini Siria, Palestina ed Egitto, mentre tutte le conquiste giustinianee del Mediterraneo occidentale venivano gradualmente abbandonate. Un’altra conseguenza, questa volta indiretta, dell’espansione musulmana fu la formulazione dell’eresia iconoclasta, sostenuta dagli imperatori della dinastia isaurica. Tra la fine del VII e l’inizio dell’VIII secolo si assisté alla fine della dinastia eracliana e ai tumulti che essa causò: si susseguirono al trono ben sei basileus, l’ultimo de quali, Giustiniano II Rinotmeto, era risalito al potere attuando una politica di repressione verso gli oppositori che lo avevano detronizzato. Nel 717 riuscì ad emergere Leone III, conosciuto come “Isaurico” poiché fondatore della dinastia originaria dell’Isauria, regione a confine tra Anatolia e Siria da cui provenivano fieri guerrieri fin dall’antichità. Egli ristabilì l’ordine e liberò Costantinopoli da un assedio arabo, ma è ricordato soprattutto per aver proibito in tutto l’impero il culto delle immagini sacre, che anzi furono per decreto sovrano soggette a distruzione (iconoclastia). Questo portò ad una lunga crisi e facilitò ancora di più il distacco con la Chiesa latina, la quale considerava eretico il basileus. Da parte sua Leone III, con la lotta iconoclasta, tendeva ad avvicinarsi alle tradizioni ebraiche e musulmane ma le sue motivazioni ci appaiono ancora oggi poco chiare in quanto anche il califfato di Baghdad era molto permissivo a proposito delle immagini; inoltre le stesse icone costituivano fonte di pellegrinaggio, e quindi di ricchezza, presso i monasteri orientali. L’atto formale con cui si avviava la campagna iconoclasta fu la distruzione dell’icona di Cristo (727) affissa sopra la Chalkhè, la porta bronzea del palazzo imperiale di Costantinopoli. Dunque con Leone III, poi con il figlio Costantino V, le immagini venivano distrutte e chi le fabbricava poteva incorrere nella condanna capitale. In questo modo si andavano schierando, contro i bizantini, il papato e l’impero carolingio che d’altronde ne ricavavano anche un pretesto per rompere definitivamente con l’Oriente. È forse anche per questo che, nella tradizione occidentale, è stato passato sotto silenzio che fu proprio Leone III a fermare gli arabi nel 717-718, preferendo invece coniare il mito della battaglia di Poitiers. Le vittorie bizantine continuarono con Costantino V, ma ormai la penisola anatolica era quasi del tutto perduta e la sopravvivenza di Bisanzio era affidata alla continua guerra di frontiera. La penisola balcanica era stata interessata dalle ondate dei popoli nomadi provenienti dalle steppe dell’Asia (di ceppo uralo-altaico oppure slavi, quindi di origine indoeuropea). Il primo popolo ad insediarsi in modo consistente fu quello degli àvari: originari della Mongolia, quindi uralo-altaici, avevano sospinto i longobardi verso nord-ovest per insediarsi in Pannonia. Un altro popolo fu quello dei bulgari, i quali vennero inizialmente accettati come confederati del basileus Costante II ma poi, divenuti una minaccia, vi si scontrò infelicemente Costantino IV Pogonato. I bulgari riuscirono così ad assoggettare le popolazioni slave che là soggiornavano e li integrarono nella propria fanteria. Gli slavi erano conosciuti da Plinio il Vecchio, Tacito e Tolomeo come veneti o venedi, più tardi furono noti come “vendi”: erano originari del Prypjat, una regione paludosa oggi al confine tra Bielorussia ed Ucraina, e verso il VI secolo si stanziarono tra basso Danubio e Alpi orientali. Essi si distinguevano per affinità linguistiche ed etniche in slavi orientali, occidentali e meridionali. La colonizzazione da parte di Carlo Magno, la distruzione del regno àvaro e la conseguente immigrazione ungara spezzarono in varie parti gli insediamenti slavi e, nel X secolo, gli slavi del sud vennero assoggettati dall’arrivo dei sassoni (da qui la sostituzione del termine “sclavus” a quello latino di “servus”). Alla dinastia isaurica successe quella amoriana che si impegnò nell’evangelizzazione delle genti slave: il khan (capo) Boris di Bulgaria accettò il battesimo e assunse il titolo di imperatore subordinato, ovvero di caesar (nella tradizione slava venne tramandato nella forma fonetica di czar, da cui zar). Lo stesso faceva la Chiesa di Roma sotto l’egida della monarchia carolingia: dopo i dissapori nati a proposito dello “scisma dei tre capitoli” e della lotta iconoclasta, la concorrenza tra i due patriarcati delle due sedi imperiali era crescente. Nell’867 il patriarca Fozio avviò un vero e proprio scisma contro la Chiesa romana accusandola di aver manipolato le conclusioni del concilio di Nicea e aggiungendo al suo documento conclusivo il Symbolon (una formula secondo la quale lo Spirito Santo procedeva sia dal Padre che dal Figlio). Papa Niccolò I lo scomunicò ma egli, tornato nuovamente sulla cattedra patriarcale, fu allontanato per la seconda volta così come sarà scomunicato da Giovanni VII ed infine deposto. Fozio fu un grande mediatore tra cultura classica e cristiana, infatti di suo ci rimane la “Bibliotheca”: una vastissima ma disordinata raccolta di opere della letteratura greca, sia pagana che cristiana. Nuovo attrito tra le due Chiese si verificò con Ottone I che rinnovò la funzione imperiale in occidente, ovviamente non riconosciuta in oriente; a lungo andare la situazione sfociò nel cosiddetto “scisma d’Oriente” (1054). Un evento molto importante promosso dalla Chiesa di Bisanzio fu l’evangelizzazione del vasto territorio in cui erano insediati gli slavi orientali che, forse da un termine di origine finnica, era chiamato “Rus”. Esso era controllato da un gruppo di principati, ognuno dei quali era fondato come città-mercato attorno ad una fortezza o ad una cattedrale, ed era abitato dai variaghi (predoni normanni). Tra le città che vi sorgevano ricordiamo Kiev e Novgorod, mentre Mosca sarà fondata solo nel XII secolo. Dopo la dinastia amoriana salì al trono bizantino quella macedone: Basilio I “il Macedone”, santo per la Chiesa greca, proveniva da una regione di frontiera a nord-ovest dell’impero e per questo era stato profondamente segnato dalla sua professione militare. Egli, come il suo successore Leone IV, attuò una riforma del diritto giustinianeo aggiungendo alcune raccolte di nuove leggi. A Costantinopoli l’aristocrazia militare monopolizzava le cariche pubbliche e se ne serviva per accrescere le sue grandi proprietà terriere rovinando i piccoli proprietari; in questo modo la società bizantina del X secolo era composta da una ristretta aristocrazia e una massa di piccoli agricoltori impoveriti. Nel 969 una congiura di palazzo condusse alla sostituzione del basileus Niceforo II Foca (vittorioso contro gli arabi) con un altro valoroso generale e, alla sua morte, il potere ricadde nelle mani di un altro esponente della dinastia costituirsi a modello d’indipendenza dai poteri temporali, dunque il duca rinunciò al patronato su di essa, ma lasciandola comunque alla Sede pontificia, per evitare che qualche vescovo pretendesse di esercitarvi forme di controllo. Sul suo modello nacquero in Europa monasteri che, rifiutando qualsiasi forma di patronato, si affidavano a quello pontificio: Cluny si trovò a capo di una vera e propria congregazione. Tuttavia tra i suoi avversari figurava l’imperatore Enrico II, il quale diffidava dall’esperimento cluniacense preferendo l’abbazia di Gorze che ugualmente sosteneva un monachesimo rinnovato, ma senza sottrarsi all’autorità dei vescovi delle diocesi locali né a quella dello stesso imperatore. I monaci cluniacensi diedero vita al pellegrinaggio al santuario di Santiago de Compostela, che sostituiva il fine devozionale di vere e proprie spedizioni militari volte a combattere i mori in Spagna; inoltre con le “leghe di pace” essi rientravano nel movimento della pax Dei (misura presa dalla Chiesa a rimedio delle continue guerra feudali che colpivano soprattutto i più poveri). Essa delimitava i periodi e i giorni in cui la guerra era lecita ed indicava i luoghi e le categorie contro i quali non si potevano compiere violenze, pena la scomunica. L’imperatore Enrico III si impegnò da subito a proseguire nella linea di condotta stabilita dai suoi predecessori in materia di intervento nella nomina dei vescovi. Costoro, investiti dal sovrano di beneficia, risultavano essere suoi funzionari ed era per questo che egli esigeva un comportamento più consono: cominciò a scegliere i vescovi anche dai monasteri e dai ceti emergenti cittadini, ma soprattutto si pose il problema dell’elezione papale (ormai mera contesa tra famiglie romane). Nel 1046 dunque scese a Roma per cingere la corona imperiale, come da tradizione, ma si intromise anche nel sinodo preso Sutri che stava designando il nuovo papa: egli scalzò via i tre candidati che si contendevano il soglio di Pietro ed impose il vescovo di Bamberga, il quale assunse il nome di Clemente II. Questo suo comportamento andava oltre il privilegium Othonis, quindi molti cristiani rigoristi iniziarono ad allontanarsi dal suo programma di riforma. Clemente II morì l’anno dopo, quindi Enrico III innalzò al soglio pontificio Bruno vescovo di Toul, proveniente da una nobile famiglia alsaziana, che prese il nome di Leone IX. Egli accettò l’elezione imperiale ma iniziò anche a circondarsi di collaboratori noti per la loro ferma volontà riformatrice (come Umberto di Silvacandida, monaco poi cardinale); d’altronde lui stesso era convinto della necessità di una riforma radicale e, sapendo che difficilmente l’imperatore lo avrebbe appoggiato, decise di trovarsi nuovi alleati: in un primo tempo li identificò nel governo bizantino di Puglia, ma esso era alle prese sia con la ribellione delle comunità cittadine del sud d’Italia sia con gruppi di avventurieri normanni. Il papato vedeva in quest’ultimi dei pericolosi nemici, tant'è vero che essi erano insediati in aree prossime al Patrimonio della Chiesa. Fu così che le truppe bizantine e pontificie li attaccarono, ma ne uscirono sconfitti nella battaglia di Civita (1053) dove tra l’altro il papa venne fatto prigioniero. Dal canto loro i normanni sarebbe sì riusciti facilmente a conquistare il meridione, ma avrebbero avuto bisogno di un’autorità che legittimasse il loro sovranità contro le pretese del basileus; dunque il papa accettò i normanni come vassalli di quelle terre ed in cambio pretese la sostituzione della Chiesa latina a quella greca in tutta l’area. Alla rottura con il mondo greco penserà Umberto di Silvacandida che si porrà in conflitto con il patriarca costantinopolitano Michele Cerulario a proposito di temi puramente teorici ma all’epoca centrali. Dunque lo scontro tra le due Chiese si faceva sempre più acuto, soprattutto riguardo alla dottrina del primato di Pietro seconda cui Roma doveva esercitare un’egemonia sulle altre sedi patriarcali, e sfocerà nella scomunica reciproca dei due patriarchi (scisma d’Oriente). Ora Enrico III aveva contro si sé sia i fautori della vecchia Chiesa che i riformisti. Alla sua morte egli lasciò il figlio ancora piccolo sotto la reggenza della moglie e di questo vuoto di potere approfittarono i riformatori: scelsero un nuovo papa nella persona di Federico di Lorena che assunse il nome di Stefano IX, il quale non riteneva opportuno tenere rapporti troppo cordiali con i normanni. Al contrario il suo successore Niccolò II, nel sinodo laterano del 1059, stabilì che il papa dovesse essere scelto da un collegio di preti e diaconi della città di Roma e dai vescovi delle diocesi locali, ovvero i cardinali, nessuno ecclesistico avrebbe più potuto accettare cariche da un laico e il celibato sarebbe stato strettamente obbligatorio. Il secondo di questi punti danneggiava l’imperatore e indicava in lui la causa della simonia dei prelati; inoltre vescovi tradizionalisti non avevano nessuna voglia di vedersi esautorati sulla base dell’alibi delle elezioni simoniache, quindi si opposero al papato. Nel 1061 raggiunse il soglio pontificio il capo dei patarini, Anselmo di Baggio, con il nome di Alessandro II. Di risposta la reggente Agnese fece indire un concilio a Basilea in cui venne eletto papa Cadalo, vescovo di Parma. Tuttavia Alessandro II si dimostrò in armonia con le tesi riformatrici e per fare ciò il pontificato doveva diventare il centro di ogni potere: concesse il vessillo di San Pietro ai capi di varie campagne di conquista come quella dei normanni in Sicilia o quella di Sancho d’Aragona contro i musulmani di Spagna. Il suo successore, Gregorio VII, contribuirà a portare avanti il suo stesso programma poiché egli era colui che lo aveva ideato: Ildebrando di Soana, l’ormai riconosciuto capo del movimento riformista. Nel 1075 egli proibì a tutti i laici di investire un qualunque ecclesiastico, pena la scomunica, e nel 1078 con il Dictatus papae sancì la superiorità assoluta del potere papale, il quale era in grado di deporre gli stessi sovrani laici. Il giovane imperatore Enrico IV era già passato al contrattacco: in un sinodo a Worms si era riunita la Chiesa fedele all’imperatore e aveva scomunicato e deposto Gregorio VII (1076). A sua volta il papa scomunicò l’imperatore sciogliendo così i suoi sudditi dal dovere di fedeltà, sapendo che in Germania l’alta nobiltà avrebbe preso a pretesto tutto ciò per negargli l’obbedienza, dopo che l’imperatore non li aveva sostenuti nella lotta con la piccola feudalità e i centri urbani e, anzi, aveva favorito quest’ultimi due. Dinanzi alle prospettive di ribellione interna, l’imperatore dovette accordarsi con il papa: i due si incontrarono nell’inverno del 1077 presso la rocca di Canossa, dove il papa era ospite della contessa Matilde. Qui Enrico IV si inginocchiò sulla neve e chiese perdono al papa, compiendo dunque un gesto che al tempo stesso lo glorificava poiché mostrava di seguire nell’umiltà l’esempio di Gesù; il papa, onorato da tale gesto, non potè astenersi da perdonare il sovrano. Enrico IV riprese dunque il controllo della situazione, nonostante i suoi avversari tedeschi gli avessero opposto Rodolfo di Svevia come “antire”, rivendicando le sue precedenti posizioni, fu allora che nel 1080 il papa lo scomunicò nuovamente. Egli rispose con un concilio, indetto a Bressanone dai vescovi a lui fedeli, in cui si addossava al “falso monaco Ildebrando” tutto il male che si era rovesciato sulla Cristianità e, deponendolo, si eleggeva come nuovo papa Clemente III. In quel momento il pontefice non poteva contare neppure sui normanni, impegnati nell’assalto all’impero bizantino, dunque il sovrano poté facilmente entrare a Roma grazie anche all’appoggio di molti membri dell’aristocrazia romana, per consacrare il nuovo papa e ricevere dalle sue mani la corona imperiale. Gregorio fu salvato da un intervento normanno: venne condotto a Salerno, dove vivrà malinconicamente i suoi ultimi giorni. Si andava facendo strada la sensazione che si dovesse trovare un accordo tra le due parti con l’inizio di una fase di riassestamento e di pacificazione: i riformatori estremisti erano giunti ad una politica di deposizioni priva di senso che accusava di simonia qualunque prelato. Si ebbe così un graduale abbandono della causa di Enrico IV e un avvicinamento a quella del papato. Con il successore di Gregorio VII, ovvero Urbano II, si tese a rafforzare il potere dei vescovi e a restaurare addirittura alcuni ex “enriciani” sulla loro cattedra. Il problema delle investiture di certo continuava, quindi erano necessari uomini nuovi: l’imperatore era stato costretto ad abdicare e sul trono era salito Enrico V. Egli, insieme al nuovo papa Callisto II, firmò il concordato di Worms (1122): ai vescovi veniva riconosciuta una funzione spirituale e temporale e la loro elezione sarebbe avvenuta in ogni diocesi sotto l’esclusivo controllo del clero e del popolo; in Germania l’imperatore vi avrebbe direttamente o indirettamente presenziato e avrebbe concesso al nuovo vescovo, prima che venisse consacrato, l’investitura di benefici temporali, mentre in Italia e in Borgogna era la consacrazione episcopale a precedere quella feudale. Nel 1123 si tenne a Roma il primo concilio ecumenico della Chiesa occidentale (il Concilio Laterano I) in cui vennero ribadite l’organizzazione gerarchica della Chiesa e il primato di Roma sulle altre Chiese. La riforma della Chiesa aveva dato comunque i suoi frutti nella nascita di nuovi movimenti monastici che avevano fatto riscoprire all’Occidente l’eremitismo, fino ad allora patrimonio più specifico dell’Oriente. Si trattava della congregazione degli Ordini benedettini che cercavano di “fuggire” dal mondo, nel senso di dominazione delle proprie passioni terrene. Tra questi l’Ordine dei cistercensi: nato a Citeaux, da cui prende il nome, si ispira in modo estremamente rigoroso alla regola benedettina ed è dunque in opposizione con il programma di Cluny (i monaci indossavano cappe di tessuto grezzo e le abbazie, sorte i luoghi isolati, erano prive di abbellimenti secondo il volere del mistico Bernardo di Clairvaux). Nel XII secolo l’Ordine si diffuse in tutta Europa e in Italia ricordiamo le abbazie di Casamari e Fossanova. L’esponente principale di tale movimento fu Bernardo di Clairvaux: egli lottò per la liberazione della Chiesa dalle eresie e dalla mondanità, inoltre egli si poneva criticamente rispetto all’affermarsi della cultura e alla maggiore circolazione del denaro nelle città. Il coinvolgimento del mondo monastico a favore della riforma aveva condotto gli stessi monaci a sviluppare, molto più che in passato, un’azione pastorale che li aveva portati al di fuori dei monasteri. Tuttavia, molto presto gli stessi vertici ecclesiastici individuarono la necessità di porre un freno a rilievo assunto dagli Ordini monastici: nel concilio Lateranense del 1123 si decretò che i monaci dovessero essere sottoposti ai vescovi e gli venne impedito di celebrare pubblicamente l’attività liturgica. Ciò che mancava era una riforma effettiva della cura animarum: bisognava aggiornare i contenuti e i tempi della predicazione raggiungendo anche i fedeli nelle campagne, dove il cristianesimo si era fuso con antiche tradizioni pagane. Di fronte a queste carenze, i laici reclamavano in modo sempre crescente un proprio ruolo all’interno dell’ecclesia. Già nella seconda metà dell’XI secolo, tale richiesta si era allo scisma d’Oriente (1054). Alla fine dell’XI secolo salì al potere la dinastia dei Comneni: Alessio I Comneno aveva avversato sia l’instaurarsi di un potere normanno in Italia meridionale, sia il costituirsi di un “regno franco” nel Vicino Oriente a seguito della prima crociata (al fine di non compromettere la preminenza bizantina nel Mediterraneo orientale). Con il suo successore, Giovanni, l’impero giunse quasi alla rottura con la sua stessa tradizionale alleata, ovvero Venezia ed inaugurò una nuova linea politica contro il regno normanno di Sicilia (si schierò con il papa e l’impero romano germanico). Tale alleanza non ebbe però lunga durata: Federico Barbarossa, sicuro di voler piegare la Chiesa ai propri voleri, ruppe l’intesa e Bisanzio dovette scegliere da che parte stare. Se l’imperatore si presentava come erede della tradizione dell’Antica Roma, era ovvio che il basileus lo individuasse come nemico, ma ciò significava anche rovesciare la precedente alleanza poiché ora il papa era in rapporto con i normanni. Manuele Comneno stipulò invece una larga rete di alleanze che comprendeva il papa, il re normanno di Sicilia, Venezia, i Comuni italiani, alcuni grandi principati della penisola italica e i principati franchi in Terrasanta. Essa aveva lo scopo di vincere sul Barbarossa, ma forse rientrava in una sorta di politica “neogiustinianea” che si sarebbe realizzata se avesse instaurato buoni rapporti con vicini orientali, ovvero i principati turco-musulmani di Anatolia. Tuttavia da quelle forze fu sconfitto in battaglia e poco dopo morì. L’Islam e l’Europa Tra XI e XII secolo il dar al-Islam era immenso: buona parte della penisola iberica, il nord Africa, tutta l’Asia occidentale e centrale e perfino nell’India settentrionale. In esso però non vi era nessuna unità politica, poiché era diviso in vari potentati spesso nemici tra loro e soprattutto vi era una continua contrapposizione tra sunniti e sciiti. In questo medesimo periodo, subentrò un popolo di origine etnica e linguistica diversa sia da quella semitica degli arabi, sia da quella indoeuropea dei persiani: i turchi (di ceppo uralo-altaico). Essi erano originari dell’Asia nord-orientale e, dopo una lunga serie di migrazioni, erano giunti ad occupare i territori che andavano dall’India alla Persia; erano una grande confederazione di tribù a capo della quale stava un khan. Nel corso dell’XI secolo una tribù originariamente turkmena che, dal nome del loro khan Selgiuq, noi denominiamo selgiuchide giunse a rafforzare con la sua fede giovane e la sua forza militare il pericolante potere del califfo abbaside di Baghdad. Furono dunque islamizzati e iranizzati nei costumi e fondarono un impero che andava dall’Anatolia alla Persia centrale. A capo di esso il khan aveva ormai assunto il titolo di sultano e risiedeva a Baghdad in una sorta di diarchia con il califfo. I turchi erano divenuti famosi in Europa nel 1071, quando avevano battuto clamorosamente l’esercito bizantino nella battaglia di Manzikert e avevano fondato il sultanato che fu detto “di Rum” (in arabo la nuova Roma, cioè Costantinopoli) con capitale Iconio. Un grave colpo all’attività corsara nel Mediterraneo era stato dato dall’elezione di papa Giovanni X: egli aveva deciso di liberare il Patrimonio di San Pietro dalle continue incursioni saracene che si alimentavano grazie agli insediamenti realizzati sul Garigliano, in Sabina e presso Sutri. Egli, nel 915, aveva fatto appello al re d’Italia Berengario offrendogli la corona imperiale e in effetti l’anno dopo arrivarono in aiuto truppe franco-italiche sostenute dai longobardi e dalle città bizantine del meridione che ebbero successo sulla piazzaforte del Garigliano. Tutta la situazione mediterranea risentiva della crisi dell’Islam verificatasi con il contrasto tra i Fatimidi e l’emiro sunnita di Palermo, Ibn Qurub: egli, per sostenere la propria autorità e per rifarsi economicamente delle spese affrontate in politica, organizzava incursioni in Calabria che culminarono con l’orribile massacro di Oria presso Otranto (925). Queste scorrerie cessarono solo perché il governo patriziale bizantino di Calabria accettò di pagare un forte tributo ma, con il fatto che esso non fosse regolare, scatenava spesso delle rappresaglie. Durante una di esse, nel 928-929, furono saccheggiate Otranto e Tiriolo. I Fatimidi maghrebini guardavano ormai con interesse crescente anche l’Italia settentrionale e fu così che Genova fu assalita e saccheggiata per due volte di seguito (934-935). Nel 976 i bizantini, rinforzati da una squadra pisana, sbarcarono di sorpresa a Messina, ma la controffensiva dell’emiro di Palermo investì Reggio, Taranto, Otranto, Oria e Gallipoli; la violenza di questa campagna provocò la risposta dell’imperatore romano germanico Ottone II, a ciò spronato dalla moglie, la principessa bizantina Teofane. Il sovrano sassone sembrava quasi voler riprendere i disegni di egemonia sul meridione peninsulare degli imperatori franchi del secolo IX: occupò Salerno e Taranto, ciò indusse il governo di Costantinopoli a chiedere aiuto ai saraceni di Sicilia ed d’Africa. I sogni di conquista di Ottone si infransero però sul campo di battaglia di Capo Colonna il 15 luglio del 982, in cui riuscì a fuggire alla cattura. Pare che avesse giurato di vendicarsi, ma morì l’anno successivo. Il potere bizantino ebbe dunque modo di radicarsi di nuovo in Puglia in Calabria, ma anche le incursioni saracene ripresero: nel 986 fu saccheggiata Gerace; nel 987 l’area di Cassano Ionio; nel 988 Cosenza, quasi tutta la Calabria, la Terra di Bari; nel 991 fu devastata l’aria prossima a Taranto, per difendere la quale caddero molti baresi; nel 994 fu assediata a Matera; nel 1002 fu devastata la Campania tra Benevento, Capua e Napoli; nel 1003 l’entroterra tarantino; nel 1004 fu assediata Bari, salvata però da una flotta veneziana guidata dal doge Pietro Orseolo. La Spagna musulmana, dopo la liquidazione del califfato di Cordoba, era divisa tra i vari reinos de taifas, spesso percorsi da rivalità e inimicizie. Le cose cambiarono verso il 1055, quando Ferdinando I, re di Castiglia e di Leon, si sentì in grado di scatenare un’offensiva che mise in suo potere la bassa valle del Duero. Il fronte aragonese invece rischiava una tracollo per la morte del re Ramiro I durante l’assedio della fortezza di Graus: il figlio Sancho era ancora minorenne, dunque spettò a papa Alessandro II prendere l’iniziativa che condusse alla conquista della piazzaforte di Barbastro (vicino Saragozza) nel 1064-1065. A questa spedizione contribuirono molti cavalieri da tutta la Cristianità europea, soprattutto francesi, poiché all’epoca era comune per parecchi aristocratici compiere pellegrinaggi a causa del fatto che ai figli cadetti della nobiltà non spettavano assegnazioni ereditarie, per cui costoro erano costretti a scegliere tra carriera ecclesiastica e avventura guerriera. Sul piano del diritto ecclesiastico, l’impresa di Barbastro è considerata anticipatrice della prima crociata. Gli emiri di Saragozza, Badajoz, Toledo e Siviglia furono costretti a pagare un tributo a Ferdinando I. Egli morì nel 1065, poco dopo aver potuto venerare nella nuova cattedrale da lui fondata le reliquie di sant’Isidoro di Siviglia cedutegli dai mori. I tre figli e le due figlie del sovrano si disputarono l’eredità finché uno di loro, Alfonso VI, riuscì a riunire sotto si sè Castiglia e León e ad infliggere nuove sconfitte ai mori, avvalendosi anche della collaborazione di una figura presto leggendaria, quella di Rodrigo Diaz de Bivar detto il Cid Campeador. Caduto il disgrazia del re, venne esiliato e quindi si mise al servizio del re di Saragozza. Alfonso VI compì la sua impresa più gloriosa nel 1085: fece assassinare il malik moro di Toledo e prese la città. Il Cid assediò Valencia e la tenne come signoria (1094-1099). Dopo le grandi vittorie Alfonso VI ormai puntava all’Andalusia, nel sud della penisola. Ciò preoccupò il ceto dirigente musulmano della regione che si rivolse a Yusuf Ibn Tashfin, capo degli almoravidi e uomo più potente dell’Islam occidentale. Gli almoravidi passarono dunque lo stretto di Gibilterra, sbarcarono in Spagna e vinsero clamorosamente i cristiani presso Zallaqa nel 1086; lo stesso re Alfonso si salvò a stento e Yusuf obbligò tutti i regni cristiani a sottomettersi alla sua autorità. Gli anni del dominio almoravide, che si estendeva dal Tago al Sahara, furono prosperi: sui dhimmi, come anche sui musulmani, veniva esercitata una leggera pressione fiscale; si svilupparono i centri di Marrakech e Fez; crebbero le attività commerciali; veniva coniata moneta d’oro; il dibattito teologico e giuridico era molto vivo. Tuttavia il potere almoravide andò deteriorandosi a causa tanto della riscossa militare cristiana, quanto dell’arrivo di una nuova corrente mistico-teologica sviluppatasi nel Maghreb: gli almohadi. Costoro si sostituirono alla precedente dominazione resistendo più o meno fino alla metà del XIII secolo, ma si distinsero dagli almoravidi per l’attuazione di una politica più restrittiva (ricordiamo ad esempio il celebre filosofo Averroè che venne costretto all’esilio). L’arabo era diventato la principale lingua di commercio e di cultura di tutto il mondo. L’importanza assunta dal commercio arabo nel Mediterraneo si riscontra in primo luogo dalla diffusione delle monete musulmane (dinar) che ben presto affiancarono, in molte aree sostituirono o comunque in parte soppiantarono l’egemonia del denarius bizantino. Ancora più diffuso era il tari, il quarto di dinar, che salernitani e amalfitani imitavano producendo monete che tuttavia si riconoscono bene in quanto caratterizzate da iscrizioni in caratteri cosiddetti “pseudocufici”, che richiamano l’alfabeto arabo ma sono, in realtà, privi di senso. Le crociate La rinnovata mobilità nel continente, a partire dal X secolo, non riguardava solo i commerci ma si viaggiava anche per motivi religiosi, lungo le vie che collegavano i principali santuari della Cristianità. È bene precisare che già nell’alto Medioevo si conoscevano due forme di pellegrinaggio: quello devozionale, che aveva origine nel periodo si esordio del Cristianesimo, e quello penitenziale. Il primo consisteva nel viaggiare verso Gerusalemme come peregrini, cioè esuli, ed era forma del totale mutar di vita (un esempio è l’esperienza di sant’Elena, la madre di Costantino). Il secondo aveva avuto un’origine più tarda ed era stato portato nel continente dai missionari anglosassoni ed irlandesi tra VI e VII secolo. I sovrani carolingi avevano più volte emanato direttive che scoraggiavano i pellegrinaggi per motivi d’ordine pubblico, al contempo però molti vescovi iniziavano ad inviare i peccatori, rei di particolari, colpe direttamente al pontefice affinché fosse lui a decidere la penitenza o a concedere l’assoluzione; eppure non tutti gli episcopati consideravano legittima una penitenza di questo tipo, ovvero non approvata da loro stessi. Si giunse quindi ad un conflitto di competenze del quale a volte i penitenti approfittavano: magari scontenti del giudizio del loro vescovo, preferivano peregrinare fino a Roma in cerca di condanne meno severe. La cosa più importante però era che ormai il reo di peccati gravi si avviava verso le stesse mete la spedizione vendendo terre e castelli ai vescovi di Liegi e di Verdun, era partito con i suoi due fratelli e aveva guidato un corpo di spedizione lungo la via della valle danubiana e dei Balcani ma, contrariamente a quanto rammenta la tradizione posteriore, non fu mai capo riconosciuto dei crociati (molta più autorità ebbero Roberto duca di Normandia, Raimondo conte di Tolosa e Boemondo d’Altavilla). I cronisti del tempo lo descrivono come un uomo di poco carattere ed infatti, quando venne scelto come re di Gerusalemme, egli rifiutò tale carica per considerarsi piuttosto “advocatus (difensore) del Santo Sepolcro” introducendo l’idea che la Terrasanta appartenesse sostanzialmente alla Santa Sede. Uno dei signori più potenti dell’Occidente, Raimondo di Tolosa, era il candidato più forte ma non venne scelto perché i normanni gli opposero il loro veto e perché figurava come personaggio di troppo spicco. Goffredo guerreggiò ancora valorosamente nell’estate del 1099, impadronendosi del porto di Giaffa e della città di Ascalona, ma si spense a Gerusalemme nel 1100. Il fratello Baldovino, più energico e meno tormentato spiritualmente di lui, raccolse l’eredità di Goffredo e si fece senza scrupoli incoronare re di Gerusalemme. Le potenze musulmani si riorganizzarono e passarono al contrattacco scontrandosi con le forze del nuovo regno: l’aristocrazia crociata, le città marinare che avevano partecipato alla presa di numerose città costiere, dove avevano fondato le loro fiorenti colonie mercantili, e gli “Ordini religioso-militari”. Quest’ultimi, originale creazione della Terrasanta crociata, seguivano una regola ispirata a quella canonicale agostiniana, ma poi meglio si adattarono a quella cenobitica benedettina. Al loro interno, oltre ai relativamente pochi sacerdoti, vi era un ampio gruppo di fratres laici, alcuni dei quali si davano ad attività produttive e servili secondo le tradizioni inaugurata da Benedetto da Norcia; mentre altri avevano il compito di combattere per difendere i pellegrini e per presidiare le strade. Nacquero quindi, attorno al Templum Salomonis, i Pauperes Milites ovvero i Templari e, attorno all’ospedale di San Giovanni, gli Ospitalieri o cavalieri di San Giovanni (in seguito di Cipro e oggi di Malta). Più tardi si aggiunsero quelli di Santa Maria, che appartenevano esclusivamente alla nazione germanica e furono perciò detti Teutonici. Questi “Ordini religioso-militari” naturalmente suscitarono nella Chiesa molte perplessità e per rimuoverli ci volle l’autorità del più grande mistico del XII secolo: il cistercense Bernardo di Clairvaux che, al pari di qualunque altro monaco, diffidava dal pellegrinaggio e riteneva che la vera Gerusalemme andasse cercata nel cuore del cristiano. I nuovi principati furono obbligati a chiedere aiuto all’Europa latina per conservare e ampliare le nuove conquiste e ne ricevettero soprattutto sotto forma di spedizioni marinare, prima da parte di Genova e Pisa, un po’ più tardi da Venezia. Mirando a sfruttare la rivalità tra i califfati concorrenti (quello sunnita di Baghdad e quello sciita del Cairo), le flotte italiche riuscirono progressivamente a conquistare l’intera costa del Mar di Levante. Le città erano abitate da milites e burgenses sia di origine occidentale che orientale, così come convivevano diocesi di obbedienza pontificia e bizantina. Le colonie commerciali delle città marinare, essenzialmente italiche giunsero più tardi alcune provenzali, riproducevano in alcuni quartieri la vita e le istituzioni delle rispettive madrepatrie e si amministravano autonomamente. Ancora oggi fortezze templari e ospitaliere sono testimonianza del grande progetto difensivo degli Ordini religioso-militari, il quale mirava a proteggere la costa marittima, le strade dell’interno e le rive del Giordano. Questi Ordini attrassero ben presto generose donazioni di beni mobili e immobili e, nonostante al loro interno si praticasse un’inflessibile povertà personale, essi divennero ricchissimi ed impiantarono le loro “magioni” in tutta la Cristianità. A costoro venivano poi affidate forti somme di denaro, gestendo le quali essi potevano avviare nuove e più efficienti forme di attività bancaria. La risposta musulmana partì dalle città siro-mesopotamiche del nord, cioè da Aleppo e da Mosul, governate nel nome del califfo di Baghdad e del suo consigliere turco selgiuchide, il sultano Imad ad-Din Zenqi. La caduta di Edessa (1146) in mano turca costituiva un segnale d’allarme: Zenqi sembrava ambire ad unificare sotto il suo potere tutti gli emirati della regione tra il mar di Levante e l’Eufrate. La nobiltà franco-siriaca costituita dai discendenti della prima crociata, ovvero la classe dirigente del regno, conosceva bene tale situazione e sapeva che l’ampliarsi e il rafforzarsi del potere di Zenqi stava determinando, in tutto il mondo islamico del Vicino Oriente, paure e sospetti; dunque sarebbe stato sufficiente creare un’alleanza cristiano-musulmana, ad esempio con il potente emiro di Damasco, e il regno sarebbe stato al sicuro. Tuttavia, dal punto di vista europeo, c’erano da valutare altri elementi come la memoria della grande impresa precedente, i continui pellegrinaggi, l’affermarsi della cultura cavalleresca, la prospettiva di una diffusione del Vangelo e le mire espansionistiche delle città marinare. Papa Eugenio III si convinse dunque della necessità di una nuova spedizione e coinvolse i due principali sovrani dell’Occidente: il re germanico Corrado III e il re di Francia Luigi VII, che partì con la consorte Eleonora d’Aquitania. La grande spedizione partita dall’Europa nel 1147 tuttavia fallì, principalmente per colpa del re di Francia che, ascoltando pessimi consiglieri, non riuscì a trovare un accordo né con il basileus Manuele Comneno né con il re Ruggero II di Sicilia. Il monarca capetingio si lasciò convincere ad assediare Damasco, il cui emiro sarebbe stato il suo naturale alleato contro il pericolo espansionista di Zenqi, e si alleò invece con il suo naturale avversario. Dopo un lungo ed inutile assedio, le truppe occidentali se ne andarono in un clima di discordie e recriminazioni reciproche. A servizio degli atabeg di Aleppo e Mosul militava allora un capo militare e uomo politico di origine curda, conosciuto come “il Saladino”. Egli fu inviato nel 1168 in Egitto in cui era scoppiata una grave crisi politica e della quale sembrava potessero approfittare il re crociato Amalrico di Gerusalemme e il bizantino Manuele Comneno. Il califfo egiziano al-Adid nominò il Saladino suo vizir, ma nel 1171 fu da questi deposto assumendo il titolo di sultano e dando vita ad una dinastia chiamata, dal suo nome di famiglia, “ayyubide”: in questo modo terminò l’esperimento califfale sciita e l’Egitto tornò all’ortodossia sunnita. Più tardi sottomise Damasco e poté dunque maturare l’obiettivo di espellere i franchi da Gerusalemme e impadronirsi della Palestina. Nel mentre i principati franchi stavano precipitando nel disordine: la successione al trono era complicata a causa degli intrighi di corte e della politica personale e dinastica dei grandi feudatari, gli ordini militari e le città marinare si combattevano in un complesso quadro di rivalità. Tra i franchi si erano andati determinando due partiti: uno più tradizionalista, guidato appunto dalle famiglie di vecchio radicamento in Terrasanta, voleva il mantenimento dello status quo e temeva una mobilitazione simile a quella del 1148; mentre l’altro era composto da principi giunti di recente e desiderosi di nuove conquiste, che quindi ambivano allo scontro con il Saladino. Alcuni audaci e facinorosi avventurieri appoggiavano il “partito della guerra” e per mezzo di vari attacchi cercavano di far precipitare la situazione. In quel momento il re di Gerusalemme era Baldovino IV, che fin da piccolo aveva contratto la lebbra. Egli riuscì a lungo a tenere a bada il Saladino e al tempo stesso a dominare il clima di rivalità e di intrighi che lo circondava, ma alla sua morte (1185) non si poté evitare che la situazione precipitasse. Nell’estate del 1187 il Saladino invase dalla Siria il territorio del regno e l’esercito franco mosse da Gerusalemme per fermarlo: lo scontro avvenne presso “i corni di Hattin” (sulle alture prospicienti il lago di Tiberiade), dove furono catturati il re Guido di Lusignano e il Maestro Templare, poi utilizzati come ostaggi per ottenere la resa di varie piazzeforti; inoltre la reliquia della Vera Croce, che i franchi recavano in battaglia come santa insegna, fu presa e distrutta. Dopo Hattin, il Saladino pose l’assedio a Gerusalemme e permise agli occidentali di evacuare la città, dunque vi entrò da trionfatore il 2 ottobre dello stesso anno. Quando la notizia della sconfitta di Hattin giunse in Occidente, papa Gregorio VIII promulgò il 29 ottobre la bolla “Audita tremendi” con la quale invitava a una nuova spedizione. Tra i sovrani europei che accolsero l’invito del pontefice vi erano l’anziano Federico Barbarossa, il re di Francia Filippo II Augusto e il re d’Inghilterra Riccardo Cuor di Leone. Quest’ultimo ottenne l’unico risultato utile, la riconquista della città costiera di Acri che il Saladino aveva occupato e che ora divenne la nuova capitale del regno. Tuttavia nel 1192 anche re d'Inghilterra decise di rientrare in patria, dopo aver strappato l’isola di Cipro ai bizantini e avervi insediato come re il suo protetto Enrico di Lucignano, fratello dell’ormai ex re di Gerusalemme Guido. La corona di Gerusalemme divenne oggetto di continue contese: la famiglia dei Lusignano rivendicava il titolo dall’isola di Cipro, come altre dinastie in Terrasanta (passerà anche agli Hohenstaufen e dal XIII secolo diverrà un titolo puramente nominale). Visti comunque gli insuccessi delle due ultime spedizioni, il nuovo pontefice Innocenzo III maturò la decisione di affermare in modo esplicito il diritto dei papi a gestire direttamente il movimento crociato, salvo ovviamente delegarne la conduzione militare. Nessuna spedizione oltremarina sarebbe stata lecita se non bandita attraverso un documento ufficiale pontificio (una “bolla”) e garantita dal voto religioso dei partecipanti: nasceva così pian piano un’organizzazione giuridica della crociata. Innocenzo III dovette dunque far fronte alla preparazione di un esercito e alla raccolta di finanziamenti per sostenere l’azione: con l’appello del 15 agosto 1198, il papa prometteva ai crociati i privilegi consueti, forniva indicazioni sulla preparazione dell’impresa e nominava due cardinali, Pietro Capuano e Soffredo, quali legati pontifici. Una rete di predicatori ebbe l’ordine di promuovere l’impresa in Europa ma, nonostante l’impegno di Innocenzo, il reclutamento non fu rapido. A capo della crociata si pose Tibaldo conte di Champagne; quanto al finanziamento il papa promosse una tassazione sul clero, il resto sarebbe stato fornito dai partecipanti. Il piano prevedeva la partenza da Venezia e un’azione militare contro l’Egitto che avrebbe dovuto condurre al blocco commerciale dei suoi due porti in modo da poter negoziare, in cambio del ristabilimento del commercio, la liberazione di Gerusalemme. Dopo lunghe trattative, nella prima metà del 1201, la Serenissima si impegnò ad allestire le navi per oltre 30.000 crociati. Nel frattempo il conte Tibaldo era morto e venne sostituito con il marchese Bonifacio I di Monferrato. La scelta dei pontefici nel corso del XII secolo era caduta essenzialmente su figure di politici e di giuristi il cui programma mirava a rafforzare i risultati della riforma, con la fondazione di un solido primato della sede romana sulle altre sedi vescovili dell’Occidente, la prevalenza del papato sui regni cristiani, il governo dei chierici sui laici. Alla morte di papa Celestino III si volle scegliere come nuovo pontefice Lotario, della nobile famiglia dei conti di Segni, che assunse il nome di Innocenzo III. Egli era un uomo intriso di misticismo che, tuttavia non lo induceva a ritirarsi dal mondo, ma a dominarlo poichè persuaso del fatto che lo spirito dovesse signoreggiare sulla carne, così come il papato dovesse controllare tutti gli altri poteri. Dunque Innocenzo III si configurava come l’erede diretto dei grandi pontefici della riforma. Molti furono i problemi a cui dovette far fronte: riportò sotto il suo controllo i territori della Chiesa, nonostante l’atteggiamento ribelle di alcune città, soprattutto delle Marche; si intromise nelle problematiche di successione alla corona di Sicilia e a quella di Germania poiché i due regni, se si fossero uniti, avrebbero schiacciato le terre pontificie; scrisse ripetutamente a Bisanzio per accordarsi circa la questione della Cristianità divisa tra Chiesa greca e latina, ma non si giunse a nessuna conclusione (soprattutto dopo il saccheggio drammatico di Costantinopoli della quarta crociata, in cui i veneziani portarono via tesori d’arte e di cultura mirabili); inoltre lo preoccupavano la dominazione musulmana di Gerusalemme e la diffusione delle eresie. Anche riguardo quest’ultimo punto le vicende furono tragiche: l’assassinio del legato pontificio inviato coadiuvare la Chiesa locale nelle persecuzioni anticata portò il papa a bandire la crociata contro gli albigesi (fino ad allora usata soltanto contro i musulmani e le popolazioni pagane del settentrione europeo). L'esecuzione militare del bando fu affidata ai feudatari del nord della Francia, ben lieti di saccheggiare e di conquistare quelle contrade meridionali, che erano le più ricche del paese. La crociata durò dal 1209 al 1244, data della caduta dell’ultima piazzaforte eretica sui Pirenei, il castello di Montségur. Persino l’eroe di Las Navas de Tolosa, Pietro II re d’Aragona e conte di Barcellona, aveva perso la vita nella battaglia di Muret mentre difendeva la città di Montpellier, della quale era signore. Con la fine della crociata il catarismo era stato sì debellato, nonostante la resistenza di nuclei clandestini in Lombardia e Toscana, ma la Chiesa si era assunta la responsabilità di massacri e atti di ferocia innominabili. Il pontefice era preoccupato del fatto che la Chiesa uscita dalla riforma non fosse riuscita a conquistare il cuore dei cristiani, specie dei più poveri e dei più umili; si trattava infatti di una Chiesa di nobili colti e potenti gerarchi. Innocenzo III intraprese dunque una nuova strada: con il IV concilio lateranense (1215) la Chiesa venne definitivamente dichiarata un corpo superiore a qualunque potere secolare e la sola possibile mediatrice fra Dio e gli uomini; si introduceva l’Inquisizione come strumento di controllo, ma ci si preoccupava anche dell’istruzione dei fedeli incoraggiando la predicazione popolare e legittimando l’esistenza degli Ordini mendicanti, che invece prima sarebbero stati definiti eretici. Esso era un programma ai limiti del paradosso poiché, da un lato, si voleva levare la Chiesa fino a renderla intangibile rispetto a qualunque critica, dall’altro, si intendeva portarla in mezzo ai cristiani. La predicazione ai ceti popolari era sempre stata molto limitata: la Chiesa non aveva mai favorito la lettura delle Scritture da parte dei fedeli e, in ogni caso, essa sarebbe stata comunque ardua a causa dell’analfabetismo e alla scarsa circolazione dei libri, inoltre gli stessi preti erano spesso ignoranti. Nacquero dunque delle comunità, come i Poveri di Lione o i Poveri Lombardi, che si riproponevano di vivere secondo il Vangelo e che erano guardati con sospetto da Innocenzo III. La loro autonomia rispetto alla gerarchia ecclesiastica li rendeva esposti all’eresia; ma nel 1210 egli approvò invece l’iniziativa di un cittadino di Assisi: Francesco di Pietro Bernardone. Egli nacque nel 1181-1182 ad Assisi da un ricco mercante di nome Pietro Bernardone e da una donna forse provenzale, Pica; passo la prima giovinezza immerso negli affari paterni e fece anche l’esperienza della guerra contro la vicina Perugia, dove rimase per un certo periodo prigioniero. La celebre decisione che lo portò a cambiare vita fu probabilmente presa a causa di una serie di fattori: la volontà frustrata di farsi cavaliere e partire per avventure lontane, una malattia e la compassione che gli ispiravano i deboli. Una delle sue prime attività era stata quella di vagare per le campagne assisane restaurando chiesette abbandonate e pericolanti. Egli non era soltanto un asceta della rinuncia ed un sovvertitore del suo secolo, ma si faceva esempio di un’esistenza vissuta secondo la semplice adesione al Vangelo. Il suo modo di vivere così semplice e povero avrebbe potuto farlo prendere per un “perfetto” cataro, egli lo sapeva, ma mentre i catari predicavano che il mondo è un inganno del Dio delle Tenebre e della Materia, Francesco rispondeva scrivendo il Cantico delle Creature. Il suo amore per la natura conduceva ad una predicazione in favore della pace, come serenità interiore, ma nonostante questo egli seppe essere anche molto duro scegliendo la strada della povertà: egli non voleva dettare alcun modello universalmente valido, poichè tale durissima norma di vita era soltanto sua e di quelli che liberamente avessero voluto seguirla; ma per loro era assoluta. Inizialmente Innocenzo III approvò a voce, quindi senza impegnarsi con un documento scritto, la formula di vita del gruppo di Assisi e fece concedere a Francesco la tonsura: per il papa egli era il devoto ideale perché deciso a vivere santamente, ma rispettoso della gerarchia ecclesiastica. Il nuovo Ordine fu confermato da papa Onorio III (1221) ma, a causa della popolarità crescente, i francescani stavano diventando colti e accettavano doni (anche se formalmente essi venivano incamerati dalla Santa Sede). La Regola fu poi redatta una seconda volta nel 1223 a seguito della richiesta di alcuni francescani di mitigarla un poco. Francesco aveva poi ispirato la fondazione di un gruppo di donne penitenti, le clarisse, a capo delle quali era una giovane della nobiltà assisana; inoltre egli aveva fondato la confraternita laica dei “terziari”. Tra il 1219 e il 1220 egli partì per l’Egitto, al seguito della spedizione crociata, ed incontrò il sultano del Cairo (forse accettò di avere un colloquio con Francesco perché gli ricordava i mistici della sua regione). A ritorno da questo viaggio, ammalato e sentendo di non essere stato compreso, si ritirò sempre più in silenzio. Secondo la tradizione, nel 1224 sul monte della Verna ricevette le stimmate; nel 1226 tornò nella sua amata Assisi per morirvi. Due anni dopo venne fatto santo e sulla sua tomba fu eretta la celebre basilica. Simile all'esperienza di Francesco fu quella del chierico aragonese Domenico di Caleruega: i suoi seguaci assunsero il nome di “frati predicatori” poiché egli aveva deciso di contrastare gli eretici non solo con la la povertà di vita, ma anche con la parola (avevano quindi bisogno di prepararsi culturalmente molto bene). Domenico ottenne che la confraternita divenisse un Ordine nel 1215. Alla morte dei fondatori, i due Ordini (frati minori e frati predicatori) erano già diffusi in tutta Europa e abitavano in semplici conventi, usati come alloggi temporanei, in cui organizzavano continue iniziative assistenziali per i poveri. Gli Ordini mendicanti erano per la Chiesa uno strumento di controllo poiché, non essendo costituiti né da chierici secolari né da monaci, essi dipendevano direttamente dalla Santa Sede. Se i domenicani, fondati da un canonico, si assoggettavano facilmente alla clerizzazione, lo stesso non accade per i francescani; una parte di essi anzi reagì con scismi di tipo rigoristico all’interno dello stesso Ordine. Tuttavia prevalse l’ala moderata dei “conventuali”, tra i quali Bonaventura di Bagnoregio, che impose il punto di vista del pontefice. Il successo riscosso da francescani e domenicani indusse la formazione di numerosi nuovi Ordini e, per controllarne il fenomeno, nel 1274 il concilio di Lione stabilì un riconoscimento soltanto per carmelitani e agostiniani. Ora dunque i gruppi ereticali trovavano un baluardo nella predicazione dei francescani e soprattutto dei domenicani. Nel 1231 Gregorio IX inasprì ulteriormente le sanzioni antiereticali disposte dai suoi predecessori. Tuttavia la cosiddetta “inquisizione vescovile” affidata alle autorità ecclesiastiche locali si era rivelata insufficiente, il papa dunque reagì conferendo nuovo autorevolezza all’ordine dei Frati Predicatori da lui incaricati di occuparsi tanto della repressione degli eretici quanto della riforma della Chiesa. Il domenicano Roberto, detto “il Bulgaro” perché era stato lui stesso cataro prima di convertirsi, venne proclamato inquisitore generale del regno di Francia, poco dopo anche i francescani furono associati al compito. Con il tempo la sede romana si appoggiò alle autorità laiche nella repressione degli eretici, poiché esse li consideravano anche pericoli civili e d’altronde non dispiaceva loro arricchirsi lucrando sulle confische dei beni dei condannati. Inizialmente il riconoscimento e la condanna spettavano ancora alla Chiesa e i poteri laici potevano solo occuparsi dell’esecuzione materiale, tuttavia con il tempo i tribunali ecclesiastici cominciarono ad essere subordinati a quelli laici. Gli inquisitori visitavano i luoghi oggetto della loro inchiesta su segnalazione delle commissioni preposte a vigilare contro l’espandersi dell’eresia o su denuncia che restava anonima. Si apriva così il “tempus gratiae”: si invitavano tutti quelli che avessero avuto contatti con gruppi ereticali a presentarsi spontaneamente, facendo ammenda e ricevendo una penitenza. Nonostante si potesse condannare un imputato anche sulla base delle prove, la Chiesa preferiva la confessione per questi i giudici potevano, a loro discrezione, adottare anche mezzi costrittivi: se l’imputato confessava sotto tortura, egli era obbligato a confermare il contenuto della sua confessione a tormento finito. Federico I Barbarossa e la dinastia sveva Alla morte di Enrico V di Franconia, la nobiltà tedesca si divise in una fazione favorevole ai duchi di Baviera (guelfi da Welf, il nome del loro capostipite) e una favorevole invece ai duchi di Svevia che avevano ereditato la politica degli imperatori della casa di Franconia (ghibellini da Weiblingen, uno dei castelli più importanti della famiglia degli Hohenstaufen). Il titolo di re di Germania, e quindi di imperatore, fu dapprima attribuito a Lotario di Supplimburgo, duca di Sassonia, che era appoggiato dai bavaresi ma era troppo arrendevole nei confronti di papa Innocenzo II. Dunque nel 1137 i nobili tedeschi preferirono scegliere il successore di Lotario II nella persona del suo avversario, Corrado III di Svevia, ma anche questi deluse le loro aspettative perché non riuscì a pacificare gli animi e abbassò il prestigio della corona tedesca nella seconda crociata. Corrado individuò presto un collaboratore di venne espugnata e Alessandro III si salvò rifugiandosi nella grande fortezza dei Frangipane al Colosseo e, subito dopo, fuggendo a Benevento dove ottenne la protezione di Guglielmo II. Le truppe imperiali che risalivano la penisola furono colpite da una grave epidemia: ora che l’imperatore non aveva praticamente più un esercito, le città lombarde si ribellavano cacciando i rettori imperiali. All’ora Federico si diede subito a saccheggiare il Milanese, ma i milanesi lo costrinsero a chiudersi nella città di Pavia e la assediarono. Nel 1167 era nata la lega lombarda la quale era formata da ben sedici città, anche quelle della lega veronese e cremonese: Venezia, Verona, Padova, Vicenza, Treviso, Cremona, Brescia, Bergamo, Milano, Lodi, Parma, Piacenza, Mantova, Ferrara, Bologna e Modena. In essa ogni città eleggeva un rettore, in carica per un anno, che si riuniva con gli altri saltuariamente, in una città della lega sempre diversa, per stabilire le misure militari e diplomatiche, discutere sull’accettazione di nuovi aderenti… L’imperatore raggiunse la Germania per riorganizzarsi e ristabilire la pace nel regno. Nel 1174 scese per la quinta volta in Italia, ma la situazione era molto diversa: Milano era risorta e si imponeva nuovamente sulle città del settentrione, il prestigio di papa Alessandro III era divenuto universale (in suo onore nel 1168 i Comuni avevano fondato la strategica Alessandria) e alla lega lombarda aderirono sempre più città (anche quelle di forte tradizione imperiale vi entrarono, a seguito di costrizioni e minacce). All’arrivo dell’imperatore, la lega era stata presa in contropiede. Essa concentrò tutto il suo potenziale difensivo su Alessandria, dove Federico pose l’assedio (rappresentava il simbolo della resistenza contro di lui). Tuttavia l’assedio andò per le lunghe e il Barbarossa desistette, perché aveva saputo che due contingenti nemici si stavano avvicinando. Si giunse alla pace di Montebello e le richieste della lega erano le seguenti: la fine dello scisma, che il Barbarossa si accontentasse delle prestazioni che le città avevano reso all’impero prima di lui, che ciascuna città potesse eleggere liberamente i propri consoli ed il riconoscimento stesso della lega. L’imperatore era disposto a cedere su alcuni punti ma non su quelli che riguardavano la questione ecclesiastica e tutto quello che poteva recare pregiudizio al prestigio dell’impero. Passò un altro inverno (non era stagione di guerra) e nel maggio del 1176 l’esercito imperiale, rafforzato, si scontrò con quello della lega nella battaglia di Legnano: per quanto le truppe germaniche fossero inferiori numericamente, in un primo momento, esse sbaragliarono quelle comunali costringendole alla fuga, ma la corsa all’inseguimento terminò proprio dinanzi ad un contingente di fanti inviati in soccorso dalla lega. Dunque le città lombarde scardinarono la compagine imperiale travolgendo lo stesso Federico che, inizialmente, fu dato per morto. A Chioggia fu stipulata una tregua di quindici anni con Guglielmo II (lo riconosceva finalmente re di Sicilia) e una di sei con i Comuni lombardi; l’accordo doveva poi essere ratificato a Venezia. Qui Federico, nel 1177, accettava di riconoscere Alessandro III come unico papa e in cambio gli veniva tolta la scomunica: arrivò prima alla chiesa di san Niccolò del Lido, dove tre cardinali lo liberarono ritualmente dalla scomunica e successivamente, nella basilica di San Marco, si prostrò di fronte al pontefice. La tregua stipulata con la lega stava per scadere, ma nel mentre le condizioni che avevano favorito l’alleanza tra le città del nord d’Italia erano mutate: la tregua era stata appoggiata dal papa e dal basileus Manuele Comneno, ora entrambi morti, e l’assenza dell’imperatore nella penisola aveva attutito le vecchie ragioni di inimicizia che le aveva portate alla lega. Inoltre nell’impero bizantino si era sviluppata una crisi e il nuovo papa si mostrava molto conciliante con l’impero. In queste condizioni la cosa più saggia da fare era trasformare la tregua in una pace: nel 1183 Federico si spinse fino a Costanza, nel suo ducato di Svevia, e ratificò personalmente la pace con i Comuni, alla presenza dei delegati delle singole città e dei rappresentanti del pontefice. Il sovrano emanava a vantaggio delle città lombarde una costituzione che concedeva loro certe libertà e certi regalia, riservandosene naturalmente altri; inoltre accettava di investire dei pubblici poteri i rettori delle città (si era quindi non alla scelta diretta da parte sua, ma alla ratifica di quelli scelti dalle città stesse). Quando Gerusalemme cadde nelle mani del Saladino, la Cristianità si mobilitò nuovamente: Guglielmo II, Corrado di Monferrato, Enrico II d’Inghilterra e lo stesso Federico partirono per la terza crociata. L’esercito crociato guidato dall’imperatore scelse la via di terra, inviando messaggi amichevoli ai principi dei territori che avrebbe attraversato, poiché il Mediterraneo orientale era controllato da bizantini, saraceni e dallo stesso Saladino, inoltre la via marittima sarebbe stata troppo costosa. A evitare inutili pesi e anche il rischio di quei disordini che solitamente la presenza dei pauperes comportava, l’imperatore aveva prescritto che solo chi poteva equipaggiarsi e mantenersi per due anni a proprie spese avrebbe potuto prendere parte alla spedizione. La marcia attraverso i Balcani fu lenta e, mentre si stava attraversando la catena montuosa del Tauro (in Cilicia), il 10 giugno 1190, il Barbarossa morì nel fiume Salef (oggi Göksu). Suo figlio, Federico duca di Svevia, assunse il comando della spedizione ma ormai essa non esisteva più, poiché ridotta ad una massa di gente disorientata. Il duca morì l’anno seguente, a causa di una malattia contratta in Cilicia. Federico II di Svevia Negli ultimi anni, il Barbarossa aveva promosso un’alleanza con i normanni di Sicilia attraverso il matrimonio di suo figlio Enrico con la principessa Costanza d’Altavilla (figlia di Ruggero II). Ella era la zia del sovrano allora regnante, Guglielmo II, il quale non aveva avuto figli, circostanza questa di cui approfittò Enrico VI: egli divenne re di Sicilia e, alla morte del padre, fu incoronato imperatore. Il giorno seguente all’incoronazione siciliana, a Iesi nelle Marche, Costanza dava alla luce il figlio Federico Ruggero. Enrico VI stava lavorando per trasformare quella imperiale in una corona ereditaria nelle mani della casa di Svevia, tuttavia egli morì appena trentenne lasciando un erede di appena tre anni. Innocenzo III appoggiò immediatamente Federico come re di Sicilia, ricordandogli che in quanto tale egli era un vassallo del papato, intanto nell’impero si riproponeva il vecchio scontro tra guelfi e ghibellini: erano in concorrenza Filippo duca di Svevia e Ottone duca di Sassonia, tuttavia i principi tedeschi scelsero il secondo. Egli divenne imperatore con il nome di Ottone IV e, preoccupato che il pontefice potesse appoggiare il suo rivale, promise ampie assicurazioni circa le libertà della Chiesa nel territorio imperiale. Quando Filippo venne assassinato, Ottone cominciò a venir meno ai suoi impegni con il pontefice, sicuro di non avere più rivali. Dunque il papa, intesosi con il re di Francia Filippo II Augusto, appoggiò i nobili tedeschi, che ora avevano in odio l’imperatore e designavano come nuovo re il figlio di Enrico IV, ovvero Federico II. Nel 1212 egli venne eletto “re dei romani” e l’anno successivo, con la “bolla d’oro di Eger”, garantì che mai si sarebbe intromesso nelle questioni ecclesiastiche e mai avrebbe unito la corona siciliana a quella imperiale. Finché visse Innocenzo III, Federico non si permise mai di infrangere il giuramento della bolla d’oro, tanto che in Germania egli era noto presso i suoi oppositori come il “re dei preti”. Con il successore Onorio III, però, la sua politica mutò: nel 1220 si fece incoronare imperatore, dopo aver indotto la nobiltà tedesca ad attribuire la corona di Germania al figlio Enrico e senza mostrare alcuna intenzione di abdicare al regno di Sicilia. Quindi l’imperatore, durante due grandi assise del regno, a Capua e a Messina, si adoperò per reintegrare tutti i diritti regi dei feudatari; successivamente introdusse il diritto romano, fondò l’università di Napoli (per disporre di un ceto di funzionari istruiti all’interno dei confini) e favorì lo Studio medico di Salerno. Riorganizzato il regno di Sicilia, Federico passò a quello d’Italia, dove si trattava di ridurre all’obbedienza i Comuni: essi avevano già ricostituito la lega lombarda, ma solo l’intervento di Onorio III impedì che, per il momento, si giungesse a un nuovo scontro. Le cose cambiarono ancora una volta quando salì al soglio pontificio Gregorio IX. Egli dava segni di non tollerare più la politica di Federico II poiché in effetti il sovrano non aveva, come promesso, concesso una vera libertà alla Chiesa nei suoi territori (era intervenuto spesso nelle elezioni episcopali) e non aveva mantenuto separati impero e regno di Sicilia. C’era poi la questione della quinta crociata: tra 1217 e 1221, la Cristianità aveva assediato il porto di Damietta, pensando che il sultano d’Egitto al-Malik al-Kamil giungesse alla resa e dunque alla consegna di Gerusalemme; a questa spedizione Federico II non partecipò perché egli aveva buoni rapporti diplomatici con il sultano (le sue terre erano prossime al regno di Sicilia). All’epoca la crociata era vista come dovere di ogni re cristiano, inoltre lo stesso imperatore aveva più volte promesso ad Onorio III che avrebbe organizzato una spedizione; dunque il papa, indignato, pretese che Federico partisse. Venne allora preparata una spedizione nell’autunno del 1227 ma questa non poté partire a causa di un’epidemia; il papa lo scomunicò. Ciò costrinse Federico a partire nel 1228, ma egli aveva già preso le sue contromisure: aveva sposato l’ereditiera della corona di Gerusalemme, Isabella-Iolanda di Brienne, quindi si presentava in Palestina come legittimo pretendente al trono. Il sultano d’Egitto era il nipote del Saladino (figlio del fratello) e, al suo avvento sul trono nel 1218, i crociati avevano già assaltato il delta del Nilo. Con l’assedio di Damietta egli era pronto a scambiare il porto di Gerusalemme con lo stesso porto egiziano, ma fu il cardinale e legato pontificio Pelagio a rifiutare, interpretando l’offerta come un segno di debolezza e pensando di poter giungere al rovesciamento del sultano e alla conquista dell’Egitto, dopo i quali Gerusalemme sarebbe caduta naturalmente. Durante le ostilità, pare che al-Malik al-Kamil abbia incontrato e accolto con simpatia Francesco d’Assisi. Questa tendenza del sultano alla moderazione e alla trattativa non venne meno neanche durante le trattative con Federico II; soltanto a proposito della “Cupola della Roccia” la moschea di Omar (per i cristiani il Tempio di Salomone) fu irremovibile: il luogo era considerato dall’Islam il più santo di Gerusalemme, in quanto punto dal quale il profeta Muhammad aveva iniziato la sua ascesa al cielo. Venne quindi stipulato un trattato secondo cui all’imperatore andava Gerusalemme ma senza le mura, ovvero la zona della moschea di Omar. Nella cappella del La lotta tra papato e impero aveva individuato in Italia una divisione tra guelfi (fautori del papa) e ghibellini (fautori dell’imperatore); non si diventava guelfi o ghibellini per scelta autonoma, bensì a seconda che i propri avversari appartenessero a questa o a quella parte. Fu questa elevata conflittualità a condurre alla crisi del sistema consolare e all’affermarsi di quello detto “podestarile”. Nel corso del XII secolo le contese tra fazioni si erano mantenute all’interno del ceto dirigente consolare, tuttavia all’inizio del XIII i rappresentanti maggiori di un nuovo ceto chiedevano di entrare a far parte della compagine del governo: essa era la quella che Dante avrebbe chiamato con disprezzo “gente nova”, ovvero i ceti medi rurali inurbati. In tutti i centri si andavano sviluppando nuove figure di prestatori di denaro, i banchieri, e la richiesta di beni di produzione sui mercati europei incoraggiava l’attività manifatturiera, soprattutto quella tessile della lana. A questi si aggiungevano poi i professionisti dei campi “liberali”, come la giurisprudenza e la medicina: essi erano riuniti in associazioni professionali (Arti, cioè corporazioni) che esercitavano un controllo sulla loro perizia specialistica, sulla qualità dei prodotti e dei prezzi, sul diritto di esercitare le varie professioni da parte di nuovi adepti all’organizzazione professionale. Costoro non appartenevano alle famiglie dei “magnati”, dunque non avevano accesso all’organizzazione del Comune; ma a Bologna già dal 1228 si era costituito, accanto al Comune guidato dal podestà, un “Comune del Popolo” con suo magistrato (il Capitano del Popolo). Tra XIII e XIV secolo si fondò, a livello europeo, il primato delle città italiane nella manifattura e soprattutto nel commercio; il rinnovato slancio economico si tradusse nella reintroduzione in Europa della monetazione aurea. Le corporazioni divennero organismi di autodifesa degli imprenditori e dei produttori, venivano però esclusi i salariati poichè non si riconosceva loro alcun diritto; si assistette poi ad un progresso generalizzato della sicurezza e della qualità della vita. Prima del Duecento il mercante era essenzialmente un venditore ambulante mentre ora, ascendendo i ranghi della considerazione sociale, egli non poteva più assentarsi per lungo tempo da casa, pena gravidanza i suoi interessi politici. Si andata così creando poco a poco la “compagnia”: una società mercantile-imprenditoriale sostanzialmente a base familiare ma aperta anche ad estranei, la quale aveva succursali e rappresentanti nelle principali città europee e mediterranee e si serviva della “lettera di cambio”. Le due aree più importanti del commercio euromediterraneo del tempo divennero così le città italiane centro-settentrionali e quelle portuali disseminate tra il mare del Nord e il Baltico. Alla fine del XIII i “magnati” erano stati, almeno formalmente, cacciati un po’ dappertutto dal governo cittadino, ma si erano troppo potenti per rimanere in questa condizione di emarginazione; dunque con il tempo si elaborò un sistema di esclusione e reintegrazione dalla e nella vita pubblica. Nel corso del Trecento, il braccio di ferro tra fazioni e ceti differenti finì per accordare ad un personaggio (il signore), in genere almeno formalmente estraneo alle parti o addirittura ritenuto al di sopra di esse, il potere assoluto (magari per un breve periodo). La signoria, formalmente, veniva conferita dal popolo e si configurava quindi come una specie di dittatura avente lo scopo di far fronte ad una situazione di emergenza, anche se spesso i signori tendevano a consolidare il proprio potere e magari a trasformarlo in dinastico. Il fenomeno delle signorie si affermò soprattutto dal 1240 in poi e tra le famiglie più celebri ritroviamo i Visconti a Milano, i Gonzaga a Mantova, i d’Este a Ferrara, gli Scaligeri a Verona, i Da Carrara a Padova, i Malatesta a Rimini, i Da Polenta a Ravenna, i Montefeltro a Urbino… Siccome una città si sviluppa in modo funzionale rispetto a un territorio, non tutti i centri urbani medievali ebbero la stessa fortuna; naturalmente furono quelle poste lungo le grandi vie di comunicazione terrestri e fluviali a crescere più in fretta. In particolare si svilupparono quei centri affacciati sul mare che godevano, di diritto o di fatto, dell’autonomia politica e che si giovarono dell’esaurirsi delle incursioni musulmane e dell’avvio del movimento crociato per espandersi sul mare e proporsi come collettori delle merci d’importazione e distributori di quelle d’esportazione. Tra questi centri, alcuni erano già attivi nell’Alto Medioevo (Venezia e Amalfi), altri erano in parte frenati da un forte potere (Bari, Messina, Napoli), altri ancora si avvantaggiarono della crisi dei poteri centrali (Genova e Pisa che erano formalmente sottoposte al regno d’Italia). Nel XII secolo lo sviluppo della navigazione per mare è visibile soprattutto nel mutamento profondo che avviene nelle varie spedizioni crociate: nella prima crociata, tutti avevano viaggiato per via di terra, con l’eccezione delle navi pisani e genovesi sopraggiunte in un secondo momento per consolidare le conquiste; nella seconda, ci si era serviti di navi solo quando erano stati i bizantini e normanni di Sicilia a procurarle; la terza venne programmata come un viaggio per via di terra dal Barbarossa, anche se già allora inglesi e francesi sceglievano il mare. Dunque a partire dal Duecento non si riteneva più possibile raggiungere Costantinopoli per via di terra semplicemente perché, nel frattempo, la nave era divenuta un mezzo di comunicazione consueto. In genere, le navi mediterranee continuarono fino al XIV secolo a essere di due fondamentali tipi: il primo era costituito dalla leggera e veloce galea a remi che poteva ospitare pochi passeggeri, ma aveva bisogno di 150-250 rematori; il secondo è rappresentato dalla nave “rotonda”, di alto bordo e di stiva capace, a una sola grande vela e adatta al commercio, ma molto lenta. Vi erano poi gli “uscieri”, ovvero navi propriamente da trasporto dei cavalli da guerra, caratterizzate da grandi sportelli sulle fiancate che si aprivano per far entrare e uscire gli animali. Intorno al Mille alcune delle città italo-bizantina affacciate sul mare avevano già raggiunto livelli di vita e capacità commerciali assai elevate; le città italo-meridionali invece, inquadrate precocemente nel regno normanno, non smisero di esercitare funzioni commerciali, ma non poterono mai svilupparle di pari passo con quelle politiche, così come avvenne per Venezia (al principio dell’XI secolo la sua rete di interessi commerciali si estendeva fra Costantinopoli, la costa siro-libano-palestinese, il nord Africa e la Sicilia). Nonostante i divieti imperiali e papali, Venezia vendeva agli arabi generi proibiti (perché suscettibili di uso bellico) come il legname, il ferro e gli schiavi provenienti soprattutto dall’Istria, dalla Slovenia e dalla Croazia. Come noto, iniziarono a svilupparsi anche Genova e Pisa, così come le celebri conflittualità e rivalità che caratterizzavano tutte le città marinare. Dunque nel corso del Duecento la bilancia commerciale si invertì e, grazie all’afflusso di oro nelle casse dei mercanti latini, l’Europa poté accedere alla coniazione della moneta d’oro (dal IV al XIII secolo privilegio praticamente esclusivo dei bizantini e di alcuni potentati musulmani). Anche molte importanti scelte di politica internazionale erano dettate dalle esigenze della navigazione e del commercio; i veneziani ad esempio erano contrari alla prima crociata, in quanto non vedevano di buon occhio le navi genovesi e pisane, che fino ad allora non usavano navigare un bacino orientale del Mediterraneo, imporsi sempre di più in quella parte del mare. Sempre Venezia avversò, fino alla metà circa del XII secolo, il regno normanno di Sicilia in quanto esso dava segno di voler controllare strettamente le città marinare pugliesi. Genova cercò di estendere i suoi interessi commerciali oltre il Bosforo, in modo da sfruttare le correnti mercantili che giungevano dal Volga e dal Don, oltre alle carovaniere dell’Asia centrale; e alla fine del Duecento le sue vittorie contro Pisa alla Meloria (1284) e contro Venezia a Curzola (1298) sembravano assicurarle il dominio sul Mediterraneo. Le monarchie europee verso il consolidamento Il re di Francia Filippo II Augusto si impegnò in un’opera di consolidamento del potere, così come aveva fatto il padre Luigi VII, tuttavia era diventato prioritario risolvere il problema costituito dal fatto che il re d’Inghilterra fosse effettivamente signore di gran parte del territorio francese e che a lui guardassero tutti gli aristocratici che intendevano svolgere una politica autonoma rispetto al loro re. Erano infatti possessi inglesi in Francia il ducato di Normandia, la contea d’Angiò, la contea del Maine, il ducato d’Aquitania, il ducato di Guascogna e la contea di Poitou. In Inghilterra, il periodo di pace determinato dal regno di Enrico II terminò con i suoi figli e successori: prima Riccardo Cuor di Leone e poi Giovanni Senzaterra; i due si erano ripetutamente ribellati al padre durante il governo di questi, ma erano anche in vivissima discordia fra loro. Riccardo, al ritorno dalla terza crociata, dovette domare una rivolta feudale a capo della quale si era posto il fratello. Questi gli era poi succeduto al trono procurandosi, con la sua politica, le inimicizie della nobiltà laica e delle gerarchie ecclesiastiche, inoltre giunse a confiscare i beni ecclesiastici e a guadagnarsi la scomunica da Innocenzo III (cercò poi di risolvere prestando omaggio feudale al pontefice). Filippo II Augusto colse l’occasione per dichiararlo “vassallo infedele” e lo privò di tutti i suoi feudi francesi, tranne l’Aquitania. All’inizio Giovanni non cedette, ma con la capitolazione di Rouen (1204) finì con l’accettare, anche se nella pratica egli non aveva intenzione di abbandonare le sue terre. Si giunse dunque ad una battaglia risolutiva che ebbe luogo la domenica 27 luglio 1214 a Bouvines. Per quanto essa decidesse anzitutto delle sorti del trono di Germania, vi si giocò come vera posta quella di Francia: erano schierati da un lato Federico II di Svevia con il sovrano francese suo alleato, dall’altro Ottone IV di Braunschweig con Giovanni d’Inghilterra. La vittoria significò, per Filippo II Augusto, la possibilità di avviare un discorso in prospettiva unitario. La politica di Giovanni Senzaterra provocò la rivolta della nobiltà inglese; in seguito si giunse ad un accordo, come documentato dalla Magna Charta, e venne istituito il Magnum consilium (poi parlamento), ovvero un’assemblea di nobili con il compito di assistere il sovrano nelle funzioni di governo. Tutta la politica interna inglese, tra Duecento e Trecento, sarà caratterizzata dalla tensione tra corona e nobiltà. Filippo II Augusto aveva appoggiato la crociata contro gli albigesi con lo scopo di eliminare le volontà autonomistiche dei feudatari occitani, in particolar modo di Raimondo VII conte di Tolosa. Lo stesso impegno fu poi mantenuto dal figlio Luigi VIII e dal nipote Luigi IX. Quest’ultimo si dedicò anche all’organizzazione della settima crociata, il sogno che fin da di irrigazione portarono ad una più ampia resa della risicoltura, si verificò un incremento demografico e una crescita esponenziale nell’attività mineraria, tessile e artigianale. Nel corso del XII secolo si assisté al risveglio dei mongoli, pastori nomadi che abitavano l’odierna Mongolia orientale; gli arabi li chiamavano “tatar” termine da cui i latini derivavano la parola “tartari” che ricordava l’inferno pagano, il Tartaro. Della nascita di Temujin si sa ben poco: era figlio di un capotribù e, secondo la tradizione, visse la giovinezza tra le lotte che coinvolgevano tribù differenti. La sua ascesa cominciò quando entrò a servizio di una tribù turco-mongola, battendo e assimilando alla propria le tribù vicine: nel 1206 l’intera area del Gobi era sotto il suo dominio, dunque all’interno di una dieta tribale (kuryltai) venne proclamato Gran Khan, ovvero capo supremo (da allora il nome Genghiz Khan). La sua “legislazione” partiva dalle esigenze di un popolo nomade di pastori, dunque egli diede al suo impero il carattere dell'organizzazione politico-militare mobile; inoltre le tribù restavano indipendenti fra loro, ma a capo di esse c’era la famiglia imperiale, considerata sacra in quanto direttamente figlia della massima divinità aurea del popolo mongolo (Tengri, il Cielo). Nucleo dell’impero rimase sempre l’ulus, cioè l’intera unità costituita da una tribù e dal suo patrimonio: con l’impero, questo concetto si trasferì all’insieme delle terre conquistate, che divennero l’ulus della famiglia imperiale. Dopo aver unificato le genti mongole, nel 1211 Gengiz Khan avviò la campagna per la conquista della Cina. Le conquiste continuarono con il regno irano-persiano del Kwarezm e con quello della Grande Bulgaria, nelle steppe russe. Alla sua morte, nel 1227, era stato edificato un impero solido dove la pax mongolica, inflessibile ma anche equa, permetteva di convivere a genti diverse per lingua, stirpe e religione. Alla morte di un khan i capitribù erano tenuti a riunirsi per eleggere il prossimo, dunque il nuovo sovrano fu scelto nella persona di Ogodei, figlio di Genghiz Khan. Mentre egli completava l’assoggettamento della Cina settentrionale e della Persia, il nipote di Genghiz Khan, Batu, si gettava sull’Europa riuscendo a conquistare Kiev nel 1240. Per la Cristianità, l’avvento di queste nuove genti veniva considerato come una punizione di Dio per i peccati dell’umanità; inoltre in Europa riaffiorava il mito di Gog e Magog, i popoli misteriosi che, secondo le leggende cristiane, sono gli araldi dell’Anticristo. Successivamente i cavalieri di Batu si riversarono sulla Polonia, dove sconfissero i cavalieri Teutonici, sulla Boemia e sull’Ungheria. Il pericolo parve estremo, tanto che Federico II si appellò ai principi della cristianità invitandoli ad unirsi a lui in una crociata (gli avrebbe fatto comodo, visti i problemi con il papato); ma alla fine la crociata contro i mongoli non si fece. Batu dovette ritirarsi dall’Europa, in parte perché le vittorie gli erano costate troppe perdite, ma anche perché la morte di Ogodei richiamava i capitribù in patria. Il nuovo khan fu Guyuk, tuttavia egli non ebbe modo di riprendere l’avanzata in Europa. Dopo di lui i mongoli puntarono sulla Cina dove, nel 1279, la dinastia Sung venne abbattuta e Khubilai Khan si pose sul trono: per la prima volta dopo millenni era al potere una dinastia straniera, quella degli Yuan. Dall’impero tribale si passava ad uno di tipo federale poiché il Gran Khan risiedeva a Pechino, ma a lui guardavano come una superiore autorità i khan dell’Orda d’Oro, quello del Qara-Khitai e di Persia. I califfi arabo-persiani e i sultani turchi continuarono a governare, almeno formalmente, fino al 1258, quando il khan Hulagu arrivò a distruggere Baghdad e ad eliminare l’istituzione califfale (evento cardine nella storia dell’Asia e dell’Islam). Nella seconda metà del Duecento i mercanti stranieri erano ormai stabilmente bene accetti presso le élites mongole, come testimonia la nascita degli “ortoq” (associazioni di mercanti stranieri ai quali i mongoli affidavano lingotti d’oro ed argento da utilizzare per acquistare o vendere beni). Sotto Khubilai Khan venne creato un sistema bancario centralizzato, in cui si utilizzavano cartamoneta, assegni e lettere di cambio. Si impose poi una suddivisione sociale molto rigida: i mongoli erano alla cima del sistema, a prescindere dal censo, e a loro erano affidate le cariche governative e militari; i mercanti stranieri guadagnarono un ruolo importante poiché potevano ricoprire anche cariche amministrative di secondo piano; mentre i cinesi furono soggetti ad una discriminazione etnica. I commerci poi furono favoriti dalla pax mongolica e dalle flotte che gli Yuan ereditarono dalle aree meridionali appena conquistate. Tuttavia, alla fine del secolo, in territorio persiano, vennero aboliti i privilegi degli ulagh (gli inviati nelle province per conto dei nobili) a causa dei crescenti abusi che questi perpetravano a danno della popolazione civile; stessa cosa accadde in Cina sotto Khubilai. É noto come Genghiz Khan fosse interessato al taoismo, Hulagu Khan invece sfoggiava atteggiamenti filocristiani per guadagnarsi il favore delle minoranze nestoriane e la simpatie degli Stati franco-siriaci, infine Khubilai inclinava piuttosto il buddhismo: superstizione da un lato, opportunismo politico dall’altro. La Chiesa invece si ostinò a lungo nell’illusione di poter con un minimo sforzo guadagnare alla causa cristiana i formidabili cavalieri delle steppe e di potersene servire come braccio secolare della teocrazia sul piano ecumenico. Per venire a contatto con loro si pensò quindi di organizzare due spedizioni, una attraverso la Persia e un’altra per la strada della Russia, e di affidarle a frati domenicani e francescani. Costoro raccolsero le proprie esperienze in alcuni diari di viaggio, come la Historia mongalorum di Giovanni da Pian del Carpine, che sono ancora oggi strumenti fondamentali per la conoscenza storico-geografica dell’Asia. Oltre al papa anche il re di Francia Luigi IX, molto interessato in particolare ai mongoli di Persia, dai quali sperava di ottenere aiuto contro i musulmani, inviò messi al Gran Khan: si trattava di due francescani, Guglielmo di Rubruck e Bartolomeo da Cremona. Nel 1260 partirono anche due mercanti veneziani, Matteo e Niccolò Polo, per raggiungere la residenza estiva di Khubilai, a nord della Grande Muraglia. Vi rimasero circa un anno e pare avessero promesso di ritornare recando doni dall’Europa, infatti nel 1271 ripartirono e si aggiunse Marco, il figlio di Niccolò, il quale rimase alla corte del khan e scrisse il celebre libro “Il Milione”. Nel 1368, con la caduta degli imperatori Yuan, la Cina si chiuse al mondo occidentale e fu così che l’Europa, trovando preclusa la via di terra, tentò di raggiungere l’Oriente per mare. Tamerlano (Timur) nacque dal capo dei barlas, un gruppo di mongoli e musulmani fortemente turchizzati e, favorito dalle lotte interne come dalla debolezza del khan del tempo, riuscì a porsi a capo dell’intera Transoxiana. Nel 1370 egli assunse il titolo di grande emiro, scegliendo quindi un termine arabo per intendere la sua pietas musulmana. Tamerlano sposò una discendente di Genghiz Khan e stabilì la propria capitale a Samarcanda, l’emporio più importante lungo la via della seta. Egli conquistò Iraq, Azerbaigian, Armenia e Georgia; dunque Tamerlano riaccendeva le speranze di un’alleanza tra i popoli delle steppe e la Cristianità per sconfiggere non più l’Islam, egli stesso era musulmano, quanto la potenza ottomana, unica a fargli concorrenza nell’egemonia sul mondo uralo-altaico. Fu così che il principe bizantino Giovanni si accordò con i genovesi per ristabilire contatti con il khan: Bisanzio era ormai costretta a pagare un tributo al sultano Bayezid che Giovanni si diceva disposto a corrispondere al nuovo alleato, a patto che egli attaccasse e sconfiggesse quest’ultimo; inoltre il re di Francia si servì dei missionari domenicani per proporre al nuovo conquistatore tartaro un’azione comune contro gli ottomani. Nel 1402 presso Ankara i mongoli vinsero sugli ottomani, tuttavia Tamerlano era divenuto padrone dell’Anatolia e mostrava di non accettare cogestori del suo trionfo. Egli morì, nel 1405, partendo per la conquista della Cina e lasciando un impero frantumato in potentati ostili tra loro. L’apogeo del Medioevo Lo studio non più soltanto della Scrittura, ma anche della natura e delle scienze, fino ad allora considerate profane e di secondaria importanza quando non addirittura pericolose, fu caratteristico dei dotti della scuola cattedrale di Chartres, i quali si spiravano ampiamente la tradizione neoplatonica. Tra le nuove scienze che si andavano affermando, la logica intendeva insegnare i fondamenti del metodo con il quale lo scibile andava affrontato. Vessato per le sue idee, soprattutto da Bernardo di Clairvaux, fu il filosofo e teologo Pietro Abelardo: egli sosteneva che la ragione umana potesse pervenire a risultati importanti senza il necessario appoggio della Sacra Scrittura, inoltre elaborò i principi di identità e di non contraddizione, contribuendo così alla nascita della filosofia scolastica nel corso del Duecento. Celebre esponente di quest’ultima fu Tommaso d’Aquino. Tra XI e XII secolo le scuole cattedrali avevano svolto un ruolo molto importante nelle città europee: presso di esse si studiava secondo il sistema d’insegnamento romano, ovvero diviso nelle discipline del trivium (grammatica, retorica e dialettica) e del quadrivium (aritmetica, geometria, astronomia e musica). Il passo successivo fu costituito dalle università. Nel latino medievale universitas significava corporazione ed è in tale ottica che va compresa la nascita delle “universitates studiorum” che, al pari di altri gruppi corporativi, avevano lo scopo di rappresentare gli interessi di coloro che volevano studiare a livelli di eccellenza e di coloro che volevano insegnare. Le corporazioni dei docenti mettevano il loro sapere al servizio di chi avesse voluto servirsene, ovviamente a pagamento, e in questo modo nasceva la figura dell’intellettuale. Tra le prime università ricordiamo Salerno, specializzata nel settore medico, Bologna, in quello del diritto, e Parigi, nella teologia. Il primo prototipo di università sorse a Salerno, ma a renderla tale fu Federico II che istituì esami di laurea pubblici; se si prescinde da questo dubbio caso, la prima università sorse a Bologna. Nel corso del XII secolo il centro di maggior fervore era Parigi per la notorietà delle sue scuole teologiche, successivamente nasceranno in tutta Europa centri come Salamanca, Cambridge e Oxford che cercheranno di farle concorrenza. In genere nelle università vi erano quattro facoltà, di cui quella delle Arti liberali era considerata propedeutica alle altre tre (diritto, medicina e teologia). Nonostante le premesse iniziali, Bonifacio si era legato indissolubilmente alla causa angioina e, attraverso essa, alla corona di Francia. Lì il re Filippo IV il Bello perseguiva a sua volta una politica di accentramento regio all’interno del paese e di egemonia al di fuori di esso, dunque l’appoggio alla politica pontificia si rivelava compromettente. Nel 1296 Bonifacio VIII aveva condannato sia Filippo IV sia Edoardo I d’Inghilterra che, in guerra tra loro, avevano violato i privilegi fiscali del clero. Alla condanna pontificia il re di Francia aveva risposto duramente vietando che le decime (le tasse raccolte a favore della Chiesa) uscissero dalla Francia per confluire a Roma; si raggiunse un accordo soltanto nel 1298. Successivamente però Filippo IV aveva convocato gli Stati generali, ottenendo l’appoggio per una politica fiscale che comprendesse la tassazione del clero. Bonifacio si oppose prima con la bolla “Ausculta fili”, nella quale ribadiva il diritto della Chiesa a godere di speciali prerogative; poi con la celebre “Unam sanctam” del 1302 che fondava una vera e propria teoria generale del diritto dei pontefici a porre il loro primato su qualunque potere della terra, inoltre si affermava che al pontefice, in quanto vicario di Cristo in terra, spettassero le due spade: quella spirituale che egli usa direttamente e quella temporale che egli manovra delegandola ai sovrani del mondo. In questo modo Bonifacio VIII si configurava come isolato nella politica del tempo: si era messo in urto proprio con la tradizionale alleata della Chiesa, ovvero la corona francese, ed era detestato da quanti attendevano il ritorno della Chiesa pura delle origini perché vedevano in lui un pontefice corrotto e assetato di potere; egli infatti tentò un’alleanza con il re di Germania, ma questa non andò a buon fine. All’inizio il re di Francia sembrò accusare il colpo, anche perché reduce da una pesante sconfitta contro le milizie fiamminghe, ma nel giugno del 1303 riunì un’assemblea di avversari del papa, nella quale egli fu dichiarato scismatico, eretico e simoniaco, riprendendo tra l’altro le dicerie relative all’irregolarità della sua elezione pontificia. A quel punto il principale consigliere del re, Guglielmo di Nogaret, venne inviato in Italia con l’incarico di catturare Bonifacio: con l’appoggio di Sciarra Colonna egli riuscì ad imprigionarlo, minacciandolo di morte, ma il popolo di Anagni (sua città natale e luogo in cui si era rifugiato) insorse perchè fedele al pontefice riuscendolo a liberare e cacciando gli aggressori. Dunque il papa poté tornare a Roma, rifugiandosi prima in Vaticano e poi in laterano, ma morì nell’ottobre dello stesso anno. A Bonifacio VIII successe Benedetto XI che, tuttavia, rimase al soglio pontificio per poco tempo. Nel collegio cardinalizio, molti erano quelli che propendevano per un rafforzamento dei legami tra papato e regno di Francia, appunto una delle cause che avevano portato alla rovina di Bonifacio, fu così che nel 1305 venne eletto un cardinale francese. Egli venne consacrato a Lione con il nome di Clemente V e, fortemente condizionato dalla volontà del re di Francia, non si pose neppure il problema del rientro a Roma: scelse come nuova sede del governo papale la cittadina di Avignone, nella Francia meridionale. Una lunga tradizione storiografica ha definito questo periodo, in cui i papi furono tutti francesi, come “cattività avignonese”; in realtà, solo nei primi anni esso fu segnato da un’effettiva soggezione nei confronti dei re di Francia, ma di lì a poco sarebbe iniziata la guerra dei Cent’anni che avrebbe perciò impegnato i sovrani francesi in una lunga crisi politica. Da Avignone i pontefici non cessarono di pensare al loro stato centro-italico, inviarono infatti energici legati pontifici con l’incarico di riorganizzarlo, preparando così il loro ritorno; inoltre presso la nuova corte pontificia soggiornarono personaggi come Francesco Petrarca e Simone Martini, che contribuirono a fare di essa il centro di attrazione di ricche forze culturali. Semmai il periodo avignonese segnò una perdita obiettiva di contenuti ecumenici, non solo nella Chiesa, ma in tutta la società del tempo: fino al Trecento la Cristianità non aveva mai dubitato del suo essere un’entità unitaria, ma ora le monarchie feudali, che si andavano evolvendo in regni nazionali assoluti, avevano interposto tra le vecchie autorità ecumeniche e i popoli il nuovo diaframma costituito dalla loro presenza. Il ritorno della curia Roma era però un obiettivo per molti, invece i cardinali francesi, che avevano oltralpe i loro interessi, erano contrari a una scelta del genere. Cresceva la preoccupazione per la situazione romana, anche a seguito della fiducia accordata dal papa a Cola di Rienzo, dunque si decise per il rientro del pontefice: nel 1367 Urbano V si reinstallò a San Pietro ma, anche a causa dell’instabilità che si era creata a Roma, i cardinali francesi presero immediatamente a premere affinché si facesse ritorno in Avignone, cosa che difatti avvenne nel 1370. In seguito fu papa Gregorio XI a tentare un nuovo ritorno, ma morì poco dopo averlo compiuto. Il concilio, in maggioranza francese, si sarebbe potuto pronunciare per abbandonare nuovamente l’Urbe, ma il popolo romano insorse costringendoli ad eleggere un cardinale italiano, Bartolomeo Prignano, ovvero Urbano VI; tuttavia egli aveva un carattere dispotico e la sua elezione fu sospetta di invalidità. I cardinali francesi si riunirono quindi a Fondi per dichiarare nulla la sua elezione e scegliere invece Roberto di Ginevra, Clemente VII. Egli tentò di invadere Roma per cacciare l’avversario, ma la sua iniziativa fu sventata dal condottiero Alberico da Barbiano. Da qui l’inizio dello scisma d’Occidente: i sostenitori di Clemente VII si ritirarono ad Avignone e riaprirono la curia pontificia, determinando una situazione che dividerà la Cristianità tra due obbedienze per ben cinquant’anni. Secondo uno schema puramente politico, le due fazioni erano così divise: dalla parte del pontefice romano stavano la Germania, l’Inghilterra, le Fiandre, la Polonia, l’Ungheria e le signorie del nord d’Italia; mentre si schieravano con il papato avignonese ovviamente la Francia, il regno di Sicilia, l’Austria, la Scozia e le monarchie iberiche. Nel 1409 un grande numero di prelati si riunì a Pisa, da poco dominio dei fiorentini, per risolvere finalmente la questione: il loro intento era quello di far abdicare i due papi ed eleggere invece il francescano Pietro Filarghi, con il nome di Alessandro V, tuttavia nessuno dei due papi in carica si uniformò alle decisioni del concilio. Ora però in carica c’erano ben tre papi, anche se la maggior parte dei vescovi e dei governi europei si schierò a favore del papa eletto nel concilio pisano, il quale poteva contare anche sull’appoggio dei banchieri fiorentini e soprattutto della casa bancaria dei Medici. Ciascuno dei tre pontefici moltiplicò i favori ai suoi rispettivi sostenitori, che in tal modo poterono estendere ancor più la loro influenza e il controllo sulle istituzioni ecclesiastiche dei loro paesi, avviando talora un disegno di “Chiesa nazionale”. Questo articolarsi della compagine ecclesiale in gruppi nazionali determinò la nascita del conciliarismo: una tesi secondo la quale alla monarchia pontificia avrebbe dovuto accompagnarsi (o, nei casi più decisi, addirittura sostituirsi) nella direzione della Chiesa, l’assemblea dei vescovi periodicamente riunita e chiamata a decidere almeno sulle questioni teologiche e disciplinari più importanti. Il concilio era da sempre stato un elemento consueto di discussione e di decisione; l’ultimo grande concilio di questo tipo si era tenuto a Vienne nel 1312, da allora in poi le grandi decisioni erano state prese dal papa e dai personaggi della curia. Secondo la tesi conciliaristica, il papato non aveva il diritto di governare direttamente le varie Chiese nazionali, ma esse riconoscevano invece di dipendere da un’istituzione collegiale, appunto il concilio dei vescovi. Facendo leva sulle tesi conciliari, sfruttando la scarsa autorevolezza dei tre pontefici e intendendo allacciare anche un discorso diplomatico con le varie potenze europee, nel 1414 Sigismondo di Lussemburgo-Boemia (re dei romani) indisse nella città di Costanza un concilio, durante il quale si sarebbero dovuti dibattere tre temi: la composizione dello scisma, la riforma delle istituzioni gerarchiche e dei costumi della Chiesa, l’organizzazione di una nuova crociata che fermasse la minacciosa avanzata turca in Oriente. All’autorità di questo nuovo concilio, che era appoggiato un po’ da tutti i grandi governi europei, si sottomisero i tre papi in carica; inoltre, con un nuovo decreto, venne stabilito che da quel momento il concilio si sarebbe riunito ogni cinque anni. Nel 1431 a Basilea si aprì un nuovo concilio; ma papa Eugenio IV prima tentò di scioglierlo, quindi ne impose il trasferimento a Ferrara (1437) e di lì a Firenze (1439). Il concilio fiorentino è rimasto nella storia come uno dei più fastosi del secolo, vi convennero infatti anche molti prelati della Chiesa cristiana d’oriente preoccupati per l’avanzata dei turchi ottomani, a cui il papa rispose promettendo l’organizzazione di una nuova crociata, a patto che gli orientali accettassero di ricomporre lo scisma del 1054 e di riconoscere la suprema autorità romana. I delegati sul momento accettarono, ma la loro sottomissione provocò indignazione a Bisanzio. A questo piccolo successo però si contrapponeva qualcosa di ben più grave: una parte dei vescovi riuniti a Basilea aveva rifiutato il trasferimento del concilio nelle città italiane scelte dal pontefice e aveva dato vita a un nuovo scisma, detto “piccolo scisma d’Occidente” (1439-1449). Costoro elessero anche un nuovo pontefice, ma questo non ebbe gran seguito. Con la chiusura dell’esperimento scismatico di Basilea le teorie conciliari persero di credibilità in quanto furono private dell’appoggio politico dei sovrani europei, ma ad esso si sostituì uno strumento nuovo, ovvero il concordato tra Santa Sede e Stati: in questo modo nacquero la Chiesa gallicana ed anglicana che si andavano costituendo come sezioni della stessa Chiesa latina. I movimenti religioso-popolari a carattere eterodosso nati a partire dall’XI secolo, sebbene contrastati in molti modi dalle istituzioni ecclesiastiche, non erano in effetti mai tramontati. Continuarono quindi a nascere gruppi che criticavano la mondanizzazione della Chiesa; inoltre si diffuse il movimento delle osservanze francescana e domenicana, che spingevano per un ritorno dei due ordini al rigore originario, e soprattutto si impegnavano alla predicazione pubblica in volgare, rivolta di conquistare e rievangelizzare città e campagne. Dall’insieme di queste esperienze, nel secolo successivo avrebbe preso le mosse la Riforma luterana. Verso un’Europa degli Stati La Germania del Trecento era divisa in molti Stati feudali e città mercantili, dunque era l’impero il simbolo della sua unità. Con la “Bolla d’Oro” il re di Germania Carlo IV aveva precisato che, da allora in poi, i principi elettori avrebbero dovuto essere quattro laici e tre ecclesiastici; inoltre si proibivano le leghe cittadine (anche se le città continuarono a federarsi). Il re Sigismondo comprese che una delle cause di debolezza della corona imperiale Dopo essere stata obbligata all’inattività, prendendo come pretesto una ferita da lei ricevuta, Giovanna tentò un’iniziativa personale: con un manipolo di fedeli corse in appoggio alla città di Compiègne, assediata dai borgognoni; tuttavia ella venne catturata dagli assedianti e fu venduta per 10.000 scudi agli inglesi. Quest’ultimi la rinchiusero nel castello di Rouen e montarono contro di lei un processo inquisitoriale per eresia e stregoneria. Come è noto ella venne arsa sul rogo nella piazza del mercato di Rouen nel 1431 poiché, in un primo momento, si era sottomessa ai giudici ma subito dopo aveva ritirato la sua dichiarazione, venendo quindi considerata una relapsa (recidiva). Qualche anno dopo la città venne conquistata dai francesi e la causa fu riabilitata; Giovanna sarà dunque considerata santa nazionale, per quanto la Chiesa si opporrà silenziosamente alla sua canonizzazione (verrà dichiarata santa solo nel 1920). Morta Giovanna, Carlo VII si accordò con il duca di Borgogna e giunse a siglare una tregua con il re d’Inghilterra, ma le ostilità ripresero. La guerra dei Cent’anni si andò spegnendo dopo il 1453, senza un vero e proprio trattato di pace: gli inglesi si ritirarono ma mantennero Calais. Per riorganizzare il regno, il re di Francia Luigi IX, figlio di Carlo VII, dovette anzitutto aggirare o abbattere la presenza dei grandi principati feudali che impedivano la gestione unitaria del regno. In questo modo nacque la Francia moderna. In Inghilterra invece la situazione era andata peggiorando anche a causa dell’instabilità psichica del re Enrico VI: la moglie aveva cercato allora di mantenere il potere alleandosi con il casato di Lancaster e con quello di Beaufort, sollevando però la reazione di un altro grande principe, Riccardo duca di York. Ne seguì la celebre guerra delle Due Rose che terminò con la vittoria degli York. Stanchi dopo trent’anni di guerra, ormai gli inglesi cercavano un sovrano che potesse porre fine alle discordie: lo individuarono in Enrico del casato dei Tudor, che era discendente dei Lancaster ma aveva sposato una York. Egli battè l’avversario e ascese al trono come Enrico VII, avviando un processo di modernizzazione e di centralizzazione che portò all’assolutismo del Cinquecento. La penisola iberica era sostanzialmente divisa tra regno di Castiglia, regno di Aragona ed emirato di Granada. Una vera e propria svolta nella storia della Spagna e forse dell’intera società euro-mediterranea si ebbe nel 1469, quando i due eredi al trono di Castiglia e di Aragona, rispettivamente Isabella e Ferdinando, si sposarono. Dieci anni dopo i due erano sui loro troni, senza però fonderli in un unico Stato. Tuttavia, da allora in poi i “re cattolici” controllarono praticamente l’intera penisola iberica, dove la reconquista fu completata nel 1492 con la presa di Granada; negli anni successivi ebrei e musulmani si videro costretti a scegliere tra conversione ed esilio. Nella penisola vi era poi il regno del Portogallo, sempre più interessato alle nuove vie marittime verso l’Africa e l’Oriente. Epidemia, crisi, ripresa I secoli tra XI e XIII erano stati tra i più “felici” della storia europea, ma il Trecento si poneva come secolo di rottura: il fatto che la crisi demografica si sia manifestata attraverso la fame, assai prima che attraverso la peste, ha indotto la maggioranza degli studiosi a ritenere che la sua causa stia prima di tutto in un rapporto sfavorevole tra l’aumento della popolazione e quello della produzione. In precedenza l’aumento demografico era stato possibile, in assenza di una rivoluzione dei metodi agricoli, solo tramite l’estensione delle superfici coltivate; con il tempo le terre coltivate non bastarono più a sfamare la popolazione. Le condizioni fisiche del contadino medio e del lavoratore urbano di tardo Duecento erano il risultato di generazioni nutrite quasi esclusivamente di cereali, quindi con scarse difese fisiologiche; a questo si sommò il peggioramento climatico, che provocò l’inferire di malattie da raffreddamento e grandi carestie, come quella del 1315-1317. Conseguenza delle carestie fu infine il rincaro dei prezzi dei cereali, che lasciò esposte alla fame i ceti più poveri. La crisi raggiunse anche le città e si mostrò con il ristagno nella produzione e nello smercio di certi prodotti, soprattutto tessili, e nella perdita di circolazione della moneta d’oro. Intanto, una serie di grossi prestiti concessi dalle banche fiorentine ai sovrani europei, e mai restituiti, provocava un suggerirsi di fallimenti bancari. Nel corso del 1347 arrivò in Europa una grave epidemia di peste, pare attraverso navi genovesi che, provenienti dal mar Nero, erano sbarcate a Messina. Da qui essa si diffuse in tutto il continente ma ebbe come un periodo di stallo, tra gennaio e marzo, per poi scoppiare in primavera (questo perché l’inverno non è favorevole alla proliferazione di quelli che sono stati considerati i vettori del contagio, ovvero le pulci). La malattia infierì in Europa dalla fine del 1347 all’estate del 1350 ma in Cina, luogo da cui pare si sia originata, essa era presente già da un decennio. I termini “peste” e “pestilenza” sono però troppo generici perché, un tempo, con essi ci si riferiva ad un qualunque tipo di malattia; tuttavia la peste di Giustiniano del 542 sembra confrontabile con il bacillo della celebre epidemia del Trecento, scoperto alla fine dell’Ottocento da Alexandre Yersin, da cui la malattia “Yersinia pestis”. Epidemie locali di malattie varie si erano già riversate sull’Europa nei secoli precedenti, ma ora “la peste” si scontrava con una popolazione indebolita da lunghi anni di carestie e ammassata in centri urbani nei quali l’igiene era molto precaria. L’altissimo tasso di mortalità lasciò l’Europa in una situazione di ristagno demografico: durante il corso dell’epidemia perì dal 25 al 35% della popolazione e non mancarono zone a percentuale maggiore. La situazione migliorò dal 1350 circa, quando la malattia continuò a circolare in modo endemico per poi ripresentarsi più volte fino alla pandemia del 1630. Oltre alla peste, il calo demografico fu anche conseguenza delle frequenti guerre che, fra Tre-Quattrocento, colpirono principati civili tramite saccheggi, razzie e incendi di campi coltivati. Le terre impervie che in precedenza erano state coltivate a causa della pressione demografica, ora venivano abbandonate in favore di quelle migliori; inoltre i campi di grano furono convertiti al pascolo o alla coltivazione di piante ad “uso industriale”, poiché più remunerativi. La situazione precaria determinava anche la vendita dei possedimenti dei piccoli proprietari terrieri, causando così un concentramento delle ricchezze fondiarie in un più limitato numero di mani; in altre zone i signori locali si radicavano ancora di più nelle proprie aziende agricole gravando sui contadini. Molti contadini privi di sostentamento cercavano rifugio nelle città, dove almeno alcune istituzioni caritatevoli assicuravano loro un minimo di sopravvivenza giornaliera; ma il loro flusso minacciava i ceti subalterni cittadini, in quanto abbassava il valore della manodopera. Insomma la situazione generale di crisi indusse i più poveri, ma anche gli artigiani e i produttori, ad insorgere. Per i cornisti di estrazione elevata, costoro erano mossi solo da sete di saccheggio, in realtà in queste ribellione si possono scorgere motivi politici o religiosi: i “pastorelli” delle campagne francesi erano mossi da un’ansia di rinascita ispirata all’Apocalisse; la jacquerie dei contadini francesi che si ribellavano ai costi delle sconfitte militari della guerra dei Cent’anni, gravanti su di loro; oppure ancora la rivolta dei ciompi. Quest’ultimi erano, fra i lavoratori che concorrevano alla produzione del panno di lana, i meno specializzati, quindi quelli con il livello salariale peggiore e la minore considerazione sociale. A Firenze già prima della pandemia uno di loro, Ciuto Brandini, aveva cercato di organizzarli per dar voce più forte alle loro richieste, ma era stato giustiziato; le insurrezioni erano poi continuate anche a Perugia e a Siena, ma finalmente nel 1378, con un’ampia insurrezione, il governo comunale fiorentino fu obbligato ad ascoltarli: costoro chiedevano la libertà di associazione ed il diritto di partecipare al governo cittadino. Vennero quindi create tre nuove Arti che, non essendo espressione del popolo “grasso” né di quello “magro”, furono dette Arti del popolo di Dio. Ma in seguito l’oligarchia dei banchieri e dei commercianti fiorentini riprese il sopravvento e tolse ai subalterni tutte le conquiste che essi le avevano strappato. È da notare che tra i ciompi forte era l’ispirazione religiosa, non solo in quanto il linguaggio religioso era forse l’unico di cui la gente illetterata disponesse per far valere i propri diritti, ma anche perché fra di loro era senza dubbio viva la predicazione dei cosiddetti “fraticelli” (francescani che si ribellavano ai propri superiori). Dopo le pestilenze e le continue guerre locali, in Europa occorrevano milizie che facessero della guerra un’occupazione permanente senza sottrarre con ciò forze al lavoro e alla produzione. Nacque dunque la “compagnia di ventura”: una specie di società commerciale i componenti della quale erano armati ed esperti in cose di guerra. Essi, non avendo alcun interesse a condurre guerre sanguinose, venivano sovente accusati di tradimento; inoltre essi, per non rimanere senza lavoro, cercavano di impedire l’instaurarsi di un qualunque sistema di pace duraturo. Tra questi, alcuni condottieri seppero condurre una politica personale abile, che fruttò loro una signoria o, più tardi, addirittura un principato. All’epoca era difficile spiegare il perché del susseguirsi delle annate cattive, delle epidemie e delle guerre; la risposta più immediata stava in un’azione particolarmente energica del diavolo e delle forze del male tese a infliggere ai fedeli prove più dure in coincidenza con l’approssimarsi della fine del mondo, che sarebbe stata annunciata secondo la tradizione apocalittica del rivelarsi dell’Anticristo. Le folle contadine e cittadine, già sollevate contro i nobili che si comportavano da cattivi cristiani, si davano anche alla ricerca dei complici del demonio e li trovavano nelle streghe e negli ebrei, accusati di avvelenare i pozzi e di uccidere i capi di bestiame o addirittura i bambini. Le popolazioni del Trecento mostravano una paura della morte ignota nei secoli precedenti: ciò senza dubbio perché, negli anni della crisi, la morte era più drammaticamente presente nella società, ma anche perché intanto si era imparato a vivere meglio e ad affezionarsi quindi maggiormente all’esistenza. Pare che dopo la metà del Trecento la popolazione europea, pur diminuita ed impoverita, consumasse globalmente di più. Il volume delle merci viaggianti aumentò, soprattutto delle cosiddette “povere”, le quali venivano trasportate da un nuovo tipo di imbarcazione più popolare, si impadronì del Campidoglio. Il governo di Cola divenne presto un regime di terrore popolare, dunque i romani lo cacciarono dalla città; successivamente però essi, stanchi dell’ oppressione nobiliare, lo accoglieranno nuovamente come trionfatore. Tuttavia le violenze ripresero e il “tribuno” venne trucidato dalla folla. L’avanzata turca La dinastia ayyubide non seppe mantenere l’unità del suo immenso sultanato, per questo i successori del Saladino si divisero l’eredità in due sultanati, con rispettiva capitale a Damasco e Il Cairo: il primo si frammentò nel corso della prima metà del XIII secolo; il secondo venne travolto nel 1250 da un colpo di stato organizzato dalle sue guardie del corpo, i “mamelucchi”, che a loro volta si sostituirono avvicendando sul trono le loro dinastie, fino al 1518, allorché l’Egitto sarebbe entrato a far parte di un nuovo impero musulmano, quello dei turchi ottomani di Istanbul. Costoro erano una tribù turca che, nella prima metà del XIII secolo, spinta dall’Asia centrale verso ovest dall’espansione mongola, si era posta al servizio del sultano selgiuchide di Konya che le aveva assegnato un piccolo territorio non lontano da Costantinopoli. Verso la fine del Duecento il khan Osman si avvantaggiò della crisi del sultanato di Konya, accerchiato dai mongoli di Persia e dai mamelucchi d’Egitto come, in seguito, un suo successore si servì delle lotte per il potere a Costantinopoli, per strappare all’impero la Bitinia e Gallipoli la quale, trovandosi sui Dardanelli, assicurava il controllo degli stretti e l’accesso alla penisola balcanica. Troppo tardi Bisanzio si era accorta che lo scomodo alleato stava ormai circondando e quasi strangolando la capitale; un soccorso sarebbe potuto venire dallo czar serbo ma, quando egli scomparve, l’offensiva ottomana non ebbe limiti e si impadronì di Adrianopoli dove, nel 1366, Murad I stabilirà la nuova capitale. Dal punto di vista militare la nuova potenza decise di non affidarsi più ai ghazi turcomanni per la costituzione dell’esercito ma, tramite la razzia e quindi la leva forzata, giovani cristiani venivano educati alla fede islamica ed entravano a far parte di una nuova milizia, i cosiddetti giannizzeri. L’impero bizantino era ormai ridotto a poco più della capitale e dell’aria circostante il Bosforo, mentre i turchi scorrazzavano ancora per l’Egeo rendendo la vita difficile alle navi genovesi e veneziane. Allora in Europa ci si rese conto che non c’era tempo da perdere: papa Innocenzo VI indisse una conferenza ad Avignone che riuscì soltanto a rilanciare la solita lega tra Venezia, Cipro e l’Ospedale di Rodi, la quale concluse solo uno sterile attacco ai Dardanelli; tuttavia, in modo indiretto, si favorì la pace di Brétigny durante la guerra dei Cent’anni, stipulata col pretesto del comune sforzo crociato contro gli infedeli. Successivamente ebbe luogo un’azione militare di Amedeo VI conte di Savoia che condusse alla conquista, sebbene temporanea, di Gallipoli. Con Bayezid i turchi sbaragliarono la potenza serba, avendo ormai sottomesso gran parte della penisola balcanica. Il basileus Manuele II avrebbe voluto iniziare un lungo giro per l’Europa per implorare una nuova risolutrice crociata ma, essendo a corto di denaro, si era rivolto a Venezia offrendole in vendita l’isola di Lemno; la Serenissima da parte sua non aveva intenzione di cercarsi attriti con il sultano. L’offensiva turca nei Balcani aveva cominciato a preoccupare anche il re d’Ungheria il quale, facendo pressione su entrambi i papi, ottenne un nuovo bando di crociata (controvoglia vi aderì anche Venezia). L’impresa crociata trovò un padrone autorevole del duca di Borgogna, il quale raccolse una forte somma di denaro ed affidò la spedizione a suo figlio, quello che poi sarà chiamato Giovanni Senza Paura. Tuttavia, presto Nicopoli nel 1396, la formidabile armata dei crociati subì una sanguinosa sconfitta, pare dovuta in parte all’irruenza dei cavalieri occidentali e alla loro scarsa conoscenza del terreno e delle consuetudini militari dei turchi. Con la sconfitta turca del 1402 presso Ankara, che vide vincitore il capo mongolo Tamerlano, gli ottomani tornarono ad essere un alleato interessante per i veneziani; dunque le successive crociate, quelle del primo Quattrocento, videro contrapporsi veneziani e genovesi nel mar di Levante. Intanto però un nuovo sultano, Maometto I, aveva preso le redini della compagine ottomana e l’aveva riunificata sotto il suo potere, questa volta aiutato anche dai genovesi. Dopo di lui Murad II, accampando il formale pretesto che il basileus aveva parteggiato per il suo concorrente al sultanato, assalì Costantinopoli nel 1422, forse più come prova di forza poiché venne tolto dopo tre mesi. Nel frattempo, il sultano corteggiava insistentemente veneziani e genovesi: conscio del loro potere economico e navale in Costantinopoli, intendeva provocare la loro rivalità mostrando alterno favore. Durante il concilio di Basilea, Ferrara e Firenze, il basileus chiese finalmente soccorso ai capi della Chiesa latina, ma dovette scendere a patti accettando la fine dello scisma d’Oriente. Ai primi del 1443 un’enciclica generale di papa Eugenio IV invitava tutti i prelati a pagare una decima sui loro proventi per la guerra contro i turchi; il pontefice stesso aveva da parte sua stabilito lo stanziamento di un quinto delle sue risorse per armare un esercito e una flotta. Ancora una volta l’appello alla Cristianità cadde in un sostanziale vuoto, soprattutto a causa delle diatribe già presenti in Occidente, come la guerra dei Cent’anni. Nonostante tutto, la campagna cominciò in modo brillante, ma poi il duro inverno balcanico e la tattica turca ebbero la meglio. Nel 1444 i re e i grandi dei regni polacco ed ungherese giurarono di compiere insieme lo sforzo decisivo per cacciare i turchi dall’Europa: le flotte di Alvise Loredan e del cardinale Francesco Condulmer avrebbero dovuto bloccare i turchi per impedirgli di passare in Europa ma, quando il sultano stava invece passando il Bosforo aiutato dai genovesi e da alcuni veneziani, i cristiani non avevano ancora superato il Mar di Marmara. Lo scontro che avvenne presso la città di Varna (4 agosto 1444), fu per i crociati un’altra sconfitta epocale, come Nicopoli. Dopo un periodo di riassestamento, le truppe ungheresi tentarono una nuova azione militare, ma furono sconfitti nella piana del Kossovo. La crisi provocata dalla morte di Murad II e la cattiva fama del principe Maometto II determinarono nel mondo cristiano una ventata di euforia. Intanto, il giovane sultano cominciò a fornire sempre più chiare prove di non essere affatto l’incapace che si era ritenuto: iniziò a controllare il transito delle navi, quindi la vita di Costantinopoli, attraverso la fortificazione degli stretti, compromettendo così genovesi e veneziani, i quali si trovarono impossibilitati a reagire per non guastare i rapporti con questa o con quella delle due parti contendenti. Fu allora nell’estate del 1452 che Maometto II diede avvio alle ostilità, provocando un senso crescente di timore nell’Europa cristiana. Tuttavia il papa si mostrò sempre rigoroso sul fatto che l’unione effettiva delle due Chiese avrebbe dovuto precedere la crociata: il 12 dicembre del 1452 la fine dello scisma venne solennemente celebrata in Santa Sofia; si sparse la voce che l’empio accordo avrebbe provocato l’ira celeste. Fu così che Costantinopoli visse i suoi ultimi giorni tra vari disordini e, alla fine del maggio 1453, Maometto II entrò nella città. I principali fattori che provocarono la caduta della Nuova Roma furono il debolissimo aiuto dell’Occidente e il fatto che l’opinione pubblica greca non fosse disposta ad accettare l’imposizione del primato latino. Fu in occasione della caduta di Costantinopoli che l’idea della crociata contro gli infedeli si collegò strettamente con quella della difesa d’Europa. Niccolò V, appresa la notizia della presa di Costantinopoli e diramatala alle potenze italiche in guerra per la successione al ducato di Milano, le scongiurava di fare subito pace e di creare un fronte comune contro il pericolo barbarico. Il papa era ben deciso a dare corpo alla crociata; a ciò lo spingeva anche l’insistenza del cancelliere dell’imperatore Federico III, quell’Enea Silvio Piccolomini vescovo di Siena e futuro papa Pio II, il quale lo assicurava che il suo signore era disposto ad assumersi la responsabilità tanto politica quanto militare di una futura grande spedizione. Intanto il fervore crociato si andava e intiepidendo ma sul fronte dei Balcani, dove il sultano continuava la sua avanzata, una spedizione messa in piedi dal minorita osservante Giovanni da Capestrano ottenne due vittorie (una battaglia navale presso il Danubio e una sulla terraferma). Dopo processioni e festeggiamenti, il pontefice convocò i capi della Cristianità occidentale in un congresso a Mantova, ma al suo arrivo nessuno degli invitati aveva raggiunto la sede: gli ambasciatori arrivarono soltanto mesi più tardi, mentre tutta la Serbia stava ormai cadendo nelle mani dei turchi. Nel 1463, in un enciclica, Pio II si diceva sicuro che nessun principe cristiano si sarebbe tirato indietro da un’impresa nella quale il pontefice, ormai debole e infermo, dava l’esempio; fu infatti il papa in persona a recarsi presso il porto di Ancona, dove avrebbe dovuto riunirsi la flotta cristiana, tuttavia una violenta epidemia decimò la popolazione locale e i pochi aspiranti crociati. Il papa fece appena in tempo a vedere l’arrivo delle navi veneziane, arrivate in ritardo, e morì. Il successore Paolo II sembrava disposto a continuare l’opera del Piccolomini, ma una dieta da lui fatta indire a Norimberga per trattare la questione non dette risultati. I turchi continuarono le scorrerie e nel 1470 occuparono Negroponte, evento che suscitò uno sgomento per certi versi superiore a quello della caduta di Costantinopoli, si ritrovarono padroni dei Balcani meridionali; successivamente attaccavano Rodi e prendevano d’assalto la città pugliese di Otranto, la saccheggiarono e massacrarono la popolazione. Nel 1481, con la morte di Maometto II e le contese per la successione tra i figli, si allentò per un istante la pressione. Pertanto il Quattrocento si chiudeva in modo paradossale: il sultano turco riusciva a dominare tutto il Mediterraneo orientale, mentre i Re Cattolici cacciavano gli ultimi mori dalla penisola iberica. Agli albori del mondo moderno Nel corso del Quattrocento si afferma una serie di invenzioni e di scoperte. La polvere da sparo era usata fin dal Trecento per rudimentali bombarde che lanciavano palle di pietra; furono però i principi del Quattrocento e i loro ingegneri a perfezionarla fino a farne uno strumento d’assedio. Anche la stampa veniva già usata ma, con l’invenzione dei caratteri mobili (Gutenberg, 1455), essa divenne un nuovo formidabile strumento di diffusione della cultura e della propaganda. Allo stesso modo la cosmografia si impose, nel corso del XV
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