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Riassunto Manuale storia medievale di Andrea Zorzi, Appunti di Storia Medievale

Riassunto dettagliato del manuale di storia medievale

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 02/09/2023

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ariannamazzarini4 🇮🇹

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Scarica Riassunto Manuale storia medievale di Andrea Zorzi e più Appunti in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! Manuale di storia medievale-Andrea Zorzi Snodo 1-Mille anni di storia La nozione di medioevo è un’invenzione moderna. Con medioevo intendiamo il periodo che parte tra il IV-VII secolo e che finisce intorno al XIV-XV secolo. Le persone che vivevano nel medioevo si consideravano in continuità con l’impero romano, che pian piano aveva abbandonato il paganesimo in favore della religione cristiana. Nella seconda metà del XVII secolo maturò tra i colti uomini europei la consapevolezza del fatto che l’età in cui stavano vivendo era decisamente differente rispetto al passato. Un docente deòò’università di Leida, il tedesco Gorg Horn pubblicò nel 1666 una storia universale che proponeva una nuova periodizzazione: l’antico evo (ventus), un periodo intermedio chiamato medium aevum e il periodo recente (recentior). Horn fissò come estremi cronologici del periodo intermedio la caduta dell’Impero Romano di occidente (476) e la caduta dell’Impero Romano di oriente (1453). Nel corso del XVIII secolo l’immagine negativa del medioevo fu sottoposta a revisione. Di grande rilievo fu l’opera di Ludovico Antonio Muratori che diresse un’imponente raccolta di cronache relative al periodo compreso tra il VI e il XVI secolo, chiamata Rerum Italicarum Scriptores-scrittori di storia italiana. Durante il suo studio Muratori cercò di ricostruire i tratti comuni, come lingua, costumi, cultura e istituzioni, della civiltà medievale italiana. Successivamente con il romanticismo si diffonde sempre di più l’immagine positiva del medioevo e l’interesse per i suoi aspetti passionali e irrazionali. Capitolo 2-Quadri Generali Il clima: durante l’Impero Romano fu raggiunto il cosiddetto optimum climatico, seguito poi da un peggioramento tra il IV e VIII secolo. Questo cambiamento determinò una contrazione delle aree di sopravvivenza dell’emisfero settentrionale e portò di conseguenza alle migrazioni delle popolazioni seminomadi verso i miti territori mediterranei dell’Impero Romano. Durante il IX secolo le condizioni climatiche iniziarono a migliorare fino al XIV secolo quando ha inizio la “piccola età glaciale” che si conclude a metà del XIX secolo. Epidemie: a condizionare l’evoluzione della popolazione sono anche le malattie, in particolare peste, vaiolo e lebbra. La peste si diffonde nel bacino del Mediterraneo già nel IV secolo, per poi avere la sua esplosione dopo il 1347. Demografia: il ciclo demografico del medioevo si articola in tre fasi: depressione-espansione- depressione, legate alle condizioni climatiche e alle carestie. Insediamenti: i primi secoli del medioevo sono caratterizzati dal fenomeno della ruralizzazione. I villaggi si articolano i tre aree concentriche nucleo abitato-area coltivata-terre comuni come pascoli e boschi). Le città invece si dividono in quelle di tradizione romana e quelle di fondazione successiva, che si sviluppano quasi sempre intorno a mercati. Economia: fino al II secolo l’Impero Romano si era retto su un sistema di autonomie locali autogestite. Per finanziare questa economia si sviluppò un sistema fiscale sempre più pesante. Le invasioni barbariche misero fine a questo sistema, per cui molte regioni smisero di pagare le tasse e divenne sempre più complesso mantenere il sistema burocratico. Entro la seconda metà del VI secolo scomparve in Occidente ogni forma di importa pubblica, che comportò l’impossibilità di sostenere spese pubbliche e il mantenimento delle infrastrutture come strade e ponti. La crisi delle infrastrutture pubbliche portò alla contrazione dei commerci. L’unico elemento di continuità rimane l’economia agraria che rimane sostanzialmente immutata. Snodo II-La fine del mondo antico Capitolo 3: la trasformazione del mondo romano Fin dall’inizio del III secolo l’Impero Romano aveva assicurato lo sviluppo economico e la stabilità politica di un’area vastissima del Mediterraneo. Terminate le guerre di espansione l’economia cominciò a ristagnare. I costi per il mantenimento dell’apparato burocratico determinarono un inasprimento del prelievo fiscale. A causa dell’aumento della spesa pubblica aumentò la coniazione della moneta che portò all’inflazione. Questo causò un aumento del divario tra ricchi e poveri, oltre che dei fenomeni di criminalità e brigantaggio. Al contempo carestie, epidemie e saccheggi portarono scontento tra i contadini. Fu Diocleziano (284-305) ad avviare un periodo di riforme che portarono effetti positivi. Per rilanciare l’autorità imperiale associò al trono Massimiano, per poi trasformare il governo in una tetrarchia associando anche i due cesari Galerio e Costanzo Cloro. Definì come capitali dell’impero Milano e Nicomedia, in Asia Minore. Rese le province più piccole e le sottopose al doppio comando civile e militare, e tolse potere all’aristocrazia senatoria. Per avere una più razionale amministrazione del fisco decise di organizzare le tasse in base al catasto (la lista dei beni immobili), e cercò di arginare l’inflazione fissando i pressi massimi dei beni di consumo e delle prestazioni d’opera. Dopo di lui, Costantino, rafforza gli uffici ministeriali e conia una nuova moneta d’oro, il soldus. Il cambiamento più importante sotto l’imperatore rimane comunque la fondazione della nuova capitale Costantinopoli, antica Bisanzio, nel 330. Il trasferimento della capitale evidenziò la divaricazione tra parte orientale e occidentale dell’impero. A salvaguardare l’unità dello stato romano dopo le prime gravi migrazioni barbariche fu Teodosio (379-395) che alla sua morte dispose la divisione dell’impero tra i due figli: ad Arcadio l’Oriente e ad Onorio l’Occidente (dove nel 402 la capitale fu spostata a Ravenna). Da quel momento il destino dei due imperi si divide: mentre la parte orientale prospera, quella occidentale soffre sempre di più a causa della crisi economica e delle gravi disparità sociali. La trasformazione del mondo romano contribuì alla definitiva diffusione della religione cristiana, la cui diffusione nei territori dell’impero contribuì all’uniformità religiosa e culturale dell’Europa occidentale. Il rifiuto intransigente dei cristiani di unirsi al culto dell’imperatore e ai vari culti pagani fu all’origine delle persecuzioni di massa disposte da Decio nel 258, da Valeriano nel 258 e da Diocleziano del 303. La libertà di culto all’interno dell’Impero viene sancito da Costantino nel 313 con l’editto di Milano. Il cristianesimo da questo momento viene progressivamente accettato fino a diventare religione ufficiale dell’impero. Questo avvenne per due motivi: 1. Il cristianesimo diventa strumento di legittimazione del potere imperiale 2. La progressiva adesione al cristianesimo dei gruppi dirigenti romani iniziò ad orientare le scelte delle autorità civili. Costantino adottò misure in favore dei cristiani continuando però ad agire come pontifex maximus, quindi come capo della religione di stato romana. Fu lui a convocare il concilio di Nicea nel 325, il primo concilio ecumenico, ovvero la prima grande assemblea dei vescovi di tutta la cristianità. Nel concilio si affermò il cattolicesimo, ovvero la dimensione universale della Chiesa, custode della “retta fede” in contrapposizione ai gruppi definiti eretici. Tra le principali eresie condannate la più diffusa è l’arianesimo (dottrina cristiana elaborata da un prete egiziano, Ario, che negava la piena natura divina di Gesù, sostenendo la sua inferiorità rispetto al Padre). Il cristianesimo divenne religione ufficiale dell’impero nel 380 in seguito all’Editto di Tessalonica, emanato da Teodosio. Con esso si imponeva a tutti i sudditi l’accettazione dell’ortodossia cattolica secondo i dettami definiti dai concili di Nicea del 325 e poi di Costantinopoli del 381, che sancirono le caratteristiche della Chiesa: unica, santa, cattolica e apostolica. Gli Ostrogoti invece si insediarono attraverso il sistema dell’hospitalias. Re Teoderico, che aveva vissuto a Bisanzio presso la corte imperiale, attuò inizialmente una politica di convivenza e di rispetto verso le istituzioni romane. L’amministrazione civile rimase ai romani mentre il comando militare venne dato ai goti. Fu tutelata anche la diversa confessione, attraverso il mantenimento delle rispettive strutture ecclesiastiche. Teoderico conservò Ravenna come capitale, promosse l’edilizia pubblica e il mantenimento delle vie di comunicazione. La convivenza permise all’Italia un trentennio di pace che terminò quando Bisanzio lanciò una politica di unità religiosa, perseguitando gli ariani in Oriente e minacciando gli stessi goti. Teoderico rispose con una dura repressione antiromana e anti-nicena. Il regno dei Visigoti durò fino all’avanzata degli arabi nel 711/716. L’integrazione avvenne tramite hospitalias e la popolazione si stabilì nella Penisola Iberica. Re Leovigildo creò strutture di governo ispirate al modello romano e i suoi successori si convertirono al cattolicesimo, anche per coinvolgere i vescovi niceni nelle competenze civili e giuridiche. La fusione etnica tra romani e barbari fu favorita anche dalla pubblicazione nel 654 di un corpo di leggi da parte del Re Recesvindo, il Liber iudiciorum, valido per entrambe le popolazioni. I Franchi sono una popolazione composta da un insieme eterogeneo di tribù, tra le varie emergono i Salii, stanziati all’interno dei confini dell’impero nella zona del basso Reno e i Ripuarii insediati tra Treviri e Colonia. I Franchi si stabilizzarono precocemente, fondendosi con le popolazioni gallo- romane. Con il re Clodoveo, della dinastia Merovingia, abbiamo l’affermazione dei Franchi sulle popolazioni circostanti: egli afferma la sua autorità espandendo i domini e sconfiggendo i galli- romani. Respinse Alamanni, Turingi e Visigoti. Nel 496 Clodoveo si fa battezzare dal vescovo di Reims, Remigio, presentandosi in questo modo come protettore delle chiese alla popolazione gallo- romana. La sua conversione direttamente al cattolicesimo senza passare dall’arianesimo agevolò il suo rapporto con il clero che legittimò l’azione politica del re. Per saldare ancora di più questo rapporto Clodoveo dal 511 convoca alcuni concili del regno nei quali veniva consolidata la posizione dei vescovi come capi delle diocesi e allo stesso tempo viene confermato il potere che il re esercitava su di loro. Il re promosse inoltre la costruzione di vari monasteri e il culto di san Martino, un gallo- romano che divenne patrono dei franchi. Il suo potere fu ulteriormente rafforzato quando ricevette dall’imperatore bizantino il titolo di patricius. Nel 510 il re Clodoveo fece redigere il pactus legis salicae che fissava per iscritto le norme di convivenza della sua popolazione. Alla sua morte nel 511 il regno fu diviso tra i suoi eredi che portò alla frammentazione del potere. Nonostante ciò, nel 531-36 i Franchi si espansero ulteriormente annettendo la Provenza, sottomettendo i burgundi, turingi e alamanni. Della grande potenza territoriale adesso si distinguono alcune regioni, come l’Austrasia (le terre dell’est), la Neustria (le terre dell’ovest), la Burgundia (l’antico regno dei Burgundi) e l’Aquitania in cui però erano più fortemente radicate le tradizioni gallo-romane che quella franca. Approfittando della debolezza del re nel corso del VII secolo l’amministrazione dei vari regni fu sempre più controllata dai maestri di palazzo, che usarono il patrimonio regio per crearsi una rete di potere militare. Una grande famiglia dell’aristocrazia austrasiana, quella dei Pipinidi, riuscì a rendere ereditaria la carica di maestro di palazzo e in particolare Pipino II di Herstal riuscì a riunire nelle sue mani nel 687 i ruoli di maggiordomo (ovvero alto funzionario di palazzo) dei regni di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio di Pipino, Carlo Martello avviò una forte espansione contro alamanni, bavari, turingi e sassoni e nel 732 condusse l’esercitò alla vittoria di Poitiers contro gli arabi. Tra le conseguenze della vittoria ci fu la deposizione del re Childerico III, con un colpo di stato ad opera del figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, acclamato re nel 751. L’affermazione dei Pipinidi fu legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma, Pipino, e i figli Carlomanno e Carlo (Magno) vennero infatti battezzati da papa Stefano II. Capitolo 4-L’Italia fra longobardi e bizantini Le lotte di successione al re ostrogoto Teoderico offrirono l’occasione all’imperatore Giustiniano di inviare truppe i Italia nel 535. Dopo una serie di lunghe guerre conclusesi nel 553, l’imperatore riuscì a ristabilire il dominio imperiale sulla penisola. Con la Prammatica sanzione nel 554 estese la legislazione bizantina all’Italia, riorganizzò le circoscrizioni territoriali e mantenne divisa l’amministrazione civile da quella militare. Il paese era però allo stremo e la prova di ciò fu il fatto che non ci fu quasi nessuna resistenza all’invasione longobarda. I Longobardi si erano trasferiti alle foci dell’Elba in Pannonia alla fine del V secolo. Nel 569 partirono migrarono verso l’Italia a causa delle pressioni di altri popoli e giunsero nella penisola attraverso il Friuli guidati da re Alboino. Qui si insediarono in modo disomogeneo in tre aree principali: la pianura padana, la Toscana e i territori intorno a Spoleto e Benevento. Le coste rimasero invece dei bizantini, insieme all’Istria, Ravenna e il suo entroterra e la Pentapoli (5 città tra Rimini e Ancona), Roma, Napoli, la Puglia e la Calabria e le isole maggiori, L’Italia si trovò quindi in questo modo divisa tra due dominazioni profondamente diverse per tradizioni, istituzioni, costumi e lingua. L’insediamento dei longobardi viene descritto dalle fonti dell’epoca come un violento impatto sulla società italica, in particolare per la dispersione dell’antica aristocrazia senatoria e la confisca delle terre da parte dei longobardi. La società longobarda si divide in tre ceti sociali: gli arimanni, ovvero gli uomini in armi; gli adii, ovvero i “semiliberi”, cioè uomini liberi che però non possedevano né terra da lavorare né armi e gli schiavi. I longobardi si distribuirono sul territorio in raggruppamenti familiari con funzioni militari chiamati fare, sottoposti all’autorità dei capi guerrieri (chiamati nei regni romano-barbarici duchi), generalmente di fede ariana, mentre il resto della popolazione seguiva ancora dei culti religiosi di tradizione germanica. I primi decenni di stanziamento longobardo furono caratterizzati da una forte conflittualità interno tra re e duchi: i primi, tra cui ricordiamo re Alboino, Autari e Agilulfo, cercarono quindi di rafforzare la propria autorità emarginando i duchi più riottosi e obbligando i duchi a cedere al sovrano metà delle terre in loro possesso. Successivamente viene annessa ai domini longobardi anche la Puglia. Un graduale superamento della contrapposizione tra longobardi ariani e cattolici romani viene avviata grazie anche alla mediazione della regina Teodolinda (moglie del re longobardo Agilulfo e molto legata al vescovo di Roma Gregorio Magno), con l’intervento di Papa Gregorio Magno (590-604). I sovrani, convertiti, iniziarono una serie di fondazioni monastiche, come quella di Bobbio. La capitale del regno longobardo viene stabilita a Pavia e con il re Rotari viene rafforzati il potere e organizzato il territorio in distretti più ordinati. I duchi dell’Italia centro-settentrionale vengono trasformati in ufficiali regi e affiancati da funzionari minori come gli sculdasci (i capi villaggio). Le grandi aziende agrarie venivano affidate alla gestione dei gastaldi. L’affermazione del potere del sovrano viene consolidata nel 643 con un editto che raccolse in forma scritta le norme relative alla vita civile e militare. Per debolezza dei bizantini che nel frattempo stavano combattendo gli arabi, il dominio longobardo venne esteso anche alla Liguria e all’entroterra veneto. L’insieme dei territori rimasti sotto il controllo bizantino era stato riorganizzato alla fine del VI secolo e riaffidato ad un esarca che risiedeva a Ravenna e aveva il potere politico e militare. Lo stato di guerra costante e le difficoltà di collegamento fra le diverse aree resero indipendenti i vari ducati (Roma, Napoli, Calabria..). Solo la Sicilia e parte della Puglia rimangono sotto il controllo diretto di Bisanzio. La società longobarda raggiunse un ulteriore consolidamento durante il regno di Liutprando (712- 744) che si fregiò del titolo di christianus et catholicus princeps con l’intento di utilizzare l’istituzione ecclesiastica come rafforzamento della monarchia. Approfittando dell’indebolimento dell’autorità bizantina Liutprando puntò alla conquista dell’esarcato e dei territori bizantini fino al ducato di Roma. Questo suscitò una risposta da parte del papato che si mobilitò contro i longobardi. I re Astolfo (749-756) e Desiderio (756-774) occuparono ripetutamente Ravenna e subirono le spedizioni dei franchi, sollecitati dai papi. Questo portò nel 774 alla conquista dei territori da parte del re franco Carlo Magno. Carlo unì al titolo di re dei franchi anche quello di re dei longobardi e quindi di conseguenza diventa Re d’Italia. Il regno longobardo mantenne la propria identità anche dopo la conquista franca. Il principato di Benevento e di Spoleto riuscì a sfuggire alla conquista franca e a mantenere a lungo la propria indipendenza. I rapporti con l’impero si interruppero definitivamente quando il papa non seguì gli orientamenti iconoclastici sostenuti dall’imperatore Leone III nel 726, il quale per rappresaglia staccò da Roma le diocesi dell’Italia meridionale e ne confiscò i patrimoni. Minacciati dai longobardi i papi decisero di rivolgersi alla potente e cattolica famiglia dei Pipinidi, che nel 756 donò al papato numerosi territori ripresi dai longobardi tra Ravenna e Pentapoli. Intorno a questi centri prese corpo il dominio territoriale del papato. Snodo III-dal Mediterraneo all’Europa Capitolo 5-Bisanzio Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente, quello di Oriente continuò a vivere per altri mille anni. L’imperatore Giustiniano (527-565) mise in atto un ambizioso programma di restaurazione per cercare di riportare l’impero alla sua dimensione originaria. Tra i vari obiettivi c’era quello di riconquistare i territori mediterranei in cui si erano formati i domini barbarici: ricordiamo il successo dell’esercito imperiale nella guerra contro i vandali nell’Africa Settentrionale e il recupero delle coste meridionali della penisola iberica in mano ai visigoti. Il programma di Giustiniano era sostenuto anche da una serie di riforme: sul piano religioso si impegnò per la tutela della Chiesa e della fede, rafforzando il potere dei vescovi e perseguitando le eresie e i culti non cristiani. Fu inoltre lui a far chiudere nel 529 la scuola di Atene. Cercò di rafforzare il potere dei funzionari statali e promosse una sistematica revisione del diritto che portò alla redazione del codice del corpus iuris civilis. Possiamo considerare le azioni di Giustiniano come un ultimo tentativo di mantenere l’autorità dell’impero su Oriente e Occidente. La conquista parziale dell’Italia da parte dei longobardi nel 569, il primo assestamento degli slavi nei Balcani nel 592 e l’abbandono definitivo della penisola iberica nel 629, spostarono per sempre il baricentro dell’impero verso Oriente. Per il continuo stato di guerra, le funzioni militari acquistarono un peso crescente, di pari passo con l’indebolirsi del potere centrale e l’accentuarsi delle autonomie locali. Furono create nuove unità amministrative, i thémata (temi), poste al comando di uno stratego (il funzionario nominato dall’imperatore con poteri civili e militari a capo di un thema, vale a dire di una delle circoscrizioni territoriali in cui fu suddiviso l’impero tra la fine del VI e l’inizio del VII secolo), che assommava l’autorità militare e quella civile. L’esercito finì con l’essere composto sempre più da milizie locali, compensate dalla concessione di terreni trasmissibili in eredità Nel 678 gli arabi assediarono Costantinopoli, nel 681 i bulgari crearono un regno nei Balcani, e negli anni successivi Bisanzio perse gli ultimi avamposti nell’Africa settentrionale aprendo la via alla conquista araba della Spagna. Di fronte a tali pressioni esterne solo il cristianesimo restava a baluardo fittissima di vie di traffico marittime e terrestri, e in rapporto con i mercati dell’Occidente, di Bisanzio e dell’estremo Oriente (mercanti arabi furono attivi in Cina, in Malesia, nel Baltico, in Russia). L’estensione raggiunta dall’impero, che spaziava dall’oceano Atlantico a quello Indiano, acuì, già nella seconda metà del IX secolo, le spinte secessionistiche delle regioni periferiche. L’unità politica dell’islam cominciò a disgregarsi quando gli emira114ti cominciarono a promuovere politiche autonome. Si affermarono così dinastie locali che si sottrassero progressivamente al potere centrale degli Abbasidi. Eccezionali furono in particolare le esperienze dell’islam europeo, nell’«al-Andalus» iberico governato dagli Omayyadi e nella Sicilia conquistata dagli emiri aghlabiti tra 827 e 902. In Spagna una straordinaria miscela etnica (arabi, ispano-romani e visigoti) e religiosa (musulmani, cristiani ed ebrei) fece del califfato, e in particolare della capitale Cordova, un luogo di convivenza civile e di eccellenza intellettuale e artistica, che filtrò in Occidente l’antica cultura ellenistica grazie a filosofi, medici e matematici come Avicenna (980-1037) e Averroè (1126-1198). Tra il IX e il X secolo, Palermo e la Sicilia divennero una delle aree più fiorenti dal punto di vista economico e culturale, poste com’erano al centro di tutte le rotte del Mediterraneo. Capitolo 7-la nascita dell’impero carolingio Alla morte del padre Pipino il Breve nel 768 e del fratello Carlomanno nel 771, Carlo (poi detto Magno) ereditò il regno franco. Carlo guidò un’espansione militare su larga scala che procurò terre e bottini alle grandi famiglie franche. Fu spento, innanzitutto, il ribellismo di regioni come la Borgogna, l’Aquitania e la Provenza, dove furono sostituite le dinastie di conti e fu rinsaldato il legame con il re. Nel 772 fu avviata, oltre il Reno, una lunghissima guerra (fino all’804) contro i sassoni ai quali fu imposta con la forza l’evangelizzazione e l’assimilazione ai franchi. Nel 774 fu conclusa la conquista del regno longobardo, che era stata sostenuta dal papa. Le conquiste di Pamplona, della Navarra e della Catalogna tra 801 e 813 portano alla costituzione della Marca Hispanica a nord del fiume Ebro. Nel Natale dell’anno 800 Carlo Magno fu incoronato imperatore da papa Leone III. L’atto sanciva il rapporto che da tempo aveva garantito ai sovrani franchi la piena legittimazione del loro potere e ai papi un aiuto imprescindibile nell’opera di evangelizzazione e nella pretesa di guidare la cristianità, proprio nel momento in cui si faceva irreversibile il distacco dalla Chiesa d’Oriente. Carlo si presentava come il sovrano cristiano, difensore della Chiesa di Roma. L’incoronazione rafforzava il ruolo del papa quale autorità suprema della cristianità e indeboliva quello dell’impero bizantino, dilaniato dalle lotte iconoclastiche 117e costretto a riconoscere, dopo pochi anni, la dignità imperiale di Carlo. L’impero franco si proponeva infatti quale erede di quello romano e delle sue ambizioni universalistiche, ma mentre l’impero di Roma era incardinato nel bacino mediterraneo, quello carolingio spostava verso nord, nel cuore del continente europeo. Seguendo la tradizione franca il re si spostava costantemente facendo campagne militari (possiamo definirla una “corte itinerante”) per affermare la sua presenza in tutto il domino, soggiornando nelle proprietà del fisco regio. Nondimeno, Carlo stabilì una sede privilegiata di residenza ad Aquisgrana, dove, a imitazione delle capitali della cristianità, Roma e Costantinopoli, fece erigere una reggia e una cappella. Nel palazzo aveva sede l’amministrazione centrale, coordinata dal conte palatino, un laico che esercitava la giustizia, e dall’arcicappellano, un ecclesiastico che dirigeva la cancelleria. Il territorio fu suddiviso in circoscrizioni centrate in genere sulle città: «comitati» e, nelle regioni di confine, «marche». A loro capo furono posti dei conti e dei marchesi, reclutati tra le famiglie aristocratiche. L’organizzazione dell’impero era comunque cosa ben diversa dalle moderne amministrazioni statali. Esso costituiva una dominazione disomogenea, dove continuavano a mantenere un forte potere locale le famiglie aristocratiche. Alcune regioni mantennero la propria identità costituendo dei ducati, come la Bretagna, la Baviera, la Carinzia, o addirittura dei regni, come quello longobardo e l’Aquitania. Per controllare il grande territorio del suo impero Carlo reclutò conti e marchesi tra i propri vassalli, per poter contare su personaggi di fiducia. Essi erano legati al sovrano da rapporti che implicavano una fedeltà personale in cambio di beni vitalizi. Possiamo definirli come rapporti vassallatico- beneficiari. Carlo stese allora la rete di controllo dei missi dominici, gli «inviati del signore» incaricati di sorvegliare l’operato dei funzionari locali, e in genere nominati a coppie: un laico e un ecclesiastico. I missi dovevano diffondere nei territori le leggi emanate dal sovrano, note col nome di capitolari. Il coinvolgimento del clero nel governo dell’impero fu imprescindibile nell’attività della cancelleria, ossia l’ufficio di corte in cui venivano scritti i capitolari, gli atti pubblici e la corrispondenza ufficiale. Con la crisi del sistema scolastico tardo antico, dal V secolo la capacità di leggere e scrivere era infatti venuta concentrandosi nelle mani degli uomini di chiesa. Carlo Magno (che non sapeva scrivere) sostenne lo sviluppo di una fitta rete di scuole vescovili e di centri scrittorii presso i monasteri, per elevare l’istruzione del clero e dei funzionari pubblici. Presso la cancelleria fu elaborata anche una scrittura uniforme e particolarmente chiara, detta «carolina», che rese leggibili in tutto il regno gli atti pubblici. Carlo Magno attuò riforme anche in ambito economico. Furono introdotte gabelle sul transito delle merci sulle strade e nei porti, cioè tasse indirette; fu reintrodotto anche un sistema monetario basato sull’argento. Espugnata Pavia e catturato re Desiderio, Carlo Magno aveva messo fine nel 774 all’esperienza politica longobarda in Italia. Il regno fu incorporato al dominio dei franchi ma mantenne la sua autonomia: Carlo e poi il figlio Pipino si fregiarono del titolo di re dei longobardi. La dominazione carolingia non rappresentò una discontinuità: i duchi e i funzionari longobardi furono quasi tutti confermati, l’aristocrazia fondiaria ebbe salve le sue proprietà, e anche le leggi del regno rimasero in vigore. Carlo Magno dispose nell’806 la suddivisione patrimoniale dell’impero tra i figli, ma l’unico a vivere abbastanza a lungo fu Ludovico il Pio. Alla morte di quest’ultimo egli fece stipulare un trattato: il Trattato di Verdun (843), che stabilì la divisione dell’impero carolingio tra i figli Lotario I, Ludovico il Germanico e Carlo II il calvo. L’accordo siglato riconobbe a Lotario il nord Italia e la fascia di territori al di sopra di essa, che da quel momento fu abbinata al titolo imperiale; a Ludovico la Germania e a Carlo il Calvo i territori della Francia. La morte senza eredi di Ludovico II nell’875 avviò il tracollo della dinastia carolingia che si estinse nell’887 con la deposizione del malato e incapace Carlo il Grosso per mano dei grandi del regno. Snodo IV-L’età post-carolingia (secoli IX-XI) Capitolo 8-Nuovi sviluppi economici Dal III secolo la popolazione dell’area europea calò progressivamente di numero fino a toccare il punto più basso nel VII secolo. Ondate di peste si susseguirono soprattutto tra il 541 (quando il contagio comparve in Italia durante la guerra greco-gotica) e la fine del VII secolo. Le invasioni delle popolazioni barbariche e le ondate epidemiche si attenuarono nel corso del VII secolo. Accanto al declino demografico, la società europea conobbe un forte impoverimento materiale e una diminuzione complessiva di ricchezza. Dal VII secolo non vi è più traccia di edilizia monumentale né della presenza di un commercio attivo tra le sponde del Mediterraneo. A determinare la crisi economica non furono le invasioni barbariche o l’espansione dell’islam, quanto piuttosto la fine dell’economia statale romana. Per secoli l’impero aveva incentivato le attività produttive e garantito le infrastrutture per le attività commerciali (le strade, i porti, i mercati, le navi, le corporazioni, etc.), grazie a un efficiente sistema fiscale. Si contrassero drasticamente gli scambi in moneta. Le città, dove si era estinta la burocrazia statale, persero la loro centralità di luoghi di consumo e di ridistribuzione della ricchezza. La caratteristica di fondo della trasformazione dell’Occidente europeo fu la profonda ruralizzazione della società, conseguente alla crisi delle città. La società si raccolse soprattutto intorno a grandi proprietà fondiarie, dette villae o curtes, entro cui si svilupparono nuove forme di organizzazione del lavoro agricolo. La trasformazione, peraltro, ebbe effetti positivi sulle condizioni di vita dei contadini. La scomparsa della fiscalità pubblica consentì di ricavare una quota maggiore di reddito dal lavoro agricolo, capace spesso di garantire livelli di vita non di mera sussistenza. Venuti meno gli organi dell’amministrazione municipale romana (le curie), i poteri pubblici delle città furono quasi ovunque suppliti dalle gerarchie ecclesiastiche raccolte intorno ai vescovi. Per tal via, le città non persero mai del tutto le antiche funzioni. Con l’impero carolingio, le città tornarono a essere valorizzate nelle loro funzioni giurisdizionali: esse furono sede delle nuove circoscrizioni politico-amministrative dipendenti dai conti. Si usa parlare, infatti, di rinascita carolingia delle città anche dal punto di vista culturale: alcuni componimenti poetici (le laudes civitatum) esaltarono nuovamente sia le vestigia dell’impianto urbanistico romano (i monumenti, le piazze) sia gli edifici del nuovo ordine cristiano (le mura, le chiese). Tra VII e VIII secolo il potere carolingio riuscì a ripristinare un’effettiva bipartizione di funzioni tra le competenze degli ufficiali pubblici e quelle, che rimasero principalmente di guida morale e religiosa, dei prelati. In tal modo la città tornò a essere appieno sede amministrativa e religiosa, senza peraltro che si indebolisse quel vincolo tra vescovo e città che era ormai costitutivo dell’identità cittadina. La crisi dell’impero carolingio Alla deposizione di Carlo il Grosso nell’887, ci fu la disarticolazione dell’impero in più regni. L’attribuzione della dignità imperiale rimase a colui che regnava sul territorio italico. Sia gli imperatori sia i re dovettero la loro posizione all’appoggio dei gruppi aristocratici locali. Il loro potere fu quasi sempre precario perché all’interno dei regni si formarono grandi dominazioni politiche quasi autonome, che si usano indicare col termine «principati». Avvenne infatti che gli ufficiali pubblici (conti e marchesi) inizialmente di nomina imperiale riuscirono a rendere ereditaria la propria funzione, riducendo la capacità di controllo del sovrano e l’efficacia del suo governo. Dalla fine del IX secolo i conti e i marchesi esercitarono le loro funzioni su territori ormai differenti dalle circoscrizioni pubbliche, che gli storici preferiscono chiamare contee e marchesati. Il regno dei franchi occidentali, la Francia, distaccato ormai dall’888 da ogni effettiva dipendenza dal potere imperiale subì un accentuato frazionamento causato dall’emersione di potenti principati. Solo alla fine del X secolo si affermò la potenza dei conti di Parigi che con Ugo Capeto ottennero il titolo regio nel 987. Il re, anche dopo la stabile affermazione dinastica, non riuscì mai a esercitare una vera autorità su tutte le regioni da cui pure derivava il suo titolo. Di fatto, il suo dominio si limitò ai territori di una regione compresa fra la Senna e la Loira, intorno a Parigi e a Orléans. Nel regno italico a contendersi la corona furono soprattutto gli esponenti di quattro grandi famiglie che avevano le loro radici in principati territoriali: i duchi e marchesi di Spoleto, di Toscana, di Ivrea e del Friuli. Quando il re di Germania Ottone I fu sollecitato dal papato a intervenire contro Berengario armate, che ne incrementavano il prestigio e il potere. Nell’ordinamento carolingio alla morte dei titolari sia le cariche di ufficiale pubblico sia i benefici dovevano ritornare, almeno formalmente, al re che li assegnava a un’altra persona. Nella prassi era però comune che i grandi benefici e gli uffici pubblici fossero riconfermati agli eredi del defunto. Il capitolare emanato nell’877 a Quierzy-sur-Oise dall’imperatore Carlo il Calvo sancì che le cariche e i benefici che fossero rimasti vacanti non dovessero essere attribuiti ad altri prima del rientro dei figli dell’ufficiale o del vassallo deceduto. Nel 1037 l’imperatore Corrado II riconobbe con l’Edictum de beneficiis (noto anche come Constitutio de feudis) anche questo ulteriore stato di fatto, decretando che a un vassallo non potesse essere sottratto il beneficio senza una giusta causa. La disposizione, che pure mirava a contenere lo strapotere dell’aristocrazia maggiore, finì col legittimare le realtà signorili esistenti. A partire dalla seconda metà del IX e lungo tutto il X secolo nelle campagne dell’Occidente europeo fu edificata una fitta trama di nuovi castelli. Le ragioni del fenomeno furono molteplici. Certamente ebbe un peso la necessità di difendersi dalle incursioni saracene, ungare e vichinghe. Ma rispetto alle epoche precedenti, l’iniziativa di erigere un castello rispose ora all’esigenza dei signori di garantirsi una base dalla quale esercitare la propria egemonia sul territorio. La moltiplicazione dei castelli, che gli storici usano chiamare «incastellamento», fu un fenomeno complesso che assunse caratteristiche specifiche nelle diverse regioni. Nella Francia centro-settentrionale furono i sovrani, i principi e i conti a dare vita a pochi castelli di grandi dimensioni, mentre nelle regioni meridionali, in Spagna e in Italia si formò invece un reticolo di insediamenti medio-piccoli, perlopiù costituiti dalla fortificazione di villaggi preesistenti. La diffusione delle signorie incentrate sui castelli favorì la formazione di specialisti della guerra che aiutavano i potenti nell’esercizio del loro dominio e ne difendevano i beni, ovvero i cavalieri. I cavalieri furono protagonisti dei conflitti dell’epoca, spesso compiendo violenze, rapine e saccheggi ai danni dei più deboli. Per disciplinarne il comportamento, su iniziativa di alcuni vescovi della Francia meridionale si diffuse dalla fine del X secolo il movimento delle «paci o tregue di Dio», che mirava a imporre la sospensione delle violenze in certi periodi dell’anno, e a vietarle contro ecclesiastici e contadini. Snodo V-Le trasformazioni della cristianità (secoli XI-XII) Capitolo 10-Le esperienze cristiane nel primo millennio La diffusione del cristianesimo nell’Impero Romano fu accompagnata da un’organizzazione sempre più ordinata delle comunità di fede, chiamate «chiese». Responsabile di ogni comunità era il vescovo, guida spirituale e amministrativa della comunità, affiancato dai preti, incaricati della predicazione e delle celebrazioni liturgiche (sacerdoti), e dai diaconi, che svolgevano compiti di assistenza e di amministrazione. I laici partecipavano, insieme al clero, all’elezione dei vescovi e alla gestione degli affari delle comunità. All’aumento dei fedeli corrispose un crescente incremento delle ricchezze che fecero delle chiese maggiori delle potenze economiche con patrimoni equivalenti a quelli delle grandi famiglie aristocratiche. Questi beni erano inalienabili, tutelati sacralmente da confische, ed esenti dalle imposte. Dal V secolo le campagne furono evangelizzate attraverso la fondazione di chiese battesimali, le pievi, direttamente controllate dal clero cittadino. L’autorevolezza dei vescovi crebbe nel tempo insieme alla loro assunzione di funzioni di guida non solo spirituale ma anche civile e politica delle città. Tra il IV e il V secolo, raggruppamenti di più diocesi furono sottoposti all’autorità di un vescovo di rango superiore, detto metropolita, che confermava e consacrava i vescovi della propria provincia. Alcune sedi maggiori, fondate da apostoli, affermarono la loro preminenza sulle province circostanti: Roma in Occidente, Alessandria in Egitto, Antiochia in Oriente. Insieme a Gerusalemme e a Costantinopoli, i loro metropoliti ebbero il titolo di patriarchi. L’organizzarsi delle chiese in ambito locale e intorno a gerarchie episcopali regionali generò presto l’esigenza di un coordinamento fra le diverse comunità. A lungo, fino a tutto il X secolo, la Chiesa cattolica fu infatti priva di un’organizzazione centralizzata. L’unità del mondo cristiano poggiava sullo spirito di comunione che legava i diversi vescovi, le comunità e i fedeli, e traeva forza dalla volontà di testimoniare la propria fede di fronte ai pagani. Un ruolo centrale nella vita delle chiese fu allora svolto dalle assemblee del clero. Esse erano convocate periodicamente dai metropoliti in sede provinciale, per decidere questioni organizzative e disciplinari. Meno frequenti erano le grandi adunanze (concili) cui convenivano in gran numero i vescovi delle varie province della cristianità: nei concili universali, convocati in genere dagli imperatori, si definivano le verità di fede (dogmi), si regolamentavano i riti liturgici e si emanavano le leggi ecclesiastiche (canoni*). Il cristianesimo dei primi secoli presentava una varietà di culture teologiche e di interpretazioni del dogma, che era l’esito dell’adattamento del messaggio cristiano da parte dalle diverse culture che lo fecero proprio. Il problema centrale fu quello di conciliare il principio del monoteismo (la fede in un unico Dio) con la molteplicità delle persone divine (la Trinità). Le dispute dottrinali si concentrarono sulla definizione della natura di Cristo. Nel IV secolo si confrontarono la dottrina che sosteneva la natura non pienamente divina di Cristo, difesa da Ario di Alessandria, e quella che sosteneva la consustanzialità (cioè l’identità di sostanza e di natura) del Figlio col Padre, promossa da Atanasio sempre di Alessandria. Nel V secolo il patriarca di Costantinopoli, Nestorio, sostenne la duplicità della natura, umana e divina, di Cristo (nestorianesimo), mentre tra l’Egitto e la Siria si diffuse la dottrina che sosteneva l’unicità della natura divina di Cristo (monofisismo). Gli imperatori cercarono di salvaguardare l’unità della cristianità emanando editti e convocando concili per formulare dogmi universalmente accettati (ortodossi, da «retta dottrina») di contro a credenze ritenute erronee (eresie*). Così, per esempio, il concilio indetto a Nicea nel 325 da Costantino condannò come ereticale l’arianesimo, mentre quello di Calcedonia del 451 tentò un compromesso tra il nestorianesimo e il monofisismo. L’imperatore Zenone emarginò però nel 482 il monofisismo. L’editto detto dei Tre capitoli emanato da Giustiniano nel 544, che condannava il nestorianesimo, produsse a sua volta una profonda spaccatura: i vescovi occidentali guidati da Vigilio di Roma rifiutarono di aderirvi, aprendo uno scisma che durò fino alla fine del VII secolo e che segnò l’opposizione delle sedi metropolite italiane a ogni volontà centralistica. Il monachesimo Il monachesimo non fu caratteristico del cristianesimo delle origini, ma si sviluppò solo a partire dalla fine del III secolo quando, soprattutto in Egitto, Palestina e Siria, alcuni cristiani si rifugiarono a condurre vita eremitica nel deserto ai margini delle città e dei villaggi. La prima comunità fu organizzata da un monaco egiziano, Pacomio, all’inizio del IV secolo. Dopo la metà del IV secolo le esperienze monastiche si diffusero anche in Occidente, coinvolgendo anche le donne. I monasteri sorsero inizialmente in Gallia e a Roma, poi in Italia, in Spagna e in Irlanda. Il sorgere di comunità sempre più numerose richiese la redazione di norme che regolassero la vita dei monaci in tutti i suoi aspetti, organizzativi, disciplinari e liturgici. Le regole seguivano l’esempio di Gesù mettendo in pratica i principi evangelici della povertà, castità e obbedienza. Le prime raccolte di regole vennero prodotte in Oriente nel IV secolo da Pacomio e da Basilio di Cesarea. In Occidente si susseguirono, fra le altre, quelle del fondatore del monastero di Montecassino, Benedetto da Norcia (redatte intorno al 540), e di Cesario di Arles (VI secolo), rivolte ai monasteri femminili. Pur ispirandosi spesso le une alle altre, le regole furono uniformate per iniziativa dell’imperatore Ludovico il Pio, che nell’817 dispose che la regola benedettina diventasse il testo di riferimento per tutti i monasteri dell’Europa carolingia. I monasteri non furono solo dei luoghi di preghiera e di formazione intellettuale, ma anche, più in generale, dei centri di organizzazione economica e politica della società rurale: punti di riferimento per un numero crescente di individui dei più diversi gruppi sociali, che potevano entrare a fare parte della comunità come monaci o conversi, ma anche collegarsi a essa come dipendenti, servi o clienti. Numerosi monasteri divennero grandi nuclei di organizzazione agricola, promotori di bonifiche e colonizzazioni, gestori di aziende curtensi, centri di produzione e smercio di derrate alimentari e di manufatti artigianali. Intorno ai monasteri maggiori si tenevano mercati e si raccoglievano numerose famiglie di contadini, che trovavano in essi protezione e migliori condizioni di vita. Molte abbazie, infatti, furono fortificate e difese da un sistema di castelli custoditi da cavalieri legati a esse per via vassallatica, e gli abati finirono spesso con l’esercitare poteri di tipo pienamente signorile. Dall’VIII secolo si diffusero scuole anche presso molti monasteri. Nei centri scrittorii, gli scriptoria* vescovili e monastici, si redigevano commenti alle Scritture, testi agiografici, raccolte omiletiche, e si ricopiavano i testi della classicità latina. Carlo Magno promosse l’istruzione per formare adeguatamente i funzionari destinati all’amministrazione e il clero impegnato nella cristianizzazione. Presso la corte si raccolse un’accademia di intellettuali (quasi tutti ecclesiastici), detta anche schola palatina, che approfondì la conoscenza delle opere classiche e produsse testi letterari originali. La necessità di interventi di riforma nella Chiesa fu avvertita già dai sovrani carolingi. Obiettivi principali dei loro interventi furono quelli di restituire prestigio religioso alle autorità ecclesiastiche ed efficacia all’azione pastorale. In primo luogo, si puntò a migliorare la formazione del clero; successivamente fu promosso un riordinamento territoriale delle sedi episcopali; venne inoltre istituita la Decima, ovvero la decima parte del raccolto e del reddito in generale, che proprietari e coltivatori pagavano alla Chiesa per il sostentamento del clero in corrispettivo delle funzioni che la Chiesa svolgeva per i fedeli. Più che in ambito vescovile, fu all’interno del mondo monastico che si avvertì inizialmente la necessità di ridare prestigio e credibilità morale alla Chiesa. Protagonisti principali furono i monaci dell’abbazia di Cluny, fondata nel 910 in Borgogna dal duca di Aquitania Guglielmo. La riforma promossa da Cluny non contestava le ricchezze e i beni ecclesiastici, che anzi erano visti come legittimi perché dimostravano il fulgore della Chiesa. Essa proponeva invece di rimodellare in senso monastico tutta la Chiesa, privilegiando la centralità della preghiera, la purezza del corpo, la funzione del clero quale mediatore del sacro. I monaci di Cluny elaborarono un nuovo stile di vita monastico basato sulla specializzazione liturgica, sulle opere di misericordia e sullo studio. Il lavoro manuale fu invece demandato ai conversi (coloro che lavoravano in monastero ma erano laici) e ai servi. Riconoscendo il primato papale, Cluny ottenne l’autorizzazione a porre sotto la propria autorità i monasteri che accettassero il nuovo modo di vivere la regola benedettina. Decine di cenobi furono fondati e centinaia di altri riformati, dando vita a una potente congregazione che raggiunse all’inizio del XII secolo circa 1.200 priorati (monasteri affidati a «priori» dipendenti dall’unico abate di Cluny) e probabilmente 10.000 monaci sparsi in tutta l’Europa. Grazie alle donazioni dei potenti che confidavano nelle preghiere dei monaci per salvare l’anima, l’ordine cluniacense divenne una potenza imponente della Chiesa riformata. Anche nel clero secolare (cioè il clero che non vive in monastero) emersero nel corso del X secolo impulsi a forme di vita più rigorose e spirituali. Vescovi come Attone di Vercelli o Raterio, presule a Liegi e a Verona, si impegnarono con le opere e con gli scritti per il rinnovamento dei costumi e per l’elevazione morale e culturale del clero. L’offensiva moralizzatrice, nella quale si distinsero nell’XI secolo anche figure come il cardinale Umberto di Silvacandida o il monaco Pier Damiani, puntò alla deposizione dei sacerdoti simoniaci – crescentemente individuati nei vescovi di nomina imperiale – e alla scomunica dei preti concubinari. Le varie espressioni della riforma, sorte in tempi e modi diversi in ambito monastico, secolare e laicale, trovarono solo alla metà del secolo XI nel papato l’elemento capace di coordinarle. Fu ancora una volta l’imperatore, Enrico III (1039-1056), ad agire a sostegno dell’istituzione pontificia, deponendo nel 1045 tre contendenti appartenenti a famiglie romane e nominando una serie di papi riformatori. Significativa fu l’opera del cluniacense Leone IX (1049-1054), che chiamò a Roma alcuni dei principali esponenti riformatori e ingaggiò una dura battaglia contro simonia e concubinato. Alla morte di Enrico III, la minorità dell’erede diede occasione a Niccolò II di conferire una decisa accelerazione alla spinta riformatrice, convocando nel 1059 un concilio che fissò nuove regole per Tra l’XI e il XIII secolo l’espansione della società europea fu caratterizzata, sul piano politico, da un generale processo di ricomposizione dei poteri territoriali che il precedente sviluppo dell’ordinamento signorile aveva frammentato in una pluralità di nuclei. Il feudo divenne lo strumento preferenziale di concessione di diritti pubblici e ciò consentì di coordinare intorno a nuove gerarchie quei poteri locali. Il coordinamento dei signori locali in compagini territoriali più ampie attraverso i nuovi strumenti feudali fu accompagnato dal XII secolo dall’elaborazione di un vero e proprio diritto feudale. Nel XII e nel XIII secolo giuristi e consiglieri di re e imperatori cominciarono a elaborare lo schema ideologico di una struttura piramidale del potere, discendente da un unico grande centro erogatore di legittimità: il sovrano. A esso facevano vassallaticamente capo i principi territoriali, che a loro volta annoveravano tra i propri vassalli i signori locali, i quali avevano come vassalli dei cavalieri, e così via. Le aspirazioni universalistiche del papato, di proporsi cioè come vertice politico assoluto della cristianità e non solo come capo della Chiesa cattolica, trovarono nei raccordi vassallatici lo strumento ideale per attuarsi. La consacrazione papale rafforzava l’autorità dei regnanti, che grazie al legame feudale non erano costretti a rinunciare alla piena sovranità sui propri territori. Il primo importante omaggio di fedeltà al pontefice fu prestato nel 1059 dal normanno Roberto il Guiscardo a Niccolò II (1058-1061), che gli infeudò i ducati di Puglia e di Calabria, legando così durevolmente al papato le vicende dei normanni dell’Italia meridionale. Fu poi la volta di Gregorio VII (1073-1085), che ottenne l’omaggio vassallatico anche da parte dei re di Inghilterra, Ungheria, Croazia e dei vari sovrani iberici. Attraverso la gerarchia feudale il papato poteva così proporsi al vertice della società cristiana. A differenza dei pontefici, gli imperatori non furono in grado di utilizzare gli strumenti feudali a sostegno delle proprie ambizioni universalistiche. Essi riuscirono a imporli solo nei territori che riuscivano a controllare. In qualche caso, furono addirittura costretti a prestare omaggio feudale ai pontefici Capitolo 14-La formazione dei regni Dalla frammentazione politica che era seguita all’impero carolingio presero corpo intorno ai nuovi poteri monarchici alcune aree che avrebbero poi definito alcune delle principali identità politiche nell’epoca successiva: la Francia, l’Inghilterra, l’Italia meridionale, la penisola iberica. Esito comune fu infatti la stabilizzazione, all’inizio del XIII secolo, di regni capaci di inquadrare i dispersi poteri signorili, ecclesiastici e urbani locali in una rete di vincoli che faceva ormai capo alla figura del re. I nuovi poteri monarchici seppero differenziarsi dai signori locali in vari modi: in primo luogo rivendicando titoli e funzioni superiori, diversi da quelli dell’aristocrazia signorile; elaborando quindi nuovi contenuti ideologici, carismatici e giuridici della regalità; e instaurando con i grandi signori territoriali relazioni feudali che sottolineassero la loro posizione di preminenza. Nel processo di ricomposizione politica e territoriale guidata dalle monarchie ebbero un ruolo centrale le relazioni feudali, al punto che gli storici usano correntemente l’espressione «monarchie feudali». Il regno di Francia Il regno dei franchi occidentali, dopo la dissoluzione dell’impero carolingio, corrispondeva grosso modo all’area della Gallia romana e costituiva, tra il X e l’XI secolo, un’area politica caratterizzata da un sistema di principati. La dinastia dei Capetingi, iniziata con Ugo Capeto, che aveva assunto nel 987 il titolo regio controllava infatti solo uno dei principati territoriali in cui era frammentata la Francia dell’epoca. Il loro potere non si differenziava, per natura ed estensione, rispetto a quello dei duchi e dei conti vicini. Il domino diretto dei Capetingi era limitato a un’area ristretta compresa tra la Loira e la Senna. La debolezza del potere dei Capetingi si trasformò paradossalmente in un fattore di forza per la loro affermazione monarchica. Proprio perché debole, il loro esercizio della regalità non era avvertito come una minaccia effettiva dagli altri potentati locali. Per questa via i Capetingi mantennero vivo il regno per tutto l’XI secolo e posero le basi per l’aumento del proprio potere nel secolo successivo. Assicuratosi il pieno controllo del principato «reale», infatti i Capetingi assunsero il compito effettivo di protettori delle chiese e di garanti delle paci di mercato in aree soggette ad altri principati, così guadagnandosi il sostegno delle gerarchie ecclesiastiche e delle città del regno. Inoltre, essi seppero costruire una fitta trama di relazioni vassallatiche con i duchi e i conti, che garantì loro la superiorità feudale e rafforzò i vincoli di dipendenza al sovrano. Il ruolo simbolico dei re capetingi fu rafforzato anche dalla sottolineatura della sacralità della funzione regia. Tra il XII e il XIII secolo la propaganda regia presentò l’immagine del re come un personaggio dotato di poteri taumaturgici. Fu a dall’epoca di Luigi VI (1108-1137) e, soprattutto, di Luigi VII (1137-1180) che si avviò un primo deciso processo di consolidamento delle strutture del regno. Luigi VII dovette affrontare un lungo e duro conflitto con i più potenti dei loro vicini, i Plantageneti, originari del Maine, che limitavano a Occidente l’espansione del regno di Francia. Essi discendevano da Goffredo conte d’Angiò – detto Plantageneto dalla pianta di ginestra che era l’insegna della sua casata – e da sua moglie Matilde, figlia del re d’Inghilterra e signora dei ducati di Normandia e Bretagna. Il loro figlio Enrico (Enrico II, se ne parla sotto nella parte del regno d’Inghilterra) sposò nel 1152 Eleonora, signora di Aquitania e del Poitou, e nel 1154 ricevette anche la corona d’Inghilterra. Egli venne così concentrando sotto un’unica autorità un dominio vastissimo, esteso sulle due coste della Manica, e che andava dalla Scozia ai Pirenei. Enrico era formalmente vassallo del re di Francia per il possesso di vari feudi, soprattutto in Bretagna, ma era ben più potente di lui, in quanto controllava di fatto la maggior parte del territorio francese. Il conflitto fu inevitabile, ma pur perdurando a lungo si risolse nel riconoscimento della presenza minacciosa del re d’Inghilterra entro i confini del regno di Francia. Il problema della potenza plantageneta fu risolto da Filippo II, detto Augusto (1180-1223), durante il cui regno si ebbe la triplicazione dei territori sottoposti al diretto controllo della corona. La politica matrimoniale assicurò il controllo sulle aree orientali del regno (Artois e Vermandois), mentre con decise azioni militari furono strappate agli eredi di Enrico d’Inghilterra la maggior parte dei territori francesi (Angiò, Berry, Bretagna, Maine, e Normandia). Decisiva fu la vittoria nella battaglia di Bouvines, presso Lille nel nord della Francia, del 1214, dove Filippo Augusto, appoggiato da Innocenzo III e dal giovane re di Germania Federico II, sconfisse la coalizione tra l’imperatore Ottone IV e il re d’Inghilterra, Giovanni I Plantageneto detto Senza Terra: quest’ultimo fu costretto a cedere alla Francia tutti i possedimenti a nord della Loira. Il regno d’Inghilterra Alla fine del IX secolo il re anglosassone del Wessex Alfredo il Grande (871-899) era riuscito a fermare l’espansione vichinga in Inghilterra e ad avviare un’energica azione di governo, che fu poi ulteriormente rafforzata dai successori. Dalla prima metà del X secolo il regno anglosassone unificò i numerosi poteri locali presenti sul territorio dell’isola britannica. Il regno era diviso in circoscrizioni territoriali in cui operavano gli agenti del re (sheriffs), incaricati della riscossione dei tributi e dell’amministrazione della giustizia. La società locale era organizzata in insediamenti rurali (tuns, da cui poi towns. I grandi possessori fondiari (earls) svolgevano per il re compiti di coordinamento militare su base territoriale. Dal 1016 si impadronì della corona, con una spedizione militare, il danese Canuto II, detto il Grande perché capace di creare un dominio esteso anche alla Danimarca e alla Norvegia. A sua volta Canuto III designò come proprio successore sul trono anglosassone il fratellastro Edoardo il Confessore, figlio di Emma di Normandia, che fu eletto re nel 1042 dall’assemblea dei nobili. Il regno di Inghilterra pervenne così ai normanni per rivendicazione dinastica e per mezzo di una grandiosa operazione militare. Il duca di Normandia Guglielmo, dopo avere consolidato il proprio potere dal 1042 con l’appoggio del re di Francia Enrico I, alla morte senza figli del cugino Edoardo il Confessore re d’Inghilterra nel 1066, si oppose all’incoronazione di Aroldo del Wessex. Attraversata la Manica sbarcò sull’isola con il suo imponente esercito di cavalieri ed ebbe facilmente ragione delle truppe sassoni nella battaglia di Hastings il 14 ottobre 1066, dove fu sconfitto e ucciso Aroldo; nel Natale dello stesso anno Guglielmo il Conquistatore fu consacrato re d’Inghilterra nella abbazia di Westminster. La resistenza degli anglosassoni si prolungò per qualche tempo e la conquista fu completata solo nel 1071, con l’eccezione del Galles e della Scozia. Guglielmo confiscò le proprietà dei sassoni uccisi e ribelli e le distribuì ai normanni del suo seguito. Fece costruire una maglia di castelli su tutto il territorio del regno, posti su unità fondiarie (manors), che concesse in feudo a baroni e cavalieri in larga parte normanni, badando a non favorire la creazione di signorie territoriali. Il re puntò infatti a uno stretto controllo del sistema feudale. Dopo la morte di Guglielmo e del suo successore Enrico I ci fu un periodo di guerra interna scatenata dai baroni, che si risolse solo con l’ascesa al trono di Enrico II, primo re della dinastia dei Plantageneti. Attraverso delle riforme, egli cercò di sottomettere al potere regio le giurisdizioni feudali e il clero. Si aprì così un conflitto durissimo, relativo anche al controllo dell’elezione dei vescovi e degli abati, con il papa Alessandro III e con il clero inglese guidato dall’arcivescovo di Canterbury Thomas Becket, già cancelliere della corona, che fu dapprima costretto all’esilio in Francia e poi assassinato in circostanze non chiarite nel 1170. Enrico II lasciò ai suoi eredi una struttura politica organizzata, di cui il re rappresentava il vertice di due sistemi gerarchici, feudale e amministrativo, tra loro integrati. Le lunghe assenze dall’Inghilterra di Riccardo Cuor di Leone (1189-1199), impegnato nella crociata e nelle guerre in Francia, lasciarono nuovamente spazio alle rivendicazioni della nobiltà. Giovanni Senza Terra (1199-1216) subì la deposizione dal papa per contrasti con l’arcivescovo di Canterbury, fu sconfitto a Bouvines nel 1214 e perse i possessi in Francia. I sacrifici imposti per finanziare le guerre in continente lo costrinsero a concedere nel 1215 un ampio documento – la Magna charta libertatum (Grande carta delle libertà) – che ridefiniva i rapporti tra il sovrano e i sudditi. Il sovrano era richiamato a rispettare le antiche consuetudini e a riconoscere le prerogative dei nobili, del clero e delle comunità mercantili cittadine; nel caso di nuove imposizioni fiscali era richiesta la loro approvazione, e fu formato un consiglio (magna curia) di 25 baroni che avrebbe dovuto assistere il re nel governo del regno. Il regno normanno nell’Italia meridionale L’Italia meridionale tra il X e l’XI secolo appariva caratterizzata da una forte frammentazione politica. Non toccato dalla conquista franca dell’VIII secolo, il Mezzogiorno era stato oggetto di tentativi di riconquista da parte degli imperatori d’Occidente e d’Oriente, aveva conosciuto importanti trasformazioni nelle dominazioni longobarde e subìto l’espansione araba. In un così frammentato, giunsero al principio dell’XI secolo dal ducato di Normandia numerosi cavalieri chiamati dai principi longobardi e bizantini in lotta tra loro. Nel giro di pochi decenni alcuni avventurieri normanni riuscirono a costituire piccoli domini quale ricompensa per i servizi militari prestati. Il loro inserimento nella rete dei poteri locali trasformò i mercenari normanni in signori territoriali, capaci più di altri di rapportarsi per via vassallatica ai potenti della regione e ai sovrani universali. Nel 1047 i capi normanni prestarono omaggio all’imperatore Enrico III provocando la reazione del papa, le cui truppe furono sconfitte in battaglia a Civitate nel 1053. Allontanatosi il papato dai bizantini in seguito allo scisma del 1054, e morto Enrico nel 1056, i capi normanni strinsero con Niccolò II a Melfi nel 1059 un importante accordo che, in cambio della sottomissione feudale, conferiva a Roberto d’Altavilla, detto il Guiscardo (l’Astuto), intorno al quale si erano coagulati gli interessi dei normanni ormai stabilmente insediatisi nel Mezzogiorno, il titolo di duca di Puglia e di Calabria, di terre cioè ancora in parte da conquistare, e l’avallo alla conquista della Sicilia musulmana. L’accordo di Melfi garantiva al papato un prezioso alleato nello scenario mediterraneo. A sua volta, come vassallo del papa, Roberto il Guiscardo assicurava un’altissima legittimazione al proprio dominio, che si avviava a proporsi come una grande potenza. Sotto la sua guida i normanni occuparono la quasi totalità dell’Italia meridionale, conquistando la Calabria nel 1060, la Puglia nel 1071, 236e le città campane di Amalfi nel 1073 e di Salerno nel 1077. Alla sua morte gli succedette il Le crociate non si nutrirono solo di ideali religiosi e di interessi politici, ma offrirono anche occasioni di arricchimento ai mercanti che si insediarono nelle città costiere degli stati crociati per incrementare i propri commerci. Furono soprattutto gli interessi dei mercanti italiani, intrecciati con quelli militari, a colpire a un certo punto anche l’impero bizantino. Temendo un peggioramento delle condizioni di commercio a Bisanzio, i veneziani offrirono ai crociati che si erano radunati a Venezia nel 1202 di trasportarli in Oriente in cambio di una spedizione contro Costantinopoli, chiamata anche la crociata dei veneziani. La città fu presa e saccheggiata nel 1204: anziché puntare a Gerusalemme i crociati si spartirono con i veneziani i territori dell’impero, dando vita a un nuovo «impero latino d’Oriente» destinato a sopravvivere per circa un sessantennio. Dopo questa impresa – cui seguono altre quattro spedizioni maggiori nel corso del XIII secolo – il movimento crociato venne esaurendo gli ideali religiosi originari e si dimostrò incapace di realizzare gli obiettivi militari. Conseguenza negativa fu anche la crescente intolleranza da parte dei musulmani nei confronti dei pellegrini e dei mercanti occidentali. Snodo VIII-L’apogeo dell’Europa (XII-XIII) Capitolo 16-La ricchezza economica L’incremento di popolazione che si era avviato dal IX-X secolo, e che aveva già assunto dimensioni consistenti nel corso dell’XI-XII secolo, divenne impetuoso nel corso del XIII secolo. La crescita demografica era l’effetto combinato dell’assenza di gravi epidemie e del migliorato sistema alimentare, frutto dell’espansione dei coltivi e dei progressi dell’agricoltura, che consentivano una riduzione della mortalità infantile e una vita media più lunga. La crescita della popolazione urbana portò a un certo punto al calo della manodopera rurale e alla crescita del fabbisogno alimentare delle città. Le tecniche agricole, pur migliorate, non permettevano però di ottenere rese adeguate alla nuova domanda di cereali. Ciò spinse i proprietari fondiari a mettere a coltura terre marginali e meno fertili, più esposte alle variazioni del clima e alle carestie. L’equilibrio tra il numero degli uomini e le risorse a disposizione si ruppe. Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo, infatti, la popolazione, in crescita progressiva da secoli, smise di crescere e in alcune regioni cominciò anche a diminuire. Prodromo della crisi gravissima che sarebbe scoppiata alla metà del Trecento. Tra le manifatture ebbe grande sviluppo quantitativo e qualitativo quella tessile, in particolare la produzione di stoffe di lana. L’impiego di nuovi macchinari, come la gualchiera o il telaio a piedi orizzontale, permise di produrre tessuti più robusti e in minor tempo. Dal XII secolo i mercanti italiani avevano acquisito il monopolio del commercio nelle rotte del Mediterraneo, fondando colonie permanenti nei principali empori. Nel successivo vi ebbero un ruolo di primo piano soprattutto Venezia e Genova, che si scontrarono per la supremazia. Il saccheggio di Costantinopoli verso cui seppero indirizzare la crociata del 1204 fruttò ai veneziani enormi bottini, il controllo mercantile del Bosforo, l’estromissione dei genovesi e 271dei pisani dal territorio bizantino, e l’apertura di empori in Siria, dai quali alcuni mercanti raggiunsero la Cina attraverso l’Asia, come fece Marco Polo tra 1271 e 1275. La battaglia navale della Meloria del 1284, che inflisse durissime perdite a Pisa, segnò la supremazia di Genova nel Mediterraneo occidentale. L’espansione degli scambi sollecitò l’approntamento di nuovi strumenti finanziari e monetari che facessero fronte alla crescente domanda di denaro. Per superare il disordine monetario esistente adeguandolo alle nuove esigenze commerciali, tra il XII e il XIII secolo numerose zecche coniarono nuove monete d’argento (dette «grossi») di maggiore valore rispetto alle circolanti. Soprattutto, dalla metà del Duecento alcune autorità tornarono a battere nuovamente monete d’oro, che in Occidente mancavano dall’età carolingia. Capitolo 17-Papato, impero e regni Papato e impero rinnovarono tra il XII e il XIII secolo i rispettivi progetti di supremazia universalistica sulla cristianità, elaborando propri modelli di autorità e dando luogo a nuovi conflitti di cui fu a lungo teatro l’Italia. Dopo il concordato di Worms del 1122 l’azione politica del papato divenne irreversibile: Callisto II stabilì delle precise regole in materia di investiture ecclesiastiche, ponendo fine alla cosiddetta "lotta per le investiture", iniziata oltre trent'anni prima tra Gregorio VII e l'imperatore Enrico IV. In base ai termini dell'accordo, l'imperatore rinunciava al diritto di investire i vescovi dell'anello e del bastone pastorale, simboli del loro potere spirituale, riconoscendo solo al Pontefice tale funzione, e concedeva che in tutto l'impero l'elezione dei vescovi fosse celebrata secondo i canoni e che la loro consacrazione fosse libera. Allo stesso modo, l’elezione di Federico I nel 1155 restaurò l’autorità imperiale sulla scena europea e mediterranea, dopo l’eclissi sofferta tra l’XI e il XII secolo. Gli imperatori furono costantemente impegnati a gestire l’autonomia rivendicata dai principi territoriali tedeschi e dalle città italiane. I papi entrarono invece in conflitto con i grandi monarchi per il controllo delle immunità e delle cariche ecclesiastiche nei regni. Federico I si propose di pacificare la Germania e di riaffermare il potere imperiale in Italia. Se nel regno tedesco conseguì qualche successo, la politica italiana si trasformò in aperto conflitto con le città. Nel 1158 convocò la dieta di Roncaglia, presso Piacenza, un’assemblea pubblica del regno d’Italia in cui riaffermò (con la Constitutio de regalibus, che attingeva al diritto romano) le prerogative (regalìe) dell’autorità regia: esercizio della giustizia, riscossione delle imposte, facoltà di battere moneta, diritto di arruolare eserciti, controllo di strade e fortezze. Proibì inoltre le leghe fra città e le guerre fra privati, e impose all’aristocrazia l’omaggio feudale. Milano non si assoggettò e fu attaccata dall’esercito di Federico I che ne distrusse le mura nel 1162 e vi insediò un funzionario imperiale. La crescita della pressione fiscale spinse molte città alla formazione di un’alleanza, detta «lega lombarda», sostenuta da papa Alessandro III, che sconfisse militarmente e costrinse Federico I a concedere, attraverso la pace stipulata a Costanza nel 1183, l’esercizio delle regalìe ai comuni, in cambio del riconoscimento formale dell’autorità imperiale. Prima di morire nel 1190 durante la terza crociata, Federico I assicurò al figlio Enrico VI l’eredità del regno di Sicilia combinandone il matrimonio con Costanza d’Altavilla. Enrico VI morì però nel 1197, quando il figlio Federico era bambino. La madre ne affidò la tutela al papa Innocenzo III, di cui i re di Sicilia erano vassalli, che lo incoronò nel 1208. L’elezione a re di Germania nel 1212, dove confermò diverse prerogative regie ai principi e alle città, aprì a Federico II la strada all’incoronazione imperiale nel 1220. Fu solo nel regno di Sicilia che egli riuscì a perseguire una politica di piena affermazione della propria sovranità, disciplinando le forze baronali e le autonomie urbane e impiantando un efficiente apparato burocratico. Vano fu invece il tentativo di imporre l’autorità imperiale sulle città del centro-nord, sostenute da papa Gregorio IX, 279che scomunicò Federico II per eresia nel 1227 (scomunica ribadita nel 1239 e nel 1245). Federico II morì nel 1250, lasciando incompiuto il progetto di unificare il potere imperiale dalla Germania alla Sicilia. Dopo la morte nel 1254 del figlio Corrado IV, già re di Germania dal 1237, la dinastia sveva si estinse con il figlio di questi, Corradino, dapprima usurpato dallo zio Manfredi della corona di Sicilia nel 1258 e poi sconfitto e condannato a morte dal nuovo sovrano Carlo I d’Angiò nel 1268. Si aprì allora una grave fase di instabilità politica che vide sia il titolo regio tedesco sia quello imperiale vacanti fino al 1273 quando fu eletto imperatore Rodolfo I d’Asburgo. Il lungo interregno incrinò il prestigio dell’autorità imperiale. Dopo di allora nessun sovrano riuscì a svolgere un ruolo significativo a sud delle Alpi, se non brevi ricognizioni di un potere irrimediabilmente ridimensionato. L’imperatore si ridusse a essere definitivamente un sovrano tedesco. La lunga vacanza seguita alla morte di Federico II contribuì anche a rafforzare l’idea che l’impero cristiano dovesse essere soggetto al potere universale del pontefice. La fine della dinastia sveva e l’interregno imperiale la teoria teocratica, già elaborata da Gregorio VII, che attribuiva al papato il potere assoluto su tutti i governi, fu Innocenzo III a sviluppare una coerente dottrina che ne affermava la supremazia universale. Attraverso la metafora del sole (la Chiesa che brilla di luce propria) e della luna (l’impero che brilla di luce riflessa) espressa nel 1198, egli sancì il principio per cui il papa, vicario di Cristo, riceveva da Dio sia il potere spirituale sia quello temporale, delegando l’autorità temporale ai sovrani, che dovevano esercitarla sotto la guida della Chiesa. Innocenzo IV (1243-1254) sostenne il diritto papale di scegliere e deporre gli imperatori (come fece lui stesso con Federico II) e di amministrarne il potere in caso di vacanza. Bonifacio VIII (1294-1303) ribadì perentoriamente la subordinazione del potere civile a quello religioso, che poteva concederlo o toglierlo a suo arbitrio. La pretesa dei papi si fondava sul Constitutum Constantini (noto come Donazione di Costantino), un documento che falsamente attribuiva al primo imperatore cristiano, all’atto di trasferire la capitale a Costantinopoli, la concessione a papa Silvestro del dominio su Roma e sulla pars occidentis dell’impero. Con il pontificato di Innocenzo III (1198-1216) l’affermazione del potere pontificio al vertice della Chiesa cattolica e come suprema guida della cristianità raggiunse il suo punto più alto. Il papa si impegnò attivamente nelle vicende politiche dell’epoca con un ruolo spesso determinante. Egli dapprima appoggiò l’elezione a imperatore di Ottone IV di Brunswick nel 1208, che aveva rinunciato alla sovranità in Italia, incoronandolo nel 1209, e poi sostenne l’alleanza tra il re di Francia e Federico II che lo sconfisse nel 1214. Elaborò inoltre quell’organica idea di crociata che ispirò il rilancio della reconquista spagnola con la vittoria a Las Navas de Tolosa nel 1212, le spedizioni in Oriente nel 1202 e nel 1217, e la crociata contro i catari nel 1208-1209 che inaugurò la serie di guerre interne alla cristianità che i papi avrebbero condotto contro i dissidenti religiosi e i nemici politici tra il XIII e il XIV secolo. La misura del prestigio acquisito dal papato grazie a Innocenzo III fu data dal IV concilio lateranense che egli convocò nel 1215, dove convenne uno straordinario numero di prelati e di rappresentanti dei principi vassalli della Chiesa di Roma. Un’intensa partecipazione alle vicende politiche europee contraddistinse l’operato dei pontefici per tutto il XIII secolo, dal durissimo conflitto che li oppose a Federico II alla promozione degli Angiò a sovrani di Sicilia. Alla fine del secolo si succedettero due papi che incarnavano opposte concezioni della Chiesa. Nel 1294 fu eletto col nome di Celestino V l’eremita Pietro del Morrone, di rigorosa spiritualità ma digiuno di esperienza politica, gradito alle componenti della Chiesa che ne invocavano un rinnovamento evangelico: resosi conto delle insormontabili difficoltà che si opponevano ai suoi progetti, egli abdicò dopo pochi mesi. A succedergli fu Benedetto Caetani, membro di una potente famiglia romana e uomo di curia, col nome di Bonifacio VIII. Egli celebrò la preminenza dell’autorità pontificia attraverso la proclamazione nel 1300 del primo anno santo (giubileo) che promise l’indulgenza plenaria ai pellegrini che avessero visitato le tombe degli apostoli a Roma. Il successo dell’iniziativa non le servì per continuare a proporsi come suprema autorità politica: il re di Francia, Filippo IV, revocò immunità fiscale del clero, aprendo un duro conflitto che minò ogni residua pretesa universalistica dei successivi pontefici. Tra il XII e il XIII secolo, la Chiesa conobbe anche un processo di rafforzamento interno. L’elezione del papa, di cui il concilio lateranense III del 1179 ribadì l’esclusiva pertinenza ai cardinali, fu definitivamente disciplinata nel 1274 con l’istituzione del conclave, al fine di abbreviarne i tempi e di regolarne i modi. I cardinali rafforzarono anche il loro ruolo di principali collaboratori del papa: facevano parte del concistoro, il consiglio del pontefice, e lo assistevano nel governo quotidiano della Chiesa. I cardinali erano nominati dal papa, che in genere li sceglieva tra la propria clientela. Più in generale, si accentuò la tendenza a limitare la partecipazione dei laici al governo della Chiesa, rafforzando, al contrario, la componente sacerdotale. Il rafforzamento dei poteri monarchici Nel corso del XIII secolo i poteri monarchici conobbero un ulteriore rafforzamento in quasi tutti i regni europei, che apparve evidente quando nella seconda metà del secolo cominciarono a declinare le pretese universalistiche dell’impero e del papato. oggetto della costruzione di contadi; dal punto di vista culturale, infine, l’esperienza italiana espresse un nesso organico tra la politica e le elaborazioni intellettuali, che si impegnarono a legittimarne i regimi di autonomia. Le città dell’Italia meridionale non conobbero invece una vera esperienza comunale. Lo sviluppo delle autonomie urbane fu qui frenato dall’affermazione dell’autorità centrale in seguito all’instaurarsi della monarchia normanna. Lo sviluppo dei comuni italiani fu la conseguenza di due condizioni principali. Da un lato, della loro forza economica, sociale e culturale; dall’altro, della debolezza, rispetto ad altre aree europee, dei sistemi politici entro cui esse erano inserite, in primo luogo dell’impero e dei grandi signori territoriali. Le città non disconobbero la sovranità imperiale, ma rivendicarono il diritto all’autogoverno, a una libera politica di alleanze, all’estensione della loro autorità sui contadi, rifiutando l’invio di funzionari imperiali e l’imposizione arbitraria di tributi. Il conflitto con Federico Barbarossa portò alla formazione di leghe tra le città venete e lombarde, poi fuse nella «lega lombarda» giurata a Pontida nel 1167, che si rivelarono capaci di sconfiggere clamorosamente in battaglia l’esercito imperiale a Legnano nel 1176, e di costringere Federico I a trattare. La pace di Costanza del 1183 garantì alle città il diritto di esercitare i poteri regi, di eleggere i propri consoli, di costituire leghe, di esercitare diritti sul territorio e di erigervi fortezze. Il rinnovato conflitto tra la lega lombarda e Federico II, innescato dalla convocazione imperiale dei rappresentanti delle città a Cremona nel 1226 e culminato nella battaglia di Cortenuova del 1237 in cui prevalse l’esercito del sovrano, si risolse in una provvisoria sottomissione delle città al governo diretto di Federico II, che svanì con la morte di quest’ultimo. Lo sviluppo politico maturò pienamente nella prima metà del XIII secolo, dando luogo a un primo ampliamento del gruppo dirigente, alla stabilizzazione delle istituzioni e a un decisivo riordinamento amministrativo e giuridico. Simbolo di questa nuova fase fu la magistratura del podestà, affiancata da un consiglio ristretto di cittadini. Il podestà era reclutato ogni anno tra un novero di professionisti della politica che si muovevano tra le città contribuendo a renderne omogenee le pratiche di governo. Il nuovo regime – che si affermò in tutte le città italiane del centro-nord tra il 1180 e il 1220 circa – consentì di allargare a famiglie cresciute in ricchezza, talora anche provenienti dal contado, la partecipazione ai consigli e agli uffici del comune, superando il sistema consolare che era stato egemonizzato da una ristretta cerchia di famiglie potenti (milites) provocando conflitti crescenti. La crescita demografica e lo sviluppo economico promossero la continua ascesa di gruppi sociali e familiari cosiddetti di «popolo» – mercanti, banchieri, notai e artigiani – fino ad allora esclusi dalla partecipazione politica. La proiezione territoriale delle città italiane si tradusse nel controllo diretto del contado (comitatus), cioè di un’area corrispondente in larga misura alla diocesi cittadina, erede a sua volta del territorio su cui i centri urbani esercitavano già in età romana una funzione di coordinamento. La conquista del contado, avviata nel XII secolo e consolidata nel successivo, ricorse alle armi e agli accordi. Non tutti i comuni furono città. A dare vita a forme di autogoverno furono infatti anche le comunità rurali. Il fenomeno era parte della più generale evoluzione della società rurale europea tra il XII e il XIII secolo verso una più marcata emancipazione dei contadini 313dalle dominazioni signorili. Snodo X-Crisi e nuovi sviluppi (secoli XIV-XV) Capitolo 20-La crisi demografica La popolazione europea subì un drammatico calo nel corso del XIV secolo. All’inizio del secolo si manifestarono in varie regioni europee crisi di sussistenza sempre più acute. La pressione demografica aveva spinto a estendere la coltivazione a terreni marginali (declivi delle montagne, brughiere) che fornivano scarsi raccolti, e a sfruttare eccessivamente i suoli finendo con l’isterilirli. Una prima serie di gravi carestie colpì l’Italia nel 1271-1272 e nel 1275-1277, e l’Inghilterra nel 1293-1295. Su una popolazione già provata da anni di difficoltà si abbatté nel giro di pochi mesi dal 1347 una terribile epidemia di peste bubbonica o «nera» proveniente dall’Asia. La peste si diffuse attraverso le vie di commercio. Dal Kazakistan, dove era endemico, il bacillo giunse in Europa attraverso le vie carovaniere che collegavano le steppe asiatiche agli empori mercantili del Mar Nero. Da qui, trasportata da topi annidati nelle stive delle navi di mercanti genovesi, la peste «sbarcò» dapprima a Costantinopoli e poi a Messina nel settembre del 1347. Dalla Sicilia essa risalì il continente, toccando il culmine dell’infezione nel 1348, quando il contagio raggiunse l’Italia comunale, la Francia, la Spagna e la Germania, e poi, nel 1349, l’Inghilterra, la Scandinavia, l’Ungheria e, nel 1350, anche la Russia, risparmiando 332poche aree e causando un enorme numero di morti. La popolazione europea aveva raggiunto intorno al 1300 oltre 70 milioni di persone; all’indomani della peste nera era diminuita a circa 50 milioni; all’inizio del XV secolo si era ulteriormente ridotta a meno di 45. La crisi demografica che colpì l’Europa tra il XIV e il XV secolo è indubitabile. Oggetto di discussione tra gli storici è invece la valutazione se al calo della popolazione corrispose anche una crisi dell’economia. Alcuni sostengono che l’Occidente fu attraversato da una profonda depressione: il declino demografico avrebbe determinato una contrazione della domanda di beni, riducendo il livello globale della produzione e del commercio; i salari urbani sarebbero cresciuti, a fronte di un calo dei prezzi e delle rendite agricole. Secondo altri studiosi il calo della popolazione avrebbe portato più vantaggi ai sopravvissuti, migliorandone il tenore di vita. Capitolo 21- Reazioni e ripresa Tra il XIV e il XV secolo le campagne e le città dell’Europa furono attraversate da un’ondata di rivolte. A determinarlo fu il peggioramento delle condizioni di vita per il susseguirsi di carestie, epidemie, guerre e recessioni economiche. La crisi travolse i gruppi sociali più deboli, accentuandone lo stato di subalternità e di marginalità. Ad accrescere le tensioni furono anche le pressioni che i grandi signori, i proprietari fondiari e gli imprenditori esercitarono sui lavoratori. I contadini non contestarono mai la figura del re, così come i salariati urbani la legittimità dei loro governi. Essi si batterono invece per la redistribuzione della ricchezza e per la partecipazione politica. Improvvisa e violenta fu la rivolta dei contadini, nota come jacquerie, che scoppiò nella Francia del nord nel 1358 prostrata dalla guerra che vi si combatteva da anni e dalla pressione fiscale. La rivolta, si manifestò con assalti e saccheggi ai castelli. I nobili soffocarono rapidamente la ribellione incendiando villaggi e sterminando non meno di 20.000 persone. Nelle Fiandre occidentali un indennizzo disposto dal re di Francia nel 1323 spinse i contadini a ribellarsi contro la nobiltà francofona coinvolgendo anche gli operai tessili di Bruges e. In Inghilterra il malcontento crescente per l’aggravarsi dell’oppressione signorile, fu inasprito da una legge del 1351 (Statuto dei lavoratori) che fissava un tetto massimo ai salari con cui i coltivatori integravano i loro redditi lavorando a giornata le terre altrui. L’introduzione di un’ennesima tassa personale (poll tax) per finanziare la guerra fu la scintilla che scatenò la rivolta dei contadini del Kent e dell’Essex nel 1381. Tra le richieste erano l’abolizione della servitù, il ripristino degli usi sulle terre comuni e la soppressione dello statuto del 1351. Alleandosi con gli artigiani e i salariati, i 345rivoltosi saccheggiarono palazzi nobiliari a Londra e ottennero dal re la concessione di alcuni privilegi, ma i loro esponenti più radicali furono perseguiti duramente. Nelle città le condizioni dei lavoratori delle manifatture diventarono più precarie. Forte sviluppo avevano avuto tra il XIII e il XIV secolo le corporazioni (arti, gilde) dei mestieri, sorte per tutelare gli interessi comuni nei diversi settori attraverso propri organi di governo e statuti. Le arti regolamentavano gli orari di lavoro, le modalità di produzione, la qualità dei prodotti. In Italia, sommosse popolari scoppiarono a Genova (nel 1339 e nel 1383), a Siena e a Perugia (nel 1371), e a Firenze (nel 1378). Soprattutto nei centri dove era forte la produzione tessile, l’obiettivo fu quello di tutelare i salari e di estendere i diritti dei lavoratori. Il tumulto più noto fu il tumulto dei ciompi che esplose a Firenze nel 1378 per iniziativa degli operai della lana. Come nel caso dei rivoltosi inglesi anch’essi definirono le proprie richieste: partecipazione al governo del comune con una propria arte, aumento dei salari, tutela dalle vessazioni giudiziarie della corporazione della lana. Insorti a migliaia, i ciompi ottennero inizialmente per i propri rappresentanti un terzo delle cariche di governo, ma come in molte altre rivolte anch’essi furono duramente repressi dalla reazione degli imprenditori. La ripresa nel ‘400 Il ritrovato tra risorse alimentari e numero degli uomini e l’aumento della produttività dei raccolti posero le basi per l’inversione della tendenza demografica. l miglioramento dell’alimentazione aumentò la resistenza alle malattie e alle avversità climatiche. Le epidemie cominciarono a farsi meno virulente e a mietere meno vittime. Anche il tasso di natalità mutò di segno. La lunga fase di crisi attraversata dall’Occidente europeo coincise con l’avvio del periodo di fioritura artistica, letteraria e architettonica che va sotto il nome di Rinascimento. Snodo XI-Il declino dei poteri universali (sec. XIV-XV) Capitolo 22-Il papato e la società cristiana Tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo maturò non solo sul piano istituzionale ma anche su quello ideologico il declino delle concezioni universalistiche del papato e dell’impero. In occasione del conflitto con il re di Francia, Filippo IV, su chi avesse diritto di imporre le tasse sul clero e sui beni della Chiesa francese, il papa Bonifacio VIII portò all’estremo gli ideali teocratici dei suoi predecessori. Nella bolla Unam sanctam del 1302 egli riaffermò che il potere temporale era affidato ai laici «secondo il comando e la condiscendenza del clero», e la necessità che «ogni creatura umana» si sottomettesse all’autorità del «pontefice di Roma» per la propria salvezza. Di conseguenza, ogni potere civile doveva subordinarsi al potere spirituale. Filippo IV il Bello, nel conflitto che lo oppose a Bonifacio VIII ricorse agli «stati generali» per garantirsi il sostegno delle diverse componenti del regno e si circondò di giuristi che teorizzarono l’autonomia del potere regio da quello pontificio. Al culmine dello scontro tra Bonifacio VIII e Filippo IV, il re fu scomunicato dal papa. Su consiglio di Guglielmo di Nogaret, uno dei giuristi che orchestrava la campagna di discredito del pontefice, il re concepì il disegno di condurre il papa davanti a un tribunale francese per sottoporlo a giudizio di lesa maestà. Nel 1303 una spedizione guidata dallo stesso Nogaret e appoggiata dalla famiglia romana dei Colonna, nemica storica dei Caetani cui apparteneva Bonifacio VIII, lo raggiunse ad Anagni, in quel momento sede della curia, dove fu coperto di insulti e arrestato. Il papa morì dopo pochi giorni, ma l’episodio dimostrò che le pretese teocratiche dei pontefici non avevano più alcuna possibilità di concreta realizzazione. Nonostante lo scandalo sollevato, infatti, il re riuscì a fare eleggere papa nel 1305 il suo candidato Bertrand de Got, vescovo di Bordeaux, salito al soglio col nome di Clemente V. Temendo un’accoglienza ostile da parte dei romani, nel 1309 il nuovo pontefice trasferì la curia pontificia ad Avignone, dove sarebbe rimasta fino al 1377. La lunga permanenza della curia ad Avignone rafforzò i rapporti tra il papato e il regno di Francia, consolidando l’asse «guelfo» che dominò la scena politica europea del Trecento facendo perno anche sulle corti di Parigi e di Napoli angioina. I sette pontefici del periodo furono tutti francesi, come lo fu la maggior parte dei cardinali da loro nominati. La residenza ad Avignone fu caratterizzata anche dall’accentuarsi dei fenomeni di corruzione che affliggevano la curia pontificia. Particolare sviluppo ebbe la vendita delle indulgenze, cioè della remissione delle pene temporali inflitte ai peccatori. La morte improvvisa di Gregorio XI nel 1378 aprì un conflitto all’interno del collegio dei cardinali, che si spaccò sull’elezione del nuovo pontefice per i contrasti tra i prelati francesi e italiani. I cardinali italiani elessero papa l’arcivescovo di Bari, Bartolomeo Prignano, che prese il nome di Urbano VI; i Ad alternarsi sul trono furono soprattutto le casate dei Wittelsbach, insediati in Baviera, dei Lussemburgo, che fondarono la propria autorità in Boemia, e degli Asburgo, i cui domini alpini si estendevano dall’attuale Svizzera orientale al Tirolo, alla Carinzia. I Lussemburgo riuscirono a controllare per circa un secolo, dal 1348 al 1437, la corona imperiale, ma nonostante i tentativi di accreditarsi come una stirpe di re, non poterono renderla dinastica. L’ultimo sovrano della casata, Sigismondo (1410-1437), che era stato eletto anche re d’Ungheria dal 1387, diede in sposa la figlia Elisabetta ad Alberto II d’Asburgo favorendo così la convergenza delle corone d’Austria, Boemia e Ungheria nelle mani degli Asburgo. L’autorità imperiale fu esercitata soprattutto attraverso l’organismo rappresentativo del parlamento imperiale (Reichstag) che nel corso del XV secolo si riunì con crescente regolarità, aprendosi anche alla presenza delle città imperiali. Solo Massimiliano d’Asburgo (1486-1519) riuscì in parte a recuperare l’amministrazione della giustizia regia su tutti i territori tedeschi, istituendo un tribunale imperiale e proclamando la «pace perpetua». Nell’area renana, nella Germania meridionale e sulle coste del Mar Baltico si erano sviluppate le maggiori città tedesche, governate da un’attiva borghesia mercantile. Il rafforzamento dei principati territoriali indusse le città a unirsi in leghe. Le alleanze erano state vietate dalla Bolla d’oro, ma il fenomeno dilagò dopo la morte di Carlo IV. Per vari decenni la Germania fu travagliata da uno stato di guerra continuo tra i principi e le città. La lega delle città sveve, capeggiata da Ulm, giunse a comprendere oltre 40 centri e si batté soprattutto contro i conti del Württemberg; altre leghe si costituirono in Alsazia, in Renania e in Sassonia, talora collegandosi tra loro. Nonostante alcuni successi iniziali, le leghe subirono pesanti sconfitte dagli eserciti signorili e furono costrette a sciogliersi definitivamente in seguito alla pace generale del 1399. Estintasi la dinastia dei Premyslidi, nel 1310 Giovanni di Lussemburgo, figlio dell’imperatore Enrico VII, incorporò la Boemia nell’impero inaugurandovi la presenza della sua casata. Essa raggiunse il suo apogeo con il lungo regno di Carlo IV (1347-1378), che rinunciò a esercitare il potere imperiale sull’Italia (dove si limitò a erogare diplomi vicariali alle signorie urbane in ascesa), consapevole dei fondamenti boemi della sua autorità. Pose a Praga la propria residenza, nel 1348 vi fondò la prima università dell’Europa centrale, ed estese il regno incorporando il Brandeburgo. Impero Romano d’Oriente: Dopo il saccheggio Costantinopoli del 1204, i crociati si spartirono il territorio bizantino in principati secondo le consuetudini feudali (il ducato di Atene e di Tebe, il principato di Acaia e il regno di Tessalonica) dando vita a un cosiddetto «impero latino d’Oriente», di cui i veneziani monopolizzarono gli empori commerciali. L’alleanza con i mercanti genovesi consentì a Michele Paleologo di riprendere Costantinopoli nel 1261 e di restaurare la sovranità imperiale su un territorio che però era ormai ridotto alle sole regioni affacciate sul Bosforo e a qualche isola nel mare Egeo. Come quello d’Occidente, anche l’impero bizantino si vide sempre più costretto a una dimensione regionale: impero «greco» e non più «romano». L’economia ne uscì ulteriormente indebolita: il commercio e la finanza restarono nelle mani dei veneziani e dei genovesi, mentre sempre più difficili da reperire diventarono le risorse per coprire le spese di eserciti ormai 382composti di soli mercenari; la continua svalutazione della moneta contribuì a determinare un’irreversibile recessione. La stessa autorità centrale fu minata dopo la morte di Michele Paleologo nel 1282 da guerre dinastiche che si protrassero per alcuni decenni. L’unica autorità che non perse forza fu quella del patriarca di Costantinopoli, che assunse una dimensione sempre più ecumenica. Peraltro, all’interno della Chiesa ortodossa permaneva viva una dialettica tra un orientamento favorevole a ricucire lo scisma con la Chiesa cattolica e uno deciso invece a rafforzarne le differenze. La prima componente fece un estremo tentativo di riconciliazione tra le due Chiese durante il concilio di Firenze del 1439. La seconda si strinse intorno al movimento monastico guidato dalle gerarchie del monte Athos, fautrici di un cristianesimo contemplativo e spiritualistico. Impero islamico: dal 1058 la dinastia turca dei Selgiuchidi aveva preso il controllo del califfato di Baghdad. Anche l’Egitto passò sotto il controllo della dinastia, quando il sultano Salah ed-Din Yusuf, detto anche Saladino nel 1171 dichiarò decaduta la dinastia dei Fatimidi, costruendo un grande dominio personale esteso fino a Siria, Mesopotamia e Arabia. Nel 1250 prendono il controllo di Egitto e Siria i mamelucchi, originariamente schiavi di etnia turca. Nelle regioni orientali l’invasione dei mongoli aveva reso i Selgiuchidi soggetti al gran khan, frantumando l’Anatolia in una serie di piccoli emirati. Da uno di questi prese avvio l’affermazione degli Ottomani, una piccola tribù turca che forte dell’abilità dei propri guerrieri a cavallo cominciò a espandersi in tutta l’Asia Minore dai primi decenni del XIV secolo, sotto la guida del fondatore della dinastia, l’emiro Osman I (1299-1326). L’espansione ottomana proseguì verso la Macedonia, la Bulgaria e la Valacchia, suscitando in Occidente una crescente apprensione. Una crociata fu bandita dal papa Bonifacio IX non appena si sparse la notizia della caduta della Morea bizantina: alla spedizione, guidata dal re d’Ungheria Sigismondo, parteciparono francesi, veneziani e genovesi con l’intento di soccorrere Costantinopoli, ormai stretta in una morsa. L’esercito dei cavalieri occidentali fu però sconfitto a Nicopoli nel 1396, e il califfo di Baghdad riconobbe al capo ottomano Bayazid I (1396-1402) il titolo di sultano. Gli Ottomani stavano per puntare alla conquista di Bisanzio quando furono investiti dalla rinnovata espansione mongola. A promuoverla fu un capo tartaro, Timur-lenk (noto in Europa come Tamerlano), di fede musulmana sunnita, che dalla regione di Samarcanda mosse una serie di fulminee campagne di guerra che gli permisero di ricreare un grande impero asiatico. Entro il 1388 completò la conquista della Persia, nel 1398 saccheggiò Delhi in India, per poi spingersi alla conquista della Mesopotamia, della Georgia e dell’Armenia compiendo incursioni in Siria, ove distrusse Aleppo e Damasco, e saccheggiando Baghdad nel 1401. Nel 1402 sconfisse e catturò Bayazid I ad Ankara, arrestando l’ascesa dell’impero ottomano e conquistando parte dell’Anatolia. Tamerlano morì nel 1405 alla testa di una grande spedizione diretta alla conquista della Cina. Durante il suo regno Samarcanda conobbe grande splendore e fu centro di un’intensa vita culturale, giungendo ad adottare lingua e costumi turchi. Dopo la sua morte il vasto impero si disgregò in pochi decenni. Dopo la morte di Tamerlano, gli Ottomani ripresero l’espansione in Asia, nel Mar Nero e nei Balcani. Di fronte alla minaccia gli imperatori bizantini chiesero invano aiuto a un’Europa prostrata dalla guerra dei Cent’anni e dalla crisi delle sovranità imperiali e pontificia. Un esercito crociato guidato dal re di Polonia e di Ungheria fu sconfitto a Varna in Bulgaria nel 1444. Maometto II (1451-1481) cinse d’assedio Costantinopoli che cadde il 29 maggio 1453 e fu saccheggiata per giorni: l’ultimo imperatore bizantino, Costantino XI, vi morì combattendo. La caduta in mano musulmana di Costantinopoli e la fine dell’impero bizantino suscitarono un’ondata di sgomento in Occidente. Molti profughi greci vi ripararono portando con sé i tesori della propria cultura. Nei decenni successivi i sultani sottomisero gran parte della Grecia e dei Balcani, spazzando via dall’Egeo e dalla Crimea gli avamposti mercantili genovesi e veneziani. Fu Maometto II ad assicurare l’uniformità amministrativa e giuridica dell’impero, sul fondamento della legge coranica musulmana (sharia). L’organizzazione politica e religiosa dell’impero ottomano fu accentrata nelle mani del sultano. Nelle funzioni di primo ministro agivano i vizir, spesso uomini di umili origini, mentre le province dell’impero e gli stati soggetti venivano governati tramite pascià e governatori: si trattava di un’efficiente burocrazia in cui furono reclutati, anche in posizioni di potere, schiavi cristiani forzosamente convertiti all’islam. Snodo XII-La formazione degli stati (sec. XIV-XV) Capitolo 24-Dai regni agli stati Tra il XIV e il XV secolo ci fu il rafforzamento statale dei regni europei, che fu caratterizzato dall’evoluzione di processi già in atto da secoli e dell’emergere di nuovi fenomeni. Tra gli elementi di continuità va evidenziato, in primo luogo, come gli stati continuarono a essere costituiti da una molteplicità di organismi di base (signorie territoriali, città, comunità rurali, istituzioni ecclesiastiche, etc.), ciascuno titolare di poteri e prerogative. La stessa geografia politica dell’Europa occidentale, fatta di grandi monarchie e di principati territoriali, rimase sostanzialmente immutata. Una trasformazione evidente investì invece l’Europa orientale, dove vennero formandosi vaste e finalmente più stabili compagini statali, che furono comunque più fragili rispetto a quelle occidentali per la strutturale debolezza della loro composizione sociale e organizzazione politica. Il plurisecolare processo di sviluppo economico e sociale delle città, per quanto rallentato dalla ristrutturazione seguita alla crisi demografica del Trecento, rese crescente anche l’influenza politica dei ricchi gruppi dirigenti urbani nei confronti del potere regio. Anche il clero continuò a godere di privilegi giurisdizionali e fiscali, nonostante la volontà crescente dei sovrani e dei principi di controllare le istituzioni ecclesiastiche. La formazione degli stati europei tra il XIV e il XV secolo si svolse in continuità con i precedenti processi di affermazione dei poteri monarchici, e con lo sviluppo di elementi nuovi che diedero alle compagini statali una fisionomia qualitativamente diversa rispetto al passato. Malgrado il rafforzamento dei poteri sovrani gli stati rimasero caratterizzati però dalla presenza di una molteplicità di «corpi» politici, quali le città, i principati territoriali, la nobiltà, etc., che esercitavano poteri e prerogative con ampi spazi di autonomia. Le rivolte della nobiltà, delle città e dei contadini costellarono il XIV e il XV secolo. Espressione istituzionale del patto reciproco tra il sovrano e i corpi per il governo del regno furono le assemblee rappresentative che si svilupparono in molti stati tra il XIV e il XV secolo: gli «stati generali» in Francia, le cortes in Spagna, i «parlamenti» in Inghilterra, le «diete» in Germania, e così via. Esse erano costituite dai rappresentanti dell’aristocrazia e della piccola nobiltà, del clero, dei mercanti delle città, talora anche dei contadini. Il sovrano era tenuto a convocarle quando intendeva emanare una legge o introdurre una tassa che potesse ledere i privilegi tradizionali. I diversi corpi politici cominciarono ad abituarsi a coesistere insieme, venendo a formare una comunità politica che si identificava crescentemente in un «paese». In alcuni stati la coscienza di appartenere a una comunità con caratteri propri anche dal punto di vista linguistico e culturale diede forma a un comune sentimento di appartenenza nazionale. Un segnale importante, in questo senso, fu dato dal concilio di Costanza, dove i partecipanti decisero di votare non individualmente ma per nazioni (nationes). Anche lo sviluppo di Chiese nazionali ebbe origine da questo comune sentire. Capitolo 25-Verso gli stati nazionali La guerra dei Cent’anni Si usa definire come guerra dei Cent’anni la serie di conflitti bellici che, in Francia, contrapposero la corona inglese a quella francese tra il 1337 e il 1453. Da secoli i sovrani inglesi possedevano territori e diritti nel regno di Francia, di cui erano vassalli. Quando nel 1328 il re di Francia Carlo IV morì senza eredi, il re d’Inghilterra Edoardo III, che ne era nipote, rivendicò il diritto a succedergli. La guida del regno fu invece affidata a Filippo VI di Valois, che confiscò i feudi francesi di Edoardo e lo indusse a muovere guerra nel 1337, puntando innanzitutto alla conquista delle Fiandre, una regione strategica per il commercio delle lane inglesi. L’esercito inglese guidato da Edoardo sbaragliò i francesi, grazie anche al suo uso della fanteria e delle bombarde. La pace di Brétigny del 1360 sancì la sovranità inglese su circa un terzo del territorio francese. L’inasprimento fiscale per le spese belliche fece scoppiare disordini anche in Inghilterra nei decenni seguenti, consentendo ai francesi di riconquistare entro il 1380 tutti i domini inglesi sul continente tranne pochi avamposti costieri. I disturbi mentali che impedirono di governare al nuovo re Carlo VI fecero emergere però due fazioni che scatenarono una lunga guerra civile in Francia. Quando nel 1392 Carlo VI fu riconosciuto incapace di governare, emersero due fazioni* contrapposte. Quella guidata dal fratello del re, Luigi d’Orléans, che assunse la reggenza del regno, sostenne la continuità della politica fiscale che favoriva i gruppi sociali esenti dalle imposte (nobiltà, clero e ora anche gli stessi ufficiali) e della crescita degli apparati amministrativi che la rendevano possibile. Le si opponeva la fazione guidata dal duca di Borgogna (Filippo l’Ardito, zio paterno di Luigi d’Orléans) fautrice di una riforma in senso antifiscale che limitasse il potere d’azione degli ufficiali regi, e sostenuta da altre componenti sociali del regno: la nobiltà minore, le élites urbane mercantili, le stesse masse popolari parigine; ovvero la fazione degli armagnacchi, così chiamati quando ne assunse la ricompensati con ampie deleghe di potere. L’esercizio dell’autorità monarchica si affidò principalmente alle assemblee rappresentative (diete), dominate dalla grande aristocrazia e solo in alcuni regni allargate anche alla piccola nobiltà. In Scandinavia, esauritesi le migrazioni vichinghe e normanne, si erano formati tra il XI e il XII secolo i regni di Danimarca, Norvegia e Svezia, in concomitanza con l’evangelizzazione delle popolazioni. Per fronteggiare l’espansionismo politico ed economico dei tedeschi, nel 1397 i tre regni strinsero un’unione dinastica, dichiarandola perpetua. L’unione, detta di Kalmar, sopravvisse per tutto il Quattrocento sotto la preminenza danese. La Polonia aveva superato la frammentazione politica grazie alla restaurata autorità della dinastia dei Piasti nel 1320. Il regno di Lituania sconfisse i tartari nel 1362 ed espanse il suo dominio fino al mar Nero. Il regno di Ungheria conobbe fasi alterne di espansione e di crisi. Nessuna dinastia riuscì ad affermarsi stabilmente, e il potere rimase saldamente in mano alla grande nobiltà, che fu sempre in grado di condizionare l’azione dei re. Su pressione dei papi francesi, la corona pervenne nel 1309 a un ramo degli Angiò, che la mantennero fino al 1387: Luigi I, detto il Grande. Fra i vari principati tributari del khanato dell’Orda d’oro (i mongoli), nel corso del XIV secolo emerse con sempre maggiore autonomia il ducato di Mosca, nel cuore del territorio russo all’incrocio dei traffici tra i mari Baltico, Nero e Caspio. Con Ivan III il Grande (1462-1505) l’egemonia moscovita si consolidò: nel 1478 sottomise il principato di Novgorod, l’unica città mercantile e artigiana russa; nel 1480 con la vittoria militare contro l’Orda d’oro si rese di fatto indipendente; sconfitto il granduca di Lituania, nel 1494 fu riconosciuto come «zar di tutta la Russia». Quando nel 1453 Costantinopoli cadde nelle mani dei turchi, Mosca ne raccolse l’eredità divenendo il centro indiscusso del cristianesimo orientale: dal 1459 la sede metropolitica di Mosca rivendicò la totale indipendenza sia da Roma sia da Costantinopoli. Così il matrimonio di Ivan III il Grande con la principessa bizantina Zoe Paleologa nel 1472 fornì ai teologi moscoviti il pretesto per elaborare la teoria di Mosca come «terza Roma» alla guida del popolo cristiano. Snodo XIII-L’Italia del tardo Medioevo (XIII-XV) Capitolo 27-Un sistema politico fragile Negli ultimi secoli del medioevo l’Italia fu protagonista di una serie di processi politici che la differenziarono profondamente dal resto dell’Europa occidentale. Le «anomalie» italiane possono essere sintetizzate sostanzialmente così: le città furono troppo forti, le monarchie troppo deboli. Le città del centro-nord conobbero tra il XII e il XIV secolo uno straordinario sviluppo, senza eguali nell’Europa del tempo, ponendosi all’avanguardia per le loro ricchezze, i traffici internazionali, le affinate tecniche finanziarie, oltre che per le avanzate esperienze di autogoverno e il primato artistico e letterario. Ma mentre nelle grandi monarchie europee i centri mercantili avevano visto garantita la possibilità di un’intensa attività commerciale, con margini talora ampi di autonomia, all’interno di stati più ampi che le difendevano militarmente e le tutelavano economicamente, le grandi città mercantili e manifatturiere italiane (Firenze, Milano, Venezia, ma anche Genova, Lucca e Siena) si dovettero trasformare loro stesse in stati territoriali tra XIV e XV secolo, con largo dispendio di risorse economiche e a costo di non indolori ristrutturazioni degli assetti politici. Le città meridionali non conobbero uno sviluppo economico e sociale tale da proporre proprie reti di mercanti sulle piazze internazionali, come fecero invece le città catalane o fiamminghe. Si aggiunga poi un’ulteriore peculiarità italiana: la presenza precoce di uno stato della Chiesa, che sempre operò a difesa della propria sopravvivenza e che si frappose tra l’Italia delle città e degli stati territoriali e quella dei regni. Dagli anni sessanta del Duecento una presenza determinante nel sistema politico italiano fu a lungo quella della dinastia angioina. Investito dal papa del regno di Sicilia, Carlo I (1266-1285) se ne impossessò sconfiggendo gli ultimi svevi a Benevento nel 1266 e a Tagliacozzo 1268, e fissando a Napoli la capitale. Da lì egli coordinò un’azione politica ad ampio raggio che lo portò a fare riconoscere la propria autorità anche a molte città comunali: in Piemonte già tra il 1259 e il 1260, in Toscana (tra cui Firenze), dove agì da vicario imperiale, tra il 1267 e il 1279, in Lombardia tra il 1269 e il 1276. 438Fu proprio da quegli anni che il termine «ghibellino» cominciò a essere usato sistematicamente per indicare i nemici dell’alleanza che si era stretta tra la casata di Francia, il papato e Firenze. Dopo l’estinzione della dinastia sveva, gli imperatori si riaffacciarono in Italia solo nella prima metà del Trecento. La discesa di Enrico VII di Lussemburgo tra 1310 e 1313 fu ispirata dal programma di pacificare le lotte interne alle città sotto l’alta sovranità imperiale. Esso si infranse però contro la tenace resistenza dell’alleanza guelfa guidata da Firenze e da Roberto d’Angiò, re di Napoli; l’imperatore finì con l’appoggiarsi allo schieramento «ghibellino», guidato dai Visconti e dai Della Scala, rispettivamente signori di Milano e di Verona, e col tentare di crearsi un dominio diretto in Toscana, ma la sua azione non ebbe successo. L’ultimo imperatore a farsi incoronare a Roma fu Carlo IV di Lussemburgo nel 1355 che, consapevole di poter esercitare un potere effettivo solo sulla Boemia e su poche altre aree tedesche, rinunciò a ogni ambizione di effettiva autorità in Italia, limitandosi a dispensare diplomi e riconoscimenti. L’alleanza potente che si venne a creare tra il papato e gli Angiò fu all’origine di un processo di progressivo coinvolgimento di tutte le realtà politiche italiane in due grandi schieramenti: da un lato quello guelfo, che inquadrò gli alleati dei sovrani angioini e dei pontefici; dall’altro quello ghibellino, dove militarono coloro che si opponevano all’altro fronte nella speranza di un rinnovato intervento imperiale in Italia. Dopo il 1266 i guelfi assunsero il potere nella maggioranza delle grandi città e vi restarono perlomeno fino alla discesa dell’imperatore in Italia nel 1310, senza che i ghibellini riuscissero a scalzarli. Anche nel regno meridionale si diffusero le parti dei guelfi e dei ghibellini, in seguito alla rivolta che nel 1282 portò alla divisione territoriale. Il processo di ricomposizione territoriale che altrove in Europa fu realizzato dai sovrani e dai principi territoriali, nell’Italia centro- settentrionale fu avviato da quelle 40-50 città che tra il XII e il XIII secolo costituirono un proprio contado, assoggettando i signori, le comunità rurali e gli altri poteri presenti sul territorio. Tra la fine del XIII e la fine del XV secolo si osserva certamente una semplificazione della geografia politica italiana. La formazione di domini territoriali da parte delle principali città comunali e signorili polarizzò il sistema politico italiano intorno a cinque stati regionali (centrati su Milano, Venezia e Firenze, sullo stato pontificio e sul regno di Napoli e Sicilia) con il contorno di alcune formazioni minori. A differenza di quanto avvenne in altre aree d’Europa, però, il superamento della frammentazione politica non diede luogo in Italia alla formazione di uno stato unitario nazionale. La ricomposizione territoriale promossa da una monarchia vi fu frenata dal forte particolarismo locale, che era l’esito della varietà straordinaria di situazioni culturali e civili locali che avevano caratterizzato in modo originale la storia del paese. Capitolo 28-Gli stati In Italia a promuovere la formazione dei maggiori stati territoriali furono grandi città come Firenze, Venezia e Milano. Le città si proposero come interlocutrici privilegiate e dirette delle dominanti, senza la mediazione di strutture rappresentative come i parlamenti nei regni. I gruppi dirigenti locali furono esclusi dal governo degli stati, con rare eccezioni di carattere individuale, ma mantennero il controllo delle risorse economiche e amministrative municipali. L’impulso alla formazione degli stati territoriali italiani fu dato dalla politica espansionistica che caratterizzò tutta l’esperienza dei Visconti. Fu Gian Galeazzo (1385-1402) a imprimere nuovamente un forte dinamismo militare al suo dominio che, oltre a comprendere il Canton Ticino, buona parte della Lombardia e del Piemonte orientale, giunse a comprendere Verona, Vicenza, Padova e Belluno nel 1387, distruggendo le signorie dei Della Scala e dei da Carrara di Padova, e si spinse nell’Italia centrale ottenendo tra il 1399 e il 1400 anche la signoria di Pisa, Siena, Perugia, Spoleto e Bologna. Nel 1395 Gian Galeazzo Visconti acquistò dall’imperatore Venceslao, per 100.000 fiorini, il titolo di «principe e duca» di Milano. La tenace resistenza dell’accerchiata Firenze, che si ammantò anche di una polemica antitirannica nel nome della libertà «repubblicana», fu gratificata dalla morte improvvisa del duca nel 1402, che ridimensionò le ambizioni che i suoi ideologi avevano propagandato come intenzione di costituire un regno nazionale italiano. Le conquiste territoriali furono disperse nuovamente, e solo il secondogenito Filippo Maria (1412-1447) riuscì a ricompattarle intorno a un profilo più limitatamente «lombardo» dello stato visconteo. Firenze venne formando il proprio stato territoriale con maggiore continuità e più saldo controllo rispetto a quello visconteo. L’impulso, per un gruppo dirigente fatto non di guerrieri ardimentosi ma di mercanti facoltosi, fu eminentemente difensivo, volto a tutelare l’indipendenza della città e la libertà dei suoi commerci. L’espansione fiorentina fu agevolata dalla crisi demografica che colpì profondamente la Toscana, impoverendo di uomini e ricchezze le città che Firenze aveva sottomesso. Tra i suoi domini ricordiamo Pistoia, Prato, Arezzo e Livorno. La relativa debolezza del territorio assoggettato consentì ai fiorentini di imporre una struttura centralizzata di governo. I contadi delle città sottomesse furono separati dai loro centri urbani e amministrati direttamente dal gruppo dirigente fiorentino, attraverso una rete di uffici territoriali tutti riservati al patriziato della dominante anche perché fonte di lucrosi utili economici. Artefice della costruzione del dominio fu un gruppo dirigente di matrice mercantile, il cui governo ottenne nel 1355 il titolo di vicario dall’imperatore. Venezia aveva concentrato per secoli i suoi sforzi nella costruzione di un dominio marittimo per tutelare i propri commerci. Tra i suoi domini ricordiamo le coste istriane e dalmate. La minaccia di dell’espansione di Gian Galeazzo Visconti portò, tra il 1404 e il 1428 alla conquista di Belluno, Padova, Vicenza, Verona, Brescia e Bergamo, così come i territori di Aquileia e il Friuli. Anche il doge ottenne nel 1437 il titolo di «vicario» imperiale, che consentì di far dipendere feudalmente dalla «repubblica» le aree signorili del dominio. Tra i pochi stati che sopravvissero alla semplificazione della geografia politica dell’Italia settentrionale ebbero un certo rilievo tre domini signorili. Di impianto cittadino erano quelli dei Gonzaga e degli Este. L’autorità dei primi si limitò a Mantova e al suo territorio, e si fregiò del titolo di marchesi acquistato dall’imperatore nel 1433. La signoria dei secondi si centrò soprattutto su Modena e Reggio, di cui divennero duchi nel 1452, e su Ferrara, il cui titolo ducale fu concesso dal papa a Borso d’Este nel 1471. La signoria dei Savoia si era estesa invece sui territori rurali delle Alpi occidentali, strategicamente importanti per i passi che collegavano l’Italia alla Francia. Nel corso del Trecento il dominio si allargò al Piemonte occidentale, che Amedeo VIII (1391-1439) espanse anche a Nizza, Pinerolo, Torino e Vercelli. Ottenuto il titolo ducale nel 1416 egli si diede a un’opera di coordinamento politico e amministrativo. Tra gli stati territoriali sopravvissero anche alcuni stati monocittadini, come Lucca e Siena. Lo stato pontificio comprendeva nel proprio dominio formalmente sette province con a capo un rettore: Romagna, marca d’Ancona, ducato di Spoleto, Tuscia, Sabina, Marittima e Campagna, e patrimonio di San Pietro in Tuscia. Lo spostamento ad Avignone della corte pontificia impoverì il dominio, e Roma in particolare, delle cospicue entrate economiche legate alla sua presenza, e ne acuì le condizioni di disordine politico. Una vicenda politica particolare prese corpo da un’insurrezione popolare che scoppiò a Roma nel 1347, capeggiata da un notaio di umili origini, Cola di Rienzo. Con il consenso della curia avignonese, egli si impadronì del Campidoglio, proclamandosi «tribuno della pace, della libertà e della giustizia». Cola, si propose di restaurare una «repubblica romana» che doveva riunificare l’Italia centrale pacificandola e restaurando l’ordine. L’iniziativa ebbe iniziale successo. Vittima di una congiura aristocratica che lo allontanò dalla città nel 1350, egli vi tornò nel 1354 inviato da Innocenzo VI con la carica di senatore per appoggiare l’opera di ripristino dell’autorità pontificia. Il suo governo autoritario e il forte fiscalismo gli alienarono però la simpatia del popolo. Fu ucciso nello stesso anno nel corso di una sommossa popolare. A causa dei tumulti e della ribellione all’autorità pontificia, la curia avignonese inviò vari legati per cercare di riaffermare la sovranità e riorganizzare lo stato. Tra i più famosi ricordiamo il cardinale straniera mise a nudo la strutturale debolezza degli stati italiani, più piccoli, meno potenti e divisi tra loro. La discesa del re di Francia chiuse la fragile stagione dell’equilibrio autarchico e inaugurò un duro periodo di contesa dei paesi stranieri per il controllo dell’Italia. Snodo XIV-Verso nuovi mondi (sec. XIV-XV) Capitolo 29-L’umanesimo: una discontinuità intellettuale Una percezione nuova cominciò a farsi strada nel corso del XIV secolo: la sensazione, cioè, che l’età antica fosse ormai finita. L’impero bizantino si era ridotto alle dimensioni di un piccolo staterello greco minacciato dai turchi; l’Impero Romano-germanico si era trasformato anch’esso in una potenza regionale; Roma era stata abbandonata dai papi. I grandi ideali universalistici, che avevano ordinato la società europea nell’epoca appena trascorsa, apparivano irreversibilmente tramontati. I pellegrini che si recavano a Roma vedevano invece, innanzitutto, i monumenti e le reliquie dell’antichità. La loro imponenza e la loro bellezza cominciarono a stupire alcuni intellettuali, specie se rapportate alle realizzazioni del tempo. Il mondo antico iniziò ad apparire estraneo alla società che si era delineata nei tempi recenti. La coscienza della rottura rispetto all’antichità cominciò ad accompagnarsi alla volontà di restaurarne i valori positivi e gli ideali di bellezza, assecondando l’idea che essi fossero irrimediabilmente scomparsi con la fine del mondo antico. Con l’espressione «humanae litterae» si usava indicare il complesso delle discipline classiche (letteratura, grammatica, retorica, poesia, storia, filosofia) che erano definite «humanae» perché concorrevano alla formazione dell’uomo. Gli umanisti inseguirono la formazione di un uomo integrale, buon cittadino, buon soldato, uomo colto, capace di godere della bellezza e di gustare la vita, traendo dalla natura tutto quanto essa può dargli. L’Italia, e in particolare le sue città comunali e signorili, ebbe un ruolo preponderante nello sviluppo dell’Umanesimo. Ciò per più ragioni, riconducibili sostanzialmente a due principali: dal XII secolo vi vivevano i maggiori intellettuali laici. Inoltre, l’Italia, nel suo complesso, era l’area economicamente e socialmente più sviluppata dell’Occidente, senza contare che vi era concentrata la maggior parte delle vestigia dell’età romana, a perenne e quotidiana memoria della civiltà degli «antichi». La riscoperta dei classici comportò cioè un’attenzione del tutto nuova alla storia dei testi. Nacque così la filologia (dal greco phílos, amore, e lógos, discorso), cioè l’insieme delle discipline che servono a leggere, comprendere e interpretare i documenti. Il nuovo metodo consentì di datare molti codici e di individuare errori di attribuzione e manipolazioni apportate dagli amanuensi nel corso delle numerose trascrizioni. Attraverso una raffinata critica testuale Lorenzo Valla dimostrò, nella De falso credita et ementita Constantini donatione declaratio del 1440, che il documento che comprovava la donazione della parte occidentale dell’impero e della città di Roma fatta dall’imperatore Costantino al papa Silvestro I nel IV secolo d.C. era un falso databile all’VIII 477secolo. In questo modo fornì un argomento inoppugnabile a coloro che intendevano confutare il fondamento giuridico del potere temporale del papato. Alcuni umanisti non furono soltanto dei dotti ma parteciparono attivamente alla vita civile e politica delle loro città, ricoprendo incarichi pubblici di rilievo, in primo luogo come funzionari di cancelleria. A Firenze, per esempio, dalla fine del XIV secolo furono a capo della cancelleria figure come quelle di Coluccio Salutati, Leonardo Bruni, Carlo Marsuppini, Poggio Bracciolini, Benedetto Accolti e Bartolomeo Scala: dal 1498 ne fu segretario Niccolò Machiavelli, considerato l’inventore di una nuova scienza della politica fondata sul realismo delle osservazioni. L’evoluzione tecnica dalla stampa di testi o disegni incisi su legno alla stampa a singoli caratteri mobili fusi nel piombo, sviluppata dall’artigiano tedesco Johannes Gutenberg a Magonza – che nel 1456 stampò una Bibbia in latino di grande formato – determinò una profonda trasformazione delle modalità di trasmissione della cultura. La figura più significativa della diffusione della cultura umanistica fuori d’Italia fu quella del teologo olandese Erasmo da Rotterdam (1466/69-1536). L’educazione storica e filologica ne sostenne l’aspirazione programmatica all’alleanza umanistica fra erudizione e fede. Erasmo viaggiò per tutta la vita, insegnando in molte università europee in continuo contatto con i principali intellettuali della sua epoca. Nei suoi scritti, l’ideale della vita attiva divenne critica aperta all’ozio dei conventi, lo sguardo razionale portò al rifiuto delle superstizioni, delle reliquie e del culto dei santi, la fede in una nuova età per l’uomo al ripudio della guerra. Capitolo 30-Le esplorazioni geografiche: una discontinuità spaziale Per secoli i commerci tra l’Europa e l’Asia si erano indirizzati dai porti mediterranei fino ad Alessandria d’Egitto, da dove le merci venivano condotte via terra fino alla località di Suez, sul Mar Rosso, e poi ancora per mare, fino a raggiungere le coste indiane. Per arrivare in Occidente le spezie attraversavano l’oceano Indiano sulle navi dei mercanti musulmani e indù, e il deserto egiziano lungo le piste carovaniere; le compagnie commerciali europee di stanza negli empori nordafricani le ridistribuivano poi in tutto il continente. Ancora più lenti e insicuri erano i percorsi terrestri che congiungevano il bacino del Mediterraneo con l’Asia orientale. La seta era al centro di questi traffici. I costi delle merci che seguivano le vie dell’Oriente erano molto elevati: solo per giungere sulle coste del Mediterraneo il loro prezzo si decuplicava rispetto a quello d’origine. Fattori economici favorirono dunque in Occidente la maturazione dell’idea di poter raggiungere direttamente, via mare, le cosiddette Indie, vale a dire la parte sud-orientale del continente asiatico. Alle motivazioni economiche si accompagnarono altrettanto determinanti elementi religiosi. Sin dal XII secolo circolava in Europa la leggenda di un sovrano cristiano nemico dei musulmani – chiamato Prete Gianni – che avrebbe controllato un vasto dominio oltre le terre dell’islam, costituendo un potenziale alleato contro gli infedeli. Ipotesi diverse collocavano la sede del suo regno in terre caratterizzate da importanti comunità cristiane fra l’Asia centrale, l’India e l’Etiopia. Da 487secoli la Terrasanta era ormai sotto il controllo dell’islam, e quando anche la capitale dell’impero bizantino, Costantinopoli, cadde nelle mani degli Ottomani nel 1453, emerse rapidamente l’idea, sostenuta dalla Chiesa, di raggiungere questo favoloso regno sacerdotale e di spezzare l’assedio in cui si trovava l’Europa cristiana. L’arricchimento delle conoscenze matematiche e geografiche, favorito dal rinnovamento scientifico che attraversò l’Europa umanistica nella seconda metà del XV secolo, permise di sviluppare tecnologie avanzate messe al servizio della navigazione. In primo luogo, il perfezionamento di una nuova tipologia di nave commerciale, la caravella. Nato nel 1451 a Genova, Colombo cominciò da giovane a navigare tra il Mediterraneo, l’Inghilterra e le Canarie; dal 1476 entrò al servizio dei portoghesi come capitano di navi da trasporto lungo le coste atlantiche dell’Africa, acquisendo dimestichezza con la navigazione d’alto mare. Nel corso di quei viaggi maturò il proposito di raggiungere l’Asia viaggiando in direzione opposta rispetto all’itinerario narrato nel Milione di Marco Polo, che Colombo lesse intensamente insieme ad altri testi storico- geografici. Venuto probabilmente a conoscenza della tesi del cosmografo Toscanelli che sosteneva che la via più diretta per raggiungere l’Oriente fosse la traversata dell’Atlantico, nel 1484 Colombo si risolse a presentare il suo progetto di «trovare il levante per il ponente» al re di Portogallo Giovanni II. Più interessato all’espansione economico-militare sulle coste africane, questi lo bocciò ritenendolo un immotivato spreco di denaro. Dopo anni di tentativi andati a vuoto, Colombo trovò ascolto presso la regina Isabella di Castiglia che, completata la reconquista di tutta la penisola iberica nel 1492, decise di investire sull’ipotetica nuova via per le Indie soprattutto perché temeva i piani portoghesi per arrivarvi circumnavigando l’Africa. Protagonista iniziale della ricerca di una nuova via era stata infatti la dinastia portoghese degli Aviz, che aveva promosso le esplorazioni lungo le coste e le isole nord-occidentali africane sin dal tempo del re Enrico (1433-1460), detto non a caso il Navigatore. L’esistenza tra Europa e Asia di un altro continente era dunque ignota quando, il 3 agosto 1492, tre caravelle salparono dal porto spagnolo di Palos, con un equipaggio di circa cento uomini sotto la guida di Cristoforo Colombo. Costui intendeva arrivare in Cina e in Giappone, in quelli che egli credeva essere, sulla scorta della lettura del Milione di Marco Polo, il Catai e Cipango. Per questo motivo partì alla volta di quelle che riteneva essere le Indie armato di lettere di amicizia per i sovrani asiatici, il più importante dei quali si supponeva essere il gran khan. Il 12 ottobre 1492, dopo soli 36 giorni di navigazione dallo scalo delle Canarie, venne avvistata la terra. Sceso sulla spiaggia, l’ammiraglio vi piantò la bandiera della Castiglia, ringraziò Dio per aver fatto buon viaggio e ne prese possesso in nome dei re cattolici spagnoli. Si trovava in realtà su un’isola dell’arcipelago delle Bahamas, allora conosciuta agli indigeni come Guanahanì, che venne da lui chiamata San Salvador. Lo sbarco di Colombo nel 1492 segnò una svolta epocale che consentì all’Europa di conquistare e colonizzare immensi territori e di avviarne lo sfruttamento economico, impadronendosi per secoli di enormi ricchezze. Per un decennio, però, il continente continuò a essere ritenuto una propaggine delle Indie. Fu solo l’esplorazione delle coste atlantiche meridionali fino alla Patagonia condotta su navi portoghesi nel 1499-1500 e 1501-1502, a indurre il navigatore fiorentino Amerigo Vespucci, educato alla cultura umanistica nella città nativa, a ritenere di essere al cospetto di un nuovo continente. La separazione dalle terre antartiche fu accertata nel 1520 dalla spedizione di Magellano, mentre solo verso il 1570 il nome di America fu esteso all’intero continente, pur conservandosi anche quello di Indie occidentali per indicare gli arcipelaghi delle Antille e delle Bahamas. Sulle radici della civiltà degli olmechi, nell’area dell’attuale Guatemala, era sorto nei secoli IV-VII dopo Cristo l’impero dei maya, che l’arrivo del popolo dei toltechi nel IX confinò alla penisola dello Yucatan. Dal punto di vista materiale, le differenze tra toltechi e maya non erano accentuate. I toltechi dominarono le regioni centrali del Messico fino al XII secolo, quando il loro regime politico precipitò in un lungo periodo di anarchia cui pose fine nel XIV secolo l’invasione degli aztechi, che fondarono il primo nucleo di quella che diventerà in meno di duecento anni la più grande città del continente: Tenochtitlán. Sotto il re Montezuma I (1440-1468) e i suoi successori la potenza azteca crebbe rapidamente, estendendo a gran parte del Messico centro-meridionale il controllo delle vie commerciali e l’imposizione di tributi. L’impero crollò all’arrivo dei conquistadores spagnoli nel 1519, mentre i maya resistettero più a lungo, fino al 1697, ritirandosi nella città lacustre di Tayasal. A sud del Golfo del Messico, nella regione andina di Cuzco, nel XIII secolo il popolo dei quechua cominciò a dare forma politica all’impero degli inca (termine con il quale era indicato il sovrano), la civiltà più progredita del continente prima dell’arrivo degli europei. La struttura della società separava la popolazione, impiegata prevalentemente nell’agricoltura, dal sovrano, circondato dalla sua famiglia, da militari e sacerdoti, ritenuto di origine divina e al quale spettava l’amministrazione di gran parte della ricchezza prodotta. Un’ampia espansione dei confini verso sud e verso nord fu attuata dagli inca del XV secolo, dotando il territorio di un’immensa rete viaria (circa 40.000 km) nonostante la mancata conoscenza della ruota e del cavallo. Una guerra dinastica coincise con lo sbarco, nel 1531, sulle coste dell’oceano Pacifico, dei conquistadores provenienti da Panama. Li guidava Francisco Pizarro, che attirò in un’imboscata l’imperatore Atahualpa e lo prese prigioniero. Nonostante il pagamento di un ingente riscatto in oro, il sovrano fu ucciso e il suo popolo assoggettato nel volgere di pochi anni. L’impero fu depredato e decine di migliaia di inca, schiavizzati, furono mandati a morire nelle miniere d’oro e d’argento della regione. Il navigatore portoghese Vasco da Gama fu il primo a raggiungere le Indie via mare, bordeggiando le coste africane oltre la punta meridionale del continente, il capo di Buona Speranza, già raggiunto da Bartolomeo Diaz nel 1487. La sua spedizione era sia commerciale sia militare, sulla scorta di lettere papali emanate nei decenni precedenti, che dovevano garantire alla monarchia lusitana il pieno possesso dei territori raggiunti. Vasco sbarcò a Calicut, sulla costa indiana del Malabar (nell’attuale Kerala) il 18 maggio 1498. Gli arabi avevano conquistato alcune regioni settentrionali dell’India già
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