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Riassunto manuale "Storia Medievale" di Andrea Zorzi, Sintesi del corso di Storia Antica

Riassunto dei concetti principali del manuale Storia Medievale

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020

Caricato il 18/08/2020

c.17
c.17 🇮🇹

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Scarica Riassunto manuale "Storia Medievale" di Andrea Zorzi e più Sintesi del corso in PDF di Storia Antica solo su Docsity! Capitolo 1: L’IDEA DI MEDIOEVO E LE SUE INTERPRETAZIONI Gli uomini e le donne che vissero nelle regioni europee tra il V e il XV secolo non ebbero la percezione di vivere nel medioevo poiché la nozione di Medioevo è un'invenzione moderna continuamente rielaborata. Per un millennio le popolazioni europee non svilupparono l'idea di vivere in un'età e in uno spazio diversi da quelli dell'impero romano, furono gli umanisti italiani del XIV e del XV secolo che per primi formarono l'idea di un intervallo lungo molti secoli che le separasse dalla cultura degli antichi presa come modello per promuovere una “rinascita” intellettuale. L'idea di una lunga decadenza culturale e artistica fu rielaborata su orizzonti più ampi negli ambienti tedeschi della riforma protestante nel corso del XVI secolo. Filippo Melantone (1497-1560), collaboratore di Lutero, compose una storia universale che rivendicava la funzione positiva dell’impero tedesco nel mondo cristiano e accusava la Chiesa romana di averne provocato la rovina. Per i protestanti la causa del declino non andava individuata nelle invasioni barbariche ma nella mondanizzazione della Chiesa, il papato era divenuto l’incarnazione dell’Anticristo. La cultura cattolica rispose alla polemica dei protestanti con una ricostruzione della storia della Chiesa fondata su documentazione storica originale e intesa a rivendicare, insieme con la legittimità del primato papale, i valori positivi della fede e del cattolicesimo. Nel 1643 fu avviato ad Anversa dal gesuita belga Jean Bolland il progetto di raccogliere a stampa le testimonianze scritte sulle vite dei santi. Per rispondere a chi aveva messo in dubbio l’autenticità di molti documenti conservati nei monasteri, nel 1681 il benedettino francese Jean Mabillon pubblicò un'opera che stabiliva regole certe per distinguere i documenti autentici da quelli falsi. Nella seconda metà del XVII secolo maturò tra gli uomini colti europei la consapevolezza che l’età in cui stavano vivendo era ormai decisamente originale rispetto al passato, tanto classico che medievale. Il docente universitario tedesco Georg Horn pubblicò nel 1666 una storia universale che proponeva un’inedita periodizzazione: l’evo antico separato da quello più recente da un intermedio medium aevum. I termini cronologici di questo periodo vennero fissati dalla caduta dell’impero romano d’Occidente nel 476 e di quello d’Oriente nel 1453. Questa scansione della storia universale in tre epoche - antica, media e recente - fu ripresa dagli autori successivi; il medioevo era ormai un periodo storico ben definito. Nel 1758 il filosofo francese Voltaire ne diede un’interpretazione globale di tenore polemico: le invasioni barbariche e il potere della Chiesa avevano promosso un’epoca di rozzezza, di violenza e di superstizione, da cui la società europea aveva cominciato a liberarsi sono nel XVIII secolo seguendo i dettami della ragione e della giustizia; in particolare, la Chiesa cattolica e il feudalesimo avevano fondato un modello di società basato sul privilegio, sull’autoritarismo e sull’oppressione. Nel 1776 lo storico inglese Edward Gibbon interpretò il millennio intercorso tra il 476 ed il 1453 come la storia del lungo declino. Lo storiografo modenese Ludovico Antonio Muratori tra il 1723 e il 1751 compose una raccolta di cronache relative al periodo compreso tra il VI e il XVI secolo e si accorse che pur non essendo politicamente unita, l’Italia condivideva una tradizione storica comune che si era formata non in età antica ma nel medioevo. Si dedicò pertanto a ricostruirne i tratti comuni: la lingua, i costumi, le leggi, le istituzioni, il commercio, la cultura, gli atteggiamenti morali e religiosi. Compose così tra il 1738 e il 1742 le Antichità italiane nel medioevo, la prima indagine sulla civiltà medievale italiana. La diffusione di un’immagine positiva del medioevo maturò nel clima culturale del Romanticismo che si diffuse in Europa dalla fine del XVIII secolo. Venne rivalutato in primo luogo come età di fede religiosa rassicurante e pacificatrice: lo scrittore francese François-Auguste-René de Chateaubriand scrisse un’apologia del cristianesimo (1802) che conobbe un successo immenso ed esercitò una grande influenza. Si diffuse una sensibilità acuta per la natura e la bellezza dei paesaggi, il gusto per i ruderi di abbazie e castelli come soggetti pittorici. Notevole fortuna di pubblico ebbero anche i romanzi storici ambientati nel medioevo, per esempio Ivanhoe di Walter Scott nel 1820. Venne considerata un'epoca in cui rintracciare le radici dello spirito nazionale, per esempio la cultura francese si appropriò del mito di Carlo Magno, valorizzando il ruolo della Gallia come regione in cui l’aristocrazia senatoria romana si era precocemente fusa con la popolazione dei franchi. Anche la cultura tedesca rivendicò la peculiarità delle popolazioni germaniche. Il Risorgimento italiano esaltò l’epoca dei comuni come il momento fondante della reazione contro gli imperatori tedeschi. Si sentì la necessità di definire i criteri di metodo per l’utilizzazione delle testimonianze scritte, attribuendo maggiore attendibilità ai documenti emessi dalle istituzioni pubbliche rispetto ai testi cronistici e letterari: la narrazione storica risultante da fonti ben interpretate costituiva un riflesso fedele della realtà storica. Nel clima culturale del Positivismo della seconda metà del XIX secolo, gli storici puntarono ad individuare nel passato le leggi di funzionamento della società; di conseguenza, accanto alle ricostruzioni della storia politica, presero corpo interessi nuovi per la storia del diritto, della società e dell’economia del medioevo. Si preferisce parlare, ormai, di civiltà - al plurale - del medioevo, evidenziando i confronti, i conflitti, le mediazioni e le integrazioni tra attori sociali, politici, religiosi e culturali diversi. La globalizzazione del mondo attuale induce sempre più gli storici del medioevo a superare il punto di vista eurocentrico e ad aprirsi a considerare fenomeni come le migrazioni, le diaspore, le reti economiche e sociali, le ibridazioni e il meticciato. Il millennio medievale non è più studiato solo negli svolgimenti interni all’Occidente europeo ma anche nelle connessioni con altri mondi e altre culture. Medievalismo: termine coniato dal critico d’arte inglese John Ruskin alla metà del XIX secolo per identificare la riproposizione di forme e di contenuti ispirati al medioevo in diversi campi delle arti e del sapere. La nozione è stata progressivamente estesa a comprendere le immagini e le reinvenzioni del medioevo con i mezzi di comunicazione e nella cultura di massa della società contemporanea. Il medievalismo non va confuso con il termine medioevo, con il quale si indica nella storiografia occidentale il periodo compreso tra la fine del mondo antico e gli inizi dell’età moderna, vale a dire mille anni di storia che vanno dal V al XV secolo. Capitolo 2: QUADRI GENERALI SPAZI. Prospettiva inevitabilmente eurocentrica della ricostruzione del passato. La proiezione delle periodizzazioni della storia europea sulla ricostruzione del passato di civiltà di altre parti del mondo costituisce uno degli aspetti negativi del punto di vista eurocentrico con cui è stata narrata la storia in Occidente per secoli. Posizioni come questa hanno alimentato, per reazione, una polemica antieurocentrica da parte di alcuni storici nella seconda metà del XX secolo tesa a rivendicare alla ricostruzione del passato una prospettiva mondializzante - world history- nella quale la questione centrale era quella di integrare alla storia del mondo i paesi extraeuropei, respingendo la tradizione che li fa comparire sulla scena solo quando entrano in contatto con viaggiatori, missionari o conquistatori europei. Si vuole arricchire la storia europea con le conoscenze che provengono dagli studi condotti dalle diverse civiltà che entrarono in contatto con le società europee, e sugli scambi e sui flussi di relazioni reciproche. Va osservato come la storia del medioevo prenda origine proprio da una serie di fecondi incontri tra civiltà. Il vasto spazio geografico euroasiatico e africano gravitante sul Mediterraneo entrò in conoscenze mediche e l’ignoranza delle cause dei contagi indusse le autorità pubbliche a risposte empiriche come l’isolamento degli animali in lazzaretti. DEMOGRAFIA. L’evoluzione della popolazione europea durante il medioevo può essere rappresentata come un ciclo demografico articolato in tre fasi: depressione - espansione - depressione, con le punte minime toccate nel VII secolo e nella seconda metà del XIV, e il picco raggiunto nella seconda metà del XIII. La depressione finale non toccò i minimi di quella del VII secolo ed ebbe durata più breve, così la popolazione tese comunque a crescere. L’inizio dell’età medievale coincise con una drastica riduzione della popolazione, che dal III secolo cominciò progressivamente a calare. Le aree abitate all’interno dei centri urbani si restrinsero e alcune città dell’impero si estinsero. Anche le campagne furono abbandonate, dovunque avanzarono le terre incolte, le foreste, gli acquitrini. Il raffreddamento climatico favorì l’eccesso di precipitazioni che portarono a frequenti carestie e a conseguenti epidemie. La durata media della vita si ridusse, abbassando l’età delle unioni coniugali e aumentando la mortalità infantile. Dall’VIII secolo la popolazione cominciò lentamente a crescere. Le terre incolte tornarono a essere messe progressivamente a coltura, il traffico delle merci fu riavviato dapprima sporadicamente poi sempre più insistentemente. Dal X secolo l’Europa conobbe un ampliamento delle aree popolate, con la fondazione di nuove città e, nelle campagne, di una rete sempre più fitta di villaggi. la crescita della produzione agricola rese disponibile una maggiore disponibilità e varietà di cibo anche per gli strati più umili della società. L’aumento della durata media della vita e del numero dei figli fu sostenuto dalla migliore alimentazione, che aiutò la popolazione a meglio fronteggiare le epidemie. Nella seconda metà del XIII secolo la popolazione cessò di aumentare, tornando a diminuire dall’inizio del successivo. Si determinò uno squilibrio crescente tra il numero degli uomini e la disponibilità di risorse alimentari, che i limiti strutturali delle tecniche agrarie non riuscirono a incrementare ulteriormente. Anche le crisi di mortalità si fecero sempre più ricorrenti. A metà del XIV secolo il calo della popolazione fu reso drammatico dalla grande epidemia di peste bubbonica del 1347-1348. Il drastico decremento provocò uno spopolamento generalizzato delle città, l’abbandono di numerosissimi villaggi nelle campagne e la concentrazione delle colture sui terreni migliori. INSEDIAMENTI. L’incontro tra il mondo mediterraneo romanizzato e le popolazioni barbariche può essere visto anche come confronto tra comunità umane sedentarie e nomadi. I romani avevano costituito il più grande impero sedentario dell’Occidente eurasiatico unendo, attraverso una fitta rete di comunicazioni marittime e terrestri, le diverse popolazioni stanziate, in una densa maglia di città e di villaggi, tra il nord Africa e l’Europa continentale. Le popolazioni germaniche erano invece sparse in tribù insediate in villaggi provvisori e isolati, e dedite a un seminomadismo di sfruttamento: esaurite le risorse di un territorio, si spostavano verso nuove regioni ricche di prede e di terre coltivabili. L’incontro di queste due realtà fu inizialmente gestito da istituti come la “foederatio” (inquadramento militare) e “hospitalitas” (concessione di un terzo delle terre) che puntavano a stabilizzare le genti barbariche. Le popolazioni germaniche s’insediarono sia nelle città sia nelle campagne dell’impero d’Occidente. Ci fu un pronunciato fenomeno di ruralizzazione, determinato principalmente dall’abbandono delle città da parte dei grandi proprietari fondiari per la crisi della vita pubblica cittadina seguita alla scomparsa delle istituzioni imperiali. Il villaggio era organizzato in tre aree concentriche: il nucleo abitato, perlopiù recintato; l’area coltivata, al suo esterno; e una fascia di terre comuni come pascoli e boschi curate dalla comunità. Nel XIV-XV secolo in alcune aree rurali dell’Europa meridionale, dove si diffusero i contratti di mezzadria, l’insediamento si disperse sulle singole unità fondiarie, i poderi, dove vivevano singole famiglie di coloni. Dobbiamo distinguere le città di origine antica o fondate dai romani nelle regioni europee dell’impero d’Occidente, e quelle fondate nei secoli centrali del medioevo, principalmente nell’Europa settentrionale, e in quelli successivi, nelle regioni baltiche e slave. Le città di tradizione romana ereditarono la centralità di funzioni - economiche, politiche, religiose - mentre le città di fondazione successiva sorsero invece quasi sempre intorno a mercati o sulla base di piani di colonizzazione di regioni prive di centri urbani. Si sviluppa la civiltà urbana, caratterizzata da vivacità economica, articolazione sociale, centralità amministrativa, carisma degli enti religiosi, presenza di scuole e università, sviluppo architettonico e artistico. ECONOMIA. Le trasformazioni dell’economia medievale corrispondono a quelle demografiche, basandosi il sistema principalmente sull’economia agraria, soggetta a sua volta alle variazioni climatiche. La crisi dell’economia romana, seguita da una ristrutturazione su scala regionale e poi da una lunga fase di crescita, caratterizzata dall’espansione delle produzioni di beni e manufatti e da scambi commerciali tra aree sempre più interconnesse, interrotta dalla brusca inversione dei cicli climatici, ambientali e demografici del XIV secolo, e seguita da una ripresa su nuove basi produttive e nuovi scenari commerciali su scala mondiale. Fino al II secolo l’impero romano si era retto su un sistema di autonomie locali gestito quasi senza apparati burocratici. Raggiunta la massima estensione territoriale, l’organizzazione politica si diede un’amministrazione civile sempre più ampia e un esercito enorme. Per finanziare questo apparato fu creato un sistema fiscale sempre più pesante, basato su tasse sulla terra che arrivarono ad assorbire più della metà dei proventi agrari. Le invasioni germaniche misero fine a questo sistema, perché molte regioni smisero di versare le tasse, e il mantenimento della burocrazia (insieme dei funzionari ai servizi del governo. Ufficiali stipendiati, dotati di qualificazione professionale e operanti in un quadro di uffici permanenti e con competenze diversificate.) gravò su una quota di popolazione sempre più ridotta mano a mano che diminuiva il controllo dell’impero sui propri territori. Entro la metà del VI secolo in Occidente scomparve ogni forma di imposta pubblica. Ciò significò l’impossibilità di sostenere spese per infrastrutture come strade, porti, acquedotti ed edifici pubblici, e di mantenere una burocrazia di funzionari che continuasse a garantire i servizi che l’impero aveva fornito per secoli. La crisi delle strutture pubbliche comportò anche la forte contrazione dei commerci organizzati dall’impero. Un elemento di continuità fu dato invece dall’economia agraria, che rimase sostanzialmente immutata: la ricchezza continuò a basarsi sulla terra e sui suoi prodotti. Nonostante la forte flessione demografica e l’aumento delle terre incolte, i contadini non modificarono le tecniche produttive. Un’inversione di tendenza cominciò a manifestarsi tra VIII e IX secolo quando, soprattutto nell’Europa continentale affacciata sul Mare del Nord, lo sfruttamento delle terre da parte dei grandi proprietari fondiari fu volto alla commercializzazione dei prodotti in eccedenza in nuovi mercati. La ripresa del commercio nell’Europa medievale fu espressione dell’accresciuta ricchezza delle aristocrazie. L’espansione demografica favorì l’aumento, graduale ma continuo, della produzione e degli scambi di beni agricoli e di manufatti. Si costruirono strade, canali e ponti, si fondarono nuovi borghi e luoghi di mercato, le città tornarono a crescere. Dal XI secolo i sistemi commerciali del Mare del Nord si collegarono a quelli del Mediterraneo: grandi protagonisti si trovarono ad essere i mercanti delle città italiane, geograficamente disposti al crocevia dei nuovi flussi di cambio tra Oriente ed Occidente, fra nord e sud dell’Europa, e capaci di sviluppare innovative tecniche commerciali e bancarie. Nel XIV secolo il calo demografico portò certamente a una concentrazione della domanda di beni e servizi riducendo i livelli globali della produzione e del commercio; le rendite agricole calarono parallelamente ai prezzi dei beni alimentari. Ma il tenore di vita dei sopravvissuti migliorò, i salari urbani crebbero, e si generò un aumento della ricchezza media che stimolò la domanda di beni di consumo. Il declino di vecchie industrie come le manifatture della lana fu controbilanciato dallo sviluppo di nuove produzioni come quella della seta, delle armi e della stampa. I mercanti svilupparono una serie di innovazioni tecniche che ridussero i costi di transazione: la contabilità a partita doppia, la lettera di cambio, l’assicurazione marittima ecc. L’esito finale fu l’integrazione delle economie regionali europee nei circuiti commerciali ormai proiettati, tra il XV e XVI secolo, su scala mondiale. Il tardo impero romano utilizzava l’acquisto di beni d’uso quotidiano tramite monete di bronzo, il pagamento degli stipendi con monete d’argento, le grandi transazioni e la riscossione delle tasse con quelle d’oro. I successivi regni barbarici abbandonarono la monetazione in bronzo e si ridussero alla coniazione di monete auree perlopiù come segni di prestigio e di autorità. La riforma che attuò Carlo Magno introdusse il “denarius” d’argento e unità di conto come la lira e il soldo: tale sistema consentì per molti secoli la circolazione in Europa di monete facilmente utilizzabili. I denari “grossi” erano destinati ai commerci internazionali e all’alta finanza, mentre i denari “piccoli” erano per la circolazione locale, la liquidazione dei salari e le piccole operazioni di credito. SOCIETÀ. La famiglia costituisce l’istituzione di base di ogni società all’interno di una rete parentale. In età romana era prevalso il modello agnatizio, cioè la linea maschile di discendenza nella successione patrilineare. Alcune popolazioni barbariche come, per esempio, i longobardi svilupparono invece il modello cognatizio, centrato sulla parentela materna. Prevalse comunque il sistema agnatizio che fu fatto proprio in particolare delle famiglie dei re. Nell’XI secolo l’aristocrazia sviluppò il sistema di discendenza in linea maschile da un antenato comune, dando forma al cosiddetto lignaggio. Tra XII e XIII secolo i lignaggi cominciarono a distinguersi anche grazie alla fissazione dei cognomi e alla definizione di genealogie e stemmi araldici. Il matrimonio regolamentato dalla Chiesa introdusse a sua volta chiare linee di demarcazione tra la legittimità e l’illegittimità della discendenza. La famiglia nel medioevo era composta da una struttura mononucleare fondata sulla cellula marito-moglie-figli. Il matrimonio era inteso come un contratto civile di unione tra uomo e donna. Fino all’XI secolo il matrimonio non fu regolamentato ecclesiasticamente, per quanto i padri della Chiesa (scrittori cristiani, latini e orientali, che si impegnarono nelle elaborazioni dei concetti teologici capaci di esprimere il contenuto del messaggio salvifico di Cristo) avessero elaborato una dottrina fondata sulla reciproca fedeltà dei coniugi, sull’indissolubilità del rapporto e della prole. Dall’XI secolo si moltiplicarono i divieti di matrimonio tra consanguinei che il concilio lateranense del 1215 fissò al quarto grado di parentela - tra cugini -. Dalla seconda metà del XII secolo una serie di papi riconobbero al matrimonio la natura di sacramento, legalmente valido in virtù del patto consensuale tra i contraenti, e suggellato dall’unione sessuale tra gli sposi. Le società dell’Occidente furono poco articolate al proprio interno. La prevalenza dell’economia rurale configurò a lungo il predominio di una minoranza aristocratica su una larghissima maggioranza di contadini. La condizione di quest’ultimi era variegata: schiavi e servi, liberi affittuari, piccoli e medi proprietari, taluni capaci anche di inserirsi per ricchezza acquisita negli strati inferiori dell’aristocrazia. I membri dell’aristocrazia che ricoprivano ruoli ecclesiastici detenevano il monopolio della cultura e un livello superiore di conoscenze. Tra X e XI secolo maturarono l’immagine tripartita della società, organizzata intorno a coloro che pregavano per la sua salvezza - gli oratores - coloro che combattevano per la sua difesa - i bellatores - e coloro che lavoravano pie il suo sostentamento - i laboradores -. Tra il XII e XIII secolo la cattolicesimo, che rese i re protettori delle Chiese e dunque anche delle popolazioni romane. I re tesero a imitare i caratteri dell’autorità imperiale. Al tempo della sua massima estensione, l’impero carolingio era amministrato da numerosissimi duchi, conti e marchesi, posti a capo di circoscrizioni coincidenti spesso con l’antico distretto di una città romana. Dalla fine del IX secolo tali ufficiali fecero delle proprie prerogative pubbliche la base per la costruzione, tra il X e il XII secolo, di autonomi poteri locali: la signoria. Nello stesso periodo altre famiglie aristocratiche, non detentrici di poteri pubblici ma forti anch’esse di clientele armate, costituirono a partire dai propri possessi fondiari degli analoghi poteri di dominio politico che estesero a territori più ampi, in genere contrati su singoli castelli: le signorie di banno (l’autorità esercitata dai signori locali, consisteva nel diritto di punire i malfattori, di giudicare le liti, di prelevare pedaggi sulle strade e sui ponti, di imporre tasse e prestazioni d’opera agli abitanti del territorio soggetto al dominio signorile) o territoriali. La ricomposizione territoriale venne avviata tra XI e XII secolo da poteri monarchici che si affermavano sempre più a partire da nuclei politici di origine carolingia o post- carolingia. Strumenti fondamentali di dipendenza politica si rivelarono i rapporti feudo-vassallatici, che consentirono ai sovrani di legare a sé i grandi principi territoriali garantendo loro ampia autonomia nei propri feudi. L’espansione economica consentì alle autorità regie di incrementare le entrate fiscali e, di conseguenza, di stipendiare apparati sempre più ampi di ufficiali destinati all’amministrazione dei regni. Nel basso medioevo si affermarono anche forme di governo collegiale nelle campagne e nelle città. Tra XII e XIII secolo le comunità rurali furono in grado di patteggiare con i rispettivi signori la messa per iscritto delle consuetudini agrarie e degli obblighi banali e il riconoscimento di forme elementari di autogoverno. L’affermazione dell’autogoverno cittadino fu possibile soprattutto grazie allo sviluppo demografico ed economico. Tra XI e XII secolo, molte regioni dell’Europa settentrionale, i mercanti e gli abitanti delle città cominciarono a ottenere dai re e dai principi territoriali delle carte di “franchigia” o di “comune” che ne riconoscevano lo status giuridico differenziato rispetto ai residenti delle campagne e il diritto di partecipare, con proprie magistrature, all’amministrazione urbana. Soprattutto nelle città del regno d’Italia i comuni raggiunsero un grado pieno di autonomia politica. Gli ultimi secoli del medioevo conobbero un generale orientamento verso forme di dominio caratterizzate da una sempre maggiore articolazione di apparati amministrativi, centrali e territoriali, per il controllo dell’esercito, della fiscalità e della giustizia. All’inizio del XIV secolo le monarchie cominciarono a rivendicare la piena autonomia da ogni autorità universalistica affermando il principio che all’interno del proprio regno ogni sovrano era detentore del potere supremo. Il potere degli stati rimase composito, permanendo forti al loro interno le giurisdizioni signorili, i privilegi del clero e le autonomie delle comunità. Entrò così in uso la convocazione da parte dei sovrani di assemblee rappresentative nelle quali il re si proponeva come mediatore delle diverse componenti politiche come garante dell’unità del regno. RELIGIONI. Tre grandi religioni monoteiste - l’ebraismo, il cristianesimo e l’islam - appartenenti al ceppo comune risalente ad Adamo, il primo dei patriarchi dell’Antico Testamento, considerato il capostipite del popolo ebraico e di quello arabo. L’ebraismo si basa sulla fede nella signoria di Dio sull’universo e sulla storia, annunciata dall’apparizione di un salvatore, il Messia. Il popolo ebraico ha il dovere di osservare i comandamenti che, compendiati nel decalogo consegnato a Mosè, abbracciano ogni aspetto della vita individuale e collettiva. Nel 70 d.C. ebbero fine i sacrifici compiuti dai sacerdoti, sostituiti da attività di culto con la lettura di testi sacri come la Bibbia ebraica, cioè l’Antico Testamento. Tollerate nell’impero islamico, le comunità ebraiche subirono invece nell’Europa cristiana una crescente ostilità, sfociata nel basso medioevo nell’emarginazione e in violente persecuzioni. Innestata sull’ebraismo è il cristianesimo: un unico Dio, creatore e signore della storia, redentore del suo popolo e giudice alla fine dei tempi. Si differenzia perché il Messia è venuto nella persona di Gesù di Nazareth, come rivela il Nuovo Testamento. Gesù Cristo è, a un tempo, profeta e oggetto di culto. Il cristianesimo si diffuse tra le popolazioni dell’impero romano, organizzandosi in “chiese”, cioè comunità di credenti: nel III secolo fu adottato dalle élites urbane, che gli diedero un’articolazione istituzionale e ne svilupparono la dottrina. Dalla metà del VII secolo iniziarono a confrontarsi con una nuova religione monoteista, l’Islam, irradiatasi dall’Arabia. A predicarla fu Maometto dopo la rivelazione del Corano, cioè della parola di Dio. L’islam si pone infatti a coronamento della rivelazione dell’unico Dio “signore della storia”, riconosce come degni di rispetti i profeti precedenti (da Mosè a Gesù) ma ritiene superate le loro rivelazioni e inattendibili i loro libri sacri. L’Islam si diffuse rapidamente, tra VII e VIII secolo, in molti territori dell’Asia, dell’Africa e in parte dell’Europa in seguito alle conquiste militari degli arabi. L’espansione musulmana - motivata dal precetto del jihad, la guerra “per la causa di Dio” contro gli infedeli - entrò in conflitto con la cristianità europea. Nel medioevo la morte si iscriveva tra la paura della fine, la speranza della vita eterna nella pace e il terrore di essere giudicati indegni. Si elaborarono dottrine di salvezza centrate sul giudizio divino sul comportamento in vita. S’aveva l’immaginario dell’aldilà come stato di gloria o di dannazione, in attesa della fine dei tempi, cioè della resurrezione e del giudizio. L’inferno era descritto come il luogo sotterraneo di perdizione eterna dove i supplizi inflitti dai diavoli variano a seconda dei peccati; il paradiso come luogo coincidente con il sommo cielo, dove i beati godevano della visione beatifica di Dio [vedi Dante Alighieri, “Divina Commedia”]. CRISTIANESIMI E CHIESE. Le comunità cristiane si radicarono nelle città nella consapevolezza che evangelizzarle significava permeare i centri più avanzati del mondo mediterraneo e intercettare le diverse componenti della società. I ceti più umili individuarono nel cristianesimo la speranza di riscatto dalla propria condizione, le aristocrazie una risposta alle inquietudini speculative e pratiche di culto adeguate alle esigenze di decoro sociale. Roma divenne il centro simbolico del cristianesimo: già nel II secolo la sua Chiesa, fondata dagli apostoli Pietro e Paolo, cominciò a rivendicare un maggior prestigio rispetto alle altre sedi episcopali. La liberalizzazione del culto nel 313 e la proclamazione come unica religione dell’impero nel 380 sancirono l’istituzionalizzazione del cristianesimo. Fino all’XI secolo, la cristianità non ebbe un capo, ogni chiesa era presieduta di un vescovo, senza subordinazione gerarchica. La sostanziale autonomia in cui operavano le chiese locali determinò una varietà di interpretazioni del Vangelo e lo sviluppo di un pluralismo dottrinario, “cristianesimi”, che sfociò in controversie teologiche. Sedi di discussione erano i concili (assemblee) degli ecclesiastici, il primo concilio di carattere universale fu quello convocato a Nicea nel 325 dall’imperatore Costantino, nel quale fu definita l’ortodossia cattolica la “retta fede” e furono condannate le eresie, cioè le scelte dottrinarie diverse. Nell’XI secolo il papa, richiamatosi al primato di Pietro fra gli apostoli, promosse una ristrutturazione in senso gerarchico delle istituzioni ecclesiastiche nell’ambito del più generale movimento di riforma. Dal XII secolo divenne effettivamente il capo assoluto di tutta la cristianità cattolica. L’accentramento dei poteri sulla Chiesa e sul mondo sancì il trionfo dell’universalismo pontificio su ogni autorità terrena. In Oriente, solo lentamene il patriarcato di Costantinopoli aveva affermato la sua autorità ecumenica sulle altre sedi, con il sostegno degli imperatori bizantini, che ne avevano esteso gradualmente la giurisdizione a tutto l’impero. Maturò così la separazione dalla Chiesa di Roma, annunciata nel VI secolo dallo scisma dei Tre Capitoli. La riforma pontificia dell’XI secolo non fu accettata dalle chiese orientali e portò allo scisma tra la Chiesa di Roma e quella di Costantinopoli nel 1054. Da allora i cristiani d’Oriente si chiamarono ortodossi e i cristiani d’Occidente si chiamarono cattolici e si riconobbero nella guida del papa. Il cristianesimo sviluppò il monachesimo, cioè il distacco dal mondo e l’esperienza, individuale (eremitica) o comunitaria (cenobitica), che si diffuse dal IV secolo. La rinuncia ai beni terreni e il distacco dalle ricchezze materiali, tipica del monachesimo alto medievale, fu ripresa tra XI e XII secolo da movimenti che intesero contrapporre alla ricchezza e alla mondanità della Chiesa la povertà, percepita come avvicinamento a Cristo e alla perfezione evangelica: il fenomeno giunse al suo culmine nel XIII secolo. Nello stesso periodo i laici cominciarono a riunirsi in confraternite, associazioni dedite a pratiche di devozione e solidarietà e all’esercizio della carità, in primo luogo l’assistenza ai malati e ai poveri. Il clero era addetto alle funzioni di culto e all’amministrazione dei beni delle chiese. Il clero fu monopolizzato dalle élites dell’impero e poi dalle aristocrazie medievali. Con l’istituzionalizzazione del cristianesimo i vescovi furono chiamati ad affiancare i funzionari civili e, scomparso l’impero in Occidente, ad assumere il governo effettivo nelle città. Il forte intreccio che venne a crearsi tra il clero e il potere politico fu sancito dal ruolo di mediazione sacerdotale che i vescovi acquisirono nei rituali di sacralizzazione dei re, e incrementato dalle funzioni pubbliche assunte da vescovi e abati nell’impero carolingio e nei regni. Ciò rese il clero un ordine sociale ricco di privilegi: dotato di immensi patrimoni, immuni dalla giurisdizione pubblica, esentato da obblighi militari e dal pagamento delle imposte, soggetto ai soli tribunali ecclesiastici. CULTURA. Nel medioevo la cultura si sviluppò in un quando eterogeneo di tradizioni differenti, dominate dall’eredità della cultura antica, dalla pervasività della cultura cristiana e dal dominio dell’oralità. Nella cultura cristiana fu ininterrotta l’opera di riflessione antropologica e filosofica, di definizione teologica ed etica che impegnò gli ecclesiastici dotti nel disciplinamento della società cristiana e nel dare risposta alla sue inquietudini religiose. Nel passaggio tra l’antichità e il medioevo si ridusse drasticamente la capacità di scrivere, e la memoria e la trasmissione del sapere si affidarono largamente alla cultura orale. Il diritto fu dominato a lungo dalle tradizioni orali locali di organizzazione dai rapporti sociali e di risoluzione dei conflitti. Dal VI secolo alcune scuole cominciarono ad essere riattivate, nelle città, dalle sedi vescovili per la formazione del clero e, nelle campagne, da alcuni monasteri per l’avvio alla vita religiosa e aperte, alcune, anche ai laici. Ciò non impedì la sostanziale dealfabetizzazione del laicato e in particolare delle aristocrazie. Per molti secoli l’Europa occidentale riservò l’uso della scrittura a ecclesiastici specializzati. Le invasioni barbariche condussero tra IV e VIII secolo alla morte del latino quale lingua parlata, dapprima nelle regioni periferiche dell’ex impero d’Occidente, gradualmente in quelle centrali come l’Italia. La lingua parlata assunse caratteri originali fino a generare, tra VII e IX secolo, le lingue neolatine o romanze nelle regioni che erano state romanizzate, e le lingue d’altro ceppo nelle altre aree. Il latino rimase la lingua della comunicazione scritta in tutta l’Europa medievale. Lo sviluppo economico delle città e l’affermazione dei poteri monarchici e comunali furono all’origine, tra XII e XIII secolo, di nuove istituzioni educative non più controllate dalla Chiesa ma promosse dai privati e dalle autorità pubbliche: scuole di grammatica dove si impara a scrivere, scuole di apprendistato organizzate dai mercanti e dalle corporazioni dei mestieri, università dove oltre a sviluppare le “arti liberali” e la speculazione teologica cominciarono a formarsi anche gli operatori del diritto e i burocratici impiegati nell’amministrazione dei regni. La ritrovata alfabetizzazione dei laici determinò l’estensione massiccia delle scritture correnti negli affari economici e nelle attività di governo. Un fenomeno nuovo fu la messa per iscritto di testi in lingua materna per Capitolo 3: LA TRASFORMAZIONE DEL MONDO ROMANO Fino all’inizio del III secolo l’impero romano aveva assicurato sviluppo economico e stabilità politica su un’area vastissima gravitante sul Mediterraneo. Ai popoli che erano entrati a farne parte, la pax romana aveva garantito il mantenimento delle proprie istituzioni e religioni, in cambio di fedeltà a Roma. L’estensione della cittadinanza romana arrivò nel 212. A tenere insieme questo organismo concorrevano il sistema statale e l’unità dei gruppi dirigenti dell’impero: un’aristocrazia culturalmente omogenea, urbana ma dotata di grandi patrimoni fondiari, fortemente alfabetizzata, e raccolta nel senato. Terminate le guerre di espansione l’economia cominciò a ristagnare. Si creò un crescente squilibrio tra risorse e necessità. Il divario tra ricchi e poveri si accentuò: moltissimi artigiani e piccoli proprietari terrieri furono costretti a vendere i propri beni e a cercare lavoro come braccianti nei latifondi dei senatori. Si moltiplicarono anche i fenomeni di crudescenza della criminalità, il brigantaggio sulle strade e la pirateria sui mari. Nel corso del III secolo l’elezione degli imperatori dipese sempre più dall’esercito, composto da soldati di mestiere reclutati sempre più tra le popolazioni barbariche confinanti. Diocleziano, imperatore dal 284 al 305, avviò un periodo di riforme che conseguì alcuni effetti positivi. Affidò il governo delle regioni sul Reno a Massimiliano mentre si prese cura diretta di quelle danubiane e orientali. Il governo fu trasformato in “tetrarchia” nel 293, quando ai due “augusti” furono associati due “cesari” allo scopo di sottrarre la nomina dei successori al controllo dell’esercito e di definirne precise competenze territoriali. Le province furono rese più piccole e sottoposte a un doppio comando, civile e militare. L’esercito fu diviso tra truppe stanziali sui confini e legioni da combattimento. L’aristocrazia senatoria fu estromessa dai comandi, vennero promossi di grado militari di carriera provenienti da ceti meno elevati. Si contavano circa 500.000 soldati, di conseguenza raddoppiarono i costi di mantenimento, ma venne instituito un equo sistema di esazione della tassa fondiaria fondato sul catasto. Per frenarne la fuga dalle terre, i coloni furono obbligati a risiedervi. Costantino, figlio di Costanzo Cloro, rimase l’unico imperatore fino alla morte nel 337; egli prese atto che il baricentro politico, economico e culturale dell’impero era andato progressivamente spostandosi verso Oriente: per questo trasformò l’antica città di Bisanzio sul Bosforo (attuale Istanbul) in una “nuova Roma”, che da lui prese il nome di Costantinopoli nel 330. Il trasferimento della capitale evidenziò la divaricazione tra la pars Orientis e la pars Occidentis dell’impero, causata da differenze ambientali, economiche e sociali, che si accentuarono nel corso lei IV e V secolo. Le città decaddero in Occidente mentre in Oriente mantennero un ruolo centrale nei commerci e nelle produzioni. Salvaguardata l’unità dello stato dopo le prime gravi migrazioni barbariche, Teodosio, imperatore dal 379 al 395, dispose la suddivisione dell’impero alla sua morte tra i due figli, affidando ad Arcadio l’Oriente e a Onorio l’Occidente. In Oriente lo sviluppo dell’ordinamento pubblico continuò ad essere sostenuto dalla crescita economica, in Occidente la sua crisi ampliò le disparità sociali e accentuò la disgregazione delle istituzioni. Alla trasformazione del mondo romano contribuì decisamente la diffusione di unai religione salvifica che, nella figura di Cristo, prometteva la redenzione del male e la salvezza individuale. Agli inizi del IV secolo il cristianesimo era una religione minoritaria fra le molte praticate nell’impero. Esportato dall’ambito originario della Palestina per opera di Paolo di Tarso nei decenni centrali del I secolo, il messaggio cristiano si era diffuso in Siria, in Asia Minore e in Grecia, in primo luogo attraverso i grandi centri costieri, per poi propagarsi, tra II e III secolo, in Africa settentrionale, in Italia, nella Gallia e nella penisola iberica, restando circoscritto prevalentemente alle città. La religione politeista tradizionale era intanto venuta fondendosi a culti influenzati dai riti solari, tali culti trovarono larghe adesioni nell’esercito e in alcuni imperatori, che mirarono a farne la religione ufficiale. Il rifiuto intransigente dei cristiani di tributare atti di culto all’imperatore valse loro accuse di scarso lealismo o addirittura di cospirazione, e fu all’origine delle sistematiche persecuzioni di massa disposte da Decio nel 249, da Valeriano del 258 e, la più sanguinosa di tutte, da Diocleziano nel 303. La concessione della libertà di culto da parte di Costantino nel 313 assicurò invece all’imperatore l’appoggio incondizionato dei cristiani: l’editto di Milano garantì infatti alle loro chiese privilegi destinati ad avere enormi conseguenze nei tempi successivi. Nel corso del secolo, il cristianesimo fu progressivamente accettato dall’impero fino ad essere riconosciuto come religione ufficiale. Costantino adottò le misure in favore dei cristiani continuando ad agire come capo della religione si stato romana, ed arrogandosi il diritto di intervenire nelle questioni ecclesiastiche. Fu lui infatti a convocare a Nicea, nel 325, il primo concilio ecumenico, cioè la prima grande assemblea dei vescovi di tutta la cristianità, preoccupato che le divisioni teologiche tra le chiese potessero minare la ritrovata unità dell’impero. Nel concilio si affermò il cattolicesimo. Tra le eresie condannate, la più diffusa era l’arianesimo, una dottrina secondo la quale a Cristo si attribuiva solo la natura umana, considerandolo gerarchicamente inferiore al Padre. Il cristianesimo divenne la religione ufficiale dell’impero nel 380 in seguito all’editto emanato a Tassalonica da Teodosio. Nei concili di Nicea del 325 e poi di Costantinopoli del 381, si sancirono le caratteristiche della Chiesa: una, santa, cattolica e apostolica; e la propria organizzazione fondata su una gerarchia ecclesiastica e su formule di fede progressivamente condivise. Per molte popolazioni barbariche la conversione al cristianesimo dal politeismo tribale fu meditata inizialmente dalla dottrina ariana, in conseguenza delle missioni evangelizzatrici svolte da vescovi ariani, come il goto Ulfila autore della metà del IV secolo della prima traduzione della Bibbia nella sua lingua. Quando i popoli germanici invasero la parte occidentale dell’impero, fece seguito un lungo e difficile periodo di confronto sul piano religioso. In Italia, per esempio, gli ostrogoti guidati da Teodorico (493-526) cercarono la collaborazione con i romani e ne rispettarono la confessione cattolica; invece i longobardi compirono violenze, uccisero preti, distrussero chiese e monasteri. L’opera di conversione fu promossa soprattutto da vescovi cattolici che in seguito al crollo delle strutture imperiali erano rimasti la sola autorità capace di inquadrare la società romana e di trattare con i barbari. L’obiettivo fu quello di convertire i re e i capi militari delle popolazioni con la convinzione che la scelta dei propri re sarebbe stata seguita dal resto della loro gente. L’adozione della fede cattolica costituiva per i sovrani un allargamento della base di legittimazione del loro potere, che, proponendosi come protettori delle chiese, si estendeva così anche alla popolazione romana. Il alcuni ambiti ciò suscitò l’ostilità delle aristocrazie barbariche, che vedevano nella crescita dell’autorità regia la diminuzione del proprio peso politico. Tra V e VI secolo monaci provenienti dalla Gallia cristianizzarono dapprima l’Irlanda0 e poi la Britannia. Tra il VI e VII secolo l’iniziativa fu invece rilanciata dal papa Gregorio Magno e dall’Irlanda un flusso di missionari investì il continente fondando monasteri importanti. L’anglo Bonifacio fu consacrato dal papa primo vescovo della Germania nel 722 e fu martirizzato in Frisia nel 754. Un altro grande fenomeno fu l’incontro di civiltà, determinato dalle migrazioni dei popoli barbarici all’interno dell’impero tra IV e VI secolo. I romani vissero le ondate migratorie come delle “invasioni”, ma più propriamente si trattò di “migrazioni”, cioè di spostamenti di intere popolazioni. La formazione tra la fine di IV e la metà del V secolo di un impero da parte degli Unni centrato sulla Pannonia (attuale pianura ungherese) diede avvio a un colossale processo di spostamenti a catena, che portarono alla disgregazione dell’ordinamento politico imperiale. “Barbari” erano quei popoli che non parlavano il greco o il latino ma delle lingue incomprensibili e che non condividevano i loro costumi. Per estensione, sempre con connotazione negativa, finì per designare tutte le popolazioni stanziate al di là del “limes”, cioè il confine dell’impero. Le popolazioni barbariche si formarono in un clima di forte contaminazione: in origine le varie tribù non avevano un’identità etnica o culturale precisa, ma erano gruppi eterogenei in continua definizione che vennero formandosi come popoli proprio attraverso l’esperienza delle migrazioni. L’incontro tra i barbari e i romani era cominciato ben prima delle invasioni. L’impero consolidò il limes in corrispondenza dei due grandi fiumi europei, Reno e Danubio, così le popolazioni barbariche confinanti entrarono nell’orbita del sistema imperiale, costituendone una sorta di periferia. I capi ebbero frequenti contatti con la corte imperiale, i guerrieri furono arruolati nell’esercito romano, vi erano rapporti commerciali, influssi culturali e artistici. Il volume degli scambi raggiunse il suo massimo tra II e III secolo. Fu in realtà lo spostamento dei visigoti alla ricerca di uno stanziamento definitivo l’elemento che destabilizzò l’equilibrio politico dell’impero tra la fine del IV e l’inizio del V secolo. I visigoti si scontrarono con l’esercito romano che fu clamorosamente sconfitto presso Adrianopoli nel 378. Da lì, i visigoti condussero scorrerie in Grecia, in Macedonia, nell’Illirico e nella pianura padana; vennero respinti dall’esercito imperiale guidato dal generale di origine vandala Stilicone. Tornarono in Italia, sotto la guida di Alarico, puntando direttamente su Roma, che saccheggiarono nel 410. Riuscirono successivamente a mettere sotto controllo l’intera Aquitania, costituendo di fatto nel 418 il primo regno barbarico all’interno del territorio imperiale. L’impero d’Oriente evitò eccessive contaminazioni con i barbari, portarono all’estromissione violenta degli ufficiali di origine germanica dalle alte cariche militari, con il massacro nel 400. Da quel momento si badò a preservare il territorio da ogni significativa infiltrazione barbarica. In Occidente sentimenti di chiusura si alternarono a tentativi di integrare le popolazioni barbariche che vi affluivano con ondate migratorie sempre più intense. Soluzioni pragmatiche furono tentate attraverso le formule della “foederatio” e “hospitalitas”. Con la prima le truppe barbariche vennero inquadrate in veste di alleate, ricevendo un compenso; la seconda prevedeva invece la concessione di un terzo delle tasse sulle terre di una determinata regione a gruppi etnici di rilevanti dimensioni che, insediandovisi, dichiaravano fedeltà all’impero e si impegnavano a fornire un appoggio militare pur rimanendo indipendenti. All’inizio del V secolo cedettero le frontiere dell’impero. La Britannia fu abbandonata nel 406 esponendola alle incursioni dei pitti e degli Scotti, provenienti dall’odierna Scozia e dall’Irlanda. Per fronteggiarle fu favorito l’insediamento come federati degli angli e dei sassoni. Il limes del Reno fu attraversato nell’inverno del 406-407 da diversi gruppi, i quali incontrarono la sola opposizione dei federati franchi che nel 409 li spinsero a stanziarsi oltre i Pirenei nella penisola iberica. Sotto Valentiniano III (425-455) l’impero seppe reagire in Gallia attraverso azioni militari decise che rivelarono la debole coerenza delle etnie barbariche. Il generale Ezio ebbe un ruolo decisivo alla guida di un esercito innervato da contingenti barbarici: contenne le pressioni dei visigoti a sud e dei franchi sul Reno, ma soprattutto in alleanza con franchi e visigoti, respinse l’invasione degli Unni guidati da Attila, sconfitti in battaglia nel 451 e ritiratisi anche dall’Italia nel 452. I vandali si erano spostati nell’Africa del Nord nel 429 dove invano l’impero cercò di federarli. Sotto la guida di Genserico occuparono Cartagine nel 439, da dove esercitarono una continua azione di pirateria nel Mediterraneo e invasero le isole: la Sicilia nel 440, le Baleari, la Corsica e la Sardegna dal 455. Sempre via mare, saccheggiarono Roma nel 455. Quando le migrazioni sembrarono ormai finalmente cessate, i rinnovati contrasti ai vertici dello stato, ove si succedettero una serie di imperatori privi di reale potere, ne indebolirono la capacità di controllo, ormai limitate all’Italia e a una parte della Gallia. Qui il generale romano Siagrio resse dal 464 al 486 un dominio personale tra la Loira e la Senna. In Italia, invece, nel 476 il generale Odoacre depose il giovane Romolo Augusto e restituì le insegne imperiali, dando vita a un dominio personale che non fu però riconosciuto dall’imperatore d’Oriente Zenone. Quest’ultimo affidò l’amministrazione della prefettura dell’Italia a Teodorico, che nel 488 aveva guidato gli ostrogoti al saccheggio di Costantinopoli. Sconfitto Odoacre nel 493, Teodorico diede vita a un regno che avrebbe governato la penisola fino al 553. prestigio sociale e il peso politico dei vescovi. Dalle famiglie aristocratiche locali erano reclutati anche gli ufficiali pubblici: i conti con compiti giudiziari e militari, e i duchi a capo di più ampie circoscrizioni territoriali. Approfittando della debolezza dei re nel corso del VII secolo l’amministrazione dei vari regni fu sempre più controllata dai maestri di palazzo. Una grande famiglia dell’aristocrazia austrasiana, quella dei Pipinidi, riuscì a rendere ereditaria tale carica e, con Pipino II di Herstal, a riunire nelle sue mani nel 687 i ruoli di maggiordomo dei regni di Austrasia, Neustria e Burgundia. Il figlio Carlo detto Martello avviò una forte espansione contro alamanni, bavari, turingi e sassoni, e nel 732 condusse l’esercito franco nella vittoria di Poitiers contro una spedizione islamica, arrestandone definitivamente l’avanzato verso nord. Il figlio di Carlo Martello, Pipino il Breve, fu acclamato re dai grandi del regno nel 751. L’affermazione dei Pipinidi fu legittimata dalla loro alleanza con la Chiesa di Roma. Le lotte per la successione al re ostrogoto Teodorico offrirono l’occasione all’imperatore Giustiniano per inviare truppe in Italia nel 535. Dopo un lungo conflitto protrattosi fino al 553, Giustiniano ristabilì il dominio imperiale sull’Italia. Con la “Prammatica sanzione” del 554 egli estese la legislazione bizantina all’Italia. Il paese era ormai allo stremo. I longobardi si erano trasferiti dalle foci dell’Elba in Pannonia alla fine del V secolo. Da lì essi migrarono in Italia attraverso il Friuli nel 569 guidati dal re Alboino, e si insediarono in modo disomogeneo, senza un piano preciso, in tre aree principali: la pianura padana, la Toscana e i territori intono a Spoleto e Benevento. L’Italia si trovò così divisa sotto due dominazioni profondamente diverse per tradizioni, istituzioni, costumi e lingua: una frattura che avrebbe segnato a lungo la storia politica della penisola e che si sarebbe ricomposta solo nel XIX secolo. L’insediamento dei longobardi ebbe un impatto violento sulla società italica e comportò la dispersione dell’antica aristocrazia senatoria. Le terre furono confiscate e distribuite tra i membri dell’esercito longobardo, i quali si trasformarono in proprietari fondiari, pur mantenendo la caratteristica di uomini in arma, distinti giuridicamente dai servi, cui erano affidati i lavori agricoli, e dai semiliberi. I primi decenni dello stanziamento longobardo furono caratterizzati da una forte conflittualità interna tra i re e i duchi che agivano in sostanziale autonomia. Dopo un decennio di divisione politica senza alcun re, si intraprese un’opera di rafforzamento dell’autorità regia emarginando i duchi. Un graduale superamento della contrapposizione tra i longobardi ariani e i romani cattolici fu avviato, grazie anche alla mediazione della regina Teodolinda, con papa Gregorio Magno (590-604) preoccupato di salvare Roma. Nel 626 la corte si stabilì a Pavia. Fu soprattutto con Rotari (636-652) che fu rafforzato il potere del re, sviluppato un apparato di governo e organizzato il territorio in distretti più ordinati. I duchi furono progressivamente trasformati in ufficiali regi, a capo di circoscrizioni incentrate intorno a città strategicamente importanti, e affiancati da funzionari minori come gli sculdasci (capi-villaggio). L’affermazione dell’autorità del sovrano fu sancita dalla promulgazione, nel 643, di un editto che raccolse in forma scritta le norme relative alla vita civile, ai rapporti patrimoniali, alla disciplina militare. L’insieme dei territori rimasti sotto il controllo bizantino era stato riorganizzato alla fine del VI secolo e affidato a un funzionario, l’esarca, che risiedeva a Ravenna e riuniva le funzioni civili e militari. Passata la fase della conquista e dell’occupazione delle terre, le condizioni della popolazione italica migliorarono. All’inizio dell’VIII secolo possessori di stirpe romana entrarono a far parte dell’esercito, mentre tra i vescovi e i monaci erano ormai numerosi gli appartenuti alla stirpe longobarda. La società ormai etnicamente mista trovò ulteriore consolidamento durante il regno di Liutprando (712-744) che si fregiò del titolo di christianus et catholicus princeps con l’intento di fare delle istituzioni ecclesiastiche un elemento di sostegno alla monarchia. Nel 727 Liutprando puntò alla conquista dell’esarcato e dei territori bizantini sino al ducato di Roma. Il progetto suscitò la reazione del papato che sollecitò una vasta mobilitazione internazionale contro i longobardi. I re Astolfo e Desiderio subirono le spedizioni dei franchi sollecitati dai papi, che culminarono nella conquista del regno nel 774 da parte di Carlo Magno. Carlo unì al titolo di “re dei franchi” quello di “re dei longobardi”. Alla fine dell’VIII secolo Paolo Diacono scrisse “Historia Langonardorum”. L’avvento dei normanni nella seconda metà dell’XI secolo mise fine all’autonomia politica longobarda: Salerno fu l’ultima città a cadere nel 1076. Nell’eclissi del potere bizantino, il papato aveva assunto sempre maggiori funzioni di governo su Roma e sul suo ducato sostenendovi progressivamente una propria amministrazione e puntando a tutelare gli immensi patrimoni fondiari che la Chiesa aveva accumulato. I rapporti con l’impero si interruppero quando il papa non seguì gli orientamenti iconoclastici sostenuti da Leone III nel 726. Minacciati dai longobardi, i papi decisero di rivolgersi alla nuova, potente e cattolica, dinastia franca dei Pipinidi, che nel 756 donò numerosi territori ripresi ai longobardi compresi tra Ravenna e la Pentapoli. Capitolo 5: BISANZIO L’imperatore Giustiniano (527-565) elaborò un ambizioso programma di restaurazione “renovatio imperii” per ridare all’impero la sua estensione originaria e un assetto unitario. Obiettivo fu la riconquista dei territori mediterranei dove si erano formati i domini Barbarici, sui quali l’imperatore intese riaffermare la sua autorità. Gli eserciti imperiali abbatterono con successo il regno dei vandali nell’Africa settentrionale nel 533-534 e quello degli Ostrogoti in Italia nel 535 al 553, e recuperarono le coste meridionali della penisola iberica in mano ai visigoti nel 553-554. Le imprese comportarono però lunghe campagne militari e ingenti oneri economici. Rimase scoperta la frontiera sul Danubio da dove si riversarono popolazioni che avviarono la slavizzazione dei Balcani. Sul fronte orientale Giustiniano strinse invece accordi (nel 532 e nel 562) con il sasanide Cosroe I che avrebbero dovuto assicurare “paci eterne” con l’impero persiano a fronte di onerosi tributi in oro. Giustiniano, sul piano religioso, si impegnò a tutela della Chiesa e della fede, rafforzando il potere dei vescovi, rendendosi garante dell’ortodossia, colpendo duramente le dottrine ereticali, e perseguendo tutti i culti non cristiani. Per porre un freno agli abusi sistematici dei grandi proprietari terrieri, che provocarono la fuga dei contadini dai latifondi e la proliferazione del brigantaggio, egli cercò di rafforzare la rete dei funzionari statali. Per fronteggiare la crescente inefficienza della giustizia Giustiniano scrisse un nuovo codice, il “Corpus iuris civilis”, che raccolse e selezionò criticamente le leggi in vigore e che costituì l’esito più duraturo delle sue riforme. L’azione di Giustiniano fu l’ultimo tentativo di restaurare l’autorità dell’impero romano sull’Oriente e sull’Occidente. Nel 632-634 la Siria e la Palestina, nel 639-640 la Mesopotamia e l’Armenia, ed entro il 645 l’Egitto e il nord Africa, caddero sotto il dominio degli arabi. In poco meno di un secolo, l’impero si ridusse a potenza regionale gravitante tra Egeo e Anatolia. Nell’età di Eraclito (610-641) e dei suoi successori si completò il passaggio dalla fase tardo antica dell’impero a quella propriamente bizantina. Per il continuo stato di guerra, le funzioni militari acquistarono un peso crescente, di pari passo con l’indebolirsi del potere centrale e l’accentuarsi delle autonomie locali. Furono create nuove unità amministrative, i thémata, posti al comando di un stratego, che assommava l’autorità militare e quella civile. L’esercito era compensato dalla concessione di terreni trasmissibili in eredità. La società rurale accrebbe il proprio peso e i villaggi diventarono l’unità di base dell’esazione fiscale, a scapito delle città, che subirono gravi abbandoni, a parte Costantinopoli. Nel 678 gli arabi assediarono Costantinopoli, nel 681 i bulgari crearono un regno nei Balcani, e negli anni successivi Bisanzio perse gli ultimi avamposti nell’Africa settentrionale aprendo la via alla conquista araba della Spagna. Una controversia religiosa divenne così un affare politico che ne travagliò a lungo la vita. Nel 726 l’imperatore Leone III proibì la venerazione delle immagini sacre, aderendo al movimento che ne considerava idolatrico il culto e ne predicava la distruzione. La lotta iconoclastica era volta a creare un fronte interno compatto contro il pericolo islamico. La mancata adesione delle religioni bizantine dell’Italia centro-settentrionale segnò però l’irreversibile allontanamento della Chiesa di Roma da quella orientale. La crisi politica si chiuse con la riammissione del culto delle immagini nell’843. Gli slavi si erano insediati sin dal VI secolo nei Balcani in piccole comunità di villaggio. Meno bellicosi dei germani, e dediti soprattutto all’agricoltura e all’allevamento, gli slavi furono guidati militarmente dalle etnie turchi degli avari e dei bulgari. Con i primi assediarono Costantinopoli nel 626, quadrati dai secondi diedero vita nel 681 a un regno nel basso Danubio che nel corso dell’VIII secolo si estese alla Pannonia e riportò diversi successi sull’esercito bizantino. Il re bulgaro Boris si convertì nell’864-865, ma decisiva si rivelò la missione dei monaci Cirillo e Metodio che, per favorire la diffusione del cristianesimo, tradussero la Bibbia in slavo. Gli slavi occidentali furono invece cristianizzati da missionari legati ai franchi e alla Chiesa di Roma. I bulgari, i serbi e i macedoni, rimasero legati alla Chiesa di Costantinopoli. I discendenti di Basilio I (867-886) riuscirono ad affermare la successione ereditaria al trono in discontinuità con la tradizione elettiva della carica di imperatore. Ciò permise alla dinastia dei Macedoni (867-1057), di guidare l’impero a una rinnovata fase di sviluppo politico, economico e militare. Riconquistarono la Siria, la Mesopotamia, l’Armenia, le isole di Creta e di Cipro che segnarono la fine dell’egemonia navale araba e il riavviarsi delle relazioni commerciali con l’Occidente. Con l’imperatore dell’Occidente, Ludovico II, Bari tornò sotto il controllo dei bizantini nell’876, e dal 975 fu la residenza del catapano, cui facevano capo tutti i domini dell’Italia meridionale. Basilio II (976-1025) riconquistò l’intera penisola balcanica, annientando il regno dei bulgari. L’impero era tornato ad essere la forza politica più importante nel bacino del Mediterraneo orientale e nell’Europa balcanica. L’esercito era tornato ad essere composto da soldati stipendiati. La piccola proprietà fu comunque tutelata e i villaggi rimasero le unità fiscali di base. L’amministrazione civile fu nuovamente separata da quella militare, e la burocrazia ritrovò un più efficiente controllo centrale. Ripresa dell’economia che favorì anche la rifioritura delle città. Si venne a formare una nuova aristocrazia (arconti) che possedeva terre ma soprattutto uffici pubblici. Il ruolo dello stato era determinante nell’economia bizantina. La distribuzione della ricchezza si fondava su un efficiente sistema fiscale che doveva garantire il pagamento degli stipendi pubblici e delle spese militari. I mercanti erano sottoposti a forti vincoli da parte dello stato, che controllava produzione, distribuzione e consumo dei beni. L’investimento nel commercio fu sempre marginale nella società bizantina, la ricchezza continuò a basarsi sulla terra. Nel corso dell’XI secolo accrebbero l’autonomia dei latifondisti. I vincoli posti al commercio si trasformarono in fattori di debolezza quando cominciarono ad operare in Oriente i mercanti occidentali: la concessione nel 1082 di privilegi commerciali ai veneziani segnò l’inizio del declino economico di Bisanzio. La sconfitta partita Mantzikert (in Armenia) nel 1071 avviò l’erosione territoriale dell’impero da parte dei turchi. Nel 1054 si era prodotto anche lo scisma tra la Chiesa di Costantinopoli e quella di Roma. La civiltà bizantina si avviava verso il declino. Capitolo 6: ISLAM In gran parte desertica e priva di città, l’Arabia era abitata da tribù di beduini che praticavano l’allevamento e il commercio lungo le grandi piste carovaniere che collegavano le oasi e che assicuravano la circolazione delle merci dalla più fertile regione meridionale verso i mercati dell’Egitto, della Siria e della Mesopotamia. Il nomadismo della popolazione dava vita a confederazioni di tribù politicamente instabili. L’unico elemento di coesione era costituito dal pellegrinaggio al santuario della Ka’ba in occasione della fiera annuale che si teneva nella città di Mecca. Nato a Mecca intono al 570 da un ramo del clan dominante, Maometto crebbe nel mondo delle carovane ed entrò così in contatto con le religioni più diffuse. Ritiratosi in meditazione spirituale ebbe nel 610 la rivelazione fondamentale: l’angelo Gabriele gli ordinò di diffondere la parola di Dio (Corano). La continuarono a essere coniate solo da Bisanzio e dagli stati islamici per servire economie commerciali molto più ricche e articolate. Carlo Magno aveva messo fine nel 774 all’esperienza politica longobarda in Italia. Carlo e poi il figlio Pipino si fregiarono del titolo di re dei longobardi. Pavia rimase la capitale, i duchi e i funzionari longobardi furono quasi tutti confermati, l’aristocrazia fondiaria ebbe salve le sue proprietà, e anche le leggi del regno rimasero in vigore. La dominazione carolingia non rappresentò cioè una discontinuità. Si mantennero anzi molte caratteristiche specifiche come, per esempio, i gruppi di alemanni che continuarono a servire militarmente il re. Fedele alla tradizione, Carlo Magno dispose nell’806 la suddivisione patrimoniale dell’impero tra i figli. L’unico sopravvissuto, Ludovico, ne ereditò il potere alla morte nell’814. Rafforzò il ruolo pubblico dei vescovi e accentuò i caratteri sacrali dell’ideologia imperiale nell’824 con la “costitutio romana”, un preventivo giuramento di fedeltà del papa all’imperatore. La sua successione, disposta sin dall’817, aprì invece lotte violente tra gli eredi ben prima della sua morte nell’840. L’accordo sigillato a Verdun nell’843 riconobbe a Ludovico i territori ad est del Reno, a Carlo il Calvo quelli più ad Occidente, e a Lotario quelli compresi nella fascia intermedia dal nord al regno d’Italia, al quale fu abbinato, da qual momento, il titolo imperiale. La morte senza eredi di Ludovico II nell’875 avviò il tracollo della dinastia carolingia che si estinse nell’887. Le lotte dinastiche infatti avevano finito col rafforzare il potere delle aristocrazie locali, che inglobarono progressivamente nel proprio patrimonio le cariche pubbliche di corte, duca e marchese. Capitolo 8: ECONOMIA, SOCIETÀ E POLITICA Dal III secolo la popolazione dell’area europea calò progressivamente di numero fino a toccare il punto più basso nel VI secolo. Contribuì soprattutto il negativo intrecciarsi di guerre, carestie ed epidemie. Pesanti erano soprattutto i tassi di mortalità e la speranza di vita: solo un neonato su due superava il primo anno di vita, e moltissime erano le donne che morivano di parto. I casi di longevità erano eccezionali e legati a condizioni sociali di agiatezza, come per esempio quello di Carlo Magno, che morì a 71 anni. Nel corso del VII secolo la popolazione dell’Occidente europeo cominciò ad assestarsi sia nelle campagne sia nelle città. Dal VII secolo non vi è più traccia di edilizia monumentale né della presenza di un commercio attivo tra le sponde del Mediterraneo. A determinare la crisi economica fu la fine dell’economia statale romana. Per secoli l’impero aveva incentivato le attività produttive e garantito le infrastrutture per le attività commerciali grazie a un efficiente sistema fiscale. Il venir meno della fiscalità pubblica un pò in tutti i regni romano-barbarici nel corso del VII secolo segnò la fine di alcuni meccanismi economici. Innanzi tutto si contrassero drasticamente gli scambi in moneta. Le città persero la loro centralità di luoghi di consumo e di ridistribuzione della ricchezza. Gli stessi proprietari fondiari furono meno incentivati a sviluppare le proprie aziende agrarie. Ritornò in circolazione una maggiore quantità di ricchezza tra il VII e l’VIII secolo che contribuì a far nascere una domanda economica nuova, proveniente ora dalle aristocrazie locali, dai grandi e medi proprietari fondiari, laici ed ecclesiastici. I sovrani carolingi protessero e incentivarono i nuovi mercati portuali che vennero sviluppandosi sulle coste del Mare del Nord, dove si commerciavano merci di lusso e beni di largo consumo. La schiavitù persistette fino al X secolo nelle campagne europee. Fra III e IV secolo anche i liberi coltivatori furono costretti dalle leggi imperiali a risiedere sulla terra presa in affitto per non fuggire al pagamento delle tasse. In tal modo la condizione dei coloni e quella degli schiavi che lavoravano una terra dotata di una casa tesero ad assimilarsi: entrambi non potevano allontanarsi, entrambi godevano di una certa autonomia potendo coltivare la terra anche per sé. L’affermazione del cristianesimo contribuì a fare del servus un uomo dalla condizione giuridica precisa, condizione servile più che di schiavitù. Solo dopo il Mille la servitù cominciò progressivamente a sparire. Al fiorente mondo urbano che aveva caratterizzato la civiltà mediterranea antica subentrò un’Europa meno popolosa, più povera e preponderamente rurale. La società si raccolse soprattutto intorno a grandi proprietà fondiarie, “curtes”, entro cui si svilupparono nuove forme di organizzazione del lavoro agricolo. La scomparsa della fiscalità pubblica consentì di ricavare una quota maggiore di reddito dal lavoro agricolo. Anche l’alimentazione ne beneficiò, caratterizzandosi per un notevole consume di carne, grazie all’allevamento di animali nei boschi. Allo scarso numero degli uomini fece riscontro un ambiente più difficile da vivere. Nelle regioni mediterranee esso fu caratterizzato da gravi fenomeni di abbandono, degrado ed erosione, con la scomparsa e la riduzione dei centri abitati. Nell’Europa continentale predominavano steppe, acquitrini e foreste. Gli insediamenti umani si ridussero a piccole capanne e coltivi mal collegate le une alle altre da una rete viaria estremamente deteriorata. La dilatazione dei boschi accrebbe l’importanza dell’economia forestale. Anche la pesca fu intensamente praticata sia lungo i litorali marini sia nelle acque interne. La scomparsa dell’impero romano determinò trasformazioni profonde nella struttura dei centri urbani dell’Occidente, che persero molte delle loro funzioni di coordinamento del territorio. L’impianto di età romana - fondato sulla piazza principale sulla quale si affacciavano gli edifici pubblici all’incrocio dei due assi viari principali - fu sostituito da nuovi poli aggregativi intorno alle istituzioni ecclesiastiche: la cattedrale, il battistero, il cimitero, il palazzo del vescovo. Venuti meno gli organi dell’amministrazione municipale romana, i poteri pubblici delle città furono quasi ovunque suppliti dalle gerarchi ecclesiastiche raccolte intorno ai vescovi. Per tale via le città non persero mai del tutto le antiche funzioni amministrative, politiche, religiose e culturale. Nell’Italia bizantina in città continuarono a risiedere i gerani proprietari fondiari e ad avere sede le autorità pubbliche e amministrative. Nel regno longobardo le città persero viceversa la propria centralità politica: ad essere posti a capo di circoscrizioni territoriali furono dei semplici villaggi. Con l’impero carolingio, le città tornarono ad essere valorizzate nelle loro funzioni giurisdizionali. Si usa parlare di rinascita carolingia delle città anche dal punto di vista culturale. Il destino economico delle città romane fu segnato dalla residenza dei grandi proprietari terrieri. Là dove essi continuarono ad abitare nelle città, come nell’Italia bizantina, i prodotti agrari continuarono ad essere smerciati nei mercarti delle città, generando un surplus tale da mantenere anche la presenza di mercanti e di artigiani. Là dove i grandi possessori si spostarono a risiedere in campagna, come nel regno dei franchi, furono poche le città che mantennero un’importanza economica. In altre aree ancora, la funzione commerciale delle città fu garantita dalle reti di traffici su ampia scala: come Venezia, Napoli e Amalfi, nei quali il commercio stimolò lo sviluppo di un’attività manifatturiera, soprattutto nel settore tessile, nelle costruzioni navali e nell’artigianato artistico. Alla centralità politica della città contribuì la presenza del vescovo. Intorno all’istituzione episcopale emerse uno strato di cittadini colti ed eminenti. Tra il V e il VI secolo le prerogative vescovili si ampliarono dal campo della cura pastorale fino ad assumere funzioni civili di supplenza, per esempio in ambito giudiziario. Tra il VII e l’VIII secolo il potere carolingio riuscì a ripristinare un’effettiva ripartizione di funzioni tra le competenze degli uffici pubbliche e quelle, che rimasero principalmente di guida morale e religiosa, dei prelati. Il vescovo acquisì la pienezza dei poteri pubblici quando la dissoluzione dell’Impero carolingio rese inefficace la presenza dei conti nelle città. In molte aree i vescovi assunsero responsabilità pubbliche in città, provvedendo direttamente alla difesa delle popolazioni, innalzando o rafforzando le mura. La fase maturata del regime politico episcopale nelle città si sviluppò Nell’XI secolo, quando il vescovo agiva ormai come primo rappresentante dei suoi cittadini. Il vescovo potè accogliere intorno a sé le istanze della popolazione urbana e proporsi come figura autorevole intorno alla quale si congregarono spontaneamente i cittadini alla ricerca di guida, tutela e conforto. Dall’altro canto, nell’esercizio delle sue funzioni il vescovo si circondò di collaboratori, vassalli e concittadini. Nella seconda metà del IX secolo la divisione dinastica dell’impero carolingio accentuò la frammentazione dell’ordinamento pubblico. Alla deposizione di Carlo il Calvo nell’887, ci fu la disarticolazione dell’impero in più regni e l’attribuzione della dignità imperiale al titolare del regno italico. Il potere degli imperatori e dei re fu quasi sempre precario perché all’interno dei regni si formarono grandi dominazioni politiche quasi autonome, che si usano indicare col termine “principati”. Gli ufficiali pubblici (conti e marchesi) inizialmente di nomina imperiale riuscirono a rendere ereditaria la propria funzione riducendo la capacità di controllo del sovrano. Si trasformarono in grandi signori e dinasti locali: il loro potere era fondato su nuove basi, ampiamente svincolate dal controllo di qualsiasi autorità pubblica. Dalla fine del IX secolo i conti e i marchesi esercitarono le loro funzioni su territori ormai differenti dalle circoscrizioni pubbliche, ossia le contee e i marchesati. L’autorevolezza dei poteri locali si fondava su diversi fattori: l’acquisizione patrimoniale delle cariche pubbliche e la loro trasmissione ereditaria; il possesso di ingenti beni fondiari; la rete di alleanze e di clientele armate con le aristocrazie del territorio. L’autorità dei titolari incontrò un’opposizione crescente da parte degli enti ecclesiastici e dalle famiglie aristocratiche; tra IX e XI secolo vescovi e monasteri ottennero dai sovrani delle concessioni di immunità che esoneravano le loro proprietà dall’autorità e dal controllo degli ufficiali pubblici, anche i grandi proprietari laici ottennero progressivamente esenzioni simili. Alla fine del X secolo si affermò la potenza dei conti di Parigi che con Ugo Capeto ottennero il titolo regio nel 987. Il re non riuscì mai a esercitare una vera autorità su tutte le regioni da cui pure derivava il suo titolo. Di fatto, il suo dominio si limitò ai territori che riusciva a controllare direttamente e a quelli che costituivano il suo patrimonio personale, in una regione compresa fra la Senna e la Loira, intorno a Parigi e a Orléans. La dipendenza dei grandi signori dal re fu poco più che formale, soprattutto nel sud della Francia, dove accanto a vari ducati e contee ampiamente autonomi, si formarono anche due regni di carattere regionale lungo il bacino del Rodano, quello di Borgogna e quello di Provenza, poi assorbito dal primo. Nel regno italico, il conflitto per il trono fu duraturo per i numerosi pretendenti e per gli interventi dei pontefici. Territorialmente, il regno ricalcava quello longobardo e carolingio, e continuarono a rimanerne fuori i domini bizantini, arabi e longobardi del meridione. Al titolo de re d’Italia era connessa la dignità imperiale, con la consuetudine carolingia dell’incoronazione da parte del pontefice. Per questo, quando il re di Germania Ottone I fu sollecitato dal papato a intervenire contro Berengario II ricevette, oltre a quella di re d’Italia nel 961, anche la corona imperiale nel 962. Da quel momento si saldò il nesso tra le corone, e i re di Germania cominciarono a scendere periodicamente in Italia per poter cingere le altre corone. Nel regno dei franchi orientali fu eletto Arnoldo di Carinzia (887-899), nipote di Ludovico il Germanico, dai grandi del regno; egli ebbe soprattutto il ruolo simbolico di giudice supremo e di guida militare. Enrico di Sassonia (919-936) acquistò prestigio proprio organizzando l’esercito che si oppose vittoriosamente agli ungari nel 933. Alla sua morte il figlio Ottone I riuscì a sua volta a essere eletto re, ad Aquisgrana. Nel suo lungo regno (936-973) Ottone rafforzò in modo decisivo l’autorità regia, integrò nella gestione del potere vescovi e abati di grandi monasteri, di cui si assicurò la nomina. Respinse le invasioni ungare e avviò l’espansione verso l’Oriente slavo inglobando il ducato di Boemia e creando nuove sedi vescovili. L’incoronazione a Roma nel 962 di Ottone I restaurò l’autorità imperiale su nuove basi: da allora i re di Germania divennero i naturali candidati alla dignità imperiale. Gli imperatori della dinastia sassone rinunciarono a emanare leggi e a esercitare la giustizia, puntando a concedere privilegi ai propri interlocutori locali attraverso diplomi (documento scritto ufficiale per concedere un privilegio o sancire l’esistenza di un diritto). Il rilancio del ruolo sacrale dell’imperatore ribadì la sua funzione di protettore della cristianità, ma stabilì che il papa, una volta eletto, dovesse prestare giuramento all’imperatore. Il suo progetto ideologico “universale” si scontrò con la realtà dei forti poteri locali e, alla sua morte, l’impero sopravvisse come impero “teutonico”. A differenza delle grandi migrazioni delle stirpi barbariche, i nuovi aggressori non miravano a insediarsi stabilmente ma a razziare bottino. Le prime a manifestarsi furono le incursioni dei saraceni dalle La diffusione del cristianesimo nell’impero romano fu accompagnata da un’organizzazione sempre più ordinata delle comunità di fede, chiamate “chiese”. Il clero era dedito all’esercizio del culto e alla gestione dei beni delle chiese, e progressivamente si definì come un gruppo sociale a sé stante. Responsabile di ogni comunità era il vescovo, guida spirituale e amministrativa della comunità, affiancato dai preti, incaricati della predicazione e delle celebrazioni liturgiche, e dai diaconi, che svolgevano compiti di assistenza e di amministrazione. I laici partecipavano, insieme al clero, all’elezione dei vescovi e alla gestione degli affari delle comunità. L’autorevolezza dei vescovi crebbe nel tempo insieme alla loro assunzione di funzioni di guida non solo spirituale ma anche civile e politica delle città. Essi venivano scelti tra le famiglie che costituivano le élites urbane, e diventarono punti di riferimento di gruppi e di clientele di laici e di ecclesiastici, sia cittadini sia contadini. L’organizzarsi delle chiese in ambito locale e intorno a gerarchie episcopali regionali generò presto l’esigenza di un coordinamento fra le diverse comunità. Fino a tutto il X secolo, la Chiesa cattolica fu infatti priva di un’organizzazione centralizzata e di un vertice quale sarebbe poi stato il papa. L’unità del mondo cristiano poggiava sullo spirito di comunione che legava i diversi vescovi, le comunità e i fedeli, e traeva forza dalla volontà di testimoniare la propria fede di fronte ai pagani. Un ruolo centrale nella vita delle chiese fu allora svolto dalle assemblee del clero, convocate periodicamente dai metropoliti per decidere questioni organizzative e disciplinari. Nei concili universali, convocati in genere dagli imperatori, si definivano le verità di fede (dogmi), si regolamentavano i riti liturgici e si emanavano le leggi ecclesiastiche (canoni). Il cristianesimo dei primi secoli presentava una varietà di culture teologiche e di interpretazioni del dogma, che era l’esito dell’adattamento del messaggio cristiano da parte delle diverse culture che lo fecero proprio. Le varietà delle interpretazioni dottrinali era anche esito dell’indipendenza delle sedi episcopali. Ai contrasti teologici contribuiva la volontà di preservare l’identità e l’autonomia locali. Gli imperatori cercarono di salvaguardare l’unità della cristianità emanando editti e convocando concili per formulare dogmi universalmente accettati di contro a credenze ritenute erronee (eresie). L’editto detto dei Tre capitoli emanato da Giustiniano nel 544 produsse a sua volta una profonda spaccatura: i vescovi occidentali guidati da Virgilio di Roma rifiutarono di aderirvi, aprendo uno scisma che durò fino alla fine del VII secolo. Tra le pratiche del culto cristiano si diffuse una speciale venerazione per i santi, per i martiri testimoni della fede attraverso il sacrificio della vita, per le figure religiose esemplari. Un ulteriore elemento di protezione celeste fu individuato nelle reliquie dei santi, che erano custodite gelosamente e che furono oggetto di una intensa circolazione, e spesso di traffici e furti, in tutta la cristianità. L’altra principale esperienza di vita cristiana fu caratterizzata dalla scelta individuale, monastica, in risposta a un’esigenza diffusa di distacco dal mondo, di rinuncia ai beni terreni e di redenzione attraverso la preghiera e l’ascesi. Gli eremiti si ritirarono a vivere nelle necropoli, sugli alberi o in cima alle colonne, il deserto fu il luogo preferenziale delle loro esperienze. Il cenobitismo, ossia della “vita in comune” dei monaci, nella condivisione della preghiera, della penitenza, del lavoro e dell’alimentazione. I capi delle comunità erano detti abati. Il monachesimo si sviluppò solo a partire dalla fine del III secolo. Dopo la metà del IV secolo le esperienze monastiche si diffusero anche in Occidente, soprattutto nelle forme cenobiche, coinvolgendo anche le donne. Il sorgere di comunità sempre più numerose richiese la redazione di norme che regolassero la vita dei monaci in tutti i suoi aspetti, organizzativi, disciplinari e liturgici. Le regole seguivano l’esempio di Gesù mettendo in pratica i principi evangelici della povertà, castità e obbedienza. Le prime raccolte di regole vennero prodotte in Oriente nel IV secolo da Pacomio e da Basilio di Cesarea, le cui norme ebbero grande influenza sul monachesimo bizantino. Le regole furono uniformate per iniziativa dell’imperatore Ludovico il Pio, che nell’817 dispose che la regola benedettina diventasse il testo di riferimento per tutto i monasteri dell’Europa carolingia. Teoricamente mondi chiusi e autonomi, costruiti in luoghi solitari per permettere l’isolamento dei cenobi, i monasteri furono spesso centri di importante irradiamento politico, economico e culturale. Fondati dai sovrani e dalle grandi famiglie aristocratiche, i monasteri divennero presto destinatari di donazioni e lasciti. La comunità di preghiera, guidate da abati e badesse si concepivano come espressioni “alte” della società cristiana, dedicandosi alla propria salvezza e a quella dei propri benefattori. Lo stile di vita monastico arricchiva le comunità con le biblioteche e gli scriptoria dove si conservano e si copiavano i manoscritti dell’antichità, e con opere artistiche come miniature, vetrate e costruzioni architettoniche. I monasteri non furono solo dei luoghi di preghiera e di formazione intellettuale, ma anche, più in generale, dei centri di organizzazione economica e politica della società rurale. Intorno ai monasteri maggiori si tenevano mercati e si raccoglievano numerose famiglie di contadini, che trovavano in essi protezione e migliori condizioni di vita. La società occidentale dei secoli VII-XI fu una società analfabeta. Leggere e scrivere era ormai necessario solo agli uomini di Chiesa per accedere alle Scritture e diffonderne il messaggio. Dal VI secolo le scuole cristiane divennero il luogo dell’apprendimento elementare, non più solo dei chierici ma anche dei laici. Dall’VIII secolo si diffusero scuole anche presso molti monasteri. La scrittura e la produzione culturale divennero monopolio della Chiesa. Nei centri scrittorii, gli scriptoria vescovili e monastici, si redigevano commenti alle Scritture, testi agiografici, raccolte omiletiche, e si ricopiavano i testi della classicità latina. Le “Nozze di Mercurio e Filologia” di Marziano Cappella suggerirono la ripartizione delle discipline del sapere tra le arti del Trivio (grammatica, retorica e dialettica) e del Quadrivio (matematica, geometria, astrologia e musica) che ispirarono la formazione superiore. Carlo Magno promosse l’istruzione per formare adeguatamente i funzionari destinati all’amministrazione e il clero impegnato nella cristianizzazione. Le scuole furono riorganizzate ad ogni livello, i centri scrittorii moltiplicati e le biblioteche arricchite. Presso la corte dei sovrani si raccolse un’accademia di intellettuali che approfondì la conoscenza delle opere classiche e produsse testi letterari originali. La cultura rimase ancora un patrimonio di pochi. Le famiglie aristocratiche che avevano fondato chiese e monasteri “privati” e che erano in grado di condizionare la designazione di vescovi, abati e chierici, cercarono di impossessarsi in maniera duratura delle cariche ecclesiastiche rendendole ereditarie. Tali cariche erano lucrose, perché permettevano di controllare patrimoni ingenti e di incrementare prestigio e potere. Vescovi e abati continuarono a seguire lo stile di vita dell’aristocrazia laica, a occuparsi di politica, a combattere in guerra, a svagarsi in cacce e banchetti, a mantenere concubine. La necessità di interventi di riforma fu avvertita già dai sovrani carolingi. Il primo luogo si puntò a migliorare la formazione del clero, rafforzando la rete di scuole episcopali e monastiche, dove si insegnava la grammatica, cioè il latino, lo studio delle Scritture, la conoscenza dei canoni e la corretta pratica liturgica. Fu istituita la decima (decima parte del raccolto e del reddito in generale, che proprietari e coltivatori pagavano alla Chiesa per il sostentamento del clero), gestita dal vescovo e destinata a sostenere il clero e a soccorrere i poveri. Le donne religiose furono escluse dall’amministrazione dei beni della Chiesa e fu loro precluso ogni contatto al di fuori dei monasteri. Vescovi e abati divennero organico supporto dell’autorità regia, che si assicurò la facoltà di designarli, peraltro scegliendoli tra figure di elevato vigore morale. Con il “Privilegium” del 962 Ottone I ribadì anche il controllo imperiale sull’elezione pontificia, che era già stato sancito dalla “Costitutio romana” di Ludovico il Pio nell’824. Da allora e fino al 1058 i papi furono tutti legati al trono imperiale. Dal X secolo in poi si fecero sempre più avvertite due esigenze principali di riforma: la moralizzazione dei costumi del clero e la tutela delle istituzioni ecclesiastiche dalle ingerenze e dai condizionamenti del mondo laico. Più che in ambito vescovile, fu all’interno del mondo monastico che si avvertì inizialmente la necessità di ridare prestigio e credibilità morale alla Chiesa. Protagonisti principali furono i monaci dell’abbazia di Cluny, fondata nel 910 in Borgogna. La riforma promossa di Cluny non contestava le ricchezze e i beni ecclesiastici, che anzi erano visti come legittimi perchè dimostravano il fulgore della Chiesa; proponeva invece di rimodellare in senso monastico tutta la Chiesa, privilegiando la centralità della preghiera, la purezza del corpo, la funzione del clero quale mediatore del sacro. Il lavoro manuale fu invece demandato su conversi e ai servi. Grazie alle donazioni dei potenti che confidavano nelle preghiere dei monaci per salvare l’anima, l’ordine cluniacense divenne una potenza imponente della Chiesa riformata. Conobbero un deciso rilancio tra X e XI secolo anche le speranze eremitiche, che intendevano riprendere gli ideali del primo monachesimo. Anche nel clero secolare emersero nel corso del X secolo impulsi a forma di vita più rigorose e spirituali. Ferivano la sensibilità dei fedeli l’attaccamento alle ricchezze materiali, la compravendita delle cariche ecclesiastiche, le pratiche di concubinato, gli interessi dinastici più che pastorali, le violenze e le spoliazioni di chiese, di cui si rendevano spesso protagonisti vescovi e preti. Oggetto di contestazione furono le ricchezze accumulate e gestite dai prelati e il loro coinvolgimento nelle questioni temporali. Si cominciò a predicare l’ideale evangelico della povertà, la rinuncia ai beni secolari e il ritorno alla Chiesa delle origini. Fu ancora una volta l’imperatore, Enrico III (1039-1056) ad agire a sostegno dell’istituzione pontificia, deponendo nel 1045 tre contendenti appartenenti a famigli romane e nominando una serie di papi riformatori. La morte di Enrico III diede occasione a Niccolò II di conferire una decisa accelerazione alla spinta riformatrice, convocando nel 1059 un concilio che fissò nuove regole per l’elezione pontificia. La scelta fu riservata ai soli cardinali, escludendo di fatto la partecipazione dei laici, compresa quella dell’imperatore. Capitolo 11: LA CHIESA PONTIFICIA Il progetto di Gregorio VII (1073-1085) fu quello di imporre alla Chiesa un modello fortemente gerarchizzato del corpo ecclesiastico, escludendo i poteri laici da ogni ingerenza nella vita religiosa. Il papa unico vertice, e la netta separazione di stili di vita tra laici ed ecclesiastici, fondata sul celibato del clero, differiva dall’ordinamento anteriore. La nuova struttura gerarchica che enfatizzava il ruolo del papa, proponendolo come guida morale della Chiesa, minava l’autorità del potere imperiale. Fin dall’età di Costantino la Chiesa era stata integrata nell’azione imperiale, e i due poteri avevano collaborato alla guida della società cristiana. Alla fine del V secolo papa Gelasio I aveva equiparato “la sacra autorità dei pontefici e la potenza regale” nel governo dell’impero, rivendicando una sorta di preminenza del potere religioso su quello politico. La sacralizzazione del potere imperiale era però riemersa in Occidente con Carlo Magno, mediata dell’incoronazione da parte del papato. Gregorio VII diede fondamento dottrinale al primato papale attraverso un testo - redatto nel 1075 e noto come “Dictatus papae” - costituito da un insieme di proposizioni che ne definivano ruoli e funzioni. Esso ribadiva l’autorità superiore del papato sia sulla Chiesa sia sui poteri laici: solo il papa poteva istituire e deporre i vescovi, convocare i concili, giudicare e legiferare senza essere a sua volta giudicato, deporre gli imperatori, sciogliere i sudditi dall’obbedienza dei sovrani. Era così delineato il progetto di una monarchia universale delle Chiesa che fu attuato progressivamente da Gregorio VII e dai suoi successori. Il papato aveva trovato sin dal 1059 un importante appoggio politico nei normanni. Nel 1076 Enrico IV (imperatore) convocò un concilio dei vescovi tedeschi nel quale dichiarò deposto il papa, aprendo un duro conflitto. Gregorio VII reagì scomunicando l’imperatore, sciogliendone i sudditi da ogni obbedienza. Di fronte alle prime ribellioni aristocratiche Enrico IV indusse il pontefice a revocare la scomunica con un clamoroso atto di penitenza. Rilegittimato, Enrico IV riprese presto le ostilità, facendo eleggere come antipapa l’arcivescovo di Ravenna, Guiberto, e insediandolo con la forza a Roma nel 1084. Tratto in salvo dai fedeli normanni, Gregorio VII morì a Salerno nel 1085. Dopo conflitti e trattative si giunse a un accordo sottoscritto a Worms nel 1122 da Callisto II ed Enrico V. Il concordato stabiliva che l’elezione dei vescovi dovesse essere fatta Vennero a formarsi nuovi villaggi nei secoli XI-XII, si moltiplicarono i nuovi insediamenti, per iniziativa regia, signorile o cittadina, quasi sempre legata alla messa a coltura di nuove terre. L’aumento della popolazione fu un fenomeno comune a tutta l’Europa. Diversi furono però i ritmi di incremento a seconda delle aree e delle condizioni di partenza. In Italia, in Francia e nelle Fiandre la densità della popolazione fu maggiore che altrove. Più scarsa fu invece in altre regioni come la Spagna, la Germania, l’Inghilterra e l’Europa scandinava e orientale. La crescente pressione demografica costrinse a produrre una quantità maggiore di risorse, innanzitutto alimentari. Condizione favorevole fu il miglioramento naturale del clima europeo, con un’alternanza più equilibrata tra siccità e freddo e un rialzo medio delle temperature. I limiti tecnologici del tempo, nonostante alcuni progressi, resero però determinante per l’incremento della produzione agricola l’ampliamento delle superfici coltivate, avviato tra X e XI secolo e che ebbe il suo culmine nel XII. Un pò ovunque, la superficie dei campi guadagnò terreno sui boschi, sugli sterpi e sui pantani. Le zone incolte ai margini delle aziende curtensi e dei villaggi furono le prime ad essere dissodate, con il disboscamento delle sterpaglie e di porzioni di foreste, e con la bonifica dei terreni paludosi. Negli ambienti più isolati e disabitati, invece, furono inviati i coloni per mettere a coltura nuovi terreni che attiravano contadini son la promessa di esenzioni fiscali. L’iniziativa fu promossa dai grandi principi territoriali, dai signori laici ed ecclesiastici e, più tardi, delle città. All’espansione dell’agricoltura contribuì anche il miglioramento degli strumenti di lavoro e l’introduzione di nuovi sistemi di coltivazione. I progressi principali si ebbero nell’aratura con il collare rigido che poggiava sulle spalle del bue, la ferratura dei cavalli che permisero una maggiore forza di traino e l’introduzione di aratri più pesanti. A partire dal XII secolo fu introdotta anche la rotazione triennale delle terre, che metteva a riposo una parte dei campi ogni tre anni, accrescendone la fertilità. L’espansione agricola non superò però il problema dell’approvvigionamento alimentare. La produttività dei terreni non crebbe molto a causa della scarsità di concime, fu perseguita la coltura estensiva, soprattutto di cereali da pane e di colture specializzate od orientate alle produzioni di manifatture urbane. L’effetto non fu solo una minore ricchezza e varietà dell’alimentazione ma la maggiore esposizione del sistema economico locale alle annate sfavorevoli, che determinavano penuria di beni alimentari. L’espansione determinò profonde trasformazioni anche nella struttura della proprietà e nell’organizzazione del lavoro agricolo. Il dominico tese a scomparire tra XI e XII secolo, frazionato tra contadini di varia condizione giuridica. Anche le corvées cui i contadini erano stati tenuti scomparvero, sostituite da canoni in denaro. Aumentò il numero dei coltivatori concessionari di terre. L’affitto incoraggiava i contadini a produrre di più e meglio e permetteva al proprietario di aumentare la propria rendita fondiaria. Resi più autonomi, i coltivatori più intraprendenti approfittarono dell’aumento della produzione agricola e della sua commercializzazione, accumulando ricchezze. I contadini più agiati erano pieni proprietari, concessionari di terre in “dominio utile”, e affittuari di altri fondi di proprietà di aristocratici ed enti ecclesiastici. Furono essi a consolidare quelle élites rurali che dal XII secolo cominciarono ad essere attratte dalle città. Dall’XI secolo si accentuò il prelievi signorile sui contadini. L’aumento delle rendite fondiarie e della conseguente disponibilità di spesa da parte delle famiglie aristocratiche si tradusse in una domanda di beni e di servizi che creò nuovo reddito nei settori delle produzioni manifatturiere e della loro commercializzazione. Da un’economia basata esclusivamente sulle rendite agrarie si passò progressivamente a un’economia trainata dagli scambi. Merito dei signori fu anche quello di investire in infrastrutture che favorirono lo sviluppo commerciale delle campagne. Assicurando protezione e tutelando i movimenti delle persone e delle merci, i poteri signorili incentivarono la diffusione degli scambi e trassero profitto dalla vita economica del territorio sottoposto alla loro giurisdizione. Tornò ad essere curata anche la rete delle vie di comunicazione terrestri e acquee. Il trasporto sull’acqua restò più facile di quello terrestre. Lungo le vie di comunicazione si moltiplicarono i luoghi di scambio e di mercato. L’espansione degli scambi fu sostenuta da una crescente disponibilità di moneta. Alla riforma monetaria di età carolingia fece seguito la proliferazione di zecche e la moltiplicazione di emissioni di denaro, a base d’argento, per iniziativa di molti signori laici ed ecclesiastici e di alcune città. Nell’Europa del nord la domanda di moneta fu soddisfatta dallo sfruttamento delle miniere d’argento della Sassonia avviato al tempo di Ottone I. Il fenomeno dello sviluppo urbano caratterizzò un pò tutte le regioni europee a partire dai secoli X e XI. Il tessuto urbano europeo era composto da borghi che svolgevano una funzione di mercato nei confronti del territorio e nei quali viveva una popolazione di qualche migliaio di abitanti. La fitta rete di centri urbani disposti intorno al bacino fluviale del Po, lungo la via Emilia e nella Toscana centro-settentrionale, costituiva il vero cuore urbano del continente. L’eccezionale livello di urbanizzazione raggiunto in queste aree dipese da vari fattori. In primo luogo dall’eredità romana, cui aveva fatto seguito, nei secoli prima del Mille la mantenuta importanza politica e amministrativa di molte città. Inoltre, i centri urbani lombardi e toscani erano distribuiti lungo grandi assi di comunicazione che inserivano le attività manifatturiere e commerciali locali in una rete di traffici a lunga distanza. Caratteristica comune dello sviluppo urbano fu la sua stretta connessione con le attività manifatturiere e commerciali. I mercanti e gli artigiani vi acquistarono un peso politico rilevante che li affiancò, talora contrapponendoli, all’aristocrazia legata alla terra. Nelle città medievali gli abitanti delle città si differenziavano invece da quelli delle campagne per una mancata divisione del lavoro: mentre in ambito rurale continuarono a prevalere i lavori legati all’economia agricola, nelle città si svilupparono attività legate alla produzione manifatturiera, al commercio, alle professioni giuridiche, all’insegnamento. La forza espansione urbana trasse la sua forza dalla continua immigrazione verso le città, per l’attrazione esercitata dalle prospettive di migliori condizioni di lavoro e di vita. La residenza stabile in città rendeva i suoi abitanti dei “cittadini” differenziati per condizione economica e status giuridico dai lavoratori delle terre e dall’aristocrazia signorile. La città importava dalla campagna prodotti agricoli, materie prime e manodopera. La campagna aveva a sua volta bisogno dei prodotti cittadini. Mentre le città italiane erano quasi tutte di origine romana, quelle del nord si erano sviluppate di recente intorno a borghi, porti e mercati. Rispetto a quest’ultime, abitate quasi esclusivamente da mercanti e artigiani “borghesi”, l’articolazione sociale delle città italiane era molto più varia, comprendendo anche proprietari fondiari, titolari di diritti signorili, giudici, notai ecc. Le nostre città mantennero sempre una funzione di centralità ecclesiastica, amministrativa, economica rispetto al territorio, mentre le città del nord furono quasi ovunque isole protette da privilegi economici, fiscali e amministrativi, separate dal territorio circostante. Dal X secolo si ritorna alle costruzioni di edifici in pietra che richiedevano maggiori capacità tecniche. Intenso fu lo sviluppo delle tecniche di estrazione e di lavorazione dei metalli, per la manifattura degli strumenti agricoli e delle armature per i cavalieri. Nelle campagne si diffuse dall’XI secolo il mulino ad acqua, che consentì di utilizzare l’energia idraulica per molte attività. Dal XII secolo si diffusero sulle coste atlantiche anche i mulini a vento. Nella città si svilupparono gruppi di artigiani specializzati, organizzati in corporazioni. Gli scambi locali e regionali furono ovunque rafforzati. I mercati dei centri rurali e delle città cominciarono però ad interagire progressivamente con la ripresa dei grandi commerci a lunga distanza, favoriti dalla maggiore cura delle vie di comunicazione e da miglioramenti tecnici nei trasporti. Portolani = carta marittima di porti e scali. Diverse regioni europee si trovarono a essere collegate tra loro da scambi commerciali che erano sostenuti da una crescente domanda di beni alimentata dai consumi aristocratici e urbani. Le sedi delle corti sovrane (Parigi, Londra, Palermo) e le maggiori città italiane divennero grandi centri di consumo di beni e prodotti del commercio internazionale. Venne così delineandosi una pluralità di aree di specializzazioni differenti, ma complementari e integrabili, che si estendevano a tutta Europa e che costituiva un sistema economico tendenzialmente unitario. Per la posizione geografica al crocevia dei flussi di scambi tra Oriente e Occidente e tra nord e sud Europa, i mercati italiani (Amalfi, Napoli, Pisa, Genova e Bari) furono gli iniziali protagonisti dell’espansione commerciale. A esse si affiancò presto Venezia che finì con l’ottenere nel 1082 da Bisanzio la libertà di commercio in tutto il territori dell’impero e divenne lo snodo principale dei traffici mercantili tra l’Europa continentale e il Mediterraneo. Fra XI e XII secolo le città marinare italiane acquistarono un sostanziale monopolio dei commerci mediterranei, scalzando i mercanti greci, ebrei e musulmani. Nell’Europa del nord i traffici gravitavano intorno al Mare del Nord e al Baltico. Accanto ai mercati permanenti i luoghi principali degli scambi diventarono le fiere, cioè i mercati periodici. Capitolo 13: LA DIFFUSIONE DEI RAPPORTI FEUDALI L’aristocrazia sviluppò un sistema di rapporti fondati sullo scambio tra fedeltà e protezione attraverso la concessione di un beneficio. Si usano distinguere perlomeno due fasi di evoluzione di questo sistema. Nella prima, che durò fino al X secolo, i rapporti vassallatico-beneficiari servirono da collante dell’ordinamento pubblico. Nell’impero carolingio i vassalli non erano ufficiali del regno, ma l’imperatore scelse i conti, i marchesi e i missi principalmente tra i suoi vassalli, proprio per poter contare su personaggi di fiducia. Il vassallo non poteva esercitare le funzioni pubbliche sulle terre ottenute in beneficio, ma gli erano concesse solo come compenso economico della sua fedeltà militare. Fu solo con la dissoluzione dell’Impero tra IX e X secolo che le grandi famiglie aristocratiche resero ereditiere sia le cariche pubbliche sia i benefici. La seconda fase dei rapporti vassallatico- beneficiari si aprì nell’XI secolo quando tali legami si rivelarono uno strumento utile per collegare tra loro i nuclei di potere dispersi. Da quel momento i rapporti vassallatici mutarono definitivamente, trasformandosi da legami di fedeltà personale di tipo militare in raccordi di tipo eminentemente politico. Il termine “feudo” venne sostituendosi a quello di “beneficiario”, per questa età è dunque appropriato parlare di rapporti di tipo feudale. Tra XI e XIII secolo si ha un processo di ricomposizione dei poteri territoriali. Strumento principale della ristrutturazione in quadri politici più ampi furono le relazioni feudali, che sancirono e legittimarono in forme nuove i rapporti di potere. Il feudo divenne lo strumento preferenziale di concessione di diritti pubblici e ciò consentì di coordinare intorno a nuove gerarchie poteri locali che il feudo divenne sempre più chiaramente parte del patrimonio del vassallo, trasmissibile per via ereditaria e revocabile solo in casi eccezionali di infedeltà. Il coordinamento dei signori locali fu accompagnato dal XII secolo dall’elaborazione di un vero e proprio diritto feudale. I giuristi contribuirono a chiarire l’intricata materia dei rapporti secondo principi di delega dei poteri. Venne creandosi una rete di relazioni feudali che raccontava tra loro tutti i poteri. Nel XII e nel XIII secolo giuristi e consiglieri di re e imperatori cominciarono a elaborare lo schema ideologico di una struttura piramidale del potere, discendente da un unico grande centro erogatore di legittimità: il sovrano. È però un errore credere che essa corrispondesse a una realtà di fatto: si trattava solo di un modo di descrivere la gerarchia dei poteri elaborata dai giuristi e a partire dal XIII secolo. Il rapporto tra signore e vassallo era un rapporto tra pari. Durante il rito entrambi stavano in piedi, il senior prendeva fra le sue le mani del vassus, questi gli giurava fedeltà, frequente era lo scambio di un bacio. L’addobbamento cavalleresco, invece, non era un rapporto tra pari, bensì una promozione sociale che un membro della nobiltà compiva a vantaggio di un uomo di sua fiducia. Il rito prevedeva il futuro cavaliere genuflesso davanti al signore che gli consegnava la spada e il cinturone, inferendogli simbolicamente un colpo con il palmo della mano o con la spada stessa. La consacrazione papale rafforzava l’autorità dei regnanti che grazie al legame feudale non erano costrutti a rinunciare alla piena sovranità sui propri territori. Attraverso la gerarchia feudale il papato poteva così proporsi al vertice della società cristiana. Sin dall’età carolingia l’impero aveva fatto ampio ricorso alle fedeltà vassallatiche per
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