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RIASSUNTO MANUALE "STORIA MEDIEVALE" DI L. PROVERO, M. VALLERANI, Sintesi del corso di Storia Medievale

Riassunto completo e dettagliato del manuale di Storia Medievale di Provero e Vallerani per l'esame di Storia Medievale

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

Caricato il 15/01/2019

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Scarica RIASSUNTO MANUALE "STORIA MEDIEVALE" DI L. PROVERO, M. VALLERANI e più Sintesi del corso in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! STORIA MEDIEVALE, di Luigi Provero e Massimo Vallerani Introduzione Le forme del dominio È noto che il medioevo è una convenzione storiografica creata artificialmente, un contenitore di processi politici, sociali e religiosi estremamente diversificati, letti e selezionali dagli storici in modi molto differenti uno dall’altro. Il medioevo non è la tappa di un processo predefinito della società europea, ma un intreccio di eventi e di struttura d ricostruire, caso per caso, nel proprio significato storico. La storia totale non è semplicemente una storia che ricostruisce ogni manifestazione della vita umana, dal punto di vista delle strutture sociali, materiali, politiche, culturali, religiose. La via più efficace per delineare il periodo medievale è individuare quella che due importanti storici francese, Jacques Le Goff e Pierre Toubert, hanno definito una “struttura globalizzante”, ovvero un elemento fondamentale attorno al quale si collegano i diversi sviluppi della vita associata. La storia totale deve avere come oggetto la comprensione dei legami esistenti fra queste strutture fondamentali e le altre componenti di una società. L’idea che percorre il libro è dunque quella di dominio: termine con cui non intendiamo solo i modi della sottomissione politica, che pure sono necessari per definire le gerarchie sociali, ma anche i meccanismi che potevano assicurare un controllo ampio della vita associata. L’attenzione alla trasformazione dei quadri socio-politici del medioevo ha messo in luce alcune relazioni dinamiche che ricorrono con maggiore frequenza: ■ Rapporti tra re e aristocrazie ■ Rapporti tra aristocrazia e chiesa ■ Rapporti tra intellettuali e potere ■ Rapporti tra contadini e signori La trattazione ha inizio nel IV secolo, quando si avviano alcuni importanti mutamenti del mondo romano, con l’affermarsi del Cristianesimo ai vertici imperiali e una connotazione sempre più barbarica dell’esercito; per terminare al XV secolo, al momento della formazione degli Stati nazionali e regionali che, pur nella loro instabilità, divennero gli elementi di base della dinamica politica europea nell’età moderna. Il quadro di riferimento dominante è senza dubbio l’Europa occidentale. Al suo interno, tuttavia, la specifica realtà italiana assume, a tratti, un rilievo maggiore: come per il regno longobardo tra VI e XIII secolo; per la formazione dei comuni cittadini tra XI e XIII secolo; per gli Stati regionali e le compagini monarchiche dell’Italia meridionale fra XIII e XV secolo. Parte prima La trasformazione del mondo romano Introduzione L’idea di medioevo nasce quando il medioevo finisce: furono gli umanisti, a partire dal XV secolo, a individuare un periodo di mezzo (una “media aetas”) che si frapponeva tra loro e l’età classica, a cui volevano richiamarsi. Si affermava la propria diretta discendenza dalla cultura classica e connotare il millennio precedente come un intermezzo, un periodo di barbarismi e di declino linguistico e culturale, una rottura che andava sanata. Gli uomini del Rinascimento, formati in una cultura che vedeva nello Stato il modello politico più alto, guardavano con perplessità e disprezzo il medioevo, e soprattutto i suoi ultimi secoli, con l’altissima frammentazione dei poteri di cui gli Stati rinascimentali apparivano come una cura. La nozione di medioevo resta utile perché indica un periodo che si colloca tra due fasi di profondo mutamento pressoché di tute le forme della vita associata: da un lato la trasformazione del mondo romano, tra IV e VI secolo; dall’altro la formazione dell’Europa moderna, un migliaio di anni dopo. All’inizio del Vi secolo pressoché associato erano diverse rispetto a due secoli prima: si rispondeva a poteri diversi, si erano diffuse lingue nuove, si credeva in un Dio diverso, nella vita quotidiana si usavano per lo più oggetti di produzione locale, le città erano più piccole. Date che segnano il mutamento sono: ■ 476, che segna la fine dell’Impero d’Occidente, che esprime l’idea che la struttura fondante del mutamento sia rappresentata dalle istituzioni più alte, dal titolo imperiale; ■ 410, il sacco di Roma da parte dei Visigoti, che privilegia una lettura etnico-militare, con la libera mobilità dei popoli barbarici nei territori dell’Impero; ■ 324, la fondazione di Costantinopoli, che evidenzia i quadri territoriali e istituzionali, con la creazione di una nuova capitale alternativa a Roma; ■ 313, l’editto di Milano, che indica nel mutamento religioso il fattore più connotante. Capitolo 1. L’Impero cristiano Il cosiddetto tardo-antico è visto come un periodo con suoi propri connotati, in un complesso e innovativo equilibrio tra la dimensione regionale del mondo romane, le istanze del governo centrale, la progressiva penetrazione di nuove popolazioni nei territori imperiale e nuove forme religiose. È una fase di intensi confronti tra diversi modelli di civiltà e di spiritualità, per lo studio della quale tuttavia dobbiamo scontare importanti effetti distorsivi dovuti alle fonti disponibili, poiché: da un lato le narrazioni di parte cristiana del confronto tra pagani e cristiani hanno rapidamente messo in secondo piano le posizioni pagane; dall’altro lato lo scontro tra mondo romano e popolazioni barbare è narrato da testi esclusivamente di ambito romano. ■ 1. Il sistema imperiale tardoromano: potere e prelievi Un momento fondamentale di transizione nella storia romana si ebbe attorno alla fine del II secolo d.C., quando sostanzialmente terminò l’espansione militare dell’Impero, che si stabilizzò nei confini segnati, in ambito europeo, dal limes del Reno e del Danubio. Da qui si può far iniziare l’Impero tardoantico. L’Impero non era in alcun modo uno spazio di civiltà omogeneo, riuniva popolazioni molto diverse tra loro, che però esano coordinate da una straordinaria macchina statale, fiscale e militare. Il potere imperiale fu ripristinato con forza sotto Diocleziano, che pose fino ai decenni di anarchia militare e riaffermò un efficace controllo sull’intero territorio, condividendo il potere a parte dal 285 con Massimiliano, in quella che fu chiamala la diarchia: una condivisione delle responsabilità all’interno di una chiara e indiscussa superiorità di Diocleziano. Tuttavia si cogli qui l’avvio di una lenta tendenza alla presa d’atto di una complessità dello spazio politico-militare dell’Impero. Nessuno dei due risiedette a Roma, che da questo momento iniziò lentamente a perdere le funzioni di unica capitale, restando però sempre sia il centro simbolico dell’Impero, sia la sede del Senato. Questa polarizzazione tra Oriente e Occidente si accentuò quando la diarchia divenne una tetrarchia, con due Cesari che affiancarono i due Augusti, le cui responsabilità assunsero un più chiaro connotato territoriale. Due furono i passaggi fondamentali nel corso del IV secolo: a. La fondazione di Costantinopoli. Sull’antica città di Bisanzio, imperatore Costantino nel 324 decretò di fondare una città nuova, a cui diede il nome di Costantinopoli, che nacque subito come residenza imperiale, poi si affermò come punto di riferimento forte del potere imperiale nel Mediterraneo orientale. L’ulteriore anomali di Costantinopoli fu rappresentata dalla presenza di un Senato, ente che da sempre rappresentava il fondamento primo del potere romano e che quindi sembrava connotare la nuova città come una capitale, una nuova Roma. Il Senato di Costantinopoli era solo una sorta di appendice del Senato di Roma, era l’assemblea di quei senatori che erano attenti alle aree orientali dell’Impero. Solo in seguito, a partire dal V secolo, Costantinopoli divenne una vera e propria capitale (residenza stabile dell’imperatore, sede di un vero Senato). b. Il regno di Teodosio e la sua successione. Questa maturazione di Costantinopoli come capitale fu peraltro resa possibile anche dalla divisione stabile tra una parte orientale e una parte occidentale, che si realizzò nel 395 con la successione a Teodosio I, che prese atto che un efficace controllo di territori così diversificati e così duramente minacciati sul piano militare avrebbe richiesto una presenza diretta dell’imperatore, possibile solo con una 1 spartizione che affidasse a ogni sovrano un territorio di dimensioni più contenute. I figli Arcadio e Onorio ottennero così rispettivamente l’Oriente e l’Occidente, ed è quindi dai decenni a cavallo tra IV e V secolo che è corretto ragionare in termini di Impero orientale. Una macchina statale complessa come quella imperiale richiedeva un afflusso costante di denaro, per sostenere: ■ La burocrazia, che costituiva il capillare sistema di controllo diffuso su tutto il territorio imperiale; ■ La capitale, sia perla sua burocrazia centrale, sia per il rifornimento di cibo gratuito o a prezzo contenuto che gli imperatori garantivano agli abitanti liberi di Roma; ■ L’esercito, che rappresentava un costo rilevante anche perché si trattava di un esercito stipendiato. Queste tre voci di spesa erano sostenute da un prelievo discale capillare, il cui cespite principale era costituito dall’annona, l’importa che gravava sulle popolazioni rurali in base sia all’estensione delle terre, sia al numero di contadini presenti su di esse. Erano tassati quei cittadini che disponevano di beni fondiari nelle campagne; ma soprattutto le città avevano un ruolo fiscale centrale perché i curiales (membri dell’assemblea cittadina) erano incaricati di riscuotere l’importa nel territorio circostante e di girarla all’apparato imperiale; essi erano responsabili di questa importa e dovevano intervenire in prima persona in caso di riscossione insufficiente o tardiva. Questo meccanismo fiscale costituiva la struttura portante di un sistema di circolazione economica che attraversava l’interno Mediterraneo e l’Europa; era l’espressione concreta della capacità romana di integrare province così lontane e diverse. Se quindi possiamo parlare di un’intensa circolazione economica tra le diverse sponde del Mediterraneo, dobbiamo intenderla come circolazione fiscale, fatta di moneta e di beni di primo consumo. Il sistema fiscale comportò un grande impegno imperiale per il funzionamento delle infrastrutture e per la sicurezza della navigazione, ovvero pose le condizioni per uno sviluppo anche della circolazione commerciale. La peculiarità dell’età imperiale risiede nel fatto che queste regione erano economicamente interdipendenti: alcune aree si nutrivano regolarmente in base ai prodotti agrari di regioni lontanissime. Il tardoantico fu caratterizzato da alcune specifiche evoluzioni. La fine dell’espansione militare (databile alla seconda metà del II secolo d.C.) determinò anche la fine di un’espansione economica che era stata accelerata dalle conquiste, che avevano garantito l’afflusso di bottino e la disponibilità di un’abbondante manodopera servile. Questa evoluzione cambiò da molti punti di vista l’economia romana, con un declino delle funzioni economiche della schiavitù, che non rappresentò più la base del sistema produttivo. Per quanto riguarda le esigenze economiche dell’Impero, il contesto politico-militare fece sì che non fossero comprimibili le spese militari, sempre ingenti a causa della pressione continua di diversi popoli sul limes. SI produsse sempre più moneta riducendo l’intrinseco, ovvero la quantità di metallo prezioso effettivamente contenuto nella singola moneta e questo andò a colpire soprattutto i ceti più poveri, che si trovarono in mano monete di valore sempre minore. Al contempo cambio il rapporto tra l’Italia e le province, con la prima che perdette progressivamente la propria rilevanza produttiva, divenendo soprattutto luogo di consumo. Il sistema fiscale e commerciale fu strutturato attorno ad un flusso di derrate e manufatti che dalle periferie andavano verso il centro, o verso quelle aree dell’Impero (come il limes) per le quali il potere centrale aveva un continuo bisogno di risorse. ■ 2. L’esercito, il limes, i barbari In età tardoantica l’esercito era uno dei capitoli di spesa più onerosi per lo Stato. Il costo era altri prima di tutto perché si trattava di un esercito stipendiato: la coscrizione obbligatoria era progressivamente tramontata a favore di una tassa sostitutiva che i grandi proprietari pagavano per esentare dal servizio i propri coloni e quindi garantirsi la mano d’opera sulle proprie terre. L’Impero era in grado di nutrire, equipaggiare e stipendiare l’esercito. Nel corso del IV secolo, si definirono due settori fondamenti dell’esercito: i comitatenses, la forza mobile incaricata di accompagnare l’imperatore, e i limitanei , le guarnigioni poste a difesa del confine. Il limes è una struttura chiave, perché fu qui che si sviluppò il confronto tra i Romani e le popolazioni barbariche che nel corso del V secolo presero il potere nei diversi settori dell’Impero occidentale. Il limes è quella linea che, seguendo il corso del Reno e del Danubio, tagliava il continente europeo da nord-ovest a sud-est. Esso era costituito da una serie di fortificazione destinate a definire e proteggere una linea di confine, appoggiandosi sulla frontiera naturale suggerita dal corso dei due grandi fiumi. È utile pensare al limes come a un’apia fascia di incontro, scontro e scambio tra le popolazioni inquadrate nell’Impero e quelle che se ne tenevano all’esterno. Possiamo dire che le popolazioni barbare fuori dal limes erano alla periferia del sistema romano: estranee alla piena sottomissione politica, ma fortemente condizionate dalla presenza militare dell’Impero, dalle opportunità che esso offriva e anche da alcuni modelli di civiltà. La definizione di “barbari” era nata per indicare quelli che non parlavano bene greco (poi latino), ed era quindi un termine carico di elementi di giudizio, ma erano “barbari” perché non erano “Romani”, non erano pienamente assimilati alle popolazioni comprese nell’Impero. Un’altra possibile definizione per questi gruppi è quella di “Germani”, termine che non nasce da un giudizio negativo, ma da alcune fondamentali affinità di costumi e di lingua. Lungo la seconda metà del XX secolo, la medievalistica Europa ha completamente rinnovato la questione dell’identità etnica di questi gruppi. Studiosi hanno mostrato come questa identità non fosse un dato stabile e permanente, ma l’esito di una continua rielaborazione, una costruzione sociale e culturale a cui si è dato il nome di “etnogenesi ”, ovvero “costruzione dell’etnia”, “costruzione dell’identità di un popolo”. Non è quindi sbagliato usare i nomi dei popoli, seguire i loro spostamenti nei territori dell’Impero, a patto di essere sempre consapevoli che non si trattava di gruppi perfettamente omogenei e stabili, di solidarietà costruite su base etnica ed ereditaria; erano invece strutture estremamente mobili, confederazioni di gruppi tribali che si riunivano e si sfaldavano al seguito dei re più abili nel guidarli alla ricerca di bottino. Nell’Impero c’erano grandi ricchezze grandi opportunità, soprattutto per uomini ben addestrati a combattere: l’esercito romano aveva continuamente bisogno di uomini, ed era pronto non solo a stipendiare i soldati, ma anche a promuovere i migliori, senza dar molto peso alle differenze di lingua o di origine etnica. La mobilità dei gruppi barbari nacque da una ben specifica opportunità per usare le proprie capacità, mettere la propria fora militare al servizio di chi di questa forza aveva bisogno. Lungo il III e soprattutto il IV secolo non solo individui, ma anche gruppi organizzati si inserirono nell’esercito romano e nei territori dell’Impero, con accordi di vario tipo e con vari nomi, ma alla cui base c’era sempre lo scambio tra una quota di ricchezze e la forza militare posta al servizio dell’Impero. Spesso l’esercito romano fu per questi gruppi un contesto di elaborazione identitaria, soprattutto quando la penetrazione dei barbari nell’esercito romani si sviluppava per gruppi tribali o per interi popoli, che entravano a far parte dell’esercito come corpo organizzato, conservando le proprie gerarchie e i propri capi. In generale, l’inserimento nell’esercito romano non si limitò ai libelli più bassi, ma portò singoli capi barbari a ricoprire cariche di rilievo, fino ai massimi vertici dell’esercito. Il capillare processo di penetrazione di gruppi barbarici entro l’Impero si protrasse a lungo, durante il III e soprattutto il IV secolo, spesso senza che emergessero grandi conflitti, e soprattutto senza che questo implicasse una forma di invasione, un crollo del limes. La battaglia di Adrianopoli del 378, quando i Visigoti indussero l’imperatore Valente ad attaccarli, è considerata una data chiave per il fortissimo imbatto che ebbe nell’immaginario collettivo, con la morte dell’imperatore sul campo di battaglia, e perché la reazione alla sconfitta segnò una netta divaricazione tra Oriente e Occidente. Se l’Impero non poteva rinunciare alla forza armata costituita dai soldati di origine barbarica, cambiarono in Oriente le forme del loro inquadramento: un inserimento diffuso e soprattutto la scelta di impedire l’ascesa di capi limitari barbari ai vertici dell’esercito. Questa linea di tendenza si andò definente nei primi decenni del V secolo in Oriente, mentre non fu praticabile in Occidente, dove le strutture del potere imperiale erano più indebolite- Sono gli anni in cui si avviò nel modo più netto la differenziazione tra le due parti dell’Impero, sancita dalla divisione tra i figli di Teodosio I. Di fatto, il limes renano perse efficace e soprattutto nell’inverno tra il 406 e il 407 importanti gruppi armati poterono entrare nei territori imperiali. L’esito più appariscente fu senza dubbio il sacco di Roma del 410, la violazione del centro reale e simboli dell’Impero che da secoli nessun nemico aveva mai colpito. Dal punto di vista degli assetti politici, la crisi fu una brusca accelerazione di un processo più lungo, che tra IV e V secolo determinò una riduzione dello spazio di effettiva capacità di azione 2 - il modello politico era efficace perché all’interno dei regni, a affiancare e consigliare i re, erano ampiamente presenti vescovi e funzionari di origine e cultura romana. Un punto chiave fu la circolazione economica indotta dallo Stato, attraverso le forme di prelievo e redistribuzione. I regni non avevano bisogno di impegnarsi nel compito difficile e impopolare di prelevare le tasse. Basta per questo ricordare che le tasse in età imperiale servivano per sostenere la capitale, la burocrazia e l’esercito: i regni romano-germanici non avevano una capitale; anche la burocrazia era un apparato più leggero di quello romano e infine l’esercito non era più costituito da professionisti stipendiati, ma dall’insieme del popolo e dalla sua élite, ricompensati dal re con concessioni di terre anziché con stipendio. Proprio questa modalità fu l’affermazione di un ideale sociale ed economico romano, perché l’idea che per essere ricchi occorresse possedere molte terre derivava da modelli mediterranei e romani, certo non dalle tradizioni germaniche. Tra V e VI secolo, quasi tutti i regni rinunciarono progressivamente a prelevare le tasse, e quindi si interruppe quello che in età imperiale aveva costituito il principale motore della circolazione economica. I nuovi regni erano più poveri dell’Impero; erano più poveri i re, che non disponevano dello straordinario flusso di ricchezze di origine fiscale; ed erano più povere le aristocrazie, perché non esistevano più gli immensi patrimoni delle famiglie senatorie. Nel complesso, i mutamenti economici furono esito prima di tutto delle trasformazioni sul piano degli assetti politici: la transizione dall’Impero ai regni implicò prima di tutto l’abbandono del sistema romano di tasse e stipendi, con il passaggio a forme di remunerazione che misero al centro la terra. Questo implicò sia una minore quantità di ricchezza disponibile per i re, sia il declino delle funzioni delle città sul piano fiscale e politico, sia infine un forte calo degli scambi interregionali. ■ 3. L’Italia ostrogota Odoacre, una volta deposto l’imperatore Romolo Augustolo, costruì un sistema di potere equilibrato ed efficiente, fondato su una piena collaborazione con l’aristocrazia senatoria, tutelando le sue enormi proprietà fondiari e il controllo degli incarichi pubblici e amministrativi. L’Italia tra il 476 e il 489 continuava a essere un mondo dominato da un’amministrazione di stampo romano e protetto da un esercito germanico stipendiato grazie alle tasse. Odoacre espresse la natura del suo potere attraverso un doppio titolo: • “patricius”, titolo che evocava la sua volontà di inserirsi nella gerarchia romana; • “rex gentium”, che esprimeva efficacemente il suo dominio sull’insieme dei popoli che costituivano il suo esercito. Questo potere efficace fu travolte dall’invasione ostrogota, che deve essere vista come prima di tutto un’iniziativa imperiale. L’imperatore Zenone non aveva accettato il dominio di Odoacre e non lo ritenne un affidabile mediatore della presenta imperiale in Italia. Zenone si propose di riottenere un controllo indiretto dell’area sollecitandone la ocnquista da parte del popolo degli Ostrogoti, da tempo stanziato ai margini dell’Impero, con cui intratteneva un rapporto inteso e a tratti conflittuale. Fu quindi su indicazione di Zenone, che Teoderico nel 489 scerse in Italia alla guida degli Ostrogoti, a cui si unirono nel corso della spedizione altri gruppi. Questo processo mette particolarmente in chiaro come le identità etniche in questi secoli fossero quanto mai fluide, legate alle scelte individuali e del gruppo, più che a una discendenza di sangue. Dopo alcune sconfitte, Odoacre fu abbandonato dall’aristocrazia senatoria e si rifugiò a Ravenna, dove resistette a lungo, fino a che nel 493 fu convinto ad arrendersi a Teoderico. Il governo di Teoderico si fondò sull’integrazione tra il controllo militare dei Goti e un’amministrazione civile di stampo romano, controllata dalla stessa élite che l’aveva gestita in età imperiale e sotto Odoacre. Vediamo come la dominazione barbarica rappresentasse una fase di sostanziale continuità per le popolazioni italiche, governate da un’amministrazione romana, protette da un esercito germanico e sottoposte a una regolare imposizione fiscale destinata a mantenere tale esercito. Le popolazioni italiche non subirono quindi alcuna trasformazione radicale degli stili di vita nelle transizioni dall’Impero a Odoacre e poi agli Ostrogoti. Furono invece questi ultimi a trasformare profondamente le proprie forme di vita: si trovarono nel pieno centro del mondo romano, a controllare militarmente una massa enorme di ricchezze, all’interno di una riconosciuta e sostanzialmente pacifica egemonia imperiale. L’esercito goto e l’amministrazione romana trovavano un nesso diretto nella figura del re e nel suo consistorium, il consiglio ristretto formato da goti e Romani, che affiancava il re. Nel complesso del regno, i due popoli furono tra loro complementari, ma non integrati, non realizzarono una simbiosi. Questo accordo con il sistema aristocratico romano trovò un’espressione rilevante sul piano religioso. Gli Ostrogoti e il loro re erano di religione ariane e si trovarono a convivere con una popolazione italica in cui non solo la fede cattolica era maggioritaria, ma in cui si stava consolidando un sistema di dominio sociale ed economico delle chiese. La scelta di Teoderico fu quella di conservare la propria fede ariana, ma al contempo porsi come protettori di tutte le chiese presenti nel regno, ariane e cattoliche: fu un passo necessario a completare il quadro di cooperazione con l’aristocrazia romana. Gli anni di Teoderico furono segnati da una notevole stabilità del potere regio, e questo consentì un suo ampliamente al di là dei confini italici: da un lato si affermò oltre le Alpi orientali; dall’altro, costruì una rete di rapporti con gli altri regni romani germanici che gli permise di porsi in una posizione egemone su larghe parti d’Europa. La debolezza strutturale del regno ostrogoto era però rappresentata dalla mancata integrazione tra Romani e Goti, quel processo che invece si avviò in ambito visigoto e si realizzò in pieno nel regno franco. La principale garanzia di stabilità era costituita dal potere regio e dal suo rapporto di collaborazione con l’aristocrazia senatoria; quanto questo rapporto entrò in crisi, fu l’intero assetto politico a vacillare. Possiamo individuare l’emergere della crisi del 518, quando l’imperatore Giustino avviò una serie di persecuzioni ai danni degli ariani, a cui Teoderico rispose con analoghe persecuzioni contro i cattolici. Questa fu l’espressione di una crisi più profonda, dovuta alla rottura della cooperazione tra il regno e l’aristocrazia senatoria, che si stava riavvicinando all’Impero. Tutto si tradusse in guerra aperta solo dopo la morte di Teoderico, quando le lotte per la corono indebolirono ulteriormente il regno ostrogoto. ■ 4. Anglosassoni, Vandali e Visigoti 4.1 Anglosassoni L’influsso della cultura e dei modelli istituzionali romani fu rilevante anche al di là del limes, a comprendere terre mai romanizzate, come la Scozia e l’Irlanda. Ma questo influsso si interruppe molto presto, attorno al 410, quando i Romani abbandonarono definitivamente le isole. Gli scavi hanno evidenziato un netto impoverimento e una semplificazione degli edifici e dei reperti, con la fine delle villae, una profonda crisi dell’urbanesimo e la scomparsa de un artigianato su larga scala. La fine del dominio imperiale in Britannia fu accompagnata da una serie di incursioni di popolazioni sassoni, provenienti via mare dal nord dell’attuale Germania, che via via trasformarono le proprie azioni di saccheggio in insediamenti stabili. SI andò costruendo una struttura politica altamente frammentata, una miriade di piccole dominazioni caratterizzate da un alto tasso di conflittualità e dalla superiorità locale di un’aristocrazia ben più povera che in altri regni germanici. La spinta militare anglosassone marginalizzò le popolazioni di tradizione celtica, che si concentrarono nella Scozia meridionale, nel Galles e nell’Inghilterra sudoccidentale. Al contempo, la conquista anglosassone ridusse il peso della Chiesa cristiana, pur senza cancellarla del tutto: non solo il clero ebbe un ruolo politicamente trascurabile, ma la stessa religione cristiana subì un profondo regresso. Fu una rottura profonda, evidente sul piano economico, ma anche su quello politico, dato che le strutture altomedievali di governo dell’isola non si costruirono sulla base di una rielaborazione delle strutture romane, come avvenne sul continente. L’Irlanda fu sempre al di fuori del dominio imperiale e non sviluppo mai un modello insediativo e organizzativo fondato sulle città; al contempo, l’isola non subì le invasioni sassoni che avevano trasformato la struttura politica della Britannia. Il re era incaricato di guidare la popolazione, ma agiva sulla base di norme che non aveva il potere di modificare. La frammentazione politica si riflesse nel processo di cristianizzazione, che si sviluppo lentamente, regno dopo regno: non esisteva qui un re dominante, in grado di trascinare l’interno popola alla nuova fede. Assunsero un peso particolare i 5 grandi monasteri, che non furono solo luoghi di preghiera e di perfezionamento spirituale dei monaci, ma anche centri per la cura delle anime, ovvero per la pastorale e per il controllo dei fedeli. In pratica, qui gli abati assunsero anche le funzioni vescovili. 4.2 Vandali I Vandali si erano stanziati nella penisola iberica nel 417, ma nel 429 sotto la guida di Genserico, attraversarono lo stretto di Gibilterra e si imposero sulle ricche e poco militarizzate terre africane, prima nel settore più occidentale dell’Africa romana. Fu il primo popolo germanico a costituire un regno totalmente autonomo all’interno dei territori già imperiali, ben prima di Odoacre o dei Franchi di Clodoveo; e fu l’unico popolo il cui stanziamento non posse accompagnato da alcuna forma di trattativa con l’Impero. La rottura più evidente avvenne sul piano religioso, su cui si sviluppo una dura contrapposizione tra i Vandali ariani e gli Africani di tradizione romana e di fede cattolica. I Vandali condussero ampie persecuzioni ai danni delle chiese, sia perché erano detentrici di grandi ricchezze e quindi ottime prede per il saccheggio, sia per motivi propriamente religiosi. D’altronde, il significato della parola “vandalo” è frutto di una cattiva stampa di cui questo popolo godette presso tutti gli intellettuali cattolici, inorriditi dalla violenza delle persecuzioni, che non avevano pari nei territori già imperiali. L’Africa vandala fu però un contesto di stabilità dal punto di vista economico e soprattutto fiscale. I Vandali continuarono a prelevare le tasse secondo un modello pienamente romano, con esiti importanti per quanto riguarda la distribuzione della ricchezza. Con il distacco dell’Africa dall’Impero, le tasse prelevate in questa ricca regione non andarono più a sostenere le ingenti spese del governo imperiale. Le tasse quindi non uscivano dal regno né dovevano essere incanalate in grandi spese statali: il risultato fu che i re vandali accumularono notevoli ricchezze nel corso del secolo del loro dominio africano. La conquista vandala segnò una rottura profonda per l’insieme dell’Impero occidentale, che si trovò a non poter più disporre delle ricchezze provenienti dalle tasse africane. Tuttavia, la fine del sistema fiscale imperiale non fu priva di conseguenze anche per l’economia africana: comportò un calo della domanda e innescò quindi un calo produttivo che mutò strutturalmente i funzionamenti economici della regione. Al contempo, la forza discale ed economica del regno vangalo non implicò un’analoga solidità sul piano politico-militare, probabilmente propria a causa della mancata integrazione dei diversi popoli. 4.3 Visigoti Nel processo di insediamento dei Visigoti nei territori imperiali, possiamo distinguere approssimativamente tre fasi: • 400-500: stanziamento tra il sud della Gallia e la penisola iberica; • 500-550: riduzione del proprio dominio a nord dei Pirenei a favore dei Franchi; • 550-600: consolidamento della propria presenza nella penisola iberica ed elaborazione di nuove forme di governo. Il primo insediamento stabile nello spazio politico romano risale al 418, quando i Visigoti si stanziarono come federati nella regione attorno a Tolosa, nella Gallia meridionale. Dal punto di vista degli equilibri territoriali, un passaggio chiave fu la battaglia di Vouillé, nel 507, quando il re franco Clodoveo sconfisse e uccise il visigoto Alarico II. Nel complesso, fino alla metà del VI secolo, il dominio visigoto appare segnato da una ripresa di modelli politici romani, ma anche da una notevole instabilità e da una semplificazione economica, caratterizzate da una forte frammentazione dei circuiti commerciali. Capitolo 3. La simbiosi franca I Franchi furono quelli che svilupparono con la massima efficacia l’incontro con le popolazioni di tradizione romana, realizzando una vera e propria simbiosi, un’unione profonda a costituire un nuovo popolo, in grado di integrare e sviluppare diverse culture politiche e inoltre, i Franchi furono coloro che riuscirono ad affermarsi come il regno più potente d’Europa. ■ 1. Clodoveo Il punto di partenza più ovvio per trattare del regno franco sembrerebbe Clodoveo, il re che tra V e VI secolo affermò il proprio dominio su gran parte della Gallia, tanto che Clodoveo (Clovis, Louis) fu il nome più utilizzato dai re di Francia, fino a Luigi XVIII. Il suo potere nacque da una lenta ascesa all’interno di territori in cui i Franchi erano stanziati da tempo: dobbiamo quindi ripartire da questo stanziamento e dalla Gallia tardoantica. Una caratteristica specifica di questa regione fu, tra IV e V secolo, la crescente attenzione delle famiglie senatorie per le cariche ecclesiastiche e in specifico la volontà di occupare sistematicamente le funzioni vescovili: la cultura, la ricchezza e le funzioni pastorali dei vescovi ne fecero i detentori di un importante potere nei confronti della comunità cittadina. Si attivò una sorta di circolo virtuoso: le sedi vescovili erano ricche e potenti, quindi attiravano l’attenzione delle famiglie senatorie, la cui occupazione delle cariche vescovili ne aumentava ulteriormente il rilievo. E fu proprio in Gallia che l’aristocrazia senatoria entrò in modo massiccio ad occupare le sedi vescovili. Su questa regione prese il potere, nel corso del V secolo, il popolo dei Franchi, una confederazione di tribù, che seguirono processi diversi di avvicinamento alla romanità; pur non essendo nomadi, erano comunque estranei alle idee di latifondo e di città. Anche dal punto di vista religioso, i Franchi non costituivano un insieme compatto, pur con una prevalenza del paganesimo, integrato da elementi di Cristianesimo ariano. Il popolo franco fu protagonista, tra il IV e il V secolo, di un lento processo di romanizzazione: in un contesto di progressiva marginalizzazione del potere imperiale, i Franchi si affermarono non solo come una componente importante dell’esercito romano, ma come uno dei principali attori politici della regione. Clodoveo, succeduto al padre nel 481, negli anni successivi attuò un’efficace politica militare che gli permise di affermare il proprio controllo su gran parte della Gallia, dove il definitivo declino dell’Impero d’Occidente e la lontananza dall’imperatore d’Oriente avevano lasciato spazio a una pluralità di dominazioni. Nei confronti di questi regni germanici, Clodoveo operò un’efficace espansione militare, che permise di sottomettere i Burgundi e di ridurre drasticamente il dominio di Visigoti in Gallia, grazie alla battaglia di Vouillé del 507, segnando la piena affermazione del suo gruppo parentale, i Merovingi. La conversione di Clodoveo e del suo popolo al Cristianesimo cattolico fu un fatto religioso, ma con importanti implicazioni politiche, perché per la rapidità della conversione fece sì che non si innescassero in questo regno quei meccanismi di contrapposizione identitaria a base religiosa presenti in altre popolazioni come tra gli Ostrogoti e Vandali. La narrazione di Gregorio di Tours, forse il più importante vescovo della storia franca descrisse il la conversione di Clodoveo, in cui la moglie ebbe un ruolo determinante, poiché mise il re in contatto con Remigio, vescovo di Reims, di santità tale da poter essere paragonato a Silvestro, il papa che aveva battezzato l’imperatore Costantino. Fu Remigio a completare la conversione del re, la cui scelta trascinò l’interno esercito, che si convertì e venne battezzato. I due elementi chiave di questo racconto sono da un lato la centralità dei vescovi, che trasmisero ai Franchi la religiosità e la cultura cristiana di tradizione romana, e dall’altro l’assimilazione di Clodoveo a Costantino, il primo imperatore cristiano, che lungo l’alto medioevo ritornò costantemente come modello per tutti i sovrani. La narrazione di Gregorio è l’espressione diretta dell’ideologia vescovile, ovvero di quel sistema di potere che si era costruito proprio a partire dalla conversione di Clodoveo, con la piena convergenza dei vescovi attorno al potere regio. È un’ideologia che diede al re franco una fortissima legittimazione. L’integrazione tra i Franchi e i Gallo-romani si sviluppò a livelli più profondi del solo incontro tra regno e vescovi: fu l’unione delle due aristocrazie, la creazione di un gruppo sociale dominante unitario, con uno stile di vita che fuse modelli di comportamento proveniente dalla tradizione romana e da quella germanica. Lungo il VI secolo, si creò un’aristocrazia che combatteva e accumulava terre, era vicina al re, ma attenta a radicarsi nella città, tesseva reti clientelari e occupava cattedre vescovili. ■ 2. Le chiese franche e la diffusione del monachesimo in Occidente 6 La rapida conversione dei Franchi al Cattolicesimo e la convergenza dell’aristocrazia attorno alle sedi vescovili favorirono l’affermarsi di un modello di vescovo aristocratico, ricco e potente, e quindi l’assommarsi nelle mani vescovili di una molteplicità di risorse e funzioni. Il vescovo era prima di tutto il vertice della diocesi, il centro della vita religiosa regionale: la città e il territorio circostante dovevano far riferimento al vescovo per tutto ciò che riguardava la “cure delle anime”, ovvero l’insieme di azioni pastorali e sacramentali tese a garantire la salvezza dopo la morte. Al contempo i vescovi erano portatori di cultura, da cultura letteraria, cultura politica e conoscenza diretta dei funzionamenti istituzionali romani. Nella loro azione locale e nel loro affiancare i re a corte, orientarono il sistema politico franco verso funzionamenti che ripresero modelli di tradizione romana. Infine, i vescovi erano ricchi, spesso perché esponenti della grande aristocrazia franca, ma erano anche straordinariamente ricche le sedi vescovili, nel cui patrimonio andavano accumulandosi i beni donati da cui cercava benevolenza, protezione e preghiere per la propria anima. Tutti questi processi si accentuarono ulteriormente sia perché i re si appoggiarono politicamente alle capacità vescovili più di questo facesse il potere imperiale, sia perché a occupare le cattedre vescovili nel VI secolo fu un’aristocrazia che stava elaborando una straordinaria forza politica e patrimoniale. La principale fonte che ci permette di conoscere la vita politica franca del VI è rappresentata delle Storie, di Gregorio di Tours, opera di uno dei più importanti vescovi del tempo. Le sedi vescovili furono però i soli enti religiosi importanti nella società franca del VI secolo, perché un peso di rilievo deve essere attribuito ai monasteri: nel Mediterraneo orientale, nel IV secolo si era già sviluppato un articolato movimento monastico, iniziativa di singoli e gruppi alla ricerca di un più diretto rapporto con Dio, attraverso un percorso di ascesi e perfezionamento spirituale, basato prima di tutto sull’isolamento dal mondo circostante. La vicenda di Martino di Tours è particolarmente significativa: egli, soldato, decise di convertisti alla vita religioso come monaco, per poi essere scelto come vescovo di Tours, dove morì nel 397. I re franchi fecero di Martino un punto di riferimento della propria religiosità e un patrono del regno. E al centro di questa devozione fu proprio la scelta ascetica, il passaggio da militare a monaco, a testimoniare l’impatto che il monachesimo ebbe nell’immaginario religioso della società franca appena cristianizzata. I grandi monasteri furono un bacino di reclutamento importante per i vescovi: il monastero più noto della Gallia era quello di Lérins, centro di spiritualità, luogo di formazione culturale e destinazione prediletta per gli aristocratici che sceglievano la vita religiosa. Divenne dunque una sede privilegiata di formazione dei futuri vescovi, a cui si chiedevano perfezione religiosa, capacità culturali e origine aristocratica. L’Italia del V-VI secolo fu il terreno di affermazione di una grande varietà di esperienza monastiche. Questa varietà di esperienze monastiche è importante per comprendere che, se nei secoli successivi prevalse in modo netto il modello benedettino. Benedetto nacque a Norcia attorno al 480 e, dopo aver studiato a Roma, si allontanò dalla città per vivere una serie di esperienza ascetiche, come eremita, esperienze che culminarono nel 529 nella fondazione dell’abbazia di Montecassino, dove scrisse la sua Regola, e dove morì nel 547. Il suo testo è l’opera di un monaco e abate espero, che aveva vissuto forme diverse di monachesimo e si era scontrato con le difficoltà del gestire una comunità. La Regola, che Benedetto scrisse rielaborando un precedente testo anonimo, noto come Regola del maestro, è fondata sul alcuni semplici principi e sulla conoscenza della natura umana e dei suoi limiti, che indusse Benedetto a proporre una forma di ascesi moderata: modello di vita ascetica in cui la principale attività dei monaci era la preghiera, mentre il lavoro trovava un posto del tutto marginale. Se vogliamo riassumere la Regola in una formula, sarebbe “prega e obbedisci all’abate”. Benedetto propose una comunità semplice, in cui la solidarietà orizzontale tra monaci si integrava con l’obbedienza all’abate, che doveva controllare i suoi sottoposti e interpretare la Regola: il testo contiene alcuni principi ispiratori come l’isolamento dal mondo, la centralità della preghiera e la moderazione nel cibo. Un dato di rilievo è poi il collegamento che Benedetto creò tra comunità ed eremiti. La Regola vede nel cenobitismo la via di ascesi proposta a tutti e nell’eremitismo una forma superiore di perfezione, a cui potevano accedere solo i monaci spiritualmente più forti, con l’autorizzazione dell’abate. Benedetto fu quindi un abate esperto, che seppe raccogliere sia il meglio di una lunga tradizione di sperimentazioni monastiche, sia i frutti della propria esperienza di vita; e questo si tradusse nella moderazione, nella flessibilità, nella capacità di accogliere forme diverse di ascesi. Tutti questi caratteri resero la Regola un testo di successo e indussero molti monasteri ad adottarla, tanto che divenne il testo normativo di riferimento per tutti i monasteri dell’Europa occidentale. Un’altra importante influenza fu quella irlandese. La cristianizzazione dell’Irlanda si era tradotta in una forte centralità istituzionale dei monasteri, che avevano assunto alcuni compiti che nel continente erano propri dei vescovi, e in particolare la cura pastorale della popolazione. Il monachesimo irlandese fu segnato da un’accentuata attenzione per la dimensione penitenziale e da una forte spinta missionaria. Colombiano, un monaco irlandese, fu l’esponente più noto di un più vasto movimento missionario di monaci, che nel complesso rinnovarono il monachesimo nell’Europa continentale, stimolarono nuove fondazioni e importarono un monachesimo attento sia alla dimensione penitenziale, sia alla tutala della piena autonomia dei monasteri da ogni controllo vescovile. La Gallia del VI-VII secolo fu terreno fertile di crescita per diverse esperienze monastiche, ma al di là di questi diversi orientamenti, è importante sottolineare che tutti i monasteri ebbero una relazione intensa con la società circostante, e in particolare con l’aristocrazia: donazioni di terra dai laici ai monasteri, per garantirsi le preghiere dei monaci e quindi la salvezza della propria anima; monacazione di esponenti delle grandi famiglia aristocratiche; reclutamento dei nuovi vescovi dall’interno dei monasteri. Si creò dunque un inteso rapporto tra aristocrazia e monaci, o meglio, tra aristocrazia delle armi e quella della preghiera: questo rapporto segno poi per molti secoli la storia politica e religiosa d’Europa. ■ 3. I regni e l’aristocrazia L’efficacia del regno franco del VI secolo nacque dalla forza del re Clodoveo e dall’integrazione di questa forza con quella dell’aristocrazia, che riprese e sviluppò i modelli politici di tradizione sia franca, sia romana. Questa aristocrazia fu la base fondamentale della forza egemonica che il popolo franco seppe esercitare su larghi settori dell’Europa altomedievale. La ripresa di forme e strumenti di governo di tradizione romana fu espressa nella cosiddetta lex Salica, la cui stesura risale al 510. Il fatto stesso di procedere a una sua redazione scritta è di per sé una scelta tipica della cultura politica romana, del tutto assente dalla tradizione germanica. Riprendere un modello culturale romano non significava emularne direttamente le strutture politiche; ovvero: i Franchi trascrissero le proprie leggi, ma queste leggi non ci mostrano un sistema politico imperiale, né un forte accentramento dei poteri nelle mani del re. Il potere era costruito nella concreta prassi politica, tramite l’efficace coordinamento dell’aristocrazia. I Franchi organizzarono una forma di controllo del territorio attraverso la sua suddivisione in distretti, affidati ognuno a un comes (conte) responsabile della giustizia, dell’esercito e del prelievo; il quadro distrettuale rivela una chiara matrice romana, ma era discontinuo, non sarò mai omogeneo. Questo organizzazione per distretti e funzionari, il cui primo fondamento fu una rete di rapporti di tipo clientelare, fu fondata sulla capacità regia di organizzare e guidare il proprio seguito armato (la cosiddetta trustis). Il passaggio dall’Impero ai regni fu segnato da un grande mutamento nelle forme della circolazione economica e in particolare negli strumenti usati per ricompensare l’esercito: se nell’età tardoimperiale l’esercito era formato da professionisti stipendiati e mantenuti dallo Stato, in moti regni germanici gli eserciti erano invece ricompensati con concessioni di terra. Perciò i Merovingi, furono molto più poveri degli imperatori dei secoli precedenti e questo ebbe in generale un forte impatto politico, perché i re avevano meno possibilità di redistribuire ricchezze ai propri fedeli, e quindi erano nel complesso più deboli e più dipendenti dal consenso aristocratico. I re quindi disponevano di una grande quantità di risorse economiche e politiche, di beni che potevano essere usati per consolidare i loro rapporti con le famiglie aristocratiche. Di conseguenza, la società politica franca era fortemente polarizzata attorno a re. Questa polarizzazione non implicò però una dinamica di corte. I Franchi non avevano una capitale: i Merovingi avevano una serie di residenze privilegiate, concentrate soprattutto nel nord della Gallia. Meno incisivo e più difficile da cogliere il legame che univa i Merovingi all’insieme della popolazione: la tradizione politica germanica attribuiva all’assemblea dell’esercito grandi poteri, dall’elezione del re alle decisioni legislative. La 7 conquistarono il regno vandalo con una certa facilità, tra 533 e 534, a testimonianza di una debolezza strutturale del regno. Ben più faticose le altre campagne imperiale: la Spagna visigota e soprattutto l’Italia ostrogota. Ma proprio questa resistenza e quindi la durata del conflitto provocarono grandi danni materiale e umani, che colpirono in particolare la grande aristocrazia senatoria; non a caso, immediatamente dopo la conquista, Giustiniano emanò la Prammatica sanzione, una norma destinata a ristabilire le condizioni precedenti al regno di Totila, soprattutto per quanto riguarda i possessi. La fragilità del dominio imperiale in Italia emerse con chiarezza pochi anni dopo (568), quando i Longobardi valicarono le Alpi e diedero vita a una conquista lunga, violenta e discontinua. I longobardi si impadronirono rapidamente del Friuli e del nord-est, per poi espandersi all’intera pianura padana. Da questo nucleo centrale partirono una serie di spedizioni più o meno coordinate. L’Impero difese quello che poteva: probabilmente dopo la guerra gotica non disponeva in Italia delle forze sufficienti a contrastare i Longobardi, e forse si sperava che si trattasse di un’incursione, di un passaggio più o meno temporaneo di un esercito in cerca di bottino. Si crearono così due Italie: i Longobardi dominavano la pianura padana, la Tuscia e due regioni poste più a sud, i ducati di Spoleto e Benevento; all’Impero restarono il Lazio, l’area di Ravenna, la laguna veneta, le Marche, la Liguria, gran parte del Meridione continentale e le grandi isole. Il confine tra Longobardi e impero non era una linea netta e semplice, ma una trama fitta e complessa di territori e confini; di fatto, quasi ogni punto del territorio italiano era nei pressi del confine. Dal punto di vista territoriale l’eredità di Giustiniano fu quindi nel complesso fragile: l’Africa restò imperiale per un secolo, fino alla conquista araba; in Spagna il consolidamento del regno visigoto non lasciò spazio alla presenza imperiale, l’Italia subì l’immediata conquista longobarda, anche se importanti parti della penisola rimasero in mano imperiale, e sarebbero rimaste tali poi per secoli. ■ 3. Dibattiti teologici e identità locali Se quindi nel V e VI secolo la distinzione tra cattolici e ariani aveva modificato le forme di convivenza all’interno dei regni, in questo stesso periodo il dibattito teologico si era spostato dal piano trinitario a quello cristologico: la questione non era più il rapporto tra le diverse persone della Trinità, ma la convivenza nella figura di Cristo di una natura divina e una natura umana. Il ruolo di Maria fu infatti al centro del dibattito fin dalle prime importanti formulazioni, quelle di Nestorio, un sacerdote cresciuto e formato ad Antiochia (in Siria): Nestorio sosteneva la presenza in Cristo di due persone distinte (umana e divina) e di conseguenza rifiutava a Maria il titolo di “madre di Dio”, sostituendolo con quello di “madre di Cristo”, cioè di Gesù congiunto con il Figlio. Il Nestorianesimo fu condannato nel concilio di Efeso del 431, su iniziativa dell’imperatore Teodosio II. Il Nestorianesimo fondava in modo insufficiente l’unità delle due nature di Cristo; di conseguenza non era affermato in modo solido il pieno coinvolgimento del Figlio (la natura divina) nella sofferenza e morte di Cristo: se le due persone erano distinte, la morte dell’uomo non aveva coinvolto appieno la parte divina e questo non garantiva l’efficacia salvifica dell’incarnazione della morte. Le posizioni nate da una sede patriarcale (Antiochia) erano state osteggiate da altre due sedi (Roma e Alessandria), e questa è un chiave fondamentale per capire l’insieme delle questioni cristologiche. La via teologica opposta, elaborata in ambito alessandrino, fu il cosiddetto Monofisismo (mone physis, una sola natura): in questa interpretazione umanità e divinità si fondono fino a dare vita a una sola natura, in grado sia di offrire concretamente, come uomo, sia di operare la redenzione in quanto Dio. Questa posizione subì una condanna pochi anni dopo, nel concilio di Calcedonia del 451. Dal punto di vista teologico, il Monofisismo offuscava le due nature, ne cancellava la specificità, mentre l’efficacia salvifica dell’incarnazione deriva sì dall’unione di umanità e divinità, ma anche dalla conservazione delle due nature distinte e integre unite in modo indissolubile nella persona del Cristo, una formula che divenne dominante e che è tuttora adottata dalle Chiese cattolica e ortodossa. La posizione diofisita fu infatti sostenuta da Roma, Antiochia e Costantinopoli contro Alessandria. Di nuovo una divisione tra le grandi sedi patriarcali, dunque, ma con una componente nuova, ovvero la centralità di Costantinopoli: fu infatti proprio il concilio di Calcedonia a ratificare l’ascesa della capitale al ruolo di sede patriarcale, e anzi ad affermare la sua superiorità. Fu un passaggio chiave nel ratificare quel lungo processo che aveva trasformato Bisanzio prima in residenza imperiale poi in centro del potere e infine in vera e propria capitale dell’Impero. I monofisiti rimasero numerosi nelle chiese del Mediterraneo orientale e meridionale e soprattutto in Egitto, aree in cui il Diofisismo fu considerato come una ripresa più o meno mascherata delle tesi nestoriane. Le divisioni teologiche avevano quindi una loro piena autonomia intellettuale ed esprimevano profonde scelte religiose e culturali. La responsabilità imperiale per la disciplina ecclesiastica e per l’ortodossia religiosa era una componente fondamentale dell’ideologia universalistica: non ha senso per questi secoli ragionare in termini di Stato e Chiesa come due entità separate e distinte, perché il primo compito dell’imperatore era la difesa delle chiese e i precetti religiosi avevano necessariamente valore per tutti i sudditi dell’imperatore, erano sostenuti dalla sua forza coercitiva. La volontà imperiale di realizzare l’unità teologica della Chiesa si ritrovano nel VII secolo nell’azione dell’imperatore Eraclio: l’imperatore promosse la posizione detta del Monotelismo (monos télos, un solo scopo), ovvero l’idea che in Cristo fossero presenti due nature, unite però da un’unica attività e un’unica volontà, connessa alla fondamentale unità della persona. Il monotelismo fu condannato nel concilio di Costantinopoli del 681, mentre ormai le regioni sudorientali erano passate in modo permanente in mani islamiche. La questione cristologica aveva quindi perso la sua importanza politica: il Diofisismo, definito a Calcedonia nel 451, era ormai dominante nell’Impero e in Occidente; le posizioni diverse (Nestorianesimo, Monofisismo) erano vive in regioni sfuggite al controllo imperiale. Parte seconda Il sistema di dominazione altomedievale Introduzione Questa parte del manuale è dedicata al periodo compreso tra il VII e il X secolo, un’epoca segnata da profonde trasformazioni degli assetti di potere(come la costruzione dell’Impero carolingio e la sua divisone ai nuovi regni) ed economici (con lo sviluppo di un’accresciuta pressione aristocratica sulle risorse agrarie e l’apertura di nuove reti di scambio); ma è anche un periodo con alcuni importanti caratteri di stabilità: cessata l’intensa mobilità di popoli dei secoli V e VI e concluso il processo di rielaborazione dell’eredità romana, ci troviamo di fronte a sistemi di dominazione fondati su un delicato equilibrio tra i poteri regi e l’aristocrazia.. La dinamica tra regno e aristocrazia è quindi una chiave fondamentale per leggere questi secoli; in tutte le dominazioni è evidente la centralità del re, ma è una centralità costruita coordinando l’aristocrazia. “Dominazione” potere regio di ricchezza, di controllo degli uomini e delle risorse, di controllo delle loro anime attraverso il sistema delle chiese. Un ruolo centrale era ricoperto dai legami personali e clientelari, vero fondamento delle dominazioni altomedievali. Dati questi caratteri di lungo periodo, comuni a molte diverse dominazioni. Dati questi caratteri di lungo periodo, comuni a molte diverse dominazioni, bisogna al contempo evitare di cancellare le differenze. Capitolo 1. Nobili, chiese e re: ricchezze e poteri Tra il VI e VII secolo la geografia politica dell’Europa occidentale appare molto più stabile che nei due secoli precedenti: con l’eccezione della conquista longobarda dell’Italia, la mobilità dei popoli germanici rallenta decisamente e la fisionomia territoriale dei principali regni appare nel complesso definita. Tre sono le chiavi fondamentali attraverso cui leggeremo i funzionamenti sociali di questi secoli: l’equilibrio politico tra le aristocrazie e i re; lo sfruttamento delle risorse agrarie; l’apertura di nuove reti di scambio. ■ 1. Nobili e re I regni altomedievali: ci troviamo difronte a un equilibrio tra la capacità regia di coordinamento e l’azione politica autonoma dell’aristocrazia. Gli elementi comuni, che in tutti questi regni connotano il rapporto tra re e aristocrazia, si possono individuare nei processi di redistribuzione clientelare e nel fondamentale carattere militare del potere regio. 10 I Re erano sensibilmente più poveri degli imperatori romani: disponevano di una massa di risorse minore per attuare processi di redistribuzione e quindi raccogliere a sé l’aristocrazia del regno. Le famiglie aristocratiche furono sempre attente a conservare un legame con la corte: per quanto ricche e potenti, era per loro fondamentale partecipare al circuito di solidarietà e redistribuzione che faceva capo al re, un circuito che offriva grandi opportunità economiche e politiche. Nodo di questo circuito era il carattere militare del potere regio: se infatti i re erano i garanti della pace e della giustizia, la loro principale funzione restò sempre una doppia connotazione, come esercito di popolo e come seguito del re. La centralizzazione del potere non comportò un pieno controllo dell’aristocrazia: sono infatti numerosi i conflitti, i colpi di Stato, le deposizioni di re. I tentativi di impadronirsi del regno e di sostituire il re dimostrano che i duchi erano interessati al controllo del potere centrale più che a creare poteri locali autonomi; il potere regio era una struttura forte, a cui l’aristocrazia voleva avvicinarsi e di cui voleva ottenere il controllo. Questo consolidamento del potere regio lasciava spazio a un imperfetto controllo militare del territorio: se lungo il VII secolo i Visigoti non dovettero subire grandi minacce militari dall’esterno del regno, all’inizio del secolo seguente la conquista della penisola iberica da parte delle armate islamiche fu nel complesso semplice e rapida e pose bruscamente fine alla storia visigota. In Irlanda, la conversione al Cristianesimo lungo il VI secolo aveva posto al centro i monasteri, sia per quanto riguarda l’organizzazione ecclesiastica, sia per l’apertura verso orizzonti europei. Non cambiò invece la struttura politica dell’isola, divisa in una moltitudine di regni, in cui la teoria giuridica cercò di mettere ordine distinguendo diversi livelli di dominazioni, tutte connotate dal titolo regio. La stessa pluralità di regni si ritrova in Britannia, ma qui si assiste a una più chiara tendenza alla gerarchizzazione. Con il VII secolo si può considerare quest’area come parte a pieno titolo dell’Europa cristiana, cosa che non era nel periodo precedente. Rimase invece debole il livello di urbanizzazione, con un sviluppo delle città portuali che appare significativo solo a partire dalla fine del VII secolo, nel contesto della crescita delle reti di scambio del mare del Nord. Forme di civiltà e modelli politici sono sostanzialmente analoghi connotano l’intera isola, senza che questo implichi né una perfetta omogeneità dei sistemi sociali, né soprattutto l’unità politica. Pur nella elusività delle fonti, alcune cose si possono dire: • esisteva una pluralità di regni, a diversi livelli di importanza; • alcuni di questi appaiono più definiti e stabili, in particolare i due regni principali (Merci e Northumbria); • tra VII e VIII secolo si affermò in modo discontinuo un’egemonia dei re di Mercia sui regni meridionali, una superiorità che però si consolidò soprattutto alla fine dell’VIII secolo, otto il re Offa; • Il contenuto effettivo di questa egemonia è assai difficile da definire. Merita uno spazio maggiore il regno dei Franchi, l’ambito in cui tra VII e VIII secolo si andarono costruendo le basi di potere di quella che alla fine dell’VIII secolo diverrà la dinastia più potente d’Europa, ovvero i Carolingi. Lo spazio politico franco: pressappoco l’attuale Francia e la parte più occidentale della Germania. Il controllo e la presenza dei re all’interno di questo territorio erano quanti mai diversificati: i Merovingi. privi di una capitale stabile- furono sempre itineranti tra i diversi palazzi regi; non si trattava però di una sistematica itineranza finalizzata a ripercorrere regolarmente tutte le regioni del regno, sia perché la mobilità regia dipendeva in larga misura dalle contingenze e dalle emergenze militari, sia perché in ogni caso l’azione regia si concentrò solo in alcune aree. Il fondamento principale del potere merovingio era il legame con l’aristocrazia: un legame solido, tale per cui l’aristocrazia franca non era disposta ad accettare un re che non fosse della dinastia merovingia; legame fondato sulla chiara affermazione della diversità dei Merovingi da ogni altra dinastia presente nel regno. Fu invece dall’interno dell’aristocrazia franca- e in particolare del regno di Austrasia – che crebbe la famiglia dei Pipinidi/ Carolingi: usiamo il nome “Pipinidi” per la prima parte della loro storia, quando prevale il nome di Pipino, ; da CarloMagno in poi, si usa invece il nome di “Carolingi”. Arnold di Metz E Pipino di Landen si allearono per appoggiare l’ascesa al trono del re Clotario II, e ne furono ricompensati: Arnolfo con la carica di vescovo di Metz, Pipino con quella di maestro di palazzo del regno di Austrasia. Dal matrimonio tra la figlia di Pipino e il figlio di Arnolfo nacque un sistema parentale potentissimo, che si andò affermando nell’intera dominazione franca, a partire proprio dalla carica di maestro di palazzo attribuita a Pipino. Il maestro di palazzo (o maiordomus) era il punto più alto di potere al di sotto del re: era il capo della corte regia, colui che coordinava la vita politica attorno al re e metteva in atto le decisioni regie. La forza della dinastia si espresse con chiarezza nei momenti in cui un suo esponente riuscì a ricoprire contemporaneamente le funzioni di maestro di palazzo nei diversi regni che andavano a costituire la dominazione franca. Se infatti i Merovingi avevano costantemente consolidato il proprio potere affermando sul piano simbolico la propria diversità dall’insieme dell’aristocrazia, i Pipinidi si mossero invece dall’interno dell’aristocrazia, legando a sé per via clientelare le maggiori famiglie austrasiane. Era una regione dominata da un’aristocrazia ricca di terre e a forte orientamento militare. Il potere delle famiglie austrasiane è precedente all’affermazione dei Pipinidi: non furono i Pipinidi a creare questa aristocrazia, ma viceversa. “Legami clientelari” è una definizione volutamente generica, perché è probabilmente da datare a una fase successiva, alla fine del secolo VIII, la formalizzazione dei rapporti vassallatici, i legami di fedeltà militare che avranno un peso di rilievo nei secoli centrali del medioevo. La loro capacità di coordinamento dell’aristocrazia su tradusse direttamente in forza armata, in una capacità di agire militarmente in modo autonomo, non sempre e non necessariamente al servizio dei re merovingi. La centralità della componente militare si vede bene nella vicenda di Carlo Martello, maestro di palazzo di Austrasia, di Neustria e di Burgundia, morto nel 741: già il suo soprannome “Martello”, piccolo Marte, mette in luce la centralità della componente militare nell’immagine che Carlo trasmise di sé; e la sua forza militare fu fondamentale per trasformare una condizione politica incerta in un dominio di fatto sull’intero spazio politico franco. La battaglia di Poitiers del 732, quando Carlo sconfisse una spedizione proveniente dalla Spagna islamica mise fine a incursioni e saccheggi. Carlo Martello non fu mai re: fu il figlio, Pipino III (o Pipino il Breve), a prendere la corona nel 751, deponendo gli ultimi Merovingi. Per quanto l’accesso alla corona fosse probabilmente ritenuto illegittimo, una violazione di un carisma regio che era strettamente associato alla famiglia merovingia. Il mito dei “re fannulloni”, ovvero degli ultimi re merovingi come incapaci e nullafacenti, è appunto un mito, costruito nel IX secolo dalla corte carolingia, per riaffermare a distanza di anni la legittimità del proprio colpo di Stato del 751. Probabilmente il consolidato e indiscusso controllo della corona attenuò l’impegno dei Merovingi a costruire il consenso, a elaborare i rapporti con l’aristocrazia. La capacità dei Pipinidi di agire in una prospettiva ampia si può cogliere anche da un punto divista diverso, ovvero osservando l’appoggio dato da Carlo Martello e dal figlio Pipino III alle missioni del monaco Wynfrith nelle regioni orientali dell’attuale Germania. Wynfrith era un monaco originario del Wessex, che papa Gregorio II nominò vescovo e inviò come missionario tra Turingi, Frisoni e Sassoni, dove operò dal 722 al 754. Carlo e Pipino appoggiarono a lungo questa missione, e la loro azione ci dice tre cose importanti sulla politica pipinide di questi anni: • L’apertura verso i territori orientali • La tutela delle chiese e della loro espansione • I collegamenti indiretti con il vescovo di Roma, poiché Pipinidi e papato convergevano nella protezione di Wynfrith. Nel contesto del colpo di Stato che nel 751 portò Pipino sul trono, il legame acquistò rilievo e divenne un’alleanza stabile, con importanti implicazioni territoriali. 2. Terre e uomini Le gerarchie sociali altomedievali erano costruite in larga parte sulla base della ricchezza fondiaria: essere ricco significava avere molte terre. In tutta Europa il popolamento era infinitamente più basso di quello attuale e le campagne altomedievali uno spazio a bassissima densità abitativa. Il territorio era dominato dai boschi, al cui interno si aprivano le radure che accoglievano i villaggi e i terreni coltivati, mentre era probabilmente piuttosto raro l’insediamento sparso, ovvero singole case contadine isolate. La forma più diffusa di insediamento era appunto il villaggio, un insieme di abitazioni, ma dall’integrazione tra case e terre. Un nucleo di case contadine attorno a cui si sviluppavano una serie di cerchi concentrici, che comprendevano le principali risorse agrarie. 11 La divisione tra campi e pascoli era un’alternanza d’uso delle stesse terre. Il modo più efficiente per concimare la terra era infatti quello di usarla periodicamente come pascolo, per cui si adottava in genere un sistema di rotazione biennale; in tal modo su tutti i campi si alternavano un anno di sfruttamento per la cerealicoltura e un anno di riposo e di arricchimento e concimazione della terra grazie al pascolo. Data la diversa specializzazione delle terre (orti, campi, prati) e questa alternanza di usi, è naturale che la terra di una singola famiglia contadina non fosse concentrata in un singolo settore del territorio del villaggio, ma fosse frammentata e dispersa, a coprire le diverse esigenze economiche della famiglia. Il modello prevalente era fatto di case inserite in villaggi, a cui facevano capo una pluralità di pezze di terra, disperse nel territorio circostante. All’esterno dei campi e dei prati, si trovavano grandi distese boschive e incolte: è però importante sottolineare che “incolto” non significa affatto “improduttivo”. Nel bosco la società traeva molte risorse: si prendeva la legna, principale materiale da costruzione e fonte di riscaldamento; si raccoglievano frutti più o meno spontanei; si allevavano gli animali, e soprattutto maiali, grandi riserve di proteine; si cacciava e pescava. Beni comuni che erano invece nelle mani di singole famiglie contadine. Constatiamo una distinzione tra due termini apparentemente sinonimi: da un lato il nemus, il bosco, uno spazio non coltivato ma antropizzato, ovvero vissuto, curato e sfruttato dalle comunità contadine; dall’altro lato la silva, la foresta, i boschi lontani e inaccessibili, estranei allo spazio antropizzato e usati in modo più sporadico da aristocratici e re per la caccia. Dal punto di vista alimentare, la distinzione tra colto e incolto era la distinzione tra carboidrati (i cereali) e proteine (ottenute grazie a caccia e allevamento). I villaggi altomedievali furono un contesto di integrazione di diversi sistemi produttivi e alimentari, l’espressione concreta della fusione latino-germanica. Dove la grande proprietà era dominante, re, aristocratici e chiese disponevano di una maggior capacità di condizionamento della società circostante, perché un maggior numero di contadini era costretto, per sopravvivere, a coltivare terre dei potenti, e quindi a dipendere dalle loro concessioni e dalla loro benevolenza. Era un rapporto economico, ma anche una relazione di dipendenza sociale più ampia, che possiamo comprendere attraverso l’analisi delle forme di organizzazione e digestione delle grandi aziende agrarie. Tra il VII e VIII secolo si andò elaborando una peculiare forma di gestione delle grandi proprietà fondiarie, la cosiddetta curtis un insieme di campi, prati, case e diritti dispersi in molti villaggi diversi, inframmezzati alle terre di altri grandi e piccoli proprietari. In pratica a un’unità gestionale: facevano capo alla curtis e al suo centro gestionale centinaia di appezzamenti più o meno grandi, dispersi in molti villaggi diversi, spesso posti a parecchi chilometri dal centro. Curtis e villaggio erano due strutture completamente diverse: la prima era una forma di gestione delle ricchezze fondiarie di un grande proprietario; il secondo era una struttura insediativa, di cooperazione contadina e di organizzazione dello spazio agrario. La principale articolazione della curtis ovvero la divisione tra dominicum e massaricium. Il dominicum era la parte gestita direttamente dal proprietario (o signore, dominus), spesso tramite un proprio agente, con l’impiego di manodopera servile; il massaricium era invece la parte suddivisa in terre date in concessione a contadini liberi, che ottenevano ognuno un manso, ovvero un insieme di terre e prati sufficienti a mantenere la propria famiglia. Il massaro aveva nei confronti del proprietario un insieme di obblighi che comprendeva talvolta un censo in denaro, spesso una quota di prodotti e sempre una serie di corvées, ovvero giornate di lavoro che il massaro doveva compiere sul dominicum. Le corvées garantivano infatti al proprietario l’afflusso sul dominicum di una manodopera abbondante negli specifici momenti dell’anno in cui era necessaria, lasciando invece alla più ridotta manodopera servile la gestione delle terre nei periodi meno intensi. Nel sistema curtense i contadini usavano il proprio lavoro per pagare i censi e il signore usava la terra per pagare la manodopera stagionale sul dominicum. Nel complesso la curtis era un sistema rigido: ogni cambiamento del dominicum comportava una serie di riassestamenti nella distribuzione della manodopera e negli obblighi contadini. La curtis era un modello gestionale adeguato al contesto economico complessivo, a debole circolazione monetaria: il sistema curtense era adatto a garantire una flessibilità di manodopera quando non sarebbe stato applicabile un sistema basato su censi in moneta e salariati stagionali. Il centro della curtis era il dominicum: gli interessi del signore, la produttività di queste terre; dalla struttura del dominicum e dalle sue specializzazioni produttive dipendeva tutta l’organizzazione della curtis, l’ampiezza e la distribuzione delle corvèes. ■ 3. Reti di scambio È importante capire come si sia formata l’idea della curtis come sistema chiuso e autosufficiente, che a lungo è stata dominante nella medievistica. Il punto di partenza è costituito da alcune leggi emanate in piena età carolingia, e in particolare il Capitulare de villis, ovvero la “Legge sulle curtes”. In questa norma, emanata da Carlo Magno, si prevede che ogni curtis abbai al proprio interno ogni tipo di attrezzo e di artigiano, si elenca in modo minuzioso una grande varietà di prodotti agrari e di oggetti che dovranno essere raccolti all’interno dell’azienda. Tutto ciò offre senza alcun dubbio un’immagine di autosufficienza economica. Il re non descrive come funzionano le curtes, ma come dovrebbero funzionare le curtes regie; anche se queste aziende agrarie non erano autosufficienti, c’era però l volontà di autonomia economica, il regno si poneva come orizzonte ideale una situazione in cui le sue curtes non dovessero dipendere in nulla da nessuno. Non era questa la situazione normale nelle grandi aziende dell’aristocrazia e delle chiese. La presenza di mercati settimanali, la confluenza dei prodotti delle curtes verso la città. I re, le chiese e i nobili franchi erano ricchi e potenti; e questa loro potenza era costituita in modo rilevante dalla loro ricchezza fondiaria, che si traduceva in una forte capacità di pressione sulle risorse e sui contadini. Le curtes erano strumento fondamentale per gestire questa ricchezza. La forza dell’aristocrazia infatti si fondava e si esprimeva prima di tutto nella sua ricchezza fondiaria, che poneva la società contadina in una condizione di oggettiva debolezza (la proprietà era molto concentrata, erano pochi i contadini proprietari e moliti quelli che dipendevano dalla terra concessa dai signori) e consentiva quindi all’aristocrazia di imporre forti richieste di censi e lavoro, ovvero di operare una forte pressione sulla produzione agraria; da tutto ciò derivava la creazione di un significativo surplus nelle mani di nobili e chiese, che potevano sfruttarlo per via commerciale. Le città erano centri demici a maggiore concentrazione, con la massima quantità di popolazione non contadina, che quindi cercava costantemente un regolare afflusso di derrate dalle campagne; le curtes del dominicum e i censi del massaricium, una base di prodotti che consentiva al proprietario di avviare il surplus verso sbocchi commerciali. Non è strano che le curtes divenissero quindi esse stesse centri di mercato: lo scambio commerciale di prodotti agrari era fortemente condizionato dai grandi proprietari fondiari, in grado di portare sul mercato grandi quantità di prodotti e quindi di determinare di fatto i prezzi. Proprio la capacità commerciale dei grandi proprietari fondiari poteva rendere per loro più interessante prelevare censi in natura piuttosto che in denaro: accumulando i prodotti del dominicum e del massaricium, potevano rappresentare una forza commerciale notevole, in grado di condizionare il mercato locale, e quindi nel complesso guadagnare somme maggiori di quelle che avrebbero potuto trarre dai censi in denaro pagati dai contadini. Questa circolazione commerciale dei beni prodotti nelle curtes deve essere inserita in un più ampio contesto di scambi e di circolazione monetaria. La coniazione monetaria romana andò semplificandosi drasticamente lungo il VI secolo, lasciando spazio a una molteplicità di zecche disperse per i diversi regni europei, e a una netta prevalenza della moneta- zione in argento. La base di riferimento era la libra, una libbra d’argento che era divisa in 20 solidi, a loro volta divisi in 12 denarii. Librae e solidi erano dei puri valori di conto, non delle monete reali: l’unica moneta che veniva effettivamente coniata era il denarius. Non ci troviamo di fronte a una moneta di uso corrente, per i minuti scambi quotidiani; è piuttosto una moneta di uso corrente, per i minuti scambi quotidiani; è piuttosto una moneta destinata al commercio e agli acquisti di terra. Una moneta d’uso, quindi, ma non di uso quotidiano. Molte azioni economiche quotidiane passavano piuttosto attraverso scambi di oggetti e servizi. Proprio la comparsa di monete franche in Inghilterra e in Frisia; è l’espressione sul piano economico e monetario di un più ampio processo di coinvolgimento dell’Inghilterra e dell’Europa settentrionale in un sistema di civiltà europeo e cristiano che si stava polarizzando attorno all’egemonia franca. 12 Rotari si proclama autore. Si introduce il tema della memoria ma dei predecessori di Rotari: sia i sedici re che lo hanno preceduto, sia i suoi antenati, per undici generazioni. L’editto pone così in piena evidenza l’inviolabilità del re; e al contempo individua nella volontà regia ciò che distingue la violenza lecita da quella illecita. La rivendicazione da parte di Rotari di una più forte centralità regia, di un pieno dominio sui sudditi. La connotazione etnica non è scomparsa; ma è più importante la connotazione politica, l’identificazione del popolo come insieme delle persone sottomesse allo stesso re. Le sue leggi sono una fonte particolarmente preziosa per leggere le condizioni dell’Italia longobarda a metà del VII secolo. Era una società impoverita, in larga parte rurale, in cui il principale e pressoché unico fondamento della ricchezza era costituito dalla terra, mentre nelle leggi sono del tutto marginali i dati relativi alle città. Era un mondo dominato da un’élite militare, che articolava la propria capacità di agire sul piano militare e politico anche grazie all’uso delle fedeltà personali. Il dato davvero rilevante è che l’attività legislativa divenne un’azione normale dei re, l’espressione di una loro prerogativa riconosciuta. La serie delle leggi costituisce quindi l’espressione chiara del rafforzamento del potere regio. Abbiamo visto due assi fondamentali dell’azione di Rotari, ovvero l’ampliamento territoriale del regno e soprattutto la scrittura dell’editto: l’avvio di un processo di rafforzamento del potere regio, all’interno e verso l’esterno, un processo che continuò nella seconda metà del secolo VII e lungo il secolo seguente. L’espansione territoriale avviata da Rotari fu proseguita da Grimoaldo (662-671). La crescita militare longobarda e la declinante capacità di intervento dell’Impero lasciarono spazio a un quadro politico italiano polarizzato attorno a due protagonisti: il regno longobardo e il papato. Se il titolo regio restò sempre elettivo, uno degli elementi che permettevano il considerare un candidato idoneo, oltre alle sue capacità militari e al suo seguito armato, era costituito dal suo sangue, dalla sua discendenza. La seconda metà del VII secolo evidenzia quindi una serie di mutamenti che nel complesso delineano una tendenza al rafforzamento del potere regio, sia sul piano militare e territoriale nei confronti del dominio imperiale, sia sul piano politico nel confronto con gli altri poteri attivi all’interno del regno. Questa tendenza si accentuò in modo significativo sotto il regno di Liutprando (714-744). Liutprando non arrivò mai a dominare l’Italia intera, ma questa fu una possibilità reale e concreta, di cui tutto i protagonisti ebbero chiara coscienza. Tra questi il papato che, come abbiamo visto, si era orientato ad agire come potere egemone sull’Italia imperiale, e potenzialmente come punto di riferimento politico per l’intera penisola. Liutprando fu colui che intervenne in modo più ampio, con più di 150 articoli di legge, emanati fin dal primo anno di regno per poi proseguire fino al 735. Ciò che vediamo emergere è una chiara ideologia cattolica del regno, impegnato a estirpare usanze di matrice pagana e a proteggere le chiese. Questione di trasformazione dell’ideologia del potere regio, che si presentava ora come cattolico, protettore della fede e delle chiese. Tuttavia questo non permise al regno longobardo di costruire un rapporto di forte e stabile collaborazione con i vescovi. La mancata collaborazione dei vescovi privò il regno di un sostegno materiale (con le ricche risorse fondiarie delle chiese), politico (con la loro capacità di condizionare e orientare la coscienza dei fedeli) e culturale (poiché le chiese erano in questa fase pressoché i soli centri di elaborazione di una cultura scritta di alto livello). Di particolare rilievo è l’istituzione dei gastaldi, funzionari incaricati di gestire il patrimonio regio: il re poté infatti disporre di una rete di funzionari dispersi nel regno che andarono a costituire un concreto e capillare contrappeso al potere dei duchi, un canale di efficace comunicazione politica re il re e i sudditi. I re erano attivi sia nel costruire una trama di legami personali, sia nell’affermare la condizione speciale di chi faceva parte di questa rete; gastaldi e gasindii andarono a costituire a diverso titolo una rete di fedeltà raccolta attorno ai re, divennero rappresentanti del re, un compito che i duchi non assunsero mai. Attorno alla metà del secolo VIII il regno longobardo si era quindi consolidato al proprio interno. Al contempo si era ormai completato il lungo processo di integrazione tra Romani e Longobardi, a costituire un popolo al cui interno non era più possibile alcuna distinzione etnica; segno evidente di questa integrazione è, nelle leggi emanate da re Astolfo nel 750, la normativa sugli obblighi militari, senza alcun riferimento a una distinzione etnica. Negli anni centrali dell’VIII secolo l’equilibrio politico tra Franchi, Longobardi e papato si ruppe definitivamente: la tensione e la ricorrente conflittualità tra Roma e i Longobardi arrivò una rottura insanabile, e questo orientamento papale si saldò con la potenza crescente del regno franco. I papi nei re franchi videro dei validi protettori della Chiesa romana, a sostituire un Impero ormai incapace di intervenire efficacemente in Italia, e a contrapporsi a un regno longobardo le cui ambizioni sull’Italia centrale erano evidenti. L’alleanza tra il papato e i Carolingi si concretò in due spedizioni: nel 751 Pipino il Breve scese in Italia, sconfisse il re Astolfo, tolse ai Longobardi la regione di Ravenna, ma la diede alla Chiesa di Roma. Vent’anni dopo il figlio, Carlo Magno, sconfisse di nuovo i Longobardi, questa volta in modo definitivo: deposto il re Desiderio, si impossessò del regno annettendo l’Italia centro settentrionale al dominio franco. Carlo si intitolò rex Francorum et Langobardorum. I longobardi dopo il 774 non vissero solo nella memoria: l’antico ducato di Benevento sopravvisse come dominazione autonoma, nonostante i ricorrenti tentativi franchi di sottometterlo. Si andò via via segmentando in unità politiche minori. Solo nel secolo XI i Normanni ricostituirono l’unità politico-territoriale dell’Italia del sud, riunendo le piccole dominazioni di origine longobarda e bizantina del continente, e annettendosi la Sicilia, che nel IX secolo era passa in mano araba. Capitolo 3. Impero carolingio, ecclesia carolingia Questo rappresenta quindi un capitolo chiave: nello straordinario sviluppo politico e territoriale del’Impero carolingio vediamo venire a maturazione le elaborazioni dei regni altomedievali; qui si compì la più alta simbiosi tra potere regio e potere sacerdotale, si aprirono orizzonti culturali e commerciali prima assenti. L’ecclesia era l’insieme dei fedeli cristiani che trovavano la propria guida nei vescovi e nell’imperatore, che convergevano con strumenti diversi verso un doppio fine, la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte. Impero ed ecclesia non erano Stato e Chiesa, ma due modi per leggere la stessa realtà. ■ 1. Dal regno all’Impero I regni merovingi furono l’ambito di affermazione di un nuovo gruppo parentale, i Pipinidi, che seppero costruire un potere egemone sull’intero mondo franco, grazie a: l’iniziatica militare, la costruzione di una rete clientelare nell’aristocrazia d’Austrasia, l’occupazione della carica di maestro di palazzo nei diversi regni franchi, la protezione offerta alle azioni missionarie del monaco Wynfrith, promosse dal papato nelle regioni orientali dell’attuale Germania. 751 Pipino III depose il re Childerico III e assunse il trono. Fu la grande aristocrazia a raccogliersi attorno ai Pipinidi e ad attuare attraverso l’intervento cerimoniale dei vescovi la sostituzione della dinastia regia. Il colpo di Stato si attuò quindi rinchiudendo Childerico in monastero, tagliandogli la folta chioma (simbolo della sua forza) e procedendo al rito dell’unzione del nuovo re Pipino, da parte del monaco Wynfrith. Nel 754 infatti il nuovo papa Stefano II dovette prendere atto che, l’Impero di Bisanzio non era più in grado di offrire un sostegno efficace e che Roma doveva trovare altrove un protettore. Si volse quindi al nuovo re dei Franchi, dove ripeté l’unzione sia del re sia dei suoi figli Carlo e Carlomanno, a legittimare il cambio dinastico, ovvero a sancire l’idea che il carisma regio non fosse legato solo alla persona di Pipino, ma all’insieme del gruppo parentale. Papa Stefano non cercava solo un alleato contro i Longobardi, ma piuttosto un potere che assumesse in modo permanen- te le funzioni di protezione della Chiesa di Roma, che l’Impero non era più concretamente in grado di assolvere. L’attribuzione a Pipino del titolo di patricius (ovvero protettore della Chiesa di Roma). La più immediata conseguenza dell’incontro del 754 fu la spedizione di Pipino in Italia, contro i Longobardi e il loro re Astolfo, che negli anni precedenti aveva conquistato l’Esarcato (la regione di Ravenna), terra imperiale su cui aveva ambizioni egemoniche il papato. Un0’azione tendente a frenare le ambizioni politico-territoriali longobarde e a bloccare la loro pressione nei confronti del papato e delle terre imperiali. La morte di Pipino, nel768, la vedova Bertrada e i figli Carlo e Carlomanno avviarono una politica matrimoniale volta a creare una rete di legami e di solidarietà tra Franchi, Longobardi, e Bavari: Carlo o il fratello si unirono in matrimonio con due figlie del re longobardo Desiderio, mentre una terza principessa longobarda sposò il duca di Baviera Tassilone, a 15 sua volta legato da rapporti di fedeltà nei confronti del re franco. Dopo la morte di Carlomanno, nel771, Carlo si mosse in una più chiara prospettiva di espansione, rompendo i rapporti amichevoli con Longobardi e Bavari. La tradizione politica franca prevedeva infatti che il potere regio fosse considerato come parte del patrimonio del re e perciò diviso tra tutti i suoi figlio maschi. Di fatto per 90 anni – dal 751 al 840- ci fu sempre un solo re dei Franchi e ciò contribuì non poco a dare forza alla loro azione; ma questo non cancellò la tradizionale concezione patrimoniale del regno. Carlo, rimasto unico re dei Franchi, nel giro di pochi anni avviò un’impressionante campagna di espansione territoriale, che gli meritò l’appellativo di Magno (Grande) e che lo portò a costituire un dominio comprendente larga parte dell’Europa occidentale. La conquista più importante fu sicuramente quella del regno longobardo d’Italia, per due motivi: fu qui che Carlo si trovò ad affrontare la struttura politico-territoriale più definita e fu con la conquista dell’Italia che il rapporto con il papato fece un salto di qualità fondamentale, premessa per la trasformazione del regno in un impero. La geografia politica dell’Italia non subì una semplificazione con la conquista carolingia, ma piuttosto un’ulteriore articola-zione tra aree franche (la parte centro-settentrionale del regno longobardo), bizantine (gran parte dell’Italia meridionale), papali (il Lazio, ma anche la Romagna, contesa alla volontà di controllo bizantina) e longobarde (l’area che faceva capo a Benevento). La sottomissione al dominio franco non cancellò del tutto l’identità politico-territoriale dell’Italia longobarda, perché lo stesso Carlo operò per conservarne alcuni elementi: si intitolò rex Francorum et Langobardorum (“re dei Franchi e dei Longobardi”); conservò la capitale a Pavia; assimilò progressivamente l’aristocrazia longobarda dall’interno del proprio apparato di governo. L’espansione verso la penisola iberica fu modesta: una serie di brevi conflitti portarono alla costitu-zione della cosiddetta marca Hispanica, la fascia territoriale immediatamente a sud dei Pirenei. Fu invece di grande rilievo l’azione verso le terre poste a oriente, e in particolare in Sassonia, ovvero la Germania settentrionale. I Sassoni erano pagani e nel 772, Carlo fece distruggere l’Irminsul, un idolo di grande importanza per la religiosità sassone. Lo scopo di Carlo era piuttosto la sottomissione e l’assimilazione dei Sassoni, e in questo contesto la dimensione religiosa era una delle componenti di una identità di popolo che si voleva cancellare. Il processo di assimilazione si espresse anche nella fondazione di una serie di diocesi in ambito germanico, destinate a funzionare su un piano di complessivo inquadramento delle popolazioni sottomesse. Nelle aree più meridionali, la Baviera fu posta sotto un più diretto controllo, limitando drasticamente le ambizioni autono- mistiche del duca Tassilone, vassallo dei re Carolingi; al contempo venne costituita una grande circoscrizione politico- militare, la cosiddetta marca orientale, destinata a tenere sotto controllo le popolazioni slave pagane estranee al dominio carolingio. Il confine della dominazione carolingia non corrispondeva ai limiti della sua influenza, che si estendeva ben al di là dell’area di effettivo controllo politico. In Spagna e in Austria le marche erano luoghi di difesa e di scambio nei confronti delle popolazioni poste all’esterno dell’Impero. Dinamiche simili si istituirono più a nord, nel confronto con i Danesi, le cui continue incursioni indussero Carlo alla costruzione di una grande opera fortificatoria, un lungo terrapieno noto come Danewirke, la cui efficacia militare creò un quadro di sicurezza in cui poterono crescere gli scambi, nel contesto del complessivo sviluppo commerciale nel mare del Nord. Fu particolarmente significativo l’influsso dei modelli politici: il re Offa di Mercia, adottando linguaggi e modelli politici di evidente imitazione franca, ma è anche la dimostrazione evidente dell’influenza carolingia ben oltre gli effettivi confini politici. La linea di azione papale negli anni a cavallo tra VIII e IX secolo fu volta da un lato al consolidamento di un’egemonia sull’Italia centrale, e dall’altro alla definizione di un rapporto stabile di cooperazione con il regno franco. In questo quadro va posta l’incoronazione di Carlo, il giorno di Natale del ‘800: papa Leone III, fuggito da Roma per scampare alla minaccia dei suoi oppositori, fu riportato nell’Urbe e re insediato sulla cattedra papale da Carlo; Leone incoronò Carlo imperatore. Il titolo di imperatore diede maggior rilievo al potere di Carlo, ne affermò in modo simbolicamente efficace la superiorità rispetto a ogni altro sovrano dell’Europa occidentale, ratificando il fatto che il suo dominio era profondamente diverso da quello dei predecessori, sia per ampiezza, sia perché riuniva al proprio interno territori che in precedenza erano totalmente distinti. Tuttavia il titolo imperiale fu al contempo direttamente funzionale alle esigenze del potere papale. Il primo significato – dal punto di vista papale – del titolo imperiale: associare Carlo alla memoria di Costantino, il primo imperatore cristiano, la cui funzione principale era appunto vista nella protezione della Chiesa di Roma. Questo nesso diretto tra titolo imperiale protezione/controllo di Roma si sarebbe proiettato nei secoli seguenti sui successivi imperatori carolingi e poi sulle diverse dinastie che nel corso del medioevo ottennero il titolo imperiale, titolo che fu sempre connesso al controllo del regno d’Italia e quindi alla concreta capacità di proteggere Roma e i suoi vescovi. La collaborazione tra Impero e papato fu quindi un dato di fondo e il titolo imperiale di Carlo fu espressione di questa unione. Quando Leone incoronò Carlo imperatore, un Impero già esisteva, a Bisanzio, e questo comportò ovvie tensioni ideologiche: il titolo imperiale era per definizione universale e quindi sul piano concettuale non appariva lecito affermare l’esistenza di due imperatori; peraltro, il titolo imperiale di Carlo non era una generica celebrazione del suo potere, ma un richiamo molto specifico a Costantino e all’Impero romano, ovvero a quella struttura politica rispetto a cui l’Impero di Bisanzio si poneva in piena continuità. L’incoronazione fu un atto di concorrenza e di ostilità. ■ 2. Conti, vassalli e liberi L’efficacia del potere carolingio si fondava sul coordinamento dell’aristocrazia laica e delle chiese. Per quanto riguarda l’aristocrazia laica, la funzione chiave era quella dei conti, funzionari incaricati di governare a nome del re un territorio comitato), al cui interno assolvevano di fatto tutte le funzioni spettanti al re: guida militare, giustizia, prelievo. Conti e marchesi, figure chiave dell’apparato carolingio, erano sempre esponenti di grandi gruppi parentali aristocratici, ma la forza dell’Impero si espresse nella capacità di separare efficacemente la loro potenza personale da quella esercitata a nome dell’imperatore. Le funzioni comitali divennero via via più stabili, fino a trasformarsi in concessioni vitalizie e d ereditarie. Questo permise una progressiva convergenza tra potenza dinastica (il patrimonio del conte) e funzionariale (i compiti che assolveva per conto del regno): chi governava un territorio per decenni, consolidava nella stessa area anche la propria forza personale. I legami tra l’imperatore e le realtà locali erano garantiti anche da altri funzionari, i cosiddetti missi regis, gli inviati del re. I missi come gli occhi, le orecchie e la voce dell’imperatore, funzionari in grado di garantire il collegamento tra centro e periferia affiancando, controllando o sostituendo i conti. L’apparato di governo fosse fatto di fedeli del re, di aristocratici direttamente e strettamente a lui legati. Queste forme di fedeltà assunsero una forma più definita negli ultimi decenni del secolo VIII, sotto Pipino III e Carlo Magno, in quello che viene definito il rapporto di vassallatico. Durante il regno di Pipino – si constata sia la su diffusione, sia una nuova accezione del termine: il vassallo era un uomo che giurava fedeltà militare a un potente, impegnandosi quindi a servirlo e in specifico a combattere per lui, ottenendone in cambio protezione e un sostegno economico (spesso nelle forme della concessione di una terra, detta in genere beneficium). Una delle prime e più chiare attestazioni è infatti rappresentata dal legame che unì il duca di Baviera Tassilone a Pipino: gli Annali del regno di Franchi, narrano che Tassilone giurò fedeltà a Pipino e ai suoi figli per tutta la vita. Il vassallaggio divenne un’integrazione del sistema politico franco, consolidando la solidarietà interna all’aristocrazia e polarizzandola attorno al poter regio; è proprio attorno al potere e alla corte del re che l’aristocrazia trovava la propria coesione. I vassalli regi furono l’ambito di normale reclutamento dei conti e dei marchesi: i conti erano reclutati tra quelli di cui il re poteva fidarsi, ovvero prima di tutto i suoi vassalli. Il legame tra il re e i suoi funzionari era rafforzato dal vincolo personale che li univa; e al contempo la funzione come conti o marchesi era uno sviluppo del rapporto di solidarietà e aiuto reciproco che univa il vassallo al proprio signore. I rapporti vassallatici e l’apparato funzionariale devono essere considerati anche come parte del meccanismo redistributivo tramite il quale i Carolingi concedevano ai propri seguaci ricchezze e risorse politiche. La forza carolingia nasceva dalla capacità di coordinare l’autonomia potenza aristocratica, coinvolgendola in una rete di clientele e di funzioni, limitandone quindi il potere in forme compatibili con la superiorità regia. Il re era potente perché 16 coordinava in modo efficace un’aristocrazia che disponeva a sua volta di ricchezza e potere: era un equilibrio precario ma efficace, che si ruppe nella seconda metà del IX secolo, quando si ridusse la capacità regia di redistribuire agli aristocratici ricchezza e potere e si indebolì quindi il rapporto di fedeltà e servizio che aveva costituito il collante della società politica sotto Carlo Magno e i suoi primi successori. ■ 3. Le chiese carolingie I chierici non potevano giurare e non potevano combattere né portare armi: quindi il legame tra il re e i vescovi del suo regno non assunse ma le forme del vassallaggio. Né i vescovi divennero conti: le funzioni di governo territoriale dell’Impero carolingio furono sempre affidate a laici (prima di tutto per il loro fondamentale carattere militare). Imperatore e vescovi, con strumenti diversi, convergevano verso lo stesso duplice fine, ovvero la giustizia in terra e la salvezza oltre la morte; perciò, i vescovi consideravano connaturato alla propria funzione, in quanto vertici e guide della comunità cristiana della propria diocesi, l’impegno a cooperare con l’imperatore per garantire giustizia e salvezza, ovvero per governare la società. La cooperazione vescovile alla politica carolingia usava strumenti peculiari del clero, come la capacità di orientare le anime dei fedeli verso l’ubbidienza al re; ma erano in gioco anche le risorse delle chiese vescovili, le loro ricchezze e le loro clientele vassallatiche. I monasteri erano luoghi fondamentali per l’elaborazione culturale; erano infine grandi punti di concentrazione di ricchezze, che potevano quindi fornire un aiuto importante al potere regio. Tutti questi aspetti devono essere tenuti presenti per comprendere l’impegno regio nel tutelare i centri monastici, che culminò nella riforma promossa da Ludovico il Pio e impose la Regola di Benedetto come unico testo normativo di riferimento. Benché questa regola non fosse mai applicata in modo sistematico, fu una delle espressioni della volontà imperiale di intervenire direttamente all’interno delle forme di vita religiosa, ed è un ulteriore testimonianza del fatto che per questi secoli sarebbe impossibile ragionare nei termini di un rapporto tra Chiesa e Stato come due enti separati: era invece l’ecclesia carolingia, la comunità cristiana guidata dai vescovi e dall’imperatore verso la salvezza. È importante comprendere bene il significato e le implicazioni di una concessione ben attestata già nella tarda età merovingia e poi in modo crescente sotto i Carolingi, ovvero l’immunità. I diplomi di immunità concessi di norma a chiese vietavano a qualunque funzionario regio di entrare negli edifici e sulle terre del beneficiario per riscuotere tasse o per amministrare la giustizia. Si definiva un ambito in cui il potere stesso dei funzionari regi era limitato. Per quanto riguarda la giustizia, era prassi che la chiesa immunitaria consegnasse al conte gli uomini che dovevano essere giudicati, mentre dal punto di vista fiscale si trattava senza dubbio di un’ampia esenzione. Erano forme di riequilibrio tra i diversi elementi che andavano a costituire la forza degli imperatori, ed erano quindi strumenti del governo regio. ■ 4. Dall’Impero ai regni Gran parte del IX secolo può quindi essere letta come una fase di sostanziale continuità nei funzionamenti politici: il potere regio fondava la propria forza sul coordinamento efficace dell’aristocrazia (tramite i rapporti di fedeltà e gli incarichi funzionari ali) e delle chiese. Abbiamo visto come la continuità da Pipino III a Ludovico il Pio avesse assicurato la presenza di un solo re (e poi imperato-re) dal 751 all’ 840 ma non avesse cancellato una cultura politica che vedeva nel potere un elemento del patrimonio regio, destinato quindi a trasmettersi ereditariamente a tutti i figli maschi. Il problema si pose prima di tutto a Carlo nei primissimi anni del secolo, di fronte alla prospettiva di una divisione tra i suoi tre figli: Carlo, Ludovico e Pipino. Si trattò di un atto con implicazioni più complesse: la Divisio regni dell’806 individuò diversi regni all’interno del dominio carolingio, ma insistette al contempo sul totum corpus regni (“l’intero corpo del regno”) e su un’idea di Impero come sovrastruttura istituzionale che trovava la sua origine nel nesso con Roma e consolidava l’identità unitaria di un sistema politico avviato verso la spartizione. Tuttavia la morte precoce di due figli fece sì che alla morte di Carlo, nell’814, l’unico erede fosse Ludovico il Pio: il nuovo imperatore non dovette solo gestire le ambizioni dei propri figli, ma anche quelle di Bernardo, re d’Italia, figlio del fratello Pipino. Ludovico affrontò la questione nei primi anni del regno, con la Ordinatio imperii dell’817, in cui affermò con maggiore forza l’idea di unità dell’Impero e di fatto ruppe con la tradizione franca di spartizione: nominò quindi il primogenito Lotario imperatore e unico erede. Fu una scelta che creò ovviamente tensioni, ma soprattutto portò alla ribellione del nipote Bernardo,che vide che si vide escluso da ogni prospettiva ereditaria e seppe raccogliere attorno a sé una quota consistente dell’aristocrazia italica. La ribellione non ebbe successo, ma la sua vicenda è per noi importante perché mostra come in questi decenni le clientele aristocratiche attorno ai Carolingi non si traducessero solo in un sostegno politico all’imperatore, ma potessero dar vita a forme di solidarietà di respiro più regionale. Se la ribellione di Bernardo fu rapidamente sconfitta, un ulteriore motivo di squilibrio all’interno della dinastia carolingia derivò dalla nascita nell’823 di Carlo il Calvo, figlio di Ludovico il Pio e della sua nuova moglie Judith, che negli anni successivi agì per garantire al figlio un futuro politico e cercò di riaffermare il principio tradizionale della patrimonialità del potere regio. Il regno di Ludovico fu quindi contrassegnato da ricorrenti tensioni all’interno della famiglia carolingia, il cui punto più alto fu rappresentato dagli avvenimenti dell’833: Ludovico fu sconfitto a Colmar dai figli nati dal primo matrimonio (Lotario, Pipino e Ludovico), che si vedevano minacciati dal ruolo crescente di Carlo e arrivarono fino a far deporre il padre in un solenne concilio in cui i vescovi franchi costrinsero l’imperatore a fare penitenza per i suoi peccati, per poi dichiararlo indegno del titolo imperiale, che rimase nelle mani di Lotario. Le discordie tra i figli permisero a Ludovico di tornare sul trono già l’anno successivo. Alla morte di Ludovico il Pio, nell’840, queste tensioni sfociarono in un conflitto aperto, che oppose Lotario, Ludovico il Germanico e Carlo il Calvo. Tre passaggi sono particolarmente significativi: la battaglia di Fontenoy dell’841, in cui Lotario fu sconfitto dai fratelli; i giuramenti di Strasburgo, che nell’842 sancirono l’alleanza tra Ludovico e Carlo; e la pace di Verdun dell’843, che pose fine al conflitto. A Fontenoy la battaglia si risolse in un massacro. A Strasburgo Ludovico e Carlo si coalizzarono contro Lotario, ma il dato più significativo è rappresentato dalle forme assunte dal doppio giuramento: per farsi comprendere dai due eserciti, Carlo prestò giuramento in tedesco, Ludovico in lingua romanza, l’antenato del francese. Ognuno fece in modo di essere compreso dai seguaci dell’altro. Questo giuramento esprima su un piano concreto e visibile la presa d’atto dell’esistenza di spazi di civiltà diversi, riuniti nei decenni precedenti nella grande costruzione politica di Carlo Magno e Ludovico il Pio. A Carlo andò il cosiddetto regno dei Franchi occidentali (molto approssimativa-mente l’attuale Francia), a Ludovico il Germanico quello dei Franchi orientali (pressappoco la Germania), mentre Lotario ottenne una fascia intermedia che andava dall’Alsazia fino all’Italia. Ciò che appare veramente mutato è il concetto stesso di Impero: se infatti nell’843 si riconobbe a Lotario il titolo imperiale, questo non si tradusse in alcun modo in una forma di coordinamento unitario, mentre, pur con accenti diversi, gli atti dell’806 e dell’817 avevano sempre posto al cento l’idea di una superiore unità imperiale. Si rinnovò e si rese operativa la tradizione franca di spartizione del regno, ma si rinunciò esplicitamente a un’idea di Impero come struttura operativa unitaria. Si costituirono forme di organizzazione politica di respiro regionale, grazie al coordinamento dell’aristocrazia attorno ai diversi re. La seconda metà del secolo fu segnata dall’articolarsi della famiglia carolingia, con una progressiva centralità assunta da Carlo il Calvo, che culminò nella sua a incoronazione imperiale nell’875. Nell’888 un figlio di Ludovico, Carlo il Grosso, che aveva formalmente unito il dominio carolingio, segnò con la sua morte la fine della dinastia: la sua esclusione dai vertici del potere. Negli anni successivi i Carolingi tornarono a tratti sul trono di singoli regni, ma non furono più la dinastia dominante e soprattutto il loro potere non fu più un fattore unificante dei territori dell’Impero. Nel complesso individuare quattro ampie fasi della storia dei Pipinidi/Carolingi: •inizio VII secolo – 751: furono una grande dinastia dell’aristocrazia australiana, che costruì il proprio potere all’interno del regno merovingio; • 751- 840: con Pipino III, Carlo Magno e Ludovico il Pio- un singolo re carolingio controllò il popolo franco e un grande impero poi; 17 anche e soprattutto le novità, i meccanismi di costruzione del potere e della società, che nel X secolo assunsero forme oggettivamente nuove. ■ 1. I mutamenti dei poteri comitali L’Impero mutò la natura dall’interno, in conseguenza della divisione in regni distinti e soprattutto per un cambiamento capillare dei comportamenti politici dell’aristocrazia e delle chiese. Le incursioni non furono la causa della crisi dell’Impero, ma ne furono piuttosto la conseguenza, furono rese possibili dalla ridotta capacità militare carolingia. A partire dalla metà del IX secolo le divisioni dell’impero tra diversi esponenti della dinastia carolingia indussero una profonda trasformazione nei rapporti tra i re e la grande aristocrazia. Era un rapporto fondato sullo scambio tra servizi e redistribuzione: i servizi che i grandi garantivano al re, e la redistribuzione di ricchezze (benefici feudali, funzioni prestigiose, cariche ecclesiastiche ecc.) che il re operava in favore degli aristocratici. Nella seconda metà del IX secolo questo equilibrio mutò perché si ridusse in modo sensibile la capacità redistributiva dei re: le grandi espansioni territoriali di Carlo Magno erano da tempo terminate, i re non potevano più disporre di un continuo afflusso di nuove terre, popoli da governare, bottino, prigionieri, ovvero di tutte quelle risorse che Carlo aveva potuto concedere ai propri seguaci per consolidarne la fedeltà. Al contempo, proprio le divisioni e i ricorrenti conflitti facevano sì che gli eredi di Carlo avessero un continuo bisogno dell’appoggio militare aristocratico. I re avevano un gran bisogno del loro aiuto e avevano meno risorse con cui ricompensarlo, per cui furono più disposti (o costretti) a cedere alle loro richieste; e ciò che più di tutto i funzionari chiedevano era la stabilità, la possibilità di conservare a lungo la propria funzione e di trasmetterla ai propri figli. In piena età carolingia, appariva chiaro che essere vassallo del re era cosa ben diversa da essere un suo funzionario. Ma non così nei decenni successivi: la carica di conte era si un servizio in favore del re, ma era anche un’opportunità, una risorsa politica ed economica; e dall’altro lato che i re, più deboli dei loro predecessori, non avevano un pieno controllo della rete funzionariale e si appoggiavano soprattutto sui legami personali, sulle clientele vassallatiche. Perciò le stesse funzioni di conti e marchesi si andarono sovrapponendo: il conte era anche vassallo e la funzione di governare un comitato era per lui un’opportunità e una risorsa, ovvero era qualcosa di non troppo diverso da un beneficio vassallatico. Il capitolare Quierzy-sur-Oise dell’877, una legge ingiustamente famosa perché di fatto Carlo il Calvo non deliberò nulla di rivoluzionario; ma per noi resta sicuramente importante, perché dal testo della norma possiamo cogliere quale fosse la prassi politica diffusa. Ciò che Carlo definì in queste norme era solamente una procedura straordinaria per gestire i comitati nel caso in cui il conte morisse mentre il figlio era impegnato in spedizione con l’imperatore. Si stabilirono forme di gestione provvisoria, affidata ai parenti del conte, ai suoi funzionari, al vescovo, in attesa che giungesse la decisione imperiale. Questa idea è direttamente connessa alla rivendicazione da parte dell’imperatore del suo diritto di scegliere chiunque egli volesse come nuovo titolare del comitato. Se figlio del conte non avesse seguito l’imperatore in Italia, sarebbe toccato naturalmente a lui prendere la gestione del comitato alla morte del padre. Nella prassi e nella cultura del tempo il successore naturale di un conte era sempre il figlio. Al contempo è importante notare un passaggio in cui Carlo aggiunge che: conti e vassalli non erano la stessa cosa, si conservava con piena chiarezza la distinzione dei due piani; gli incarichi di ufficio e quella dei rapporti vassallatici viaggiavano parallele, facevano parte dello stesso ampio processo di ridefinizione dei rapporti tra il re e i grandi che si raccoglievano attorno a lui. Se quindi né il capitolare di Quierzy né nessuna altra legge deliberò mai la stabilità o l’ereditarietà della funzione rese possibile un secondo processo di grande rilievo, ovvero la concentrazione del patrimonio del conto all’interno delle aree da lui governate. Nel corso degli anni e delle generazioni, la famiglia comitale acquisiva terre, fondava chiese e stringeva legami matrimoniali all’interno del distretto che governava, e così la funzione comitale e la potenza dinastica si fusero. Nel momento in cui il conte era anche un grande proprietario all’interno del comitato, le diverse aree del distretto non erano per lui tutte uguali: era più attento e più presente nelle aree in cui disponeva di terre, chiese, castelli e vassalli, ed era assai più distaccato dalle zone in cui analogie concentrazioni patrimoniali erano nelle mani di altre dinastie e chiese. In alcuni casi questo “astensionismo” dei conti da alcuni settori del comitato aveva un validissimo motivo giuridico, quando riguardava le terre delle chiese immunitarie: i diplomi di immunità imponevano infatti agli ufficiali regi di non entrare nelle terre delle chiese e suggeriva al conte una politica astensionista, un allontanamento da queste aree per concentrarsi sulle zone in cui il suo intervento era più facile e più promettente, quelle aree in cui il potere derivante dalla funzione comitale era sostenuto dalla ricchezza personale del conte. Nel corso del X secolo un ulteriore elemento di diversificazione del territorio fu - soprattutto in Italia - la formazione dei poteri vescovili sulle città: la convergenza delle comunità cittadine attorno ai vescovi, le concessioni regie in loro favore, la difficoltà di controllare comunità complesse e socialmente stratificate, indussero o costrinsero in molti casi gli ufficiali regi ad allontanarsi dai centri urbani per concentrarsi sui propri possessi fondiari nelle campagne. Ci interessa soprattutto per mostrare come il potere dei conti fosse discontinuo, con aree di forza e di debolezza, e con un’assenza pressoché totale dei conti in alcuni settori del territorio. L’esito generale fu quindi un cambiamento strutturale sia nel legame tra il regno e le realtà locali, sia nel rapporto tra aristocrazia e territorio, e più in specifico tra i grandi funzionari regi e i distretti loro affidati. Un indebolimento del controllo del re sul territorio e sui propri funzionari, ma anche una discontinuità dello stesso controllo dei conti sui territori; dal punto di vista militare, appare tramontata la capacità di difesa relativamente omogenea da parte del re e del suo apparato. ■ 2. Minacce esterne: le incursioni di Saraceni, Ungari e Normanni La crisi del potere carolingio alla fine del IX secolo fu prima di tutto una crisi della capacità imperiale di controllare militarmente i territori, e lasciò quindi campo aperto a iniziative non di ampi eserciti impegnati in conquiste territoriali, ma di piccole bande che compivano incursioni più o meno rapide, con intenti di saccheggio. Queste bande, per quanto agissero in modo autonomo e disordinato, possono essere ricondotte a tre identità etniche fondamentali: i Normanni, provenienti dalla Scandinavia; gli Ungari, insediati nelle steppe dell’attuale Ungheria; e i Saraceni, bande di pirati attivi in diversi punti del Mediterraneo. I Saraceni rappresentano sicuramente il gruppo dai contorni definiti e sfuggenti. Di fronte a gruppi etnicamente misti, impegnati in attività di saccheggio via mare, con incursioni attestate a partire dagli anni ’60 del IX secolo; ma alla fine del secolo compirono un salto di qualità importante, con la costituzione di basi permanenti sulle soste settentrionali del Mediterraneo, tra cui la più nota era Fraxinetum, nella baia di Saint-Tropez, da cui partirono una serie di spedizioni di saccheggio nell’entroterra e sulle Alpi, che cessarono solo dopo il 972, quando il conte di Arles e il marchese di Torino si allearono per attaccare e distruggere la base saracena. Gruppi di armati seppero muoversi tra le coste e l’entroterra dell’Europa meridionale, con operazioni che non tendevano mai a una conquista durevole ma al saccheggio. Tra la metà del IX secolo e la metà del X si sono contate una trentina di pesanti incursioni di cavalieri ungari tra la Germania e l’Italia settentrionale. La conflittualità interna ai regni di Germania e d’Italia fu quindi una grande opportunità per gli Ungari: non solo permise loro di saccheggiare chiese e città mal difese, ma offrì anche la possibilità di combattere, ben ricompensati, per i potenti locali. Su spazi radicalmente diversi si mossero i Normanni. Lo sviluppo degli scambi nel mare del Nord aveva stimolato la mobilità dei popoli scandinavi, in operazioni commerciali e di pirateria, due livelli che spesso si confondevano: chi voleva commerciare viaggiava armato perché doveva difendersi, ma queste armi potevano diventare strumento di saccheggio se si arrivava in porti e luoghi poco o per nulla difesi. A est prevalse la dimensione commerciale: le navi consentirono un commercio in profondità ai Vareghi che seppero però trasformare la propria azione economica in stanziamento stabile, con la creazione di emporia, insediamenti fortificati destinati a funzionare prima di tutto come luoghi di scambio. In Occidente, l’azione militare dei Normanni può essere scandita in tre fasi: - dai primi decenni del IX secolo attuarono piccole incursioni di rapina sulle coste dell’Inghilterra e della Frisia; 20 - dai decenni centrali del secolo le incursioni crebbero di scala, con flotte di decine di navi che permettevano di risalire i fiumi e attaccare città come Londra (851) e Parigi (885); - alla fine del secolo IX le incursioni si trasformarono in insediamenti stabili, all’interno dei regni inglesi della Mercia e dell’East Anglia e nel nord del regno franco, attorno alla foce della Senna; quest’ultimo insediamento fu infine riconosciuto e legittimato dal re Carlo il Semplice, che nel 911 investì di questa regione il capo normanno Rollone, dando vita al ducato di Normandia. I Normanni si convertono al Cristianesimo e il ducato divenne in tutto e per tutto analogo ai grandi principati territoriali che si spartivano il territorio francese e si coordinavano attorno al re. Il ducato di Normandia divenne anzi un elemento di stabilità militare, perché la sua forza costituì un freno a ulteriori incursioni da parte di altri gruppi. Tra queste tre minacce armate che colpirono l’Europa occidentale tra IX e X secolo, i Normanni furono quindi i soli a trasformare la propria azione militare in stanziamento permanente e in dominio politico: i passaggi di queste bande armate (mobili, imprevedibili, on cristiane) lasciarono un chiaro segno sul piano culturale e dell’immaginario, e la paura delle incursioni divenne un dato dominante per molti decenni. Fu la debolezza del controllo militare regio ad aprire le porte a forme di brigantaggio e saccheggio più o meno sistematico; e fu la reazione delle forze interne al mondo carolingio a consentire una pacificazione e un controllo di questa mobilità. Le incursioni stimolarono l’azione militare locale e quindi la costruzione dei primi castelli, ma questa azione e questa costruzione andarono ben al di là della necessaria risposta alla minaccia saracena o normanna; dopo la fine delle incursioni, chiese e signori continuarono a innalzare fortificazioni, destinate a difendere non dalle minacce esterne, ma piuttosto dall’azione militare degli agli signori. ■ 3. Il potere dei re In questa fase scomparve pressoché totalmente l’attività legislativa regia e nel X e XI secolo furono del tutto eccezionali i provvedimenti con valore generale. I re intervenissero nella vita politica lo fecero con azioni e testi diversi, prima di tutto i diplomi, ovvero concessioni accordate a un singolo destinatario (individui, collettività o soprattutto chiese). Conservarono una relativa centralità politica grazie alla loro grandissima capacità redistributiva, sia in termini di risorse concrete (ricchezze, esenzioni, privilegi), sia per la protezione garantita a chiese e individui che spesso nei diplomi cercavano semplicemente la conferma del proprio patrimonio, a cui la protezione regia garantiva nuova forza giuridica e politica. I re dovevano limitarsi a una constatazione attiva dei nuovi poteri signorili: “constatazione”, perché i re non erano in grado di dare vita alle strutture locali del potere. I numerosi diplomi che in questa fase i re concedettero a chiese e dinastie favorivano quei poteri che conservavano un rapporto di fedeltà con il re, concedendo loro sia risorse materiali (terre e castelli tratti dal patrimonio regio, sempre amplissimo), sia risorse immateriali (soprattutto legittimità). La crisi postcarolingia corrispose a una profonda ridefinizione della loro funzione politica, fondata su alcuni caratteri comuni a tutti i regni. In linea generale, l’Impero carolingio si articolò in quattro regni: Germania, Italia, Francia e Borgogna. I singoli regni erano in ogni caso spazi politici riconosciuti, con evoluzioni specifiche, che quindi possono essere presentate separatamente. La Borgogna fu la struttura politica di minor durata: si affermò alla fine del IX secolo come territorio autonomo, controllato dai Rodolfingi, che si imposero precocemente come dinastia regia, a cavallo di quelle che attualmente sono la Francia e la Svizzera francese. Una crisi dinastica iniziata con la morte di Rodolfo II aprì la strada ai re di Germania per affermare il proprio patronato e controllo sulla Borgogna. Nel 1034 il regno passò direttamente nelle mani del re di Germania, Corrado II. 3.1 Italia Per l’Italia, una data chiave fu sicuramente l’888, la morte di Carlo il Grosso, l’ultimo carolingio ad aver riunito nelle sue mani l’intero Impero. La fine della dinastia carolingia rese irrilevante la componente dinastica, lasciò campo aperto a una serie di contendenti di altissimo livello politico, nessuno dei quali poteva però vantare una diretta ascendenza carolingia per via maschile. L’opposizione fondamentale fu tra i marchesi del Friuli e quelli di Spoleto: Berengario del Friuli fu incoronato re nell’888, ma fu sconfitto da Guido di Spoleto l’anno successivo; Berengario riprese un ruolo centrale dopo la morte di Guido (894), regnando fino alla morte, nel 924, dopo aver ottenuto anche la corona imperiale nel 915. Era piuttosto l’opposizione tra le maggiori famiglie dell’aristocrazia italica, le grandi dinastie marchinali che cercavano di controllare la corona direttamente o indirettamente. La politica italiana restò quindi polarizzata attorno a diversi pretendenti al trono. 3.2 Germania L’ultimo re carolingio a controllare il regno dei Franchi orientali fu Ludovico il Fanciullo, che morì nel 911, lasciando aperto o spazio politico per l’affermazione di re nuovi, che non ereditarono la corona dai propri antenati. Tutta la storia di questo regno dal X secolo in avanti può essere letta nell’ottica della convivenza tra potere principesco e potere regio, e quindi tra principio elettivo e principio dinastico. Nel 911, alla morte di Ludovico, fu scelto come re uno dei grandi duchi, Corrado di Franconia, ma il suo regno fu costantemente minacciato. Principale avversario di Corrado fu Enrico di Sassonia, con cui il re giunse a un accordo fondato sulla reciproca fedeltà e sulla non ingerenza del re nei domini del duca sassone. Nel 919 alla morte di Corrado l’aristocrazia tedesca scelse il duca di Sassoni come nuovo re. Il dominio dei re sassoni ampliò rapidamente i propri orizzonti: l’ampliamento più rilevante fu sicuramente la conquista del regno d’Italia, attuata dal figlio, Ottone I, a partire dal 951. L’azione di Ottone si situò in un contesto particolarmente complesso: da un lato le divisioni interne all’aristocrazia italica, tra chi sosteneva Berengario e chi si richiamava alla potente regina Adelaide, vedova di Lotario; dall’altro la posizione di Berengario, che negli anni precedenti si era posto sotto la protezione di Ottone; infine i conflitti tra lo stesso Ottone e il figlio primogenito Liutdolfo, che ambiva ad affermare il proprio potere personale sull’Italia. Le tensioni tra ottone e il figlio si trasformarono i in un vero e proprio conflitto. Il quadro politico italiano fu quindi temporaneamente pacificato con il riconoscimento di Berengario II e del figlio Adalberto come re sottoposti a Ottone, che assunse il controllo diretto del nord-est della penisola, Ottone si concentrò poi nel conflitto politico-militare contro il figlio, che si risolse a suo favore solo nel 954, con un atto di sottomissione da parte di Liutdolfo. La pacificazione interna al regno e l’accresciuto controllo sull’aristocrazia furono le premesse per la grande vittoria del Lechfeld del 955, con cui Ottone mise fine alla minaccia delle incursioni ungare e affermò con evidenza la sua condizione di massimo potere politico-militare dell’Europa di tradizione carolingia. Nel 961 Ottone poté scendere di nuovo in Italia e ottenere a Roma la corona imperiale che poteva pretendere proprio in quanto detentore del regno d’Italia e quindi effettivo protettore della Chiesa di Roma. Il re di Germania veniva eletto dai prìncipi tedeschi, doveva poi scendere in Italia per prendere possesso di questo regno e infine recarsi a Roma per ottenere dal papa la corona imperiale. A partire da Ottone si affermò una vera e propria dinastia regia. Se quindi si ripropose una continuità familiare, come in età carolingia, dobbiamo notare due differenze importanti: prima di tutto la successione al trono avveniva sì all’interno della dinastia, ma sempre con il consenso dei grandi del regno, attraverso una forma di elezione; inoltre, rispetto al secolo precedente, fu più chiara un’idea di linea dinastica, di successione a vantaggio esclusivo del primogenito, tale da escludere dal trono gli altri figli del re. Si delineò un sistema di potere estremamente solido, con una piena occupazione dei ruoli di potere nel regno da parte di un unico gruppo parentale, sotto la guida della linea dinastica costituita dai re. Ottone III pose al centro della propria ideologia la nozione di Renovatio Imperii Romanorum (il Rinnovamento dell’Impero romano): il linguaggio e il cerimoniale imperiale si arricchirono di elementi tratti sia dalla tradizione occidentale, sia da quella bizantina al fine di esprimere un’idea imperiale alta, modellata in riferimento non solo all’età carolingia, ma soprattutto a quella romana. Nel 996 lo raggiunse la notizia della morte di papa Giovanni XV; Ottone 21 impose come papa un proprio cugino, Bruno di Worms, che divenne Gregorio V e pochi mesi dopo incoronò Ottone imperatore. I Romani si ribellarono duramente all’elezione di Gregorio, tanto che dovette intervenire militarmente lo stesso ottone, nel 998, per sconfiggere i ribelli, deporre il nuovo papa da loro eletto e reinsediare Gregorio. L’anno successivo, alla morte di Gregorio, Ottone impose come papa Gerbert d’Aurillac, uno dei più grandi intellettuali di quei decenni che assunse il nome di Silvestro II. Lo stesso imperatore si fece costruire un palazzo in città, in analogia e in concorrenza con il palazzo papale del Laterano. Ma le nomine di Gregorio e di Silvestro indicarono anche una possibile evoluzione del papato; pontefici di alto livello intellettuale, svincolati che avrebbero potuto consentire una crescita del papato d a tutti i punti di vista, sia sul piano ecclesiastico, sia su quello culturale, sia infine nel suo ruolo negli equilibri politici europei. Nel 1002 la morte precoce di Ottone III aprì una breve crisi dinastica, che in Germania si risolse rapidamente all’interno dello stesso gruppo parentale, con l’ascesa al trono del cugino Enrico II. Poche settimane dopo la morte di Ottone, un gruppo di grandi aristocratici dell’Italia settentrionale si radunò a Pavia per incoronare re d’Italia Arduino, marchese di Ivrea. Dopo una breve resistenza, fu sconfitto da Enrico nel 1004 lasciando il regno nelle mani del re sassone. La sua elezione rese visibile una tensione sotterranea, ovvero una ricorrente volontà dell’aristocrazia italica di imporre le proprie decisioni nella nomina del re. I decenni attorno al Mille andarono quindi a definire un duraturo equilibrio tra regno e aristocrazia; una preminenza dell’aristocrazia ducale tedesca, che affermò il proprio potere di elezione del re; ricorrenti tendenze dinastiche; un’autorità regia condizionata dall’aristocrazia principesca, ma dotata di una forte base di potere fatta di un concreto controllo di terre, castelli e vassalli; un’aristocrazia italica a cui sostanzialmente sfuggì il controllo della corona, ma che consolidò il proprio potere per vie diverse, con processi di potenziamento dinastico e signorile. 3.3 Francia Anche in Francia il declino della dinastia carolingia aprì il campo a nuove dinamiche nella lotta per il regno e nell’888 che lasciò spazio al primo re estraneo al gruppo parentale carolingio: prese infatti il potere il conte Oddone di Parigi, si trattò dell’inizio di un’instabilità politica che segnò successivi decenni. Un primo elemento peculiare della Francia fu la sopravvivenza politica dei Carolingi: alcuni settori dell’aristocrazia scelsero infatti di appoggiare Carlo il Semplice, che fu incoronato a Reims nell’893 e si contrappose a Oddone, la cui morte, nell’898, rese Carlo unico e indiscusso re di Francia. La sua debolezza divenne palese ed estrema nel 922, quando i grandi del regno decisero che non era in grado di regnare e lo deposero. Il cambiamento più profondo fu costituito dal diversificarsi del territorio del regno, dalla sua suddivisione in principati regionali largamente autonomi. Si scelsero i re all’interno del gruppo parentale derivante da Oddone (quelli che identifichiamo come i Robertini), ma si evitò di attribuire la corona direttamente al figlio del re Oddone, Ugo il Grande, atto che avrebbe creato l’idea di una vera e propria dinastia regia. Come negli altri regni, in questi decenni i grandi prìncipi di Francia, liberi dal peso condizionante del carisma regio carolingio, cercarono di affermare il proprio potere di scegliere il nuovo re; ma al contempo nessuno poteva ignorare la presenza forte e ingombrante di quella che si stava affermando come la principale dinastia principesca, ovvero i Robertini. Ugo il Grande, nonostante la sua potenza, scelse di no imporre la propria elezione a re e preferì far tornare dall’esilio il figlio di Carlo il Semplice, Ludovico IV, con cui i Carolingi ripresero il trono di Francia, che tennero fino al 987. Le dinastie principesche rappresentavano anzi i principali attori politici del regno e Ugo evitò probabilmente di affermare simbolicamente la propria superiorità rispetto agli altri prìncipi. Il processo che in questi decenni segnò i meccanismi politici del regno di Francia fu la costruzione dell’egemonia dei Robertini, che culminò nel 987 con l’ascesa al trono del nipote di Ugo il Grande, Ugo Capeto, da cui prese il via la dinastia capetingia, che conservò la corona di Francia fino al 1328. Il 987 è tradizionalmente considerata una data chiave della storia francese, momento fondativo della monarchia nazionale. L’ascesa al trono di Ugo Capeto fu l’esito coerente di un lungo processo di affermazione della dinastia ai vertici del regno, avviato con la massima evidenza un secolo prima, quando il conte Oddone di Parigi era stato incoronato re alla morte di Carlo il Grosso. Lungo il secolo XI il potere regio conservò un duplice carattere di forza egemone di cui era generalmente riconosciuta la superiorità, e di forza regionale, un principato territoriale non molto diverso dalle altre dominazioni in cui si articolava il territorio francese. È sul piano locale, dei poteri signorili e principeschi, che si crearono nuovi funzionamenti politici, e furono i grandi vescovi a elaborare modelli di ordine politico che, in larga misura, facevano a meno del re. 3.4 AI margini del mondo carolingio I processi di costruzione del potere regio si realizzarono anche in aree poste al di fuori degli antichi confini dell’Impero, e in particolare in Inghilterra e in Spagna. La tradizione politica inglese lungo l’alto medioevo vedeva un’alta frammentazione politica. Il secolo IX può essere letto alla luce di due processi: da un lato la progressiva crescita delle incursioni normanne, dall’altro lato una crescente egemonia del Wessex, regno posto nella parte sudoccidentale dell’Inghilterra, che riuscì a lungo a conservarsi autonomo dall’espansione normanna. Il culmine di questo potenziamento fu il regno di Alfredo il Grande che sottomise la Mercia e arrivò a controllare tutti i regni inglesi non compresi nella dominazione normanna. Alla morte di Alfredo salì al trono il figlio Edoardo che dovette rifondare il proprio dominio e riaffermare nel 911 il controllo sulla Mercia. Fu solo all’inizio del secolo XI che si costituì infine un regno inglese unitario: fu il re norvegese Knut che nel 1016 arrivò ad affermare il proprio controllo sul Wessex e quindi su tutti i principali regni inglesi. Knut controllava al contempo i regni di Danimarca e Norvegia. Alla morte di re Edoardo, nel 1066, la corona poté essere contesa da diversi personaggi: la rivendicarono il duca del Wessex Harold Godwinson, il re di Norvegia Harald e il duca di Normandia Guglielmo. Il primo fu rapidamente incoronato re, ma nell’autunno subì gli attacchi quasi contemporanei degli altri due, sconfiggendo Harald, per essere però poi sconfitto e ucciso da Guglielmo ad Hastings il 14 ottobre. I decenni successivi furono segnati da due processi: da un lato l’integrazione tra aristocrazia normanna e inglese, e dall’altro un’intensa ridefinizione delle gerarchie sociali, con una nuova ed efficace centralità del potere regio. Nella penisola iberica la conquista araba nel VIII secolo non aveva coinvolto l’intera penisola, ma aveva dissolto l’unità visigota. La convivenza tra gli emiri e i regni cristiani fu segnata indubbiamente da una tensione di fondo, ma in questo periodo diede vita a un’organica spinta alla conquista cristiana, a quella che in seguito diverrà la Reconquista. Così da un lato i re cristiani cercarono di operare attivamene nelle dinamiche interne all’emirato, sostenendo delle fasi di instabilità politica; ma al contempo la maggior forza militare islamica permise l’affermarsi di un’egemonia di fatto dell’emiro sull’intera penisola. Nella penisola iberica del X secolo, i regni cristiani e l’emirato non erano né mondi separati né dominazioni in totale contrapposizione; erano piuttosto articolazioni regionali poste su diversi livelli di potenza, protagoniste di un’intensa dinamica politica, non sempre e non necessariamente fondata sulla contrapposizione armata. Fu un equilibrio dinamico e conflittuale, ma definì un quadro di sostanziale stabilità territoriale delle diverse dominazioni; solo alla fine del secolo XI, in parallelo con la formazione dell’ideale crociato, la Reconquista assunse una forma strutturata, efficace, ideologicamente organizzata e sostenuta dal papato segnando l’avvio di un processo di espansione territoriale dei regni cristiani ai danni dell’emirato. ■ 4. Modelli di ordine sociale La fine dell’Impero carolingio fu segnata da nuove forme dell’azione locale degli ufficiali regi; un’intensa mobilità militare che dai confini dell’Impero penetrò fino nelle aree centrali; la formazione di nuovi regni. Sono tuttavia riconoscibili alcune linee di tendenza comuni: nella lotta politica interna alla grande aristocrazia, perché ora si lottava non solo per avvicinarsi al re e trarne benefici, ma anche per impadronirsi dello stesso potere regio. In tutti i regni europei i re erano pienamente parte della dinamica politica aristocratica e il territorio dominato direttamente dal re non era di norma 22 ecclesiastiche come indebite intrusioni nei dogmi della fede e come minaccia all’autonomia del clero. La Chiesa, come istituzione, doveva essere superiore e indipendente rispetto ai comportamenti dei suoi ministri. Il papato riformatore sotto la protezione imperiale affrontò anche altri nodi dell’istituzione ecclesiastica, a partire dal ruolo del papato stesso. Il primato di Roma infatti andava rafforzato sia verso l’esterno, sia verso l’interno. Verso l’esterno una polemica contro il patriarca di Costantinopoli generò uno scisma definitivo, che separa ancora oggi la Chiesa d’Oriente, definita come ortodossa, da quella cattolica latina. Verso l’interno, invece, il papato doveva essere protetto dai suoi stessi pretendenti, soprattutto nel momento, contestatissimo, delle elezioni. La questione dell’unità della Chiesa si pose intorno al 1053, in occasione di una nuova diatriba che si era aperta con il patriarca di Costantinopoli. Per il papa le altre chiese erano ridotte a “serve” di Roma, mentre Bisanzio ammetteva come proprio capo solo Gesù e non Pietro. La rottura fu un atto importante nell’autorappresentazione del papato: non solo fornì argomenti a favore alla tesi dell’unicità della Chiesa di Roma come guida della cristianità, ma rafforzò anche la convinzione, non da tutti accettata, che solo il vescovo di Roma, vale a dire il papa, fosse depositario dell’eredità di Pietro. Si pose il problema del ruolo del papato all’interno della Chiesa stessa, del suo primato, delle sue funzioni, dei rapporti con le altre figure istituzionali. Qualche anno dopo lo scisma, si aprì la questione dell’elezione del papa. Ildebrando di Soana nominato da Leone IX arcidiacono e amministratore della Chiesa romana aveva acquisito sufficiente autorità in seno alla curia romana da imporre come papa il vescovo di Firenze. Gerardo, che fu eletto a Siena sotto il nome di Niccolò II. Il nuovo papa presentò nel concilio di Roma del 1059 un diverso sistema di elezione del papa, che limitava il diritto di voto solo ai cardinali-vescovi, riducendo il popolo e il clero di Roma e lasciando uno spazio ambiguo all’approvazione imperiale. Fu in questo contesto che si svolse il pontificato di Ildebrando di Soana, salito al trono papale sotto il nome di Gregorio VII. ■ 2. Il movimento del conflitto. Il pontificato di Gregorio VII Sotto il suo governo si raggiunse la fase di massimo conflitto fra la Chiesa di Roma e i poteri laici ed ecclesiastici dell’Impero. Il papato veniva presentato come fulcro della cristianità e la cristianità come sinonimo di “società”. Gregorio fornì la Chiesa di strumenti culturali e ideologici per immaginarla, rompendo la vecchia tradizione della spartizione delle aree di governo della società tra papa e imperatore. Davanti a queste ripetute ostilità, Gregorio VII rispose attaccando direttamente il clero ribelle. Durante il concilio di Roma del 1075 colpì i vescovi disobbedienti minando la base del potere politico dell’episcopato: l’investitura laica dei vescovi o di un’autorità laica, di concedere a un ecclesiastico beni materiali, terreni, edifici e a volte anche la carica di vescovo. Gregorio contrastò questo sistema politico attaccando l’investitura di benefici. Condannando l’intervento dei laici come indebita intromissione nelle cose sacre: l’investitura doveva essere considerata un atto contrario allo “statuto dei santi padri”, che metteva in pericolo la stessa religione cristiana. Nel concilio di Roma del 1075 si dispose che “nessun chierico o prete riceva in alcun modo una chiesa dalle mani di un laico, gratuitamente o per denaro”. La forma del divieto fu precisata nei concili del 1078 e poi ancora del 1080, quando si menzionò esplicitamente l’investitura imperiale: “nessun chierico riceva l’investitura di un episcopato, di un’abbazia e di una chiesa dalle mani dell’imperatore o di un’altra persona laica”. Un documento molto famoso, inserito nel registro di Gregorio VII e conosciuto come Dictatus papae: una lista di 27 tesi che elencavano i poteri riservati solo al papa come guida spirituale e politica della Chiesa. “solo il papa” poteva deporre un vescovo o riconciliarlo, emanare nuove leggi, dividere e unire episcopati, spostare i vescovi da una diocesi a un’altra; e ancora, usare le insegne imperiali, essere omaggiato dai prìncipi con il bacio del piede e scomunicare e addirittura deporre gli imperatori. Nessuno poteva giudicare il papa, modificare le sue decisioni o condannare chi presentava appello alla sua corte. La decisione ultima nelle controversie fra ecclesiastici spettava infatti alla Chiesa di Roma: il papa non errava mai. La Chiesa di Roma (e quindi del papa) comprendeva tutti i veri cattolico: chi non faceva parte della Chiesa romana non era considerato cattolico. L’impressione di un tentativo reale di Gregorio di imprimere alla Chiesa di Roma un crisma istituzionale nuovo, in grado idi garantire la preminenza pontificia nei confronti di tutti gli altri poteri laici ed ecclesiastici, Impero compreso. Dei vari canoni che compongono il Dictatus uno in particolare sembra essere stato inserito proprio da Gregorio: il potere di deporre l’imperatore. Dopo la deposizione del vescovo di Milan, il simoniaco Goffredo, Gregorio aveva nominato come unico vescovo legittimo Attone. Incurante di questa scelta, Enrico IV nominò invece il suddiacono Tedaldo, aprendo un contenzioso lungo e di estrema violenza. Nel concilio di Worms del 24 gennaio 1076, Gregorio VII fu deposto dai vescovi riuniti sotto l’Impero, in virtù della funzione regia di tutela della Chiesa. Enrico si appropriava di questo vessillo tipico della regalità altomedievale per opporsi a Gregorio che rischiava di dividere la Chiesa provocando uno scisma. Nel sinodo romano del febbraio 1076 fu invece scomunicato e deposto Enrico IV. La risposta di Enrico fu sul piano ideologico, ancora più audace: il re dipendeva solo dalla volontà di Dio che gli aveva conferito il compito di difendere la cristianità. Sulla base di questo rapporto diretto con la divinità, l’imperatore doveva agire per liberare la Chiesa dal tiranno. Fu così in grado di convocare concili con un’ampia partecipazione dei vescovi italiani e tedeschi che rinnovarono la deposizione di Gregorio eleggendo un nuovo papa (antipapa per Roma) nella figura del vescovo Guiberto, il potentissimo arcivescovo di Ravenna. Dopo una tregua raggiunta con la mediazione di Matilde di Canossa nel 1077 il conflitto riprese più violento di prima. Nel concilio di Roma del 1080 Gregorio scomunicò e depose nuovamente l’imperatore, sciogliendo i sudditi dal vincolo di fedeltà al sovrano. Tra gli effetti reali del conflitto, emerse proprio il ruolo assunto dalle popolazioni locali: indipendentemente dagli esiti della lotta fra il partito imperiale e papale, a condizionare la vita concreta delle chiese furono le scelte prese di volta involta dia laici nelle città e nelle diocesi dell’Impero. Si affermò una nuova coscienza nei laici sull’importanza di intervenire sulla natura e la trasmissione del messaggio religioso. I papi seguenti continuarono a sostenere la visione rigorista di Gregorio: tutte le investiture, senza distinzione fra lo “spirituale” (consacrazione) di competenza ecclesiastica, e il “temporale” (terre e immobili) che poteva, a rigore, dipendere anche da donativi dell’imperatore. Il dissidio non poteva essere risolto con un atto di separazione violenta delle sfere spirituale e temporale dell’azione dei vescovi. I due piano dovevano coesistere: si doveva tener conto sia della profonda implicazione politica dei vescovi, inseparabili dalla trama dei poteri laici, sia della natura sacrale del loro potere spirituale, riservato alla Chiesa. Così a Worms, Enrico V e il papa Callisto II (23 settembre 1122) trovarono un accordo: al papa spettava l’investitura con l’anello e il pastorale, simbolo del potere spirituale e del matrimonio mistico del vescovo con la sua chiesa; al re l’investitura dei regalia con lo scettro. ■ 3. Pretese universali e definizioni istituzionale della Chiesa Il papato aveva trovato una soluzione al conflitto ma ne era uscito fortemente indebolito sul piano politico. Il papa di Roma si presentava alla fine del secolo XI come un’istituzione nuova, un centro di potere spirituale e politico in grado di condizionare non solo i contesti locali, ma la stessa politica dei regni europei. Il papa rivendicava un ruolo di guida delle anime che prescindeva dai confini territoriali dei regni e si sovrapponeva alle fedeltà locali. La Chiesa aveva un altro fine, la salvezza delle anime; usava un altro potere, l’ordine sacramentale consegnato da Dio in via esclusiva al clero; aveva un nuovo esercito, il clero inquadrato in diocesi dipendenti da Roma; e un nuovo popolo che coincideva con tutti i fedeli abitanti nei regni. Cosa era “religione” doveva essere giudicato solo da uomini di Chiesa, perché l’elaborazione del messaggio evangelico era stato affidato alla Chiesa di Roma erede di Pietro. L’intesa produzione normativa della Chiesa di Roma nei decenni della riforma si nutriva di una più ampia e capillare attività dei concili provinciali delle chiese cristiane. Raccolte di decisioni conciliari e di lettere pontificie furono preparate già alla fine del secolo XI. 25 Per mettere ordine su queste materie così complesse, un maestro di nome Graziano attivo a Bologna intorno al 1140, mise insieme, nel corso di alcuni anni e in redazioni diverse, una raccolta di canoni chiamata Decreto. Un’opera che riuniva concili, lettere papali, passi biblici intorno alle materie del diritto ecclesiastico affrontate con metodo dialettico. Il Decreto rimase per lungo tempo la principale compilazione di diritto ecclesiastico studiata e commentata dai giuristi di Chiesa (chiamati canonisti), che presero il nome di “decretisti”. Un sistema duttile, che adattava continuamente il diritto ai casi singoli elaborando ogni volta soluzioni diverse, aveva però bisogno di alcune linee guida, di un filo rosso che indicasse una direzione di sviluppo verso cui indirizzare la Chiesa. Emerse la necessità di rafforzamento della gerarchia interna della Chiesa. Da un lato, i vescovi furono sempre più incardinati nelle proprie diocesi. Dall’altro lato i papi avevano cercato di creare una rete di controllo sui vescovi locali, attraverso propri rappresentanti, chiamati legati apostolici, incaricati di giudicare i conflitti locali e di avocare a Roma la soluzione delle cause in corso. L’attribuzione di una facoltà di conoscere e di decidere sui casi più importanti fu a lungo una prerogativa rivendicata dai papi di Roma per affermare il proprio ruolo di guida suprema della Chiesa. I casi da decidere furono così distribuiti in base alla gerarchia dei gradi interni alla Chiesa. Negli ultimi anni del secolo XII si affermò anche una nuova procedura giudiziaria per conoscere e perseguire i reati del clero: l’inchiesta d’ufficio (chiamata inquisitio ex officio), che divenne presto uno strumento utile per imporre la supremazia politica del papa attraverso l’esercizio di un potere giurisdizionale superiore. L’inchiesta partiva dalla “fama”: una voce collettiva su una persona o un fatto, suscitata dal comportamento riprovevole di un chierico. Quando il reato era noto e “le voci non si potevano più dissimulare senza scandalo né tollerare senza pericolo”, l’ecclesiastico doveva essere processato e punito, di qualunque grado egli fosse. Con la procedura inquisitoria si potevano controllare ormai tutti i gradi della gerarchia, anche i vescovi, se trovati in difetto. Cosa che avvenne soprattutto sotto papa Innocenzo III che si distinse per il grande numero di vescovi rimossi, depositi, trasferiti nel corso del suo pontificato. Il papa riusciva a imporsi sui vescovi perché aveva il potere di giudicare le cause che li riguardavano, scegliendo i rimedi da prendere. In questi anni finali del secolo XII si modificò anche la titolatura del papa, che era sempre stato vicario di San Pietro. Gradualmente si iniziò a usare un titolo più ambizioso, “vicario di Cristo”, dove la diretta rappresentanza del divino qualificava in senso sacro la figura del papa. Ogni spinta politica si traduceva in un organo disciplinato dal diritto: le decisioni collettive della Chiesa erano prese all’interno del concilio “ecumenico” che riuniva tutti i vescovi del mondo cristiano. Intorno al papa si formò un “sacro collegio” formato dai cardinali. Gli affari di governo venivano invece affidati alla curia e la Camera apostolica gestiva le finanze della Chiesa di Roma. Parallelamente si definirono meglio sul piano giuridico e istituzionale le presenze ecclesiastiche locali. Sia il clero urbano sia le diversissime esperienze religiose monastiche andavano definite e sottoposte a una regola comune. Nelle città episcopali si cercò di ristabilire una disciplina della vita del clero. I canonici, vale a dire i chierici adibiti al servizio della cattedrale, furono nuovamente chiamati negli anni della riforma a condurre una vita di penitenza, di rinunce e di castità. La vita comune fu la risposta a questa tensione organizzativa nuova. Nelle varie diocesi europee si iniziò così la costruzione di nuovi edifici collettivi per ospitare il clero cittadino, chiamate “canoniche”. Intorno alle cattedrali si costituisco i “capitoli” formati dai canonici del vescovo. Il capitolo cattedrale acquisì presto una personalità giuridica autonoma, con propri beni immobili e una “mensa” (dotazioni economiche) separata da quella del vescovo. I capitoli costituirono un centro importante di concentrazione del potere politico: erano articolati in uffici diversi, fortemente gerarchizzati al loro interno, avevano un proprio tribunale e si ponevano alla guida della vita religiosa cittadina. L’organizzazione in capitoli coinvolse i sacerdoti di tutte le chiese importanti, sorsero così i capitoli di collegiate. Ogni capitolo, collegiata o chiesa entrava in un sistema governato dal vescovo, ma assumeva una personalità giuridica autonoma. Si trattò di un processo a due facce: da un lato un ordine gerarchico imposto dal papato, dall’altro una diffusione di istituti diversi sparsi in tutta la società cristiana. Fra XI e XII secolo videro la luce nuovi movimenti di ispirazione monastica, con una netta accentuazione della natura ascetica e pauperistica. Alcuni di questi diedero vita a ordini monastici destinati a grande successo, come i cistercensi e i certosini. I cistercensi presero il nome dal luogo della prima congregazione, nata a Citeaux, in Borgogna, in latino Cistercium. Il monastero di Citeaux era stato fondato da Roberto abate di Molesme, un monastero che Roberto, insieme ad altri 21 monaci, aveva lasciato nel 1098 per formare una nuova congregazione dove osservare la regola di san Benedetto in maniera più rigorosa. Nel 1108 fu eletto abate Stefano Harding che rimase in carica fino all113. Nel suo lungo abbaziato i cistercensi assunsero una struttura più stabile. Nel 1119, Stefano Harding scrisse la carta di carità, una regola dell’ordine, con il moltiplicarsi delle abbazie “figlie” si dovette imporre un coordinamento più stretto. Nati per abitare luoghi deserti, lontani dagli uomini e dalle tentazioni e per lavorare la terra, i cistercensi divennero in breve tempo degli esperti colonizzatori e dei grandissimi proprietari terrieri, grazie alle ingenti donazioni ricevute dai laici devoti, da vescovi e da semplici fedeli. Anche sul piano politico il successo del modello cistercense provocò conseguenze inattese e forse lontane dall’ispirazione iniziale. Alcuni abati divennero figure di riferimento per l’intera cristianità. Fu il caso di Bernardo di Chiaravalle. Non ci fu materia che Bernardo non affrontò con veemenza intellettuale e una rara capacità di “demolire” l’avversario che ne fecero un polemista ascoltato e temuto. L’ordine cistercense, grazie alla sua influenza o forse per evoluzione “naturale”, produsse uomini di potere come vescovi e papi, promosse crociate e fu impegnato in lunghe e sanguinose campagne di repressione dell’eresia nel sud della Francia. Divenne insomma un braccio politico della Chiesa di Roma, un ordine potente che lottava per il potere della Chiesa. Anche i certosini nati nel 1084 su iniziativa di Bruno di Colonia, maestro della scuola cattedrale di Reims, cercavano l’isolamento e il ritiro del mondo. Realizzarono con maggiore rigore e coerenza una comunità ascetica di preghiera, inseguendo l’ideale del “deserto”: un luogo fisico senza uomini e senza contatti, isolato ma soprattutto impervio e irraggiungibile, dove la solitudine era la vera e unica dimensione di vita del monaco. I certosini elaborarono un modello misto tra l’eremitismo dei padri del V secolo e la vita in comune del modello cenobitico. I monaci non dovevano “lenire le pene degli altri, ma elevare la propria anima”. Il distacco dal mondo era anche un distacco dalle cose, che dovevano essere limitate. Anche per i certosini, tuttavia, si pose il problema della forma di vita regolare. Solo nel 1127 Guigo I, priore della Chartreuse, mise insieme una raccolta di Consuetudini, riprese da regole monastiche antiche e aggiornate secondo le esigenze dell’ordine. Dal 1154 le decisioni dei capitoli generali costituirono parte integrante della legislazione dell’ordine e tutti i priori dei monasteri certosini dovevano fare voto di obbedienza al priore generale. L’inserimento dei certosini nei contesti locali fu comunque segnato da conflitti violenti e prolungati, soprattutto per la particolare interpretazione del concetto di “deserto”. I monaci delimitavano questo spazio ideale con confini concreti, inglobando possessi di altri soggetti, signori o contadini che fossero. È indubbio, infatti, che sia i certosini che i cistercensi trovarono immediato appoggio nell’episcopato. Anche i pontefici volentieri offrirono la propria protezione a ordini che si ripromettevano di vivere secondo la regola, vale a dire secondo la regola di san Benedetto. La “vita secondo la regola” servì a conferire un inquadramento istituzionale coerente alle molteplici esperienze eremitiche o cenobitiche sorte fra XI e XII secolo. ■ 4. Inquadramento religioso dei laici Nella complessa costruzione dottrinale e giuridica della Chiesa dei secoli XI e XII, ai laici spettava un ruolo tutto sommato passivo, di fedele obbediente, consapevole della propria debolezza carnale e della necessaria sottomissione alla guida dei chierici. 26 La parola latina laicus indicava la parte della popolazione non consacrata da Dio. Per i padri una distanza incolmabile divideva il clero -che attraverso il sacramento dell’ordine aveva ricevuto la capacità di comprendere i misteri divini- dagli uomini “carnali”, i laici erano ancora legati alla materialità del corpo fisico. Veniva ribadito in più parti del Decreto che nessun laico poteva accusare un chierico o anche solo testimoniare contro di lui in un tribunale. La lettura pubblica delle Sacre Scritture divenne un ministero propriamente sacerdotale. In base a questo potere spirituale, gli uomini di Chiesa avevano il potere e il dovere di inquadrare il popolo dei laici e di condurlo alla salvezza. La vita terrena si svolgeva interamente sotto il segno del sacro, un lungo viaggio scandito dai riti religiosi amministrati dalla Chiesa. Il battesimo dei bambini si affermò come necessario rito di entrata del fedele nella comunità di appartenenza. L’eucarestia acquistò una nuova centralità, divenendo il perno della liturgia della messa. La dottrina ufficiale sostenne che attraverso il miracolo eucaristico, Dio trasforma l’ostia nel vero corpo di Cristo e il vino nel vero sangue. Nei decenni centrali del secolo XII, si delineò anche una dimensione più costrittiva e individuale della penitenza, il dolore interiore per un peccato commesso, che doveva essere riconosciuto come tale dal fedele e “confessato” al prete. Solo dopo la confessione e l’assolvimento della pena inflitta dal sacerdote, il peccatore poteva ritornare nel gregge dei fedeli. Il matrimonio, riconosciuto come sacramento proprio negli anni della riforma, sottopose a un controllo assai stretto la vita sociale dei fedeli. La morte, con i riti dell’estrema unzione e soprattutto della sepoltura benedetta, fu interpretata come una soglia di entrata in una nuova vita ultraterrena che continuava e prolungava la vita dell’anima. Con l’invenzione del purgatorio si aprì infatti un canale diretto di comunicazione fra i vivi e i morti: non solo le preghiere per i morti aiutavano a mantenere il ricordo delle persone scomparse, ma ora potevano anche abbreviare le pene, lenire i dolori e accumulare un capitale di meriti che aiutava l’anima del defunto a superare gli ostacoli delle pene temporanee del regno di mezzo. Prese forma così una nuova “economia religiosa” - donazioni per assicurare la sepoltura in luoghi prestigiosi e la celebrazione delle messe, cappelle votive di famiglia dove continuare un culto riservato dei propri antenati, tombe monumentali all’interno delle chiese- che trasformò in profondità non solo i costumi funerari, ma anche gli spazi sacri delle città. Le chiese divennero lentamente un luogo collettivo di culto delle memorie familiari. Il fedele si trovò così inquadrato in una vita duplice e speculare, con un rimando continuo fra ciò che compiva sulla terra e ciò che si sarebbe subìto nell’aldilà. La nascita delle eresie segnò un punto importante della costruzione della Chiesa come istituzione. Le eresie erano idee, le dottrine e i comportamenti che, in modi diversi, negavano le basi di questa missione divina della Chiesa. Già nei decenni centrali del secolo XI comparvero una serie di movimenti religiosi di ispirazione pauperistica, che contestavano le strutture ecclesiastiche in nome di un ritorno allo spirito e alla lettera del vangelo. Questi fenomeni di ascetismo religioso testimoniano l’ampia circolazione, negli anni vicini alla riforma della Chiesa, dei temi monastici della povertà, del rifiuto della carne e del ritorno a un modello di vita evangelico; ma mostrano anche la pericolosità di queste ricerche individuali di una purezza originaria, una volta slegate dai riti ufficiali della Chiesa. Il rifiuto dei sacramenti accompagnato spesso da una resistenza accanito alle richieste economiche delle chiese. Questi movimenti attaccavano la Chiesa in quanto istituzione, la sua funzione di dispensatrice del potere di salvare gli uomini, non la dottrina cristiana in sé. Eretici divennero, in sostanza, tutti quelli che rifiutavano la mediazione della Chiesa, rivendicando, sull’esempio degli Atti degli Apostoli, un rapporto diretto con Dio e con lo Spirito Santo. Furono colpite anche persone che nulla avevano di eterodosso se non la pretesa di predicare il vangelo, come avvenne per Valdo e i suoi seguaci. Aveva fondato una comunità di ispirazione pauperistica, dove predicava e leggeva il vangelo tradotto in volgare. Nel concilio Laterano III del 1179, Alessandro III approvò il suo voto di povertà assoluta, ma gli impose di no predicare il vangelo. Valdo rifiutò di obbedire e per questo fu scomunicato come eretico nel 1184. Si trattava ormai di una “eresia dell’obbedienza”, dove il vero reato consisteva, appunto, nel disobbedire a un ordine di Roma. Diverso si presenta invece il caso delle sette dualiste conosciute sotto il nome di catari. A queste sette, scoperte intorno al 1140 prima in Germania e poi in Francia meridionale e in Italia, si attribuiva una dottrina apertamente non cristiana: un dualismo di fondo, che riconosceva due princìpi, il bene e il male come coesistenti e in conflitto continuo tra loro. Il dualismo cataro intendeva la vita terrena come una forma di purificazione continua dalla materialità del corpo fino all’autoconsunzione e al suicido assistito. La diffusione del credo cataro sembra sia stata particolarmente intensa nei ceti urbani, tra artigiani e lavoratori che contestavano apertamente la Chiesa cattolica. La repressione fu violenta e colpì veramente migliaia di persone classificate come eretiche. La legislazione antiereticale fu gradualmente inasprita, con la messa in opera di un sistema di controllo e di punizione che coinvolse direttamente i laici. Ne è un esempio lampante la decretale di Lucio III Ad abolendam preparata insieme all’imperatore Federico Barbarossa nel 1184. In prima battuta si colpirono tutte le eresie, qualunque nome avessero assunto, senza grandi distinzioni. In secondo luogo il vero reato degli eretici è la presunzione di predicare dopo una proibizione. L’eresia è in primo luogo disobbedienza. Contro queste persone non erano necessarie prove certe: un semplice sospetto era sufficiente a portarle davanti al vescovo per discolparsi pubblicamente. Sotto la categoria di eresia veniva così ricompresa qualsiasi forma di non conformismo religioso, lasciando uno spazio assai ampio all’arbitrio dei denunciatori di decidere cosa era un “comportamento comune” e uno non comune. I meccanismi di autocontrollo dei parrocchiani individuano e denunciano i sospetti, giudicati dai vescovi e puniti dai poteri laici che dovevano inscrivere la lotta all’eresia nei loro compiti fondamentali. Pochi anni dopo, in un’altra bolla papale, la Vergentis in senium del 1199, l’eresia fu equiparata a un reato di lesa maestà, punito con la morte. L’eresia segnò dunque la linea di confine fra il gregge dei fedeli e i “lupi” rapaci che li minacciavano dall’esterno, o peggio, mascherati da agnelli (falsi monaci e falsi uomini pii) li ingannavano con false credenze. Il sacerdote, medico dell’anima, scopre la malattia, il “cancro” dell’eresia e opera con decisione per salvare il corpo. L’eretico andava “sterminato” da parte dell’autorità pubblica. Si doveva dunque legittimare la violenza giusta e disciplinare gli uomini armati che monopolizzavano l’arte della guerra. Capitolo 2. La guerra, la Chiesa, la cavalleria Nel corso della seconda metà del secolo XI si assiste a un ampio processo di legittimazione della guerra da parte dei pontefici di Roma. Sulla spinta di questa sacralizzazione della violenza contro i nemici della Chiesa, il tradizionale pellegrinaggio verso i luoghi santi subì, negli anni finali del secolo XI, un’improvvisa torsione bellica: invece di partire per pregare sul santo sepolcro, quattro armate franco-normanne-tedesche partirono per combattere, riuscendo pure a prendere Gerusalemme. ■ 1. Il controllo della violenza e le paci di Dio Dietro a queste narrazioni di massacri torture e veri e propri martiri si cela una profonda esigenza di ordine e una strategia di difesa di lunga durata. Questo nuovo ordine era più localizzato, limitato a spazi regionali e sub regionali più facilmente controllabili. Le “paci o “tregue” erano riunioni di vescovi di una o più diocesi che disponevano la sospensione delle violenze, in nome di Dio. Erano spazi e luoghi sacri che salvaguardavano in primo luogo i beni e le persone ecclesiastiche e disciplinavano, in seconda battuta, l’attività armata da esercitare in ambiti determinati. Nei concili si affermava quindi, implicitamente, la presenza di un’autorità laica legittima che doveva amministrare la giustizia, far rispettare la pace e, in caso, usare una violenza lecita per proteggere le chiese. ■ 2. La sacralizzazione della guerra e le prime crociate Questa violenza militare regolata aprì la strada a un processo più ampio di una dimensione religiosa della guerra come difesa della fede e strumento di espansione della religione cattolica. 27 Per la prima metà del secolo X si sono conservati diplomi regi che autorizzano chiese, signori o comunità a costruire castelli, per difendersi contro i “pagani e i cattivi cristiani”. Sono fonti importanti, che mettono in luce la presa d’atto regia della propria incapacità di proteggere tutto il territorio; il riconoscimento di una legittima iniziativa militare di altri attori politici; la presenza di una violenza diffusa, di una minaccia alla pace sociale che derivava solo dai comportamenti dei “cattivi cristiani” ovvero membri della stessa aristocrazia. Se il regno non poteva proteggere i suoi sudditi, questi dovettero cercare protezione dove la potevano trovare; nelle città ci si raccolse in genere attorno ai vescovi; nelle campagne furono i grandi possessori fondiari ad avere le risorse e l’interesse a costruire un piccolo apparato militare, un sistema di fortificazioni e di uomini armati in grado di proteggere i propri vicini. Nel secolo XI attorno ai castelli si sviluppò un processo di coinvolgimento e sottomissione della popolazione circostante, un processo per cui la protezione garantita dal castello si poteva estendere a gruppi via via più ampi, persone legate in vario modo al signore. La possibilità per i vicini di rifugiarsi nel castello fu la base per imporre loro alcuni servizi, a partire dai turni di guardia e dalle corvées per la manutenzione del castello ovvero contropartite molto specifiche, direttamente legate al castello e alla sua efficacia. Si affermò in modo concreto ed evidente la capacità del signore di sostituire il potere regio nel difendere la pace. Nel secolo XI si affermò la centralità della cavalleria: persone specializzate, ben equipaggiate, in grado di combattere a cavallo e quindi di contrastare i signori concorrenti e di prevalere sui contadini appiedati e male armati. Due infatti erano gli ambiti in cui i fedeli del signore dovevano esercitare la propria forza: da un lato combattere i potenti vicini, che minacciavano i beni, i poteri e i sudditi del signore; dall’altro lato minacciare gli stessi sudditi, ottenere la loro obbedienza e il pagamento di quanto dovuto. Per coordinare queste bande armate i signori si servivano prima di tutto dei legami vassallatici. Il vassallaggio era una realtà antica. I grandi aristocratici seguivano gli ordini del re sempre meno in quanto suoi delegati, ma sempre più come suoi fedeli, legati da un vincolo personale di fedeltà. In questa fase possiamo vedere nei rapporti vassallatici la principale forma di coesione gerarchizzata all’interno dell’aristocrazia militare. “Coesione”, perché il legame vassallatico andava al di là della pura funzionalità militare, creava un sistema di solidarietà personale che vincolava sia il vassallo nei confronti del signore tra di loro. “Gerarchizzata”, perché tutte le trasformazioni del vassallaggio non arrivarono mai a cancellare l’idea della superiorità del signore: il vassallaggio fu sempre prima di tutto l’atto cerimoniale con cui il vassallo riconosceva di essere inferiore. Vassalli era una relazione, non una condizione sociale. Da tempo gli storici hanno scelto di sostituire l’immagine della piramide con quella della rete. Pensiamo quindi a una rete confusa, discontinua, con dei nodi molto più importanti degli altri, a rappresentare quelle dinastie che raccoglievano attorno a sé clientele ampie e potenti. Ma l’immagine della rete mette in rilievo sia la marginalità del re, sia la fondamentale funzione del vassallaggio come struttura di coesione sociale, sia verticale sia orizzontale, e non come rigido apparato politico-militare. Per le dinastie impegnate a costruire poteri signorili locali, i rapporti vassallatici rappresentarono un’importante integrazione, in due direzioni opposte; riunendo attorno a sé i vassalli, i signori poterono costituire la propria forza armata, garantirsi la capacità di protegger e di minacciare i sudditi, un’azione di cui i castelli costituivano premessa necessaria ma al contempo i signori potevano integrare la propria base fondiaria, grazie ai benefici spesso cospicui che potevano ottenere. Questi legami intervenivano in modo importante a integrare due basi fondamenti del potere dei signori, ovvero la loro ricchezza fondiaria e la loro capacità militare. ■ 2. La formazione dei poteri signorili Il punto di partenza del processo di sviluppo signorile è rappresentato dalla struttura del potere in età carolingia, fondata sul controllo delegato dal re ai suoi ufficiali (conti e marchesi), a cui spettava la giurisdizione su un territorio ampio e abbastanza uniforme. Il punto di arrivo è -nel secolo XI- la trasformazione territoriale dei distretti comitali e marchionali: i confini dei distretti perdettero rilievo, il potere si proiettò su quadri sociali e territoriali molto piccoli, costruiti sulla base della concreta capacità di azione delle singole dinastie signorili. L’attenuarsi della capacità regia di controllo lasciò maggiore spazio all’iniziativa autonoma delle dinastie di conti e marchesi, così come avvenne per l’insieme dell’aristocrazia. Nella maggior parte del regno italico le dinastie di tradizione funzionariale svilupparono poteri analoghi alle altre famiglie signorili, seppur più ampi; in Francia, in Borgona e in Germania poterono invece sviluppare veri e propri principati territoriali, dominazioni che erano molto più ampie e strutturate delle normali signorie di castello. Riprendevano molte strutture e funzionamenti del potere regio., In Italia in linea generale conti e marchesi non riuscirono a controllare l’insieme del distretto, ovvero non trasformarono il comitato o la marca in un dominio dinastico autonomo; costituirono invece poteri signorili sulla base delle proprie terre, castelli e clientele, ovvero usarono gli stessi strumenti che abbiamo visto all’opera in tutte le dominazioni signorili. Se quindi ci concentriamo sulla realtà italiana, l’unica vera differenza qualitativa era nei titoli: i documenti fanno riferimento ai signori con il titolo di dominus (“signore”, appunto), mentre i discendenti dei conti e dei marchesi continuavano a usare i titoli che richiamavano le funzioni un tempo ricoperte dai loro antenati. Continuare a definirsi comes era un modo per evidenziare la memoria di questa antica funzione e affermare quindi la propria maggiore legittimità a esercitare il potere. L’aristocrazia funzionariale e i grandi possessori si assimilarono progressivamente e, da punti di partenza lontani, giunsero a risultati analoghi: dominazioni patrimonializzate, fondate sul concreto controllo di terre e persone e organizzate attorno alle fortificazioni. L’esito, fu una società rurale organizzata attorno a una moltitudine di dominazioni signorili che, condivi-devano la capacità di unire poteri di matrice diversa: ai tradizionali rapporti di dipendenza economica e personale che univano i contadini ai grandi proprietari fondiari, si erano aggiunte sia le concrete protezioni armate imposte dal signore, sia giurisdizioni e imposte di tradizione pubblica. All’interno dei singoli villaggi, questi poteri e prelievi erano condivisi e spartiti tra diversi signori. Le basi fondamentali del potere signorile avevano una protezione sul territorio molto diversa: da un lato il castello era un’efficace forma di difesa per tutte le persone che vivevano abbastanza vicine da rifugiarvisi e la sua efficacia si estendeva quindi omogeneamente al territorio circostante, il patrimonio fondiari o di un signore era invece normalmente frammentato e disperso, e all’interno di un singolo villaggio coesistevano patrimoni di diverse chiese e dinastie aristocratiche. I signori cercavano prima di tutto di trasformare i propri contadini in sudditi, ovvero di creare un potere ricalcato sul proprio patrimonio fondiario; al contempo, chi aveva costruito un castello lo usava per cercare di sottometter l’intera popolazione dell’area circostante. Questo diede vita a conflitti tra diversi signori. Ne derivarono soprattutto forme di convivenza e di spartizione del potere signorile all’interno dei singoli villaggi, spartizioni che non seguivano regole o modelli di valore generale, ma erano via via diverse da luogo a luogo. Un ulteriore elemento di complessità derivava poi dal fatto che questi poteri signorili erano considerati come parte del patrimonio del signore, e quindi subivano gli esiti delle spartizioni ereditarie, delle vendite, delle concessioni impegno, come qualunque altro bene. Vediamo spesso signori che comprano, vendono, spartiscono singoli diritti giurisdizionali. L’esito è un quadro di altissima frammentazione del potere, per cui non esisteva un singolo signore del villaggio, ma di fatto ogni contadino si trovava a pagare diverse imposte a diversi signori. ■ 3. Chiese potenti e chiese private È però importante riflettere sulle peculiarità delle chiese, sulle diverse caratteristiche che le ponevano in una posizione particolare nel sistema politico signorile. Chiese e dinastie presentano alcune importanti differenze nella propria azione politica locale. Le chiese fossero punti di fortissimo addensamento fondiario: i laici donavano le proprie terre alle chiese per garantirsi le preghiere di monaci e chierici. C’era un flusso quasi continuo di beni dai laici alle chiese, questi patrimoni non subivano poi gli stessi processi di frammentazione e dispersione dei patrimoni laici, dato che non subivano divisioni ereditarie e al contempo il diritto canonico non permetteva alle chiese di vendere i propri beni. 30 La ricchezza e la stabilità patrimoniale non erano però i soli elementi di vantaggio che le chiese potevano sfruttare per dare maggior forza alla loro azione come poteri signorili. Un altro elemento importante era rappresentato dall’immunità: una larga esenzione fiscale e una tutela dei beni delle chiese; introduceva l’idea che gli edifici e le terre delle chiese non fossero spazi come gli altri, ma fossero connotati politicamente in modo specifico, come un ambito in cui gli ufficiali regi non potevano intervenire. Le chiese erano anche strumenti di questo sviluppo: erano infatti molte le cosiddette “chiese private”, enti religiosi fondati e controllati da una dinastia o da un’altra chiesa. Occorre però distinguere tra monasteri e chiese in cura d’anime e condurre due discorsi parzialmente distinti. La definizione di “chiese in cura d’anime” comprende tutti quegli enti religiosi la cui finalità era quella di officiare i culti destinati ai laici, il sistema dominante era quello delle pievi: le articolazioni della diocesi, chiese create dai vescovi e destinate a guidare la cura delle anime di un gruppo più o meno ampio di villaggi. Ciò che davvero le connotava era prima di tutto la presenza del fonte battesimale: la pieve era il passaggio obbligato per i nuovi nati, lì si compiva il rito che segnava l’ingresso nella comunità cristiana. Al fianco delle pievi, però, c’erano molte chiese e cappelle minori che non erano dotate di diritti battesimali. Queste chiese nascevano spesso dall’azione dei signori, che procedevano sia a costruire l’edificio, sia a garantire l suo interno la presenza di chierici. La chiesa era il centro della vita sociale locale, il luogo in cui gli abitanti del villaggio si riunivano regolarmente per le funzioni religiose, ma anche per trattare le questioni pratiche che coinvolgevano la collettività (gestione dei pascoli, delle acque ecc.). L’atto di costruire e proteggere la chiesa era per il signore un modo per impadronirsi di uno dei centri simbolici della società locale. Il signore che garantiva la sussistenza di molti contadini e la loro relativa sicurezza garantiva anche un normale accesso al sacro, una chiesa vicina in cui i contadini-sudditi potevano riunirsi regolarmente. Un discorso diverso dev’essere condotto per quanto riguarda i monasteri privati. 1)la funzione dei monaci non era quella di curare i poveri, diffondere la cultura o proteggere i viandanti, ma quella di pregare, prima di tutto per compiere il proprio personale percorso di ascesi, e poi per la salvezza ultraterrena dei propri benefattori. Per un laico, quindi, fondare un monastero era un modo efficace per ottenere importanti benefici spirituali, vedersi garantito l’aiuto di veri “professionisti della preghiera”, uomini santi dediti a tempo pieno alle orazioni. La fondazione aveva anche un’importanza materiale: il monastero privato poteva infatti avere, nelle intenzioni del fondatore, una funzione di riserva patrimoniale sicura per sé e i propri discendenti, poteva essere un ente a cui affidare quote importanti delle proprie ricchezze, nella sicurezza che il monastero non avrebbe potuto alienarle e che la famiglia del fondatore ne avrebbe avuto sempre ampia disponibilità, grazie al controllo sulla nomina dell’abate. Questa prospettiva ebbe successo in pochi casi, perché molti monasteri, e in generale gli enti religiosi, a partire dal secolo XI si svincolarono dal controllo dei laici e spesso usarono il patrimonio per le proprie specifiche politiche. Proprio gli atti di fondazione dei monasteri erano un modo per definire l’ampiezza e i limiti del gruppo parentale del fondatore: le persone per cui pregare erano in genere elencate analiticamente, e comprendevano spesso i genitori, la moglie e i figli, ma talvolta anche parenti più lontani e indiretti (cugini, cognati, suoceri), fornendoci una mappa precisa delle solidarietà familiari su cui il singolo poteva contare L’atto di fondare un monastero era quindi un’azione tramite cui dare forma alle proprie solidarietà familiari, evidenziarne l’estensione e i limiti, con importanti inclusioni e altrettanto importanti silenzi. In generale l’esistenza di un monastero privato poteva cambiare in modo sostanziale i funzionamenti interni al gruppo parentale che l’aveva fondato e lo proteggeva: i legami parentali erano più forti e più definiti, era più chiaro chi effettiva- mente facesse parte del gruppo. La posizione politica dei monasteri andava però al di là del piano dell’identità familiare, per proiettarsi invece sulla legittimità e sull’efficacia del potere signorile. La presenza di un ricco e prestigioso monastero non era priva di conseguenze per la società locale. Si potevano ottenere preghiere preziose per la propria salvezza spirituale, in cambio di donazioni piccole o grandi, ma si potevano anche ottenere terre in concessione, tali da garantire la sussistenza dei contadini più poveri o da integrare il patrimonio di piccoli aristocratici. ■ 4. Produzione e prelievo in un’età di sviluppo Il dato fondamentale è che nel corso dell’XI secolo contadini diventarono sudditi. Così i signori erano in grado di controllare efficacemente i propri sudditi e operare un pesante prelievo: in assenza di qualunque potere di controllo (come un tempo erano stati i tribunali regi) i signori usavano la propria forza armata per togliere ai sudditi la maggior quantità possibile di prodotti e di denaro, frenati in questo solo dalla concorrenza degli signori e dalla resistenza contadina. Questa pressione rispondeva alla logica di un’economia signorile che era essenzialmente un’economia di spesa. Non si trattava di dissipare le ricchezze, ma di usarle per costruire il proprio potere: erano spese destinate a consolidare la capacità militare del signore, la sua forza politica, il suo controllo sulla piccola aristocrazia. Donare di certo era un dovere sociale. Per sostenere queste spese, i signori accentuarono la pressione economica sui sudditi, traendo vantaggio da una lunga congiuntura di crescita demografica ed economica che caratterizzo tutta l’Europa dall’XI al XIII secolo. L’aumento demografico fu il risultato di una lunga evoluzione positiva dei livelli di crescita della popolazione. Cambiò la composizione delle famiglie contadine; si moltiplicarono i flussi migratori e gli spostamenti di popolazione che alimentarono la creazione di nuovi centri rurali in funzione di colonizzazione. Mutarono anche le condizioni di lavoro. I dati confermano un generale innalzamento della qualità degli strumenti tecnici a disposizione, soprattutto riguardo le tecniche dell’aratura, fondamentali in un’economia basata sullo sfruttamento della terra. In primo luogo si nota un maggiore ricorso agli attrezzi in ferro. L’aratro a versoio fu molto usato nei terreni pesanti delle terre umide strappate alla foresta; la sua diffusione era associata all’avanzata delle colture nelle zone incolte e forse anche alle sperimentazioni tecniche degli ordini monastici. L’aratro in ferro tirato da cavalli (molto più potenti dei buoi) permetteva arature più profonde e più frequenti, aumentando la produttività dei semi; un’osservazione più attenta dei cicli produttivi favorì invece la diffusione del riposo periodico dei campi per non esaurire in cicli troppo brevi e le capacità nutritive del terreno. Si ha la sensazione che si lavorasse la terra con uno scopo “economico” più esplicito rispetto ai secoli precedenti: lavorare meglio la terra nella speranza di produrre di più per scambiare o vendere le eccedenze. Gli investimenti tecnici e lavorativi sulla terra alzarono sicuramente le rese rispetto all’età carolingia. In ampie zone d’Europa, l’investimento sull’agricoltura divenne redditizio: era possibile accumulare eccedenze, alimentare mercati locali situati in città, sostenere insediamenti rurali più popolosi; era possibile anche guadagnare di più per i contadini. Il sistema economico che aveva permesso questo balzo in avanti della produttività era pur sempre inserito in un sistema politico di dominazione signorile. Più uomini, quindi più terre coltivate, più sudditi da cui prelevare le imposte, maggiori ricchezze in circolazione. Se quindi ci troviamo di fronte a un quadro complessivo di crescita economica, andò a sostenere lo stile di vita e le spese dell’aristocrazia. Il lavoro dei contadini fu più libero, meno condizionato dalle specifiche e puntuali richieste di prestazioni d’opera, ma rimane il fatto che in mano signorile confluiva una quota importante delle loro risorse. ■ 5. L’inquadramento delle popolazioni rurali e l’azione politica contadina Al di sotto dei signori e dei loro vassalli, la stragrande maggioranza della popolazione delle campagne era costituita da contadini, da rustici. La diversificazione del mondo contadino non si limitava però al piano economico e assunse connotati più propriamente politici, grazie alla capacità degli strati superiori della società contadina di entrare a far parte dei sistemi di solidarietà clientelare che facevano capo alle chiese e ai signori locali. Così ad esempio i contadini più ricchi si legavano ai monasteri, a cui donavano parte delle proprie terre. Al contempo vediamo contadini che svolgevano specifiche funzioni per conto dei signori: il controllo quotidiano sui contadini, sulla loro produzione e sui loro conflitti richiedeva un gran numero di piccoli incarichi. Tutto ciò era delegato a uomini del luogo, che grazie a queste funzioni instauravano con il signore un rapporto che andava al di là sia della semplice sottomissione, sia del legame economico, per tradursi invece in uno scambio di servizi, vantaggi e protezione, ovvero un legame clientelare. 31 Parliamo di “comuni rurali” per tutti quei casi in cui la popolazione di un villaggio si organizzava, agiva collettivamente sul piano politico e si dava una piccola struttura istituzionale. I comuni rurali ci permettono di cogliere la complessità della vita politica rurale, ci fanno vedere che il potere signorile non era assoluto e fondato unicamente sulla forza, ma in qualche misura era sempre contrattato, era l’esito del confronto tra signore e sudditi. I testi che meglio mostrano l’esistenza e i funzionamenti dei comuni rurali sono infatti le cosiddette “franchigie”, atti in ci signori e sudditi mettevano per iscritto diritti e doveri, andando così a ridefinire le forme e i contenuti del potere signorile. Non siamo di fronte alla concessione di un potere assoluto ai propri sudditi, ma a un accordo, un atto fondato sulla reciprocità degli obblighi. Un altro dato importante è costituito dalle clausole iniziali, ovvero le garanzie relative alla giustizia signorile e al possesso delle terre. Un’ esigenza fondamentale dei sudditi era sempre quella di avere a che fare con un potere regolato e limitato. Le ricorrenti forme di resistenza contadina puntavano a ottenere il rispetto delle norme fondamentali, vedersi garantiti il regolare possesso delle terre, un’imposizione fiscale prevedibile e di peso tollerabile, una giustizia efficace che desse loro un minimo di sicurezza nei normali conflitti tra vicini. Le possibilità di creare nuovi centri abitati aumentarono nel secolo XII, per iniziativa sia dei signori laici sia dei grandi monasteri che favorirono l’insediamento di contadini in zone di frontiera. Creare condizioni favorevoli per attrarre abitanti, attenuando le richieste fiscali e gli obblighi signorili. I suoli furono subito concessi in proprietà agli abitanti. Le sauvetés (spazi salvaguardati) della Francia sudorientale, agglomerazioni abitate in funzione di colonizzazione agricola poste sotto la protezione della Chiesa. Frequenti in Spagna erano gli insediamenti agricoli che assicurarono il ripopolamento delle regioni contese ai califfati musulmani. In Italia queste fondazioni in funzione dello sfruttamento agricolo e presero il nome di ville nove o ville franche, villaggi in cui si attribuirono agli abitanti gli stessi diritti dei cittadini. Alla rivoluzione agricola si accompagnò dunque una “rivoluzione” insediativa, una tendenza all’accentramento della popolazione in luoghi di convivenza collettiva. Fu in questo contesto che si svilupparono, i centri urbani nell’Europa medievale. Capitolo 4. Le città dell’Europa medievale Nel corso del secolo XI insieme alle signorie, ai principati territoriali e alla piena affermazione del ceto militare si sviluppò anche una fitta rete di città in molte regione europee. Gli storici hanno avanzato spiegazioni molto diverse per giustificare questa rinascita urbana così ampia, che ha modificato in profondità l’assetto sociale e politico dei principati e poi dei regni: l’esito inevitabile dello sviluppo economico e della formazione di una nuova classe di borghesi, i mercanti; il frutto di iniziative signorili, appoggiate dagli abitanti; le città si formarono solo dopo una rivolta della popolazione urbana contro i poteri signorili. Dobbiamo cercare altre vie per comprendere il fenomeno urbano, a cominciare da una definizione meno statica della città stessa. La città europea viveva con il territorio circostante, ne assorbiva le risorse in surplus, attirava nuovi abitanti, assicurava lo scambio di prodotti e merci lavorate. Nel corso del XII secolo questo movimento assunse ritmi più ordinati. Le mura definirono ovunque lo spazio urbano separato dalla campagna, atti giuridici ufficiali sanzionarono lo statuto politico di città. Nel corso del XIII secolo un processo di stratificazione sociale mise in luce i contrasti e le gerarchie interne al mondo urbano. Lo spessore economico delle città ne fece dei soggetti politici di primo livello: furono i prìncipi ora ad aver bisogno delle città e più ancora i regni, che conferirono alle città comunali uno statuto privilegiato. ■ 1. Le basi dello sviluppo urbano La città è da intendere come un processo di trasformazione continua di più elementi materiali e culturali: - il legame con il territorio; - la capacità di trasformare la condizione degli abitanti; - il decisivo impulso dei signori territoriali alla promozione di centri urbani. 1) Il primo elemento è di natura economica e demografica e mette in relazione i centri urbani con il territorio circostante. I dati demografici segnalano un aumento delle migrazioni e dell’attività agricola, in grado di mantenere una popolazione in crescita, deve aver accompagnato lo sviluppo dei centri urbani. La città non riusciva a mantenersi da sola. Con il suo territorio, il centro urbano conservò un rapporto costante e vitale: si riforniva di prodotti agricoli e di materie prime e redistribuiva prodotti finiti, una volta lavorati. Il territorio rappresentò sempre un nodo di scambio indispensabile, un insieme di relazioni socio-economiche che alimentavano la funzione di “cento redistributivo” svolta dalla città. 2) Il secondo elemento dinamico riguarda la composizione sociale delle popolazioni urbane. Due dati sembrano ricorrere in maniera costante. In primo luogo, la dipendenza signorile del nucleo originario di abitanti delle città. Alla metà del secolo XI, i legami di dipendenza degli abitanti con i signori erano ancora forti. Spesso il suolo dove si costruivano le case era proprietà del signore e gli abitanti pagavano un censo come qualsiasi altro contadino della zona. Il tessuto urbano fosse composto da una trama decisamente “feudale” e signorile. Sia i vecchi residenti sia gli immigrati dal territorio tendono a riconoscersi, nel corso del secolo XII, come membri di un insieme sociale nuovo, che condivide diritti e doveri derivanti dalla comune appartenenza alla città. Il principale processo di trasformazione sociale avvenuto nelle città riguarda proprio la costruzione di una nuova identità politica degli abitanti, fondata sul riconoscimento di uno statuto giuridico condiviso da tutti i residenti in città: una relativa libertà personale, estesa anche alle persone di origine servile, una solidarietà necessaria per dar corpo alle richieste collettive da indirizzare ai signori, il comune bisogno di uno “stato di pace” che salvaguardasse le persone e le cose dei cittadini. 3) Il terzo elemento da tenere presente è proprio quello politico, i rapporti fra centri urbani e i poteri signorili della regione che spesso avevano sede in città. Gli abitanti ottennero presto la proprietà dei suoli abitativi, dopo aver acquistato il censo del signore. I residenti in città divennero proprietari e poterono così lasciare in eredità i loro beni urbani, creando una popolazione di cittadini indipendenti dagli oneri signorili sul suolo. Privilegi simili si trovano nelle città tedesche del Reno. Si trovano numerosi casi di fondazioni seriali dovute a stirpi signorili potenti. Non solo i signori le fondarono, promuovendo il popolamento dei nuovi centri, ma applicarono anche uno schema urbanistico a croce, impostato su una strada-mercato principale, collegata alle porte della città. La natura strategica della fondazione della città-mercato richiese, la creazione di una nuova popolazione di abitanti- proprietari con una debole ma persistente relazione di dipendenza dai signori. Lo sviluppo precoce di una rete urbana favoriva una maggiore stabilizzazione delle regioni interessate, grazie al popola-mento di zone prima poco attive, al potenziamento delle vie commerciali che assicuravano lo scambio di merci nella regione, e alla crescita delle entrate signorili garantite dalle imposte pagate dai cittadini. I prìncipi che favorirono le città furono anche quelli che realizzarono uno Stato relativamente accentrato, con una rete di ufficiali minori nelle città e la formazione di una corte con funzioni fiscali e giudiziarie intorno al signore. Le città presero una forma istituzionale dopo aver ottenuto un riconoscimento dall’autorità superiore. Tanto i giuramenti di comune, che dovevano esser approvati dal potere locale, quanto le “franchigie” (carte di libertà concesse ai cittadini) che provenivano direttamente dal signore riguardavano in primo luogo la concessione di poteri giudiziari civili alle corti cittadine e alcune esenzione dalle tasse sui commerci e sui suoli urbani. Nelle città della Francia meridionale, l’autonomia era maggiore: si elessero dei magistrati chiamati “consoli”, su ispirazione di modelli romani già in uso in Italia nei primissimi anni del XII. A differenza delle città del nord, generalmente rette da un rappresentante signorile, si trattava di un governo collegiale di cittadini, coadiuvato da un consiglio che poteva contare anche un centinaio di membri. I consoli amministravano sia la giustizia civile (in tema di eredità) sia quella penale (ingiurie), ma non potevano toccare “il dominio e i diritti dei signori maggiori” vale a dire dell’arcivescovo stesso. La sensazione che le città europee avessero una natura doppia, quasi bicefala, è rafforzata del resto dalla presenza di due apparati istituzionali in città: da un lato gli ufficiali signorili, balivi o siniscalchi, che detenevano il controllo militare e la 32 una corte di castellani fedeli, di grandi vassalli in competizione ma che riconoscevano al principe una relativa superiorità di coordinamento. Luigi VI nel corso del suo lungo regno, provò a concentrarsi soprattutto su due punti: disciplinare i castellani ribelli all’interno del suo dominio; e all’esterno frenare l’espansione del re inglese, che era duca di Normandia, e fronteggiare le aspirazioni dei conti di Fiandra e di Champagne-Blois. Il fronte interno era quello più promettente. Luigi VI si lanciò in una serie di battaglie “punitive” contro potenti locali interni ed esterni al suo dominio. Allo stesso tempo però Luigi interveniva contro i castellani quando questi minacciavano le chiede e turbavano la “pace pubblica”; in quei casi, la spedizione militare era approvata da un concilio provinciale di vescovi che invocavano il re come difensore armato della Chiesa. Il dovere di mantenere la pace, di imporre una “pace del Re” dove prima si cercava una pace di Dio. Il cambiamento avvenne sotto il figlio e successore di Luigi VI, Luigi VII (1137-1180), sempre coadiuvato da Sugerio, che fu nominato anche reggente quando il re partì per la seconda crociata del 1144. Nel 1155, durante il concilio di Soissons, Luigi VII proclamò infatti “la pace per tutto il regno”, un atto importante proprio per la dimensione sovra locale che aveva assunto il re, grazie al suo compito di pacificatore. Il concetto fu ribadito nel concilio di Reims del 1157, quando si attribuì al re il compito di assicurare la pace di punire i colpevoli che i signori locali non avevano perseguito. Da un lato si assegnava al re una funzione superiore e sostitutiva rispetto ai signori locali (interveniva in caso di negligenza); dall’altro si indicava chiaramente come “mantenere la pace” equivalesse a esercitare la giustizia coercitiva e punitiva contro tutti. Solo in un caso i prìncipi minacciarono direttamente i confini del regno: quando per ragioni matrimoniali si unirono i ducati di Normandia, di Aquitania e il regno d’Inghilterra sotto il dominio dei duchi d’Angiò, più tardi detti Plantagneti dalla pianta di ginestra presa a simbolo della casata. Luigi VII aveva infatti sposato Eleonora d’Aquitania, che avrebbe portato in dote il riottoso e lontano ducato d’Aquitania. Il re francese, al ritorno dalla crociata, decise di divorziare da Eleonora che, dopo pochi mesi sposò il giovane conte d’Angiò, Enrico, figlio di Enrico I duca di Normandia e re d’Inghilterra. Con il nome di Enrico II, il re aggiungeva a questi titoli anche il ducato di Aquitania, unendo in un solo dominato tutta la Francia nordoccidentale e meridionale. Iniziò così quella che alcuni storici chiamano la “prima guerra dei cento anni” fra i re francesi e i re inglesi. Le guerre continue misero alla prova le reti di alleanze di entrambi i re che si mostrarono molto permeabili una con l’altra: gli stessi prìncipi potevano schierarsi con estrema facilità con Enrico o con Luigi VII secondo le convenienze del momento. Luigi VII morì nel 1180, lasciando il figlio Filippo, incoronato già nel 1179, in balia di due potenti clan di protettori: i conti di Champagne per via di madre, e i conti di Fiandra per via matrimoniale. Il regno di Filippo Augusto è considerato da molti storici il punto di svolta della monarchia francese, sia per la durata quarantennale del suo governo sia per le trasformazioni che impresse ai metodi di governo del regno. Sfruttando la dote della moglie, il re costrinse Filippo d’Alsazia a cedere al regno due contee importantissime. Nel corso dello scontro ventennale con gli anglo-normanni, Filippo sfruttò invece le divisioni interne alla dinastia Plantageneta, indebolita da una competizione fratricida tra i due figli di Enrico, Giovanni e Riccardo. La dinastia Plantageneta subì gli stessi contraccolpi di qualsiasi famiglia aristocratica al momento della successione: la competizione violentissima fra i suoi due figli, Giovanni (Senzaterra) e Riccardo, dopo alterne vicissitudini, portò alla rovina il dominio continentale dei Plantageneti. A fasi alterne Riccardo si dichiarò vassallo di Filippo re di Francia e suo alleato sia contro il padre sia, con maggior vigore, contro il fratello Giovanni. Alla sua morte, Giovanni subentrò come erede unico, ma senza avere un reale supporto né fra i vassalli inglesi né fra quelli normanni. Questo portò alla conquista della Normandia da parte di Filippo. La battaglia combattuta a Bouvines nel 1214 fu uno dei rari eventi bellici a influenzare in profondità le vicende dei regni europei della prima metà del Duecento. Contro Filippo si erano riuniti tutti i suoi avversari storici. Sconfiggere questa coalizione permise a Filippo di superare nello stesso momento le maggiori resistenze alla sua espansione verso la Fiandra e il nord del regno. Filippo non fu più costretto a difendersi e potè iniziare una politica più aggressiva, anche se a volte con esiti fallimentari, come il più volte ripetuto tentativo di invadere l’Inghilterra. La cosiddetta “crociata albigese”, la spedizione che i baroni del nord della Francia fin dal 1209 avevano condotto per conto del papa contro il conte di Tolosa, aveva aperto un’insperata via di penetrazione verso i principati del sud. I cavalieri francesi erano riusciti a sostituire temporaneamente il conte di Tolosa. L’impresa aveva consegnato nelle mani di Filippo una potentissima arma per giustificare un intervento armato contro un vassallo, il conte di Tolosa, che nulla aveva fatto per essere attaccato: la lotta contro l’eresia. Il conte era stato accusato di eresia da papa Innocenzo III e gli eretici erano sciolti dai giuramenti di fedeltà e potevano essere privati dei beni. Filippo poteva così rivendicare la spedizione come atto in difesa della fede, una risorsa che i re francesi sfruttarono con grande abilità. Filippo, più di altri, riuscì ad assicurare al regno una superiorità economica in grado di sostenere un apparato militare così imponente e incerto. Il budget del 1202-1203 mostra bene come il re francese fosse riuscito non solo a razionalizzare la contabilità e l’amministrazione locale, ma a sfruttare con abilità le pieghe finanziarie dei rapporti feudali. Le entrate erano composte per la metà provenienti delle rendite agricole del dominio regio; per il 20%dalle tasse sulle città, che iniziavano a contribuire sensibilmente alla ricchezza del regno; per il 7% dalla giustizia. La possibilità di sfruttare meglio il dominio regio fu sostenuta anche dalla creazione di una nuova figura di ufficiale pubblico, il balivo, responsabile del governo, della giustizia e della fiscalità in una circoscrizione definita. L’amministrazione centrale inoltre era affidata a un personale diverso. Furono chiamati esponenti della media cavalleria e della nobiltà urbana, membri dell’ordine templare specializzati nella contabilità finanziaria; insomma, un ceto amministrativo fedele al re, non legato da pericolose dipendenze verso i grandi vassalli del regno. A rendere ragione della novità furono le entrate “straordinarie”, che riguardano in gran parte tasse “feudali”. Il re non era tenuto a prestare omaggio a nessun principe di cui pure era vassallo. Forte di questa superiorità politica, Filippo riuscì a sfruttare sul piano economico tali prerogative feudali. Richiese enormi somme per riassegnare i grandi feudi in caso di morte del vassallo. Altrettante ne chiese per la “custodia” dei feudi regi nei momenti di minorità dell’erede. Il re riuscì anche a monetizzare il mancato servizio militare imponendo una tassa per assoldare dei “sergenti”. In sostanza struttura feudale e struttura amministrativa del regno si svilupparono in parallelo e non in contrasto. ■ 4. I regni spagnoli La Spagna del secolo XI era divisa in numerose contee con aspirazione monarchiche, relegate in prevalenza nella parte settentrionale della penisola. Il grosso del territorio era ancora sottoposto al dominio musulmano. La storia della Spagna è stata infatti profondamente segnata dalla conquista araba del secolo VIII che mise fine al regno Visigoto di Toledo. Un regno cristiano avrebbe continuato a esistere a nord, per poi risvegliarsi nel secolo XI e iniziare una lenta, ma inarrestabile, riconquista dei territori verso sud. Reconquista è infatti il termine usato dagli storici ancora oggi per indicare la formazione dei regni spagnoli del basso medioevo: una cosa già posseduta e ora tornata nelle mani dei legittimi proprietari. I regni spagnoli nel secolo XI non erano esattamente dei “regni”; erano di fatto contee di dimensione regionale. Che occupavano solo la parte settentrionale della penisola. Una maggiore stabilità fu raggiunta solo nel Duecento avanzato, quando le formazioni di carattere regio, Castiglia e Aragona, definirono meglio la loro natura territoriale. La lunga permanenza della dominazione araba aveva chiaramente creato una popolazione nuova, che solo dopo la fine del dominio musulmano si riconobbe come “ispanica”. La separazione dei due mondi, cristiano e musulmano, non era così netta come ci si aspetterebbe. La Reconquista fu, in sostanza, una celebrazione in termini epici di una mutazione politica molto lunga, che solo in parte dipese dalle conquiste militari dei prìncipi cristiani. Senza la crisi profonda e diffusa della dominazione almoravide tra XI e XII secolo, la Spagna musulmana non avrebbe cessato di esistere. È vero, tuttavia, che la guerra all’infedele era da tempo un motivo ricorrente del linguaggio politico dei regni spagnoli. Nei decenni successivi, alcune spedizioni cristiane ottennero qualche successo: la “cavalcata” di Alfonso VII verso Cordova e Cadice nel 1133 è rimasta famosa. Ma erano appunto razzie e saccheggi, non guerre di occupazione. La possibilità di uno scardinamento del sistema di governo musulmano fu aperta dalla crisi interna del regno almoravide. Provenienti dal Magreb, gli Almoravidi avevano esteso una pesante dominazione militare in tutta la regione andalusa. La 35 rigidità dei costumi religiosi imposti dai loro capi, la differenza linguistica e culturale dall’élite precedente e soprattutto un regime fiscale opprimente resero il governo almoravide lontano e ostile alla popolazione andalusa. La reazione iniziò nei primi anni del Duecento, con la proclamazione di una crociata antimusulmana nel 1211 da parte di Innocenzo III. La penetrazione nelle regioni sottoposte ai musulmani si fece più veloce: tra il 1212 e il 1240 i territori nelle mani dei prìncipi cristiani, soprattutto in quelle del re di Castiglia, raddoppiarono e si moltiplicarono gli insediamenti di comunità “cristiane” sotto il controllo regio. La creazione di villaggi e di città abitati da contadini e piccoli cavalieri in funzione di una colonizzazione agricola divenne un tratto distintivo della Reconquista. Il “ripopolamento”, così fu chiamato più tardi, si basava sulla fondazione di città con un esteso territorio e sulla concessione di lotti di terre agli abitanti, incaricati anche della difesa militare della zona. Un misto di colonizzazione agraria e militare che conferiva agli abitanti una natura duplice di contadino-soldato. Le terre erano distribuite in base alla capacità militare delle persone e i cavalieri erano favoriti sia come proprietari sia come militari. Più la conquista si stabilizzò, più il destino delle popolazioni di origine musulmana divenne un problema, risolto il più delle volte con l’emarginazione economica e spaziale degli ex infedeli, rinchiusi in quartieri etnici nelle città o relegati nelle campagne. Le città e in genere i centri abitati, godevano in Spagna di un’autonomia “protetta” in uno sviluppo armonico di competenze locali e inquadramento regio del popolamento nelle regioni di frontiera. I re si trovarono davanti infatti gruppi sociali con una precisa fisionomia politica, provvisti di autonomia e con una spiccata propensione a rivendicare una rappresentanza collettiva davanti agli organi regi. Città e cavalieri e nobili, mercanti si costituirono in leghe, fraternità, corporazioni. Le monarchie spagnole mantennero a lungo un carattere pattizio che spinse i re, fin dal XII secolo, a convocare ampie assemblee dei grandi del regno, con le città e i consigli comunali. Questa molteplicità di presenze istituzionalizzate, il carattere fortemente militare dell’aristocrazia del regno e la necessaria condivisione delle decisioni maggiori in assemblee composite rimasero caratteristiche di fondo dei regni spagnoli per lungo tempo. ■ 5. La Germania e l’Impero La Germania del secolo XI presenta a prima vista un quadro territoriale più stabile rispetto ai regni vicini. I quattro ducati tradizionali – Franconia, Sassoni, Baviera e Svevia – erano ben saldi nelle mani delle grandi famiglie dell’aristocrazia che coordinava una galassia di conti e castellani. I dati demografici disegnano una crescita impressionante della popolazione: dai 4 milioni del secolo XII agli 8 del Duecento (che salirono a 14 nel Trecento). Una crescita che alimentò un ampio movimento migratorio verso est, dove i prìncipi tedeschi chiamavano coloni per stabilizzare i propri dominati. L’impero come istituzione continuava ad aver un funzionamento intermittente. Per tradizione, l’imperatore era eletto dai grandi prìncipi a capo dei ducati maggiori, e poteva contare sul ducato di Franconia e sui possessi personali della dinastia come base del proprio potere. La crisi dei rapporti con il papato e lo scontro violentissimo con Gregorio VII colpirono duramente il prestigio dell’Impero sotto Enrico IV (1050-1106). In quegli anni fu anche eletto, da parte papale, un altro re, Rodolfo di Rheinfelden. Come dire che il principio dinastico poteva essere rimesso in discussione. E così avvenne con i successori di Enrico V, appartenenti a una casata diversa da quella precedente, scelti dai prìncipi elettori anche per la loro relativa debolezza. Dai conflitti diffusi fra re e prìncipi troviamo conferma di un dato importante: la dimensione personale del potere detenuto da queste famiglie ducali era basata su una grande base terriera allodiale, cioè di terre in proprietà. Inoltre la tendenza all’ereditarietà delle cariche, assai diffusa nel regno, portò ben presto a una dispersione dell’autorità di origine pubblica in un pulviscolo di potentati locali che cessavano, in caso di conflitto, di rispondere al re. Insomma, ampie porzioni del territorio dei ducati potevano legittimamente sentirsi slegate da una fedeltà assoluta all’imperatore. In questo contesto di debolezza iniziò il regno di Federico I di Hohenstaufen di Svevia (1125-1190), chiamato Barbarossa. Un grandissimo imperatore dalla storiografia tedesca, perché riuscì, in quasi quarant’anni di regno (1152-1190), a rendere almeno temporaneamente unita la Germania dei grandi ducati. Come Luigi VII in Francia, fece propria la funzione di pacificatore del regno, ordinando una pace generale dell’Impero nel 1158. In secondo luogo fece ricorso al diritto feudale per confiscare i ducati ai prìncipi ribelli, come mostra, in particolare, la lunga lotta contro Enrico il Leone. La lotta prolungava uno stato di guerra interna che favoriva il passaggio di un ducato da una fazione all’altra. Ogni volta che riusciva ad entrare in possesso di un ducato, Federico lo divideva e da uno ne creava due, diminuendo le forze dei singoli principati. L’uso dello strumento feudale servì come connettore delle fedeltà dei grandi verso il centro, dopo aver ridotto l’ambito d’azione dei prìncipi. Tanto più che Federico, come i re francesi, si sforzò di dare al legame feudale un significato politico e giurisdizionale reale. Nella dieta (assemblea dei grandi) di Roncaglia del 1158, dopo aver elencato quali erano i diritti regi, aveva stabilito che ogni potere di natura pubblica doveva provenire dal re, attraverso un’investitura formale. La legge nota come “ogni giurisdizione viene dal re e tutti i giudici (ufficiali pubblici) devono ricevere dal re l’amministrazione e prestare giuramento” consentiva a Federico di ordinare la “restituzione” al sovrano di tutti i poteri e diritti di natura regia in mani private. Nella stessa dieta Federico rinnovò il divieto di alienare i feudi, di venderli o dividerli, di giurare fedeltà a più signori, indurendo le punizioni contro i vassalli infedeli. Aveva ordinato anche che in tutti i giuramenti di fedeltà si facesse eccezione in favore dell’imperatore (la fedeltà al sovrano era sempre superiore rispetto a quella al signore), si vede come il Barbarossa cercasse di imporre il suo potere come vertice di una (tradizionale) gerarchia feudale, non come sovrano assoluto di stampo classico. La dieta di Roncaglia, tuttavia, riguardava soprattutto il regno d’Italia, dove l’opposizione di alcune città lombarde aveva provocato una dura reazione dell’imperatore. Le guerre italiane, durate circa trent’anni, misero a dura prova l’intera struttura imperiale, perché Federico, per ogni spedizione, doveva chiedere aiuto ai grandi dell’Impero che non sempre erano disposti a prolungare la presenza in Italia oltre il limite pattuito. La struttura nel complesso resse, e i prìncipi tedeschi rimasero fedeli al loro imperatore anche dopo la “non vittoria” contro i comuni italiani sancita dalla pace di Costanza del 1183. Resta comunque l’impressione di una fedeltà ancora “personale”, legata al prestigio di Federico e non certo alla dinastia. I dissidi scoppiarono nuovamente sotto il regno del figlio, Enrico VI, che aveva cercato di imporre il diritto di successione dinastica all’Impero abbandonando il criterio elettivo. In cambio aveva proposto ai prìncipi tedeschi la quasi completa libertà di lasciare in eredità i propri feudi. Dopo una prima adesione i prìncipi tedeschi rifiutarono definitivamente il patto di Enrico e mantennero il diritto di scegliere il futuro imperatore. Enrico VI prese in moglie nel 1186 l’ultima erede dei re normanni, Costanza d’Altavilla, dalla quale ebbe, nel 1194, un figlio chiamato Federico Ruggero. Enrico riuscì a entrare a Palermo nel 1194 e fu eletto re di Sicilia. Il figlio Federico si trovò così a ereditare nello stesso momento il regno di Sicilia e il titolo imperiale (quindi re di Germania e re d’Italia). ■ 6. Il regno di Sicilia Costanza d’Altavilla era l’ultima esponente della famiglia che più aveva contribuito a conferire una patina di unità alla multiforme presenza dei cavalieri normanni sbarcati nell’Italia meridionale intorno al 1013-1016. I cavalieri normanni si erano insediati nelle regioni meridionali dell’Italia nei primi decenni del secolo per mettersi al servizio dei prìncipi longobardi come mercenari nelle lotte interne e fra i loro domini e le aree rimaste sotto la presenza bizantina. Un primo gruppo riuscì abbastanza presto a stabilirsi ad Aversa, altri gruppi si espansero costruendo basi di un potere locale disperso ma con tendenze egemoniche regionali assai ambiziose. La qualità del potere esercitato dai cavalieri francesi fu da subito avvertita come qualcosa di diverso. Le iniziative militari dei normanni cambiarono rapidamente la natura dei poteri locali. Il controllo esercitato sui territori da questa aristocrazia militare fu infatti violento e inedito. I baroni normanni non avevano un vero ordinamento gerarchico all’interno di un sistema istituzionale unico. La vecchia aristocrazia longobarda e bizantina in Campania e in Puglia fu sostituita dai cavalieri normanni o si dovette riadattare ai modi di gestione del potere di questi: divennero tutti signori di castello, attraverso matrimoni e alleanze con i nuovi venuti. 36 Intorno al 1070, la dinastia degli Altavilla si impose come punto di riferimento di un coordinamento unitario fra i diversi territori conquistati. Presenti in Sicilia, in Puglia e in Calabria intorno al 1040 (Guglielmo Braccio di Ferro fu al servizio dei Bizantini e del principe di Salerno Guaimario V) seppero sfruttare bene le contrapposizioni fra il papa e l’imperatore, cercando di legittimarsi presso entrambi i poteri: Drogone (fratello di Guglielmo) fu eletto conte di Puglia dal duca salernitano e duca nel 1047 dall’imperatore Enrico III. Il fratello Umfredo riprese il titolo di duca di Puglia che nel 1059 fu ripreso dal nuovo arrivato della famiglia Roberto detto il Guiscardo, impegnato in azioni predatorie in Calabria; sempre nel 1059 ci fu un primo giuramento di fedeltà al papa. Roberto e suo fratello Ruggero (1031-1101) operarono su più fronti: occuparono Bari; in Sicilia avevano iniziato una campagna contro i musulmani che portò alla conquista di Palermo nel 1072. Quella conquista aprì alla famiglia le strade per una posizione politica preminente nel gioco politico europeo. Nel 1098 fu conferita a Ruggero in Sicilia una carica simile a quella di legato apostolico. Ruggero ottenne così un controllo diretto sulle istituzioni ecclesiastiche nell’isola che aiutò moltissimo la costruzione di una nuova amministrazione pubblica nell’isola. La ricostruzione di un dominato pubblico in Sicilia fu favorita anche dal modello di governo musulmano che era particolar-mente accentrato e basato su un capillare controllo economico e politico-istituzionale delle sue articolazioni locali. E’ probabile che proprio questo esempio abbai spinto Ruggero II (1095-1154), figlio di Ruggero I, a impostare un disegno monarchico che abbracciasse tutti i territori dell’Italia meridionale. Lo aiutò molto aver ottenuto nel 1130 da papa Anacleto II il titolo di re, in cambio di un riconoscimento di dipendenza vassallatica verso la Chiesa di Roma. L’autonomia dell’aristocrazia normanna sul continente, specie nelle regioni più remote, rimaste a lungo un ostacolo serio alla tenuta della monarchia. Il regno normanno non era feudale: non ci fu alcuna distribuzione sistematica di concessioni in feudo dei territori né una vera gerarchia di fedeltà regolava i rapporti interni tra l’aristocrazia e il re. Da un lato, le terre erano state acquisite dai cavalieri durante la conquista delle regioni meridionali con azioni militari di confisca ed erano dunque sentite come proprie dai discendenti dei primi guerrieri; dall’altro si conservava comunque un legame di fedeltà con il condottiero di riferimento, e si riconosceva ai capi un diritto sulle terre non perché ne fossero proprietari ma per averle conquistate. Il più importante documento apparentemente “feudale” del periodo normanno, il Catalogo dei baroni- un censimento di tutti i cavalieri normanni del regno e del loro potenziale militare - fiscale redatto nel 1142 – non contiene affatto l’elenco dei feudatari del re, ma l’elenco dei soldati che i baroni normanni, in base ai loro patrimoni, potevano armare in caso di guerra. Fu il Catalogo a creare un nesso “feudale” di fedeltà militare dei baroni verso il re: ora che i doveri erano quantificati, i cavalieri erano tenuti all’aiuto in guerra secondo le cifre stabilite dal Catalogo. Ma si trattò, appunto, dell’inquadramento sotto il profilo dell’aiuto militare di un ceto di potenti recalcitrante a sottomettersi politicamente al re. Davanti all’instabilità del ceto militare, i re normanni, ricorsero anche ad altri strumenti di governo per assicurare una solida base economica alla monarchia. In primo luogo lo sfruttamento delle stesse terre demaniali, di diretta pertinenza regia. Lo sfruttamento del demanio fu la chiave di volta del sistema economico normanno, non solo perché si crearono nuovi ufficiali pubblici nelle città del dominio e quindi un apparato locale di controllo che garantiva gettiti fiscali più sicuri, ma anche perché nelle terre demaniali si sperimentarono con successo nuove forme signorili di sfruttamento del lavoro contadino. I re della dinastia Altavilla rivendicarono un potere con caratteri di esclusività verso i sudditi latini, musulmani e greci; stabilirono una dipendenza dei baroni dal re sul piano delle fedeltà militari e raggiunsero realmente una relativa egemonia politica in tutte le regioni del regno. I re cercarono in primo luogo di limitare le prerogative giurisdizionali dei baroni, attraverso una rete di giustizieri regi che avocavano a sé le cause maggiori. Il regno normanno, alla fine del secolo XII, viveva dunque in questa polarità di tensioni politiche: una forte instabilità delle fedeltà locali dei baroni conviveva con un governo molto accentrato, culturalmente evoluto ed efficace sul piano giurisdizionale. ■ 7. La successione imperiale e il regno di Federico II Il figlio di Enrico VI e di Costanza, Federico, ereditò subito il regno di Sicilia, ma per il titolo imperiale le cose erano più complicate. Il primo conflitto per la successione vedeva infatti contrapposti Filippo di Svevia e Ottone di Sassonia. Nel 1211 Innocenzo III appoggiò Federico, che fu eletto re di Germania nel 1214. Federico fu prima eletto re dei Romani e poi, nel 1220, consacrato imperatore da papa Onorio III. Quando agiva come signore, Federico rafforzò molto il controllo politico dei suoi domini personali, incrementando le forme di governo diretto con ufficiali pubblici e promuovendo le città del ducato. Quando però agiva come re di Germania le cose andavano in maniera diversa. Federico doveva creare le condizioni per mantenere la pace del regno attraverso compromessi continui con i potentati regionali. Al momento dell’elezione imperiale, nel 1220, Federico emanò un atto molto importante per i futuri assetti del regno: un privilegio ai prìncipi ecclesiastici di Germania in cui si concedevano amplissime autonomie giurisdizionali, tali da rendere assai labile il controllo regio su estese porzioni del regno in mano alle chiese locali. Nel 1220 Federico ordinò una severa politica di recupero dei beni demaniali in mano ai baroni: richiese a tutti i possessori di presentare i privilegi emanati dal padre Enrico VI o dalla madre Costanza, con la perdita dei diritti per chi non presenta-va titoli validi o li aveva contraffatti. Nel 1231, lo stesso anno in cui il figlio Enrico cedeva a Worms i privilegi ai prìncipi tedeschi, Federico emanava a Melfi il più importante atto legislativo del suo regno: il Liber constitutionum o Liber Augustalis, dove l’ideologia regia riceveva una sistemazione di grande spessore culturale. Divisa in distretti cittadini largamente autonomi, sotto il governo collettivo dei comuni, l’Italia centro-settentrionale aveva seguito una via parzialmente diversa dalle altre regioni. L’inquadramento regio fu più debole per tutto il secolo XI e metà del XII. ■ 8. Conclusioni Guardiamo alle soluzioni pratiche, agli strumenti di governo, ai sistemi amministrativi, allora il giudizio cambia. I re si proposero come le autorità legittimate da un lato a ricomporre un quadro unitario di questi poteri dispersi e dall’altro a creare un nuovo equilibrio fra le prerogative della potenza privata dei signori (laici ed ecclesiastici) e l’esercizio di funzioni pubbliche di coordinamento e di pacificazione riservate al potere regio. Perché era questo che alla fine il re doveva fare. Nessuno pretendeva un controllo diretto e capillare dei territori locali da parte dei sovrani né una vera sottomissione degli individui al governo regio. I potentati regionali potevano essere messi al servizio del re nei momenti di necessità, ma non “appartenevano al re come depositario di un potere pubblico unico e sovrano. In sostanza, i re potevano contare sulle fedeltà dei territori, non sui territori in quanto suoi dominati. Per promuovere le funzioni regie, i monarchi usarono metodi molto diversi fra loro, in combinazioni altrettanto variabili. In primo luogo, in maniera non dissimile dai vicini potenti, i re fecero ampio ricorso al diritto feudale per intervenire in territori esterni al loro dominio. Rivalutando la loro funzione di senior rispetto ai prìncipi suoi vassalli, intervennero spesso nelle liti fra potenti e fra questi e i loro vassalli minori. Nel secolo XII la gran parte dei feudi o dei benefici era considerata parte integrante del patrimonio dei vassalli e poteva essere trasmesso in eredità o in dote. I re approfittarono di questa trasmissibilità del feudo, sia con politiche matrimoniali accorte sia attraverso un controllo serrato dei passaggi ereditari. Su un piano invece più tecnico-amministrativo, i re capirono che una chiave importante del successo dipendeva dai funzionari di corte e dagli ufficiali locali che dovevano governare i soggetti del loro dominato. A corte emersero persone di livello sociale medio, spesso di origini non nobili che presero il posto dei grandi vassalli: avevano meno ambizioni ed erano più fedeli; soprattutto si dimostrarono capaci di usare tecniche contabili più complesse, perché i regni, come i grandi principati, avevano bisogno di rinnovare i sistemi di prelievo e gli apparati finanziari per condurre campagne militari efficaci. Sotto la direzione del ristretto nucleo di corte, gli agenti locali, chiamati balivi o siniscalchi divennero i collettori locali del fisco regio: curarono la raccolta delle tasse, individuarono nuovi soggetti tassabili e nuove fonti di reddito. Sfruttarono meglio il “dominio” dei prìncipi, ma riuscirono a integrare nella contabilità regia anche le nuove acquisizioni, prima di tutto le città. Si trattava di porre il sovrano come “vertice politico” in base a cui gli altri poteri dovevano conformare il 37 Le famiglie aristocratiche che dominavano il consolato pretendevano di comandare quasi per diritto, in base a una prerogativa tipica del sistema signorile che legava il potere politico alla detenzione della forza militare. Tuttavia, dopo le guerre federiciane, il collegamento fra “potere politico” e “forza” fu apertamente contestato dalla cittadinanza non nobile. Tra gli ultimi anni del secolo XII e i primi del Duecento in quasi tutte le città scoppiarono disordini violenti, con interi quartieri che si ribellavano all’iniqua ripartizione delle tasse imposte dai consoli in occasione di costose imprese militari. Si contestava la ristrettezza del ceto dirigente che prendeva le decisioni per tutti, la sua sordità alle richieste di giustizia sociale e anche la prepotenza di un ceto militare che moltiplicava le guerre senza badare agli interessi della città. I milites ricevevano dal comune un cospicuo risarcimento per le perdite subite in battagli: erano esenti dalla maggior parte delle imposte e in più accaparravano una parte delle entrate grazie al risarcimento dei danni. Si organizzarono nuovi raggruppamenti politici che univano i cittadini non nobili, le societates. In primo luogo sorsero le società rionali, o “società di armi”, che radunavano tutti gli abitanti di una parrocchia o di una vicinia con compiti di autogoverno locale e di difesa delle mura. In un secondo momento si aggiunsero le società di mestiere, o “corporazioni di Arti”, più complesse nella loro composizione mista artigianale e mercantile. Prevalse uno spirito unitario e federativo. Le società avevano inizialmente uno scopo di protezione armata dei propri membri, ma col tempo si diedero una struttura comune, coordinata, che radunava tutte le Arti sotto un organismo unitario, una vera istituzione pubblica che si affiancava al comune come ente esterno e interno allo stesso tempo. Le società avanzarono richieste di natura politica come riservare ai membri delle società popolari una quota di posti in consiglio, far pagare le tasse a tutti secondo le proprie ricchezze, ridurre i privilegi dei nobili, impiegare le risorse per opere pubbliche, creare alleanze utili agli scambi commerciali e soprattutto assicurare una pace interna della città. Davanti a queste pressioni, il sistema consolare fu incapace di superare le divisioni interne e soddisfare le richieste di apertura. Una via fu quella di sostituire i consoli con una magistratura di emergenza che tentasse di riportare la pace in città. Questo magistrato fu chiamato podestà. Era un rettore unico, eletto per un anno e investito dei maggiori poteri di governo della città: il potere politico, la giustizia la direzione economica e il comando degli eserciti cittadini. Si decise di chiamare come podestà delle personalità “esterne” alla città, provenienti da altri comuni, sempre in carica un anno, e con uno stipendio adeguato a pagare i giudici e i notai al suo seguito. Il podestà forestiero dava maggiori garanzie di imparzialità rispetto alle lotte interne, non creava poteri personali, con la sua sola esistenza, toglieva alle forze politiche cittadine un motivo di scontro. Il podestariato era divenuto, per molti, una vera professione., la prima di carattere squisitamente politico che il medioevo ricordi come notò il grande sociologo tedesco Max Weber. Due sono gli elementi fondanti di questa rappresentazione delle origini: la centralità della parola nella scienza del governo; e la centralità della legge come fondamento del vivere civile. La legge era creata dagli stessi cives, nei consigli, che sotto il regime podestarile assunsero un’importanza molto maggiore che nel periodo precedente. Il consiglio comunale divenne il cuore politico del comune, non solo perché doveva eleggere il podestà e approvare le sue decisioni, ma perché al suo interno si prendevano le scelte principali per la vita politica ed economica della città. Il podestà proponeva gli argomenti da discutere, i membri del consiglio discutevano sulla proposta (chiamata “posta”) e alla fine decidevano se approvarla o respingerla con una votazione a maggioranza. Il principio di maggioranza, “una testa,un voto”, suonava come rivoluzionario alle orecchie del ceto nobiliare e apriva le porte a un modo di far politica completamente diverso. L’intero sistema sembrava girare intorno a questo rapporto bilanciato fra podestà e organi consiliari: il podestà guidava la politica cittadina, ma il consiglio disponeva le cose da fare. Il ruolo di comando del singolo fu equilibrato dal “potere dei molti”, in un sistema istituzione di grande spessore ideologico. Moltissimi erano i nuovi abitanti immigrati dal territorio circostante o da altre città, che formavano una popolazione in genere poco specializzata, addensata nei quartieri periferici, non compresi nelle mura. Fu necessario trovare nuove forme di integrazione nelle strutture urbane. Molti divennero lavoranti salariati, alle dipendenze dei maestri, ma altri riuscirono a trasformarsi in artigiani in proprio. Il ceto artigianale emerse prepotentemente sia sul piano economico, sia su quello politico. Iscriversi alle Arti era diventato dunque molto importante per i cittadini del XIII secolo. In primo luogo per un motivo economico. Le corporazioni controllavano il lavoro e stabilivano i prezzi delle merci e i salari dei lavoranti. La seconda ragione era di natura politica. Il peso delle Arti nella vita pubblica era aumentato enormemente nella seconda metà del Duecento. In molti comuni, peraltro, alla fine del Duecento fu liberalizzata l’iscrizione alle Arti: non si doveva per forza esercitare un mestiere, era sufficiente avere l’intenzione di appartenere a quella società e avere sufficienti conoscenze per essere accettati. ■ 5. Il governo delle corporazioni nel Duecento Dalla seconda metà del Duecento, le Arti si candidarono al governo della città in nome di una nuova idea di comunità, fondata sul lavoro artigianale e sui commerci, su una giusta divisione delle spese pubbliche e sulla pace sociale. Il Popolo duplicò le istituzioni comunali, affiancando il podestà e al consiglio del comune, un proprio magistrato; poi instaurò un nuovo governo dominato direttamente dal gruppo dirigente delle Arti. A Bologna presero il nome di Anziani, a Firenze e Perugia i Priori, a Siena i Nove: un governo collegiale formato dal podestà, dal capitano, dai due consigli, del comune e del Popolo, coordinati dai rappresentanti delle Arti. In tutte le città furono create liste generali di appartenenza “qualificata” alla città. Si censirono, in primo luogo, i residenti; quindi i contribuenti, distribuiti prima in liste fiscali di soggetti al fodro, l’antica tassa pubblica di matrice regia, e poi in estimi più moderni, con una valutazione reale della ricchezza individuale. Fu un’operazione lunga e costosa, che aprì la via all’adozione di un criterio proporzionale nella raccolta delle imposte pubbliche: vale a dire che si pagavano le tasse in proporzione alla ricchezza reale. Su un piano ideologico per la prima volta si intaccavano i patrimoni più ricchi; sul piano pratico le cose andarono in maniera diversa. I capitani mobili sfuggivano all’estimo; gli sconti per i crediti non pagarti erano concessi con generosità; e infine dare soldi al comune non era avvertito come una perdita di capitale, ma come un investimento. In base a questi elenchi generali che delimitavano la cittadinanza (residenti e contribuenti) si elaborarono liste “seconda- rie” di appartenenti ai consigli, alle società territoriali e corporative (le matricole) e agli uffici comunali. Il presupposto di questa rivoluzione delle prassi documentarie fu il controllo delle condizioni individuali dei cittadini, un controllo da attuare con strumenti completi, ma sintetici e facilmente aggiornabili. Tutti gli aspetti delle relazioni fra i cittadini e le istituzioni erano ormai immessi in strumenti “contabili” che misuravano l’affidabilità o meno dei singoli cives. Anche la politica repressiva del comune si adeguò all’uso di questi mezzi più sofisticati. La giustizia divenne più severa. Si concessero ai giudici poteri speciali per scoprire e punire severamente le infrazioni contro l’ordine pubblico, in particolare quei reati violenti dovuti allo sfoggio di potenza della nobiltà militare. Inoltre si presero provvedimenti severi contro le speculazioni economiche dei grandi proprietari. In città si pose un limite ai prezzi degli affitti delle case. Il contado fu oggetto di una profonda ristrutturazione nelle sue articolazioni amministrative. Negli ultimi decenni del Duecento le pretese delle città comunali aumentarono: divisero il territorio per zone amministrative; al loro interno, queste partizioni furono suddivise a loro volta in aree minori, affidate a un ufficiale cittadino, il vicario oil podestà, responsabile della condotta degli abitanti. Si impose alle comunità del contado una serie di doveri fiscali e annonari che scaricavano sui comitatini una parte rilevante del costo del mantenimento della città e della sua popolazione in crescita. Il comune di Popolo ricercava una “legittimità” più alta del regime podestarile: una legittimità fondata sulla disciplina (riconoscimento del regime esistente e controllo delle condizioni individuali), compartecipazione agli interessi collettivi raggiunta attraverso un sistema di rappresentanze a catena che mettevano in contatto i membri delle associazioni di mestiere con gli organismi dirigenti del Popolo e dunque con le istituzioni comunali. La divisione in “fazioni” o “parti”, gruppi di famiglie alleate politicamente contro una parte avversa, si era diffusa durante le guerre contro Federico I tra il 1226 e il 1250. Fu in quel periodo che le famiglie e le città si contrapposero in guelfi, alleati del papa, e ghibellini, alleati dell’imperatore. In molte città le Parti, guelfa o ghibellina, divennero un’istituzione, con propri consigli e podestà. In tal modo le parti offrirono ai loro aderenti un’altra via di accesso al potere, un mezzo che 40 permetteva a gruppi politici “trasversali” di influenzare la guida politica della città. Alle tensioni di classe, si aggiungevano gli odi di fazioni, non meno violenti e pericolosi per la stabilità delle istituzioni comunali. Il Popolo cercò di combattere l’eccessiva carica di violenza di queste forze centrifughe, facendo del tema della pace l’ideale politico della città. La pace era a suo modo un “atto di forza”: andava imposta e difesa contro le angherie dei potenti e soprattutto forniva la motivazione ideologica per prendere provvedimenti di emergenza. Molti comuni di Popolo emanarono a fine Duecento delle leggi speciali, chiamate “ordinamenti di giustizia” o leggi “antimagnatizie”, per assicurare la pace interna contro i “magnati”. Per “magnati” si intendevano tutti quei “grandi” che si opponevano al comune e lo minacciavano con atti di sovversione violenta. A queste persone, riconosciute come magnati, fu vietato di assumere cariche comunali, fu imposta un regime speciale nelle questioni giudiziarie; e infine fu comminato il “bando” e l’esilio dalla città. Il comune poteva controllare i singoli cittadini in base al loro comportamento e spostare gli individui ribelli o inaffidabili dalle liste di inclusione a quelle di esclusione con un semplice atto amministrativo. Proprio in questi anni di forte divisione interna si affermò la teoria del “bene comune” come fine ultimo della politica. La fonte era un’opera di Aristotele, la Politica che giudicava giusti e legittimi solo i regimi che inseguivano il “bene di tutti” e non del singolo. Naturalmente il Popolo si presentò come l’unica forma di governo in grado di raggiungere il bene comune, perché favoriva un sistema consiliare aperto, difendeva il benessere collettivo e inseguiva la giustizia, l’equità e la pace. Ideali e realtà, purtroppo, non coincidevano. Il “bene comune” faticò a essere raggiunto senza il ricorso a strumenti repressivi. I conflitti sociali e le lotte di fazione provocarono una reazione di rigetto delle istituzioni comunali e il potere fu assunto da personalità di prestigio. Un signore, dominus in latino, che si impose sulle forze cittadine, sostituendosi al comune nella guida della vita politica. Non subito e non ovunque, tuttavia, nelle città “signorili”, i consigli comunali furono sciolti o lasciati in vita come semplici organi di ratifica delle decisioni prese dal signore; la parte avversa al potere dovette lasciare la città; gli spazi di partecipazione vennero gradualmente ridotti. Le città italiane entrarono infatti in una fase di sperimentazione ancora incerta, con momenti di governi autocratici in mano a un signore e ritorni improvvisi a governi comunali. Quello che in fondo era in gioco in tutte le città era il cuore del sistema comunale-podestarile: cioè la delega del potere a un magistrato forestiero. Il potere politico doveva tornare nelle mani delle forze politiche cittadine. Parte quarta. Crisi e inquadramento delle società europee (metà XIII-XV secolo) La crescita economica dovuta ai progressi dell’agricoltura e dei commerci aveva rivitalizzato le campagne, trasformato le strutture insediative, disseminato i territori di centri urbani in grado di assicurare uno scambio commerciale regionale e interregionale a lunga distanza. La mobilitazione delle ricchezze monetarie aveva condizionato una profondità le forme di dominazione dei signori di banno e aveva favorito l’affermazione di èlite urbane formate da banchieri e da ricchi mercanti. Nei secoli successi la messa in opera di questi apparati ancora imperfetti si scontrò con una serie di difficoltà strutturali che ne misero in forse l’esistenza. Da un lato le pretese di questi poteri erano altissime: i re e i papi si ergevano al di sopra delle loro istituzioni e della società reclamando poteri quasi assoluti e il riconoscimento dell’origine divina delle loro cariche. Dall’altro, queste pretese suscitarono resistenze fortissime in seno alla società e ai gruppi politici più organizzati. Il papato si rafforzò sul piano istituzionale interno ed esterno, imponendo il suo controllo sulla vita delle diocesi e sull’elaborazione dottrinale della fede. Ma dovette fare i conti con un episcopato non sempre disposto all’obbedienza e con una pluralità di modi di vivere la religiosità dei laici. Questi riemergevano come corpo di fedeli indocile e non sottomesso. Era necessario trovare strumenti nuovi e più flessibili che integrassero una parte delle esigenze del mondo rubano più dinamico e colto; ma allo stesso tempo si impose una repressione feroce delle resistenze più ostinate. Si spiega così la coesistenza della spiritualità evangelica promossa dai nuovi ordini mendicanti e dell’apparato repressivo dell’Inquisizione affidata agli stessi ordini. La disciplina religiosa della popolazione divenne un elemento centrale nella costruzione degli Stati e la crisi del papato nel Trecento favorì un processo di trasferimento ai re della difesa della fede e della salvezza della comunità. La monarchia si impose o si salvò grazie alla sua flessibilità, alla sua capacità di adattamento alle situazioni più diverse e alla scelta, per certi versi obbligata, di condividere il governo del regno con le élite regionali più dinamiche: dalla nobiltà signorile che controllava di fatto gran parte della società rurale, ai ceti dirigenti delle città che dominavano i giochi dello scambio finanziario ed economico. Nelle campagne e nelle città si avviò una profonda trasformazione dei prodotti sociali, ancora una volta con numerose contraddizioni. I ceti signorili e in generale dei detentori di capitali e di mezzi di produzione si sforzarono di imporre un controllo diretto e più economico sui processi di produzione e sulla forza lavoro. Nuovi assetti proprietari e nuove forme contrattuali si diffusero fra Tre e Quattrocento nelle campagne, già duramente colpite dalle crisi di carestia e dalla peste del 1348. Una massa ingente di contadini rimasti senza terra fu impiegata come forza lavoro salariata alle dipendenze dei signori; un’altra parte emigrò in città ingrossando le file di un salariato operaio poco specializzato e poco pagato. La condizione contadina peggiorò sensibilmente, fino a un ritorno più o meno mascherato del servaggio o comunque a una riduzione sensibile delle libertà personali. Le crisi ripetute portarono i ceti eminenti e i governi a elaborare nuove strategie di contenimento della povertà. Il controllo della povertà divenne per i ceti dirigenti delle città un segno esplicito di sensibilità religiosa verso i deboli, una sorta di redenzione in terra per le ricchezze accumulate, e fornì allo stesso tempo una fonte di sostegno necessaria per le fasce a rischio delle popolazioni urbane e rurali. Tutti contribuivano a loro modo al mantenimento del “corpo” della nazione, una figura ideale sempre più usata alla fine del medioevo per indicare il legame dinamico fra le parti e il tutto. Per continuare a vivere bisognava restare uniti e ripetere nel tempo le funzioni assegnate a ciascun organo. Cambiare ruolo, rifiutare la propria condizione metteva a rischio l’equilibrio generale della società. Capitolo 1. Il papato, gli ordini mendicanti e la crisi della chiesa (1215-1378) La vasta costruzione dottrinale e pastorale elaborata nei 150 anni successi alla riforma fu sistematizzata all’inizio del Duecento sotto Innocenzo III, in un famoso concilio ecumenico tenutosi a Roma nel 1215 , in Laterano. Disciplinava e rinnovava la procedura giudiziaria interna alla Chiesa, la lotta agli eretici, le pratiche pastorali da seguire nelle diocesi. La curia pontificia di Roma divenne un vero centro di potere e di controllo della vita religiosa delle diverse diocesi europee. Il papa prendeva sempre le decisioni giuste per la Chiesa, emanava leggi valide per tutti e poteva derogare da quelle stesse leggi grazie all’autorità di dispensare dalla loro osservanza; si preparava il terreno per la dottrina della podestà assoluta del papa e della sua infallibilità. Il concilio lateranense IV promulgò anche due canoni che cercavano di dare una forma ai nuovi movimenti religiosi nati nei primi anni del Duecento. Soprattutto ai due principali ordini mendicanti i predicatori, fondati da Domenico di Caleruega, e i minori, seguaci di Francesco d’Assisi. Con il loro esempio, riuscirono a conquistare un ruolo di guida delle coscienze delle popolazioni urbane in qualità di predicatori e di confessori, e si posero come mediatori fra le istanze di ordine della Chiesa e le domande dei laici di una partecipazione attiva alla vita religiosa. L’eresia divenne un campo di tensioni fortissime nel mondo politico-religioso del tardo medioevo. Da un lato esisteva chiaramente l’eresia religiosa, quella perseguita dagli inquisitori; dall’altro, però, il reato di eresia fu sempre di più applicato alla politica: la ribellione si confuse con l’eresia in un unico reato di lesa maestà che richiedeva un intervento eccezionale del potere religioso e civile. Il ricorso spregiudicato all’eresia per salvare la Chiesa dalle resistenze dei fedeli riottosi non mise il papato del secolo XIV al riparo da una crisi politica senza precedenti. Prima lo scontro fra Bonifacio VIII e il re di Francia nel 1303; poi l’abbandono di Roma e il trasferimento del papato ad Avignone per un settantennio (1307-1378) E infine, dopo il primo tentativo di riportare la sede a Roma nel 1378, uno scisma fra un papa romano e un antipapa francese che divise in due l’Europa per un altro cinquantennio. Le pretese di dominio dei papi sul mondo cristiano si scontrarono con le debolezze 41 interne della Chiesa e dovettero fare i conti con il sistema politico dei regni europei che non accettava più inquadramenti dall’alto, neanche sul piano religioso. ■ 1. La Chiesa del papa: apogeo e crisi del papato Sotto la guida autoritaria di Innocenzo III, fu approvata e resa ordinaria la procedura inquisitoria contro i chierici, sottomettendo tutti i gradi della gerarchia ecclesiastica al potere di inchiesta del papa. Si collegarono i sacramenti in un unico sistema di salvezza: i fedeli dovevano confessarsi almeno una volta all’anno al proprio parroco e ricevere l’eucarestia a Pasqua; chi si rifiutava non poteva entrare in chiese né esservi sepolto. Anche il matrimonio doveva essere celebrato in chiesa ed erano vietati gli sposalizi fatti in segreto. Tutte le posizioni eterodosse, giudicate errate da un tribunale ecclesiastico, furono condannate con la scomunica, l’espulsione del colpevole dalla comunità, il sequestro dei beni e il divieto per i figli di ereditare i beni di una persona scomunicata: una vera “morte civile”. Il concilio fu guidato con mano ferma da Innocenzo III, aveva redatto di persona la maggior parte dei canoni approvati. Era un riconoscimento aperto del grande potere assunto dal pontefice romano nelle decisioni che riguardavano lo “Stato della Chiesa”, vale a dire il suo assetto istituzionale. Le correnti di pensiero a favore del pontefice si concentrarono sulla natura giuridica di questo potere, formalizzando la concezione di una “potestà assoluta” del papa. Il cambio di titolazione avvenuto sotto Innocenzo III, da vicario di san Pietro a vicario di Cristo, andava già in questa direzione: sottolineava infatti l’origine divina delle prerogative papali. I canonisti di metà Duecento distinsero inoltre un potere ordinario del papa, che era in accordo con leggi, e un potere assoluto -vale a dire sciolto dalle leggi e superiore alle leggi stesse- che il papa poteva esercitare in caso di necessità e per il bene della Chiesa. I teorici della supremazia papale arrivarono a sostenere anche che il papa non poteva sbagliare, era infallibile. Era un potere discrezionale che conferiva al papa una superiore capacità di “definire le cose”. Queste esaltazioni costituivano una base teorica alle concrete pretese di governo del papa sulle istituzioni ecclesiastiche. In primo luogo, furono rafforzate le competenze dei legati pontifici. Nel corso del Duecento, i pontefici cercarono in ogni modo di mettere sotto controllo l’elezione dei vescovi. La natura e l’estensione del potere pontificio suscitarono naturalmente molte resistenze: quali leggi poteva trascendere il papa? Fin dove poteva dirsi assoluto il suo potere? E soprattutto, il papa poteva contrapporsi al concilio di tutti i vescovi? Le tensioni generate dai contrasti fra il papa e i vescovi durarono a lungo e diedero vita a una vera e propria corrente politica chiamata appunto “conciliarismo” che affermava la superiorità del concilio sul papa. Già il Decretum di Graziano assegnava al papa il potere di definire gli articoli di fede. I giuristi del Due-Trecento si divisero: alcuni sostennero che il papa non poteva decretare cose contrarie ai concili generali; altri pensavano invece che le decisioni dei concili valevano solo se approvate dall’autorità del papa. Il diritto della Chiesa fu profondamente rinnovato nel Duecento. Alla base del nuovo diritto furono poste proprio le lettere pontificie chiamate decretali. Scritte generalmente in risposta a questioni processuali poste da vescovi e abati, le numerosissime decretali pontificie assunsero un valore generale e furono raccolte in cinque collezioni (le Cinque compilazioni), che divennero presto punti di riferimento importanti per regolare la vita delle chiese. Una tappa rilevante fu la redazione di un Codice unico, che riordinò le compilazioni precedenti: il cosiddetto Liber extra, voluto da Gregorio IX e composto dal frate domenicano Raimondo di Penafort nel 1234. Da un insieme di “casi” si ottenne così una serie di “regole” che disciplinavano tutte le materie di diritto canonico in armonia con le decisioni prese dai diversi pontefici e dai concili ecumenici. Rimase il testo normativo di riferimento fino al primo vero Codice di diritto canonico del 1917. La curia romana cercò di articolare meglio le funzioni di governo del papato che si muoveva ormai in uno spazio d’azione di ambito europeo, soprattutto in due settori: quello finanziario, con l’afflusso delle decime da tutto il mondo cristiano, e quello giudiziario, con un numero crescente di cause che giungevano a Roma per essere risolte dal papa. La curia romana divenne così la più importante sede giudiziaria dell’Occidente medievale, la sola di natura veramente internazione che riceveva richieste da tutte le diocesi europee. Il controllo sulla gerarchia episcopale divenne ancora più assiduo quando si perfezionarono due fondamentali strumenti di governo: i peccati riservati al papa, vale a dire i peccati dai quali solo il pontefice poteva assolvere; e il potere di concedere una dispensa dall’osservanza di alcune norme canoniche. Il sistema delle dispense si sviluppò rapidamente, accogliendo un numero crescente di richieste nelle materie che disciplinavano il matrimonio, la concessione di benefici e le carriere degli ecclesiastici. Fu istituito un ufficio destinato a ricoprire un ruolo centrale nella Chiesa basso medievale: la Penitenzieria. La Chiesa romana aveva maturato strumenti di governo delle proprie istituzioni, di guida spirituale e ideologica delle masse dei fedeli, di salvaguardia delle sue prerogative politiche ed economiche. Ma le sfuggiva, come è intuibile, il controllo pieno delle sensibilità religiose presenti nelle società medievali sempre più articolate e complesse sul piano sociale ed economico. ■ 2. Nuove forme di religiosità monastica: gli ordini mendicanti In questo contesto di grandi conflitti fra una Chiesa sempre più centrata sul papa di Roma e una massa di fedeli che di fedeli che chiedeva, e si guadagnava, nuovi spazi di vita religiosa dentro e fuori le istituzioni ecclesiastiche, presero forma due movimenti religiosi destinati a cambiare in profondità la struttura della Chiesa medievale: i predicatori fondati da Domenico di Caleruega e i minori fondati da Francesco d’Assisi chiamati ordini mendicanti. Proponevano un modello di vita vicino alla povertà del vangelo, fondato sulla rinuncia ai beni, sul lavoro come sostentamento, sulla carità e sulla predicazione aperta a tutti nelle piazze. Questa rinuncia ai segni del potere tipici del monachesimo tradizionale (i mendicanti non erano monaci, ma frati) li rese più credibili come pastori e come guide spirituali. Da un lato furono in grado di mantenere nell’ortodossia una gran parte dei fedeli più critici verso le ricchezze della Chiesa istituzionale. Allo stesso tempo, i mendicanti divennero anche uno strumento di controllo delle coscienze e di repressio-ne dell’eterodossia in tutte le sue forme: ai due ordini fu affidata l’Inquisizione contro l’eresia, un tribunale speciale contro i crimini ideologici e politici che si sovrappose con severità inflessibile alla normale giustizia vescovile. L’origine dei frati predicatori (più tardi chiamati anche domenicani) è strettamente legata alla lotta anticlericale, che fu condotta intensamente in Francia meridionale agli inizi del Duecento sotto l’impulso di Innocenzo III. Attraversando le terre “infestate” dai catari un canonico spagnolo, Domenico decise di prestare la sua opera missionaria per contrastare l’eresia. Domenico ebbe l’intuizione di unire una predicazione esemplare con una preparazione dottrinale in grado di rispondere alle teorie degli eretici. “Esemplare” voleva dire, per Domenico, che il predicatore doveva essere di esempio e dunque fare propri quegli ideali di povertà e di semplicità che la popolazione sembrava apprezzare come segno di coerenza di vita e di fede. Domenico scelse così di presentarsi vestito umilmente e a piedi e di accettare il confronto con tutti, cercando di persuadere i fedeli che la povertà non era in contrasto con la fede ed era possibile anche all’interno della Chiesa cattolica. Domenico organizzò un primo gruppo di seguaci che aumentò nel corso degli anni Venti e Trenta del Duecento in maniera notevole. Il nuovo ordine fu approvato da Onorio III nel 1216 e, poco dopo, nel 1221, ne furono redatte le Costituzioni, che definirono le forme di vita in comune: promozione della povertà individuale e dell’elemosina come sostentamento, vita in comune nei conventi. Caratteristica principale dei predicatori fu tuttavia la formazione culturale richiesta ai nuovi frati, necessaria per contrasta-re con argomenti teologici corretti le teorie degli eretici. Nei conventi doveva esserci anche un insegnante di teologia per i giovani monaci e lo studio era parte integrante della vita conventuale. Questa tensione culturale favorì da un lato un reclutamento di persone già dotate di un titolo accademico, dall’altro l’ingresso nell’università di maestri provenienti dall’ordine dei predicatori. L’origine dei minori è legata indissolubilmente alla figura di Francesco d’Assisi, nato nel 1182 da un agiato mercante di Assisi. Francesco pose come inizio della sua conversione l’incontro con i lebbrosi, voluto da Dio come prova per misurare la sua fede: il lebbroso era infatti il grado ultimo dell’umanità, l’altro assoluto evitato da tutti che Francesco imparò ad amare. Bisognava iniziare dagli ultimi e scorgere in tutte le forme di emarginazione una traccia della presenza 42 L’esperienza conciliarista aveva provato a proporre, una diversa idea di Chiesa, non basata sull’autorità ma sulla carità, la fratellanza e la condivisione delle decisioni. Capitolo 2. La costruzione dello spazio politico dei regni europei Nel corso del XIV secolo, le società europee furono inquadrate in strutture regie più ampie e più definite. Gli storici francesi hanno insistito sul processo di centralizzazione delle corti regie come motore dello sviluppo dello Stato, che avrebbe compresso irrimediabilmente le autonomie locali e i poteri feudali concorrenti. Le monarchie si affermarono contro le altre forze sociali. Nuove ricerche hanno messo in luce la vitalità del particolarismo delle signorie locali,che sfruttavano i vantaggi dell’inserimento nella corte centrale del re,; la lunga durata dei legami feudali che condizionarono ancora per buona parte del Trecento i rapporti fra i re e i grandi del regno; la capacità di resistenza delle comunità locali e delle città davanti alle esose richieste finanziarie dei re; e in generale l’esistenza di solidarietà regionali che identificavano nel “paese” un luogo di appartenenza più vicino e più rilevante rispetto al regno. ■ 1. La difficile costruzione di uno spazio politico dei regni di Francia e Inghilterra Se un dato comune emerge da queste sequenze di eventi, è proprio la diffusa tensione contro la forma monarchia, attaccata su tutti fronti: sui criteri di successione, sui poteri da esercitare sulla legittimità delle richieste rivolte ai sudditi. Mai come nel XV secolo, l’esistenza stessa delle monarchie è stata messa in discussione e ridefinita secondo le necessità del momento. E tuttavia da queste tensioni fortissime emerge un dato di fondo: l’estrema flessibilità della forma monarchica, la sua capacità di assorbire le pressioni più violente senza spezzarsi del tutto. Le monarchie sopravvissero a dispetto dei re e si reinventarono anche grazie alla loro debolezza, alla possibilità di rimodellare veloce i sistemi di governo in caso di necessità La Francia basso medievale partiva avvantaggiata nella costruzione di un regno “nazionale”. Poteva giovarsi dell’eredità di almeno due grandi sovrani che avevano segnato la storia francese nella seconda metà del Duecento: Luigi IX che governò a lungo, dal 1226 al 1270, rimanendo nella memoria collettiva come il modello di buon re; e Filippo IV il Bello, in carica fra il 1285 e il 1315. Sotto Luigi IX era cresciuta ancor di più la sfera delle competenze riservate al re, a cominciare dall’attività legislativa. Il re si poneva al di sopra del suo apparato amministrativo, come protettore dei sudditi ingiustamente vessati. Sotto Filippo il Bello le finanze furono rinnovate aumentando molto il carico fiscale sui sudditi: la guistizia rimase strettamente nelle mani del re, che estese le sue pretese anche sulle persone e i beni della Chiesa. Lo scontro con Bonifacio VIII e il processo ai templari iniziato nel 1307: due episodi importanti proprio per la rilevanza politica assunta dall’affermazione di un potere sovrano superiore come difensore della fede e dell’ordine naturale del mondo. I limiti delle pretese regie furono evidenti sotto il successore, Luigi X. Nel 1315, una rivolta dei baroni del regno costrinse il re a concedere un’ampia autonomia politica ai paesi ribelli. Le carte di libertà presentate dai vari principati regionali misero sotto accusa proprio le funzioni pubbliche basilari della monarchia: il controllo della giustizia e la fiscalità. Con l’esaurirsi della dinastia capetingia (1328) e il passaggio del regno alla linea dei Valois si riaccese il contenzioso con l’Inghilterra, che avanzava pretese dinastiche sul trono francese in virtù della parentela di Edoardo III con i Capetingi. Fu una guerra cruciale per la Francia, non solo perché durò a lungo, prendendo il nome di guerra dei Cento anni, ma perché mise in luce le debolezze del sistema politico francese: un esercito pesante e lento; una scarsa capacità di mobilitazione della popolazione; un sistema fiscale incapace di finanziare una guerra prolungata nel tempo; una fortissima frammenta- zione territoriale. La prima fase della guerra mise in rilievo drammaticamente la vulnerabilità dell’esercito francese, più volte battuto dagli inglesi; infine ad Azincourt nel 1415, dove l’esercito francese fu annientato. Nella seconda fase, gli aspetti politici prevalsero. Non era solo la presenza degli inglesi a minacciare il regno, ma una spaccatura interna all’alta aristocrazia francese che assunse una dimensione “nazionale” prima mai raggiunta. La guerra civile era iniziata intorno al 1392, quando si era aperto un conflitto fra due membri della corte che avevano tentato di influenzare Carlo VI, un re debole e impazzito: da un lato il duca di Borgona, Giovanni senza Paura e dall’altro il fratello del re, Luigi duca d’Orléans. Lo scontro scoppiò quando Luigi, con l’approvazione della reggente, impose una nuova tassa, subito respinta dagli altri prìncipi. Presero allora forma due partiti: gli Armagnacchi, fedeli a Luigi d’Orléans e i Borgognoni, seguaci del duca di Borgogna, i quali riuscirono a prendere il controllo di Parigi e della Francia settentrionale. La resistenza alla politica fiscale degli Orléans divenne il filo costante della guerra civile, quando i Borgognoni conquistaro-no Parigi per la seconda volta, nel 1418, come pria cosa abolirono tutte le tasse nella città. E’ interessante notare come il conflitto sulla tassazione pubblica fosse diventato ormai un conflitto sulla monarchia. Autonomia dal fisco si traduceva in autonomia dal re, ma anche in divisione del regno in regioni relativamente autonome. La complicazione divenne massima, infatti, quando in seguito al trattato di pace di Troyes, con il quale la Francia era riuscita a raggiungere una tregua con gli inglesi, il re d’Inghilterra Enrico V sposò Caterina,la figlia del re francese Carlo VI. Non solo Carlo VI aveva esautorato l’erede legittimo, il delfino Carlo (poi VII), ma aveva eletto come suo “figlio” e successore il re inglese, investito già “della facoltà di governare ed esercitare la cosa pubblica”. Alla morte dei due re (Carlo VI e Enrico V), l’erede inglese, Enrico VI, pretese legittimamente di essere eletto re di Francia. Ancora una volta il nodo dinastico è indicatore di una debolezza strutturale dei regimi monarchici, ancorati a un sistema di alleanze matrimoniali. La minaccia di avere un re straniero fu sfruttata dagli orleanisti, che sostenevano l’altro figlio del re francese, Carlo VII. Fu in questi anni, fra il 1428 e il1431, che si svolse la parabola di Giovanna d’Arco: una donna condottiera, ispirata dalle voci divine che le indicarono Carlo VII come vero re francese, guidandola nella riscossa vittoriosa contro gli inglesi e i Borgognoni invasori. Giovanna fu subito messa al servizio della propaganda regia, anche dopo il processo e la condanna a morte per stregoneria, eseguita nel 1431 dal vescovo di Rouen al servizio dai Borgognoni (Giovanna fu riabilitata nel 1456 dal legato pontificio che annullò la sentenza del 1431). La guerra si spense soprattutto per le divisioni che investirono l’Inghilterra. Le vicende di luigi XI mostrano bene le contraddizioni dello Stato monarchico francese alla fine del Quattrocento. Ribelle al padre, esiliato nel Delfinato per quattordici anni (1447-1461), Luigi, divenuto re, cercò in vari modi di riaffermare la sovranità francese su tutti i principati. Sotto questo strato mobilissimo di eventi politici, emergeva lentamente la costruzione istituzionale di un regno ormai radicato nelle sue funzioni di base. Le ordinanze regie sulla fiscalità, la moneta, la Chiesa, la giustizia, l’esercito e gli ufficiali pubblici e, allo stesso tempo, il crescente monopolio esercitato dal re sulle nobilitazioni portarono verso un oggettivo rafforzamento dello Stato. L’Inghilterra del primo Trecento presenta già a tutti i segni del’instabilità continua che caratterizzerà la sua storia nei decenni successivi. Dopo il lungo regno di Edoardo I, i successori misero in evidenza la debolezza strutturale della monarchia: - un regno incapace di finanziarsi: - un ruolo spropositato dei baroni; - un Parlamento molto forte nell’imporre un controllo stretto intorno al re e alla gestione delle finanze regie. La monarchia inglese, nel corso del XIV secolo, fu segnata da una rapida successione di re deposti, dimessi o uccisi, come raramente la storia inglese ricorda. Davanti a questo vuoto di potere due erano le forze che potevano aspirare a trovare un ordine, e in parte si sovrapponevano: il Parlamento e i Grandi, la nobiltà militare dei pari. Il Parlamento inglese assunse nel trecento un vero ruolo di controllo e di indirizzo della politica regia. I baroni, che pure usavano il parlamento per porre un freno al re, non esaurivano la loro azione in quella sede. Agivano anche da potenti signori locali, con al seguito centinaia di cavalieri minori legati da un nuovo contratto semifeudale. L’assenza del re, la guerra in Francia che causava un aumento esponenziale dei prelievi fiscali e la competizione per il trono favorirono un frazionamento del regno inglese in ducati semi-indipendenti. Nel 1453 questa ostilità fazionaria si polarizzò intorno al conflitto fra la casa di Lancaster, che aveva a lungo dominato il Parlamento, e quella di York. La guerra, chiamate delle Due Rose, che vide tra l’altro la morte violenta di due re e degli eredi di Edoardo IV (per mano di Riccardo III), terminò con l’ascesa al trono di una nuova dinastia, quella dei Tudor (1485). 45 Anche in Inghilterra la guerra aveva messo a dura prova il sistema istituzionale monarchico: aveva costretto, in particolare, tutta la popolazione a fare fronte in qualche modo alle continue assenze dei re, alle frequenti eliminazioni violente dei regnanti, alla loro debole capacità di “impersonare” il regno. Come in Francia, si dovette far affidamento su qualcosa di meno incerto e di più intoccabile della persona del re. L’idea di monarchia doveva staccarsi dai re in carne e ossa e trasferire alla Corona la nozione astratta ma durevole di un’istituzione monarchica. Anche nelle monarchie spagnole il peso delle lotte interne per la corona determinò una seire di cambiamenti. La galassia catalano-aragonese abbracciava l’Italia meridionale e insulare, controllando l’intero bacino del Mediterraneo occidentale. Se in tutti i regni i re dovettero confrontarsi con assemblee rappresentative influenti, le Cortes, la composizione e il ruolo di queste istituzioni variava da caso a caso. In Castiglia, le Cortes no comprendevano i nobili ed erano formate quasi esclusivamente dai rappresentanti delle città. Da tempo il ceto intellettuale e amministrativo delle città, i letrados, aveva trovato nel rapporto con il re un sistema di promozione e di ascesa sociale. Entrati massicciamente nell’amministrazione regia, i letrados divennero i più grandi difensori della monarchia assoluta del re e del suo potere di imporre liberamente le tasse. Le Cortes crearono istituzioni permanenti, le Deputazioni: si limitavano a esercitare poteri di controllo, ma amministrava- no direttamente alcune funzioni politiche, stipendiavano una milizia e riscuotevano in proprio una tassa del 10% sul valore delle produzioni tessili. Questa struttura “pattista” del regno di Aragona fu in qualche modo un freno alla formazione di una monarchia centralizzata e di una concezione assoluta del potere monarchico. Un matrimonio e una successione contestata portarono all’unificazione delle corone di Castiglia e di Aragona. Nel 1469 Isabella di Castiglia sposò l’erede al regno di Aragona. L’unificazione di tutta la Spagna, a guida castigliana, si completò nel corso del loro regno, dopo la caduta dell’ultima enclave musulmana di Granada (1492) e l’assorbimento del regno di Navarra nel 1512. ■ 2. L’Impero e i regni dell’est: crisi e flessibilità della forma monarchica Fra il Duecento e il Quattrocento l’Impero perse uno dei suoi pezzi fondamentali, l’unione dei regni d’Italia, di Borgogna e di Germania. La Borgogna era da tempo divida fra il ducato, vassallo del re di Francia, e la contea, di fedeltà imperiale. L’Italia era formalmente sotto l’Impero, ma Enrico VII di Lussemburgo fu l’ultimo imperatore a tentare di comprenderla in una dominazione unitaria. Gli imperatori successivi della dinastia di Lussemburgo e poi di Boemia si concentrarono sulla Germania e sui regni dell’est, che trovarono un assetto stabile solo alla fine del Quattrocento, sotto la dinastia degli Asburgo, detentrice del titolo imperiale fino al 1805. I candidati alla carica di imperatore erano relativamente deboli, dall’altro la natura elettiva del regno garantiva ai prìncipi elettori, ridotti in numero di sette, un potere di intervento diretto nelle vicende politiche della corte. La famosa Bolla d’oro del 1356, concessa da Carlo IV ai prìncipi elettori, concedeva loro la piena autonomia giurisdizionale nei propri territori e un potere di controllo sull’attività imperiale che limitava molto le capacità di comando dei singoli regnanti. Il Collegio degli elettori era assolutamente convinto di essere un’entità superiore al re-imperatore. Si impadronì anche del potere di deporre il regnante in caso di necessità. Rodolfo IV rese pubblico e confermò il “privilegio grande”, un diploma falso in cui si concedeva all’Austria una totale autonomia dall’Impero e che di fatto faceva del duca un sovrano di pari grado dell’imperatore: con una cancelleria, un sigillo con il duca incoronato, e la costituzione di un “patrimonio dell’Austria” separato da quello personale degli Asburgo. L’imperatore reagì: Carlo IV impose la distruzione del sigillo “regale”del duca e rifiutò di riconoscere l’annessione del Tirolo. Questo non impedì ai discendenti di Rodolfo di accedere al trono imperiale. Nel 1493 Alberto d’Asburgo fu eletto imperatore e trasmise la carica al cugino Federico III e questi a suo figlio Massimiliano I, il vero fondatore del nuovo Impero orami “asburgico”. I tentativi di legiferare per tutto il regno furono pochi e di scarso successo. La famosa dieta di Worms, tenuta da Massimiliano d’Asburgo nel 1495, aveva cercato di creare un tribunale imperiale che superasse i diritti locali e di imporre una tassa per tutti territori del regno, ma suscitò numeroso resistenze e no ebbe una reale applicazione. Il nuovo Impero rimase così bipartito fra l’Imperatore e i prìncipi. La consapevolezza di essere un regno che era (stato) anche un Impero servì per lungo tempo a legittimare le pretese di espansione che i re germanici continuarono a nutrire nel corso dei secoli. I regni dell’Europa dell’est rappresentano un caso interessante di esportazione di modelli regi in territori relativamente “nuovi”. Il regno di Boemia era strettamente legato alle sorti dell’Impero, visto che il suo re era uno dei sette prìncipi elettori, Il regno di Ungheria fu conteso da alcune dinastie locali e si unì alla Boemia e alla Polonia. La Polonia si era unita con l’enorme ducato di Lituania nel 1386, contendendo lo spazio ai cavalieri teutonici e ai principati moscoviti nella Russia. In una prospettiva strettamente eurocentrica erano regni di “frontiera”; e su questa funzione di difensori dei confini della “cristianità” costruirono una parte importante della loro identità politica. Tutti e tre i paesi avevano istituzioni rappresentative assai forti, consistenti in una Dieta o in Stati generali, espressioni di territori politicamente semi-indipendenti, sottoposti a una nobiltà fortissima, numericamente estesa e intenzionata a difendere l’idea di un regno policentrico. Si trattava di una nobiltà di fatto bipartita in due livello: un livello alto, anzi altissimo, di grandi magnati (Ungheria), cavalieri (in Boemia), latifondisti, arbitri indiscussi della vita politica del paese; e un livello inferiore formato dalla piccola e media nobiltà, anch’essa assai estesa come in Polonia (erano nobili tutti i liberi, i non servi), legata da espliciti interessi clientelari alla nobiltà maggiore. Al sovrano veniva riconosciuto solo un formale coordinamento della politica sovra locale. In Boemia in seguito alla predicazione di Jan Hus un sacerdote riformatore che predicava il ritorno alla vita evangelica, la libertà di predicazione e la comunione sotto le due specie (pane e vino) il regno fu di fatto diviso in due: la Dieta e la città di Praga si schierarono in difesa della riforma hussita, mentre la Moravia, sotto Sigismondo vi si oppose. Ci furono 17 anni di guerra civile senza re, con la Dieta a capo della parte ribelle. Solo nel 1436, dopo che Sigismondo di Boemia riconobbe la Chiesa hussita, si riformò l’unità del paese. La formazione di uno Stato potente ed esteso dall’Asia minore alle regioni balcaniche aveva condizionato moltissimo la natura ideologica e i limiti territoriali dei nuovi regni dell’Europa orientale. Lo Stato ottomano fu il risultato di un’abilissima campagna di unificazione politica e militare delle diverse tribù nomadi realizzata dall’élite delle tribù turcomanne installate in tutta la penisola. La caduta di Bisanzio nel 1453 sotto Maometto II segnò la fine del dominio bizantino e l’inizio di un processo di unificazio-ne politica e religiosa di tutta la regione, con gradi diversi di dominazione e assimilazione religiosa e culturale: molto alta nella penisola anatolica e nelle regioni orientali (colonizzate in massa da tribù turcomanne), meno forte in quelle occidentali, dove le popolazioni locali pure sottomesse non furono completamente assorbite. La dominazione ottomana rappresentò per secoli un “nemico” e una minaccia che alimentava le ideologie religiose dei regni dell’est e dell’Impero (il baluardo cristiano contro l’Islam) e con minor successo una serie di sfortunate “crociate” contro i Turchi. L’Impero ottomano era uno Stato solidissimo sotto il potere assoluto del sultano, in grado di resister tranquillamente ai colpi di re europei poco saldi e di un’aristocrazia regionale in cerca di autonomia. ■ 3. Il caso italiano: gli Stati regionali dal XIV alla fine del XV secolo Nei primi anni del Trecento le regioni italiane furono soggette a un doppio processo di ricomposizione e di divisione. Da un lato vi fu la riunificazione di molteplici realtà cittadine e comunali in alcuni “Stati territoriali” maggiori. Dall’altro lato, questa pluralità di dominazioni regionali non aveva alcun coordinamento centrale superiore, visto che né l’imperatore né tantomeno il papa riuscirono mai a presentarsi come poteri unificanti. In questo quadro di frammentazione relativa possiamo distinguere tre aree politico-territoriali principali: 1. I grandi Stati regionali principeschi : - il ducato di Savoia, tra il Piemonte e la Savoia; - lo Stato dei Visconti, tra Lombardia, Piemonte ed Emilia; - lo Stato estense, comprendente parti di Emilia e di Romagna con capitale Ferrara; 46 - lo Stato della Chiesa, dai confini ancora incerti tra Lazio, Marche, Umbria e Romagna; 2. Le formazioni regionali ancora sotto regimi repubblicani: - la repubblica di Venezia con Terraferma (Veneto e Friuli); - la repubblica di Firenze, estesa su quasi tutta la Toscana dopo la conquista di Pisa nel 1406; - la repubblica di Genova. 3. Le regioni meridionali inserite nei regni: - la Sicilia sotto gli Angioini e poi gli Aragonesi; - il regno di Napoli sotto gli Angioni fino al 1442 e poi unito alla corona di Aragona. Si trattava di piccoli stati tendenzialmente autonomia che univano più dominazioni cittadine in una compagine nuova. Il salto riguardò dunque la trasformazione del dominio di una città in una costellazione pluricittadina. Questi dominati ebbero peraltro un’origine molto variegata, differente da una città all’altra e segnata da una sperimenta- lissima capacità di riadattare istituti comunali alla nuova realtà di poteri personali o familiari. La prima generazione di “signorie” cittadine erano di fatto dominazioni personali, ancora bisognose di legittimazioni dal basso. La forza consisteva nell’aperta deformazione del quadro istituzionale comune; la debolezza stava invece nella necessità di ricorrere comunque a forme di legittimazione esterne al proprio potere. Neanche la più forte ed estesa dominazione regionale del XIV secolo, quella dei Visconti a Milano, riuscì a sfuggire all’obbligo di formulare le basi di legittimità del proprio governo. L’esperienza viscontea, insieme a quella estense, rappresenta dunque un momento centrale del riassetto politico dell’Italia signorile. I Visconti si presentavano programmaticamente come i restauratori dell’ordine, i salvatori della città dilaniata dalle lotte civili. I signori non erano “piccoli re”. Le loro pretese erano poco fondate, i loro atti di potere spesso fuori dai sistemi riconosciuti di derivazione del potere. I signori si appropriarono anche di alcuni attributi della sovranità, come la qualifica di “legge animata in terra” riservata agli imperatori. Era troppo, ma l’esagerazione dimostra quanto deboli fossero in realtà le basi di legittimazione del dominato visconteo e quanto il signore avesse bisogno di sostegni legali. La maggior parte delle dedizioni di città al signore, votate dalle assemblee di cittadini, era condizionata dalla presenza di armati del signore che non lasciavano molta scelta ai presenti. La maggioranza dei signori rimanevano comunque tiranni, un termine volutamente politico, usato con piena coscienza dal giurista in diverse opere. Un tratto comune a tutte le dominazioni territoriali va identificato proprio nell’acquisizione per “blocchi separati” di città e territori che patteggiarono col signore modi e forme dell’entrata nel dominio. L’ampliamento del dominio con la messa in opera di un sistema di ufficiali locali naturalmente richiese una ristrutturazione delle corti centrali. La costruzione di una sorta di burocrazia centrale faceva progressi ovunque, dai grandi Stati ai piccoli principati. La presenza di un personale tecnico di estrazione “borghese” fornì il sostegno a nuove pratiche di governo impostate su criteri statuali, che cercavano di razionalizzare l’amministrazione del principato. Qualche progresso ci fu: per la prima la fiscalità e il diritto furono armonizzati in gran parte dei luoghi del dominio. La chiave di volta degli Stati signorili o principeschi (Visconti-Sforza, Este, Stato della Chiesa) rimase infatti la capacità del signore di assicurare un rapporto diretto tra il centro, in alcuni casi la corte, e le singole comunità rurali e urbane del dominio. Il grado di autonomia delle comunità rimase molto elevato quasi ovunque. Il governo centrale si assicurava infatti il controllo sulle decisioni politiche attraverso l’invio o la scelta di magistrati esterni di affiancare ai collegi cittadini, o in alcuni casi, ai consigli comunali che erano rimasti in vita e difendevano gelosamente le prerogative del governo urbano. Questo localismo esasperato dimostrava quanto ancora provvisoria e imperfetta fosse la sottomissione del contado attuata in età comunale, e quanto radicati ancora fossero i diritti particolari, sia delle comunità sia dei signori. Le numerose e sparse signorie locali, rivendicarono un’autonomia politica e giurisdizionale piena sui territori di loro pertinenza. I Visconti soprattutto, ma anche i Savoia, gli Sforza e i pontefici furono generosi nel riconoscere e inserire nello Stato le signorie locali con una formale investitura feudale che rendeva palese la nuova gerarchia dei poteri pur lasciando intatto il prestigio dei signori. Da un lato riconoscere poteri signorili effettivamente operanti sul territorio, che non erano in grado di contrastare, dall’altro far riconoscere a questi poteri la supremazia politica del signore. Il sistema feudale e il nuovo senso del vassallaggio, inteso come soggezione politica e non come fedeltà militare, riuscirono in qualche misura a stabilizzare le migliaia di signorie locali dei territori regionali. Sembrava un sistema efficiente, in grado di comprendere tutte le realtà dello Stato con le quali impostava relazione diverse. A fare difetto, tuttavia, era proprio lo Stato centrale, il nucleo istituzionale di riferimento che doveva coordinare questo insieme variegato di rapporti. Non si trattava solo di una questione di legittimità ma anche di continuità del potere e di mentalità di governo. Un problema che non doveva toccare le regioni italiane inserite in compagini monarchiche: la Sicilia e il regno di Napoli. Il governo aragonese in Sicilia iniziò una politica di valorizzazione delle realtà locali, baroni e città. I re aragonesi aumentaro-no il numero di cavalieri, concessero loro un’ampia disponibilità di feudi che potevano esser liberamente venduti e trasmessi in eredità affidarono alle comunità la riscossione delle imposte dirette. Un elemento di debolezza fu la vendita di beni demaniali per aumentare le entrate. Una fase di instabilità dinastica e politica portò a un governo condiviso di quattro vicari che si spartirono l’isola favorì la nascita di centri di potere autonomo che non riconoscevano il re. Una crisi simile fu attraversata dal regno di Napoli sotto la dominazione angioina, quando la successione fu contesa da due rami della prolifica famiglia: il ramo degli Angiò di Provenza e quello degli Angiò - Durazzo, re d’Ungheria. I baroni del regno, già forniti di ampi privilegi dagli Angioini, non solo rafforzarono i loro diritti feudali, ma riuscirono a costruire, in alcuni casi, dei veri Stati regionali semi-indipendenti. Nel 1443, Alfonso d’Aragona, da poco diventato re di Napoli, confermò a molti feudatari l’alta giustizia civile e penale; a questo si aggiunse l’enorme numero di privilegi di esenzione fiscale, giurisdizioni minori, consuetudini concessi alle comunità cittadine e ad altri centri rurali del regno. La riforma del fisco promossa da Alfonso il Magnanimo aveva rimesso in funzione la fiscalità diretta, con la redazione di catasti per censire le proprietà dei sudditi e tassarli in proporzione ai beni. Il re aumentò anche le entrate indirette. Anche la formazione di un esercito permanente andava nella direzione di una razionalizzazione delle spese. In definitiva proprio la compartecipazione all’amministrazione dello Stato,anche se attuata nelle forme “privatistiche” del privilegio, era il punto di forza della monarchia aragonese: sia i baroni sia le élite urbane trovavano nella collaborazione con il regno o nel servizio diretto nei suoi uffici la ragion d’esser del loro potere “locale”. Amministrare la giustizia (per i baroni) e riscuotere le tasse (per le città) erano azioni politiche che riaffermavano la derivazione pubblica dei loro poteri. A Firenze, una volta assestato il dominio sulle città soggette e i loro territori, l’oligarchia finanziaria che guidava le Arti maggiori iniziò a modificare in profondità l’assetto istituzionale della repubblica. Firenze era rimasta una repubblica, con istituzioni consiliari relativamente aperte e un sistema di ricambio periodico del personale politico. Nel XV secolo le cose cambiarono. Si affermò una nuova cultura politica che privilegiava la stabilità dello “stato” rispetto alla legalità repubblica-na. In termini generali si può dire che l’élite rivendicava l’autonomia della politica dal diritto e fece di tutto per affermare una forma di governo oligarchica. Uno degli strumenti più importanti in questa direzione fu la costruzione graduale delle prestanze, un istituto che stabilizzava il debito pubblico del comune. La repubblica che ispirava evidentemente fiducia, ottenne enormi quantità di denaro per finanziare lo Stato e la sua espansione in Toscana; i cittadini assicurarono i loro capitali in un sistema che nel giro di alcuni anni permetteva discreti guadagni, almeno finché gli interessi rimanevano alti. In altri due grandi Stati repubblicani: Genova e Venezia, i centri di uno sviluppo economico eccezionale su scala mediter- ranea. I sistemi istituzionali riconobbero presto la necessità di stabilizzare il governo con un capo supremo, eletto avita, il doge, contornato da una serie di consigli ristretti e larghi che bilanciassero i poteri all’interno dell’aristocrazia urbana. Il modello veneziano raggiunse quasi la perfezione nell’attenzione maniacale agli equilibri di potere tra le diverse componenti dell’élite urbana. I contrappesi e i controlli incrociati permisero a tutta l’aristocrazia di partecipare alla vita politica senza arrivare a minacciare la stabilità dello Stato con guerre civili. Naturalmente si trattava, nel caso veneziano 47 Solo una Corona più forte poteva ovviare alla crisi fiscale del regno. Il solo limite che il re poteva avere consisteva nell’autolimitazione delle proprie pretese secondo ragione. Alla base del potere monarchico non ci fu mai un patto con valore costituzionale, ma dei re che per convenienza o per necessità convinsero a stringere dei patti e in alcuni casi a rispettarli. Il governo politico dello Stato si reggeva anche sulla negoziazione , sullo scambio , sulle pressioni incrociate tra un re che si voleva assoluto e una serie di corpi che limitavano queste pretese senza rovesciarle del tutto . La concessione e l’ascolto delle richieste del popolo rafforzava il loro potere. La grande nobilita, l’aristocrazia del regno e in alcune regioni l’élite commerciale delle città erano il nucleo sociale che dalle assemblee rappresentative traeva i vantaggi più consistenti. Insomma le assemblee sono in insieme scoiale ogni volta diverso, in parte manipolato dall’alta aristocrazia, che aveva reti clientelari molto estese nelle regioni dove si concentravano i suoi possessi, e in parte determinato dai rapporti di dipendenza del re con alcune forze locali. Questo spiega anche il declino delle assemblee alla fine del XV secolo. Molte di esse non avevano più la capacità di proporre una politica autonoma né di rivendicare un potere di veto sulle decisioni del re. I motivi di questo declino furono diversi ma tra loro collegati: - i re avevano reintegrato i beni della corona, ridotto il numero delle guerre e quindi diminuito le richieste di aiuto ai sudditi; - la tassazione ordinaria era ormai un dato accettato; la nobiltà e la medio - alta aristocrazia terriera e urbana erano ormai esenti dalle imposte ordinarie. Le tasse colpivano solo i contadini e le campagne. La nobilita non si interessava più delle assemblee. Nella seconda metà del Quattrocento l’alta aristocrazia cambiò strategia, espandendo la penetrazione nell’amministrazione del regno a più livelli: monopolizzò alcune funzioni di governo, come la diplomazia e l’attività militare, entrò nell’alto funzionar iato regio coprendo cariche di ufficiali maggiori nei territori, contrattò con il re dei privilegi pesanti. In Francia le guerre continue valorizzarono le capacità di comando militare. In Inghilterra i giudici di pace, con funzioni giudiziarie e di polizia appartenenti alla media e alta nobiltà erano i custodi della “pace del re”. Un sistema economico per assicurare l’ordine pubblico affidandolo al ceto già in possesso della capacità militare in quei luoghi. In Spagna la nobilita rimase sempre potente da condizionare la vita dei regni. I re cercarono inoltre di coinvolgere una parte della nobilita di forme private: si chiamavano infatti privados i signori entrati nella “privanza del re” a cui venivano affidate alcune funzioni di governo come especiales servidores. Il ceto che più si contrapponeva al re finiva per far dipendere la sua potenza proprio da legame con il re. L’integrazione della nobiltà in varie forme segnò l’ingresso delle clientele nel sistema di governo dei territori del regno, attraverso la promozione di esponenti a ufficiali o la vendita delle cariche regie a vita. Insomma più lo Stato riusciva a distribuire quote di potere pubblico in amministrazione alla nobilita territoriale, più le speranze di successo e di durata aumentavano. Il regno divenne il grande contenitore dei gruppi sociali. Le forze sociali e le istituzioni costituivano un blocco unico (metafora) un corpo vivente con il re come testa e tutti gli ordini sociali come organi,ognuno con una propria funzione specifica, e coordinato con gli altri. L’unità e l’armonia di tutte le parti serviva dunque a garantire la sopravvivenza del corpo. Ecco i piedi che si ribellano, che non seguono il cammino giusto provocano inevitabilmente la rovina del corpo, La stabilità dell’ordine sociale doveva essere garantita dal rispetto dei ruoli e della gerarchia stabilita dalla natura e approvati dalle istituzioni regie. Capitolo 4. Gerarchie sociali alla fine del medioevo Lo sviluppo delle istituzioni politiche dei regni ha messo in luce un processo di aristocratizzazione della società nel corso del XV secolo. Queste aristocrazie si erano rafforzate ovunque. Una massa ingente di contadini fu di fatto privata della terra, espulsa dalle campagne o costretta a lavorare come bracciante. Un processo simile si ebbe coni lavoratori delle migliaia di botteghe artigiane sparse nelle città europee. Il mondo basso medievale dovette fare i conti con una massa crescente di persone “non proprietarie”, senza terra e senza mezzi di sussistenza: una massa da far lavorare a salario, che aveva solo il lavoro come risorsa economica. La cultura ecclesiastica sia quella laica giustificarono l’esclusione politica dei dipendenti salariati in base a un’antica diffidenza per il lavoro manuale dipendente, una condizione che sminuiva la qualità umana della persona. Si poneva il problema del sostentamento di masse urbane che vivevano in uno stato di incertezza continua questo spinse le autorità laiche ed ecclesiastiche a costruire strutture permanenti di accoglienza e di aiuto. Un élite mista si incaricava di raccogliere le offerte, organizzare gli aiuti e soprattutto decidere a quali persone e per quali motivi potevano esser concessi. La carità istituzionalizzata serviva anche a ridisegnare gerarchie sociali, a graduare il valore delle persone e delle loro attività, a riaffermare un quadro di valori dominanti che dovevano regolare la vita collettiva delle società. ■ 1. Crisi e ristrutturazione dei rapporti sociali nelle campagne Una serie di carestie indebolì le popolazioni urbane e rurali fra il 1315 e il 1322; le guerre violentissime e lunghe e soprattutto un aumento costante delle tasse, che in tutti i paesi europee vessarono il mondo rurale in maniera crescente. Un processo che coinvolse signorie laiche ed ecclesiastiche in ugual misura. La peste del 1347 colpì duramente le città e le campagne europee. Arrivata attraverso navi provenienti da porti orientali si diffuse rapidamente in tutta Europa. L’alta mortalità era considerata espressione della collera di Dio, che puniva l’umanità per i suoi peccati. Le fonti demografiche e contabili mostrano ampi vuoti nelle popolazioni urbane, diminuite del 40-50% rispetto ai livelli degli anni precedenti alla peste. Nelle campagne la situazione era complicata da un perverso meccanismo di impoverimento della popolazione causato dai rigidi dispositivi della fiscalità pubblica, urbana o signorile. Le tasse erano infatti calcolate in base a un numero fisso di abitanti, che non teneva conto delle morti e degli abbandoni. Gli abitanti rimasti dovevano così pagare le tasse per un numero di persone non più reale, un peso per molti insopportabile, che provocava il definitivo abbandono di numerosi centri rurali. Si trattò di un cambiamento radicale delle condizioni di lavoro, dei doveri del contadino e delle pretese die proprietari fondiari animati da una nuova propensione allo sfruttamento economico della terra. Lungo tutti i secoli centrali del medioevo, i rapporti agrari in Europa furono dominati da poche tipologie contrattuali: in primo luogo il livello e l’enfiteusi, due forme di affitto a lungo termine dai dieci ai ventinove anni, rinnovabili fino a tre generazioni. In un periodo così lungo il contadino che usava la terra direttamente acquisiva una certa disponibilità della terra stessa anche se non ne era il proprietario: poteva decidere le colture, subaffittare la terra che aveva in concessione o anche venderla con il consenso del proprietario. Secondo una nozione del possesso, le cose erano di chi le usava questo diritto “pesante” legava il contadino alla terra, ma legava anche la terra al contadino:difficile sfrattarlo. Le cose iniziarono a cambiare nel corso del Duecento. Gli imponenti processi di bonifica e di messa colture di nuove terre modificò la struttura della rendita fondiaria : il passaggio dal canone in denaro al canone in natura, vale a dire la consegna al proprietario di una parte dei prodotti. Per diversi motivi: la crescita esponenziale della domanda di beni alimentari nelle città . Alla crescente domanda delle città risposero invece le grandi aziende agrarie che dopo secoli di crisi iniziarono nel tardo secolo XII un processo di riorganizzazione del patrimonio fondiario, indirizzando quote crescenti della produzione verso i mercati urbani. Una buona parte dei capitale era stata investita nelle campagne, consegnando nelle mani cittadine una quota ormai preponderante dei possessi terrieri. Gli appezzamenti più grandi, più redditizi e più curati appartenevano a proprietari cittadini. Differenze sostanziali riguardavano anche i modi di conduzione dei fondi. Nei territori a prevalente dominio cittadino le proprietà erano meno frammentate, richiedevano cure particolari nella gestione dei cicli produttivi e una diversa organizzazione della forza lavoro. Le zone a prevalenza contadina erano invece coltivate direttamente dai conduttori, spesso ancora in affitto enfiteutico (a lungo termine). Il quasi-monopolio dell’affitto a lungo termine di frantumò e iniziarono a fiorire contratti di affitto sperimentali, informe ibride con rapporti diversi. La novità più eclatante era la brevità dei termini di concessione. La riduzione dei termini 50 poteva avere ragioni diverse: ridiscutere l’importo dei canoni, riappropriarsi della disponibilità della terra, mettere sotto controllo l’attività del conduttore. In questo modo si liberava il contadino dalla terra ma si provocava anche una maggiore precarietà dei rapporti di lavoro. In Italia le novità più importanti si ebbero nelle zone a forte concentrazione di proprietà contadina. Qui si trovano le prime forme di contratto di mezzadria, un affitto a breve termine con la divisione a metà dei prodotti tra il proprietario e il contadino. Nel corso del Duecento aumentarono gli obblighi per il contadino che doveva compartecipare, insieme al proprietario, alla fornitura delle scorte di sei e di animali; definire il calendario dei lavori, con l’obbligo di inserire nuove colture nel corso del primo e del secondo anno di affitto; assicurare il miglioramento e il mantenimento delle colture arboree e specializzate già presenti. L’impegno del mezzadro fu esteso alla residenza obbligatoria nella casa sita al centro del podere e si avvertì la necessità di definire nel contratto anche i compiti dei singoli membri della famiglia, che diventava l’unità produttiva base della mezzadria. Il sistema mezzadrile era visto come un vantaggio ‘morale’ oltre che economico da entrambe le parti. Proprio la libertà del contratto imponeva ai conduttori una serie di obblighi e di penalità che li costringevano spesso a ricorre all’aiuto finanziario del proprietario. Questo spiega la piena consapevolezza raggiunta dai proprietari di usare il contratto mezzadrile per sfruttare al meglio la “quota di lavoro” che la famiglia colonica poteva fornire. Il lavoro contadino diventava così un oggetto di scambio, una fonte di rendita variabile ma sempre disponibile, un bene da far fruttare. Nei paesi dell’Europa occidentale si nota una progressiva scomparsa del servaggio. In Inghilterra e in Spagna i re acconsentirono all’abolizione formale dei vincoli servili nelle campagne. In realtà fra Tre e Quattrocento ci fu un processo generale di abbandono della conduzione diretta della terra, troppo onerosa per i padroni, a favore di contratti di affitto parziari, che prevedevano una spartizione dei prodotti. Emerse così uno strato di contadini più elevato, responsabile della conduzione dei fondi nei confronti del proprietari. Peggiorarono al contempo le condizioni dei semplici coltivatori . Anche in questo caso una parte della massa dei piccoli proprietari perse il controllo della terra, potendo contare solo sulla vendita della propria forza lavoro. Questi processi crearono fenomeni intensi di mobilità contadina. Anche la diffusione dei nuovi rapporti di lavoro favorì una maggiore instabilità dei contadini, perché le scelte padronali verso nuove colture specializzate nei terreni migliori portarono all’abbandono delle zone marginali , in parte perché i contratti a breve termine alimentarono la nascita di un bracciantato stagionale nelle campagne. Nei periodi di maggiore crisi questo insieme di persone si riversava nei centri urbani, dove la possibilità di occupazione e di sostentamento erano maggiori, ma le condizioni di vita in rapido peggioramento. Lavoro non qualificato e povertà furono due condizioni che una popolazione urbana posta ai margini si trovò a dover affrontare. ■ 2. La trasformazione del mondo del lavoro in ambito urbano: i salariati Il passaggio da coltivatori ad artigiani era esplicitamente richiamato dagli aspiranti cittadini per affermare il loro nuovo statuto sociale e vincere le diffidenze dei governi urbani verso gli immigrati legati ai lavori rurali. Abbiamo un riscontro nelle legislazioni urbane, sempre più dure verso i nuovi immigrati del territorio. Leggi restrittive, dettate dalla paura e dalla volontà di preservare una condizione privilegiata ormai acquisita. Le città italiane furono tra le prime a porre un limite alla circolazione dei nuovi arrivati. E’ stato calcolato che circa la metà della popolazione di una città del basso medioevo era occupata in lavori artigianali. Il ceto artigianale era già allora diviso al suo interno in gerarchie di mestieri e di funzioni. Si crearono due canali di recluta- mento e di formazione dei lavoratori: da un lato i giovani apprendisti, futuri maestri e figli di maestri già in possesso di una loro bottega; dall’altro i giovani inservienti senza mezzi. Erano questi, appunto i “salariati” chiamati anche valet (in francese), operai, lavoratori e con altri nomi che mettevano in luce la prossimità della loro condizione di dipendenza a quella servile. La rigidità degli statuti corporativi e il tentativo di inquadrare le Arti in una gerarchia di mestieri furono dunque fenomeni comuni a molte città europee. L’ingresso nelle corporazioni fu severamente disciplinato e divenne di fatto riservato a pochissimi maestri. Questa chiusura oligarchica rese più acute le differenze fra le Arti maggiori e quelle a più forte contenuto mercantile. Nel corso dei primi decenni del trecento, l’abbassamento delle condizioni lavorative coinvolse anche gli strati intermedi dei lavoratori artigiani. Anche i privilegi acquisiti dai maestri potevano essere messi in discussione. Era la spia di un processo più generale di declassamento del ceto operario. I lavoratori trovavano sempre più difficilmente un’occupazione stabile presso una bottega ed erano spinti a prestare la loro opera a tempo per una giornata o una settimana, oppure a cottimo senza un rapporto di lavoro fisso. Il numero di queste persone si moltiplicò e favoriva la crescita di apertura di grandi cantieri edili, la costruzione delle cattedrali nelle città del nord, la costruzione di arsenali nelle principali città portuali che richiamarono migliaia di persone occupate per periodi variabili e irregolari. Anzi la comparsa sulle piazze europee di questa forza lavoro prevalentemente manuale, a bassa specializzazione tecnica, suscitò una reazione di chiusura e di rifiuto da parte delle classi dirigenti del baso medioevo. La cattiva reputazione di chi, ricevendo un salario, diventava un “mercenario” che vendeva il suo lavoro a giornata abbassava la qualità della persona , la sua libertà personale e in ultima analisi la sua affidabilità. Si aggiunse anche una nuova valutazione economica del ruolo dei salariati: ricevendo uno stipendio fisso , i salariati e i piccoli artigiani non avevano capacità di espandere i loro affari e quindi accrescere la ricchezza collettiva. Per questo secondo il teologo Tommaso d’Aquino per essere come agli altri cittadini, gli artigiani dovevano smettere di fare lavori manuali. La diffidenza dei teologi era condivisa dai ceti dirigenti urbani che avevano limitato in vari modi l’ingresso dei lavoratori meno abbienti nelle istituzioni cittadine. Per diventare membri del consiglio cittadino era necessario avere un reddito minimo relativamente alto e così vietava esplicitamente l’elezione negli uffici pubblici di alcune categorie di lavoratori,dai “vetturali”, addetti al trasporto ai panettieri ai mestieri legati al passaggio di genti e di merci. L’entrata nelle istituzioni di persone un tempo giudicate di vile condizione non poteva non suscitare reazioni di rifiuto anche all’interno della stessa élite artigianale. Il suo apice si manifestò negli anni successivi alla peste del 1348. Dopo la peste si creò una situazione favorevole ai lavoratori e agli artigiani rimasti: erano pochi, più richiesti e pagati meglio rispetto agli anni prima della peste. Questa contrazione dell’offerta contribuì a far crescere in generale il livello delle retribuzioni, sia del lavoro artigianale sia dei lavoranti salariati. Il miglioramento improvviso fu avvertito subito come una novità pericolosa. Da Firenze all’Inghilterra, alla Francia le leggi sul blocco dei salari costituiscono uno dei primi esempi di normativa di “classe volta a fermare le richieste economiche dei lavoranti, avvertite dai nobili possessori e dai grandi mercanti come un ricatto da respingere- L’ordinanza dei lavoratori emanata in Inghilterra nel 1349 (e ripresa dallo Statuto dei lavoratori del 1351) è un testo chiarissimo: ci sono dei lavoratori che si approfittano della scarsità di manodopera per imporre aumenti salariali ingiustificati preferendo non lavorare che accettare paghe più basse. Si dispose allora che tutte le persone che non avevano già un’occupazione o della terra da coltivare dovessero accettare qualsiasi proposta di lavoro venisse loro offerta. Chiunque si rifiutasse, diventava automaticamente un “ozioso. Nella stessa ordinanza si punivano con la prigione anche i lavoratori che abbandonavano un’occupazione prima del termine e i padroni che accettavano di pagare salari più alti del consueto. L’ordinanza del re di Francia del 1351 appare molto simile al testo inglese, con una maggiore insistenza sul pericolo rappresentato dai poveri che “non volevano lavorare”. Nonostante il tono minaccioso, queste normative ebbero un effetto assai limitato. I salari, dopo la peste, continuarono a salire, anche se questo non voleva dire automaticamente che i lavoratori vivessero meglio. Tra il 1340 e il 1400 un numero assai alto di rivolte nelle campagne e nelle città turbò la vita ordinata delle città europee e in alcuni casi portarono all’instaurazione di governi provvisori composti in maggioranza da piccoli artigiani alleati momen-taneamente ad esponenti della borghesia mercantile. Così avvenne a Parigi nel XIV durante la guerra dei Cento anni. I borghesi parigini attentarono il governo popolare diretto da Etienne Marcel. Nelle campagne l’insicurezza militare e la crisi dei prezzi colpì lo strato alto dei contadini che si rivoltarono contro i loro signori nel luglio 1358. Il movimento prese il nome di jacquerie e si accanì contro i piccoli nobili di campagna accusati di non difendere il paese dalle scorribande e di aumentare i prelievi. Marcel fu ucciso nei disordini ; l’erede al trono entrò a Parigi, tolse di mezzo pochi seguaci del prevosto e iniziò una politica di pacificazione. 51 La rivolta inglese del 1381 scoppiata anch’essa nelle campagne e portata in città dai rivoltosi ebbe un esito simile. In Italia la rivota dei Ciompi seguiì un percorso più complesso. I ciompi riuscirono a formare un governo nel 1378 consentivano ai cittadini benestanti di ricevere regolarmente gli interessi sul debito, finanziati con l’aumento delle tasse indirette che pesavano sui ceti bassi. Fu questo a spaventare il resto della città e a promuovere una repressione feroce verso gli artigiani più esposti.. Alcuni punti in comune tornano spesso in queste rivolte: i meccanismi ingiusti del sistema fiscale,che scaricano sui lavoratori e sui contadini la maggior parte del peso fiscale, l’utilizzo improprio delle tasse prelevate dallo Stato, il valore diminuito della moneta con cui si pagava il salario e in generale il basso potere d’acquisto dei salari. Una trasformazione strutturale del prelievo pubblico nel basso medioevo che abbiamo più volte segnalato. Uno spostamento del flusso di denaro dal basso verso l’alto. Si trattava del bisogno più concreto di difendere livelli di vita incertissimi esposti a ogni possibile variazione. Determinare il livello di vita dei salariati è un’operazione non facile. Un salario apparentemente alto non equivale automaticamente a un reddito maggiore. Molto dipendeva dal “potere di acquisto” consentito da quel salario: vale a dire quante cose si potevano comprare con quei soldi. E’ chiaro che se insieme ai salari aumentavano anche i prezzi dei beni di prima necessità, le condizioni dei lavoratori peggioravano. Non esiste una chiara divisone fra “poveri” e “non poveri”, o meglio non esistono due insiemi sociali chiusi e definiti. Esistono invece due condizioni diverse secondo i cicli di vita: se il salario medio di un operaio poco specializzato come il giardiniere poteva essere sufficiente per un lavoratore celibe, che viveva solo, il medesimo salario diventava drammati- camente insufficiente in caso di lavoratore con famiglia e due figli. Il dato che emerge dalle serie degli indici del potere d’acquisto calcolate per singole realtà medievali è proprio l’estrema variabilità negli anni: una condizione di instabilità continua, di possibile caduta nel mondo della povertà, dei mendicanti e degli infami esclusi. Più che la povertà in sé, era il rischio della povertà che pesava sulle economie urbane. Questa estrema incertezza era la condizione normale di via delle classi lavoratrici salariate: non erano sempre povere, ma lo potevano diventare con estrema facilità per periodi più o meno lunghi. ■ 3. Povertà e assistenza: nuovi modelli di solidarietà a la promozione di élite sociali Per fronteggiare questa povertà ciclica, le società urbane tardo medievali elaborarono un complesso sistema di aiuti caritatevoli e di assistenza organizzata: ospedali,confraternite, chiese e monasteri si impegnarono in un opera di redistribuzione delle donazioni ai poveri della città. La predicazion francescana aveva insistito molto sul tema della rinuncia al denaro per misurare il valore delle cose. L’etica francescana era però basata su un atto di volontà ispirato da una superiore conoscenza delle cose del mondo e dei suoi valori. La rinuncia ai beni era il risultato di una riflessione alta sulla povertà come condizione di privazione raggiunta dopo una decisione interiore di rinuncia al mondo. Era definita povertà “volontaria” ; diverso era il caso della povertà involontaria che colpiva gli indigenti di nascita e in generale i mendicanti. I poveri involontari, proprio per l’assenza di scelta, non erano molto considerati dal mondo ecclesiastico. Si vede bene che il peccato di cui i poveri immeritevoli si macchiavano era proprio quello di appropriarsi delle risorse destinate ad altri, aggravando il carattere antieconomico del loro accattonaggio: non solo non lavoravano, ma sottraevano elemosine utili per altri. La carità per essere utile richiedeva capacità di distinguere le situazioni sociali secondo una logica dei bisogni che solo i religiosi erano in grado di comprendere. Gli ordini mendicanti accentuarono questa dimensione economica della carità. Il panorama delle città europee fu profondamente influenzato dallo sviluppo di numerosi istituti assistenziali tra Tre e Quattrocento. Si crearono piccoli ricoveri per soci anziani e malati, anche gli ospizi iniziarono a estendere l’ospitalità a persone malate e deboli. Lentamente il carattere medicale delle strutture di accoglienza si fede più evidente, nel corso del Trecento gli ospedali per malati si moltiplicarono. Ma chi erano i “poveri di Cristo” della città? La maggioranza dei soggetti assistiti che ricevano l’elemosina erano donne, che si presentavano sotto varie forme di debolezza, come madri di famiglie numerose, come vedove, come malate o come giovani da sistemare. Alle donne era anche garantita un’assistenza per il parto e le confraternite specializzate nel fornire le doti per le giovani donne povere al momento del matrimonio. Si trattava quindi di uno scopo civico che meritava di essere sostenuto dalla carità collettiva. Come meritoria era l’assistenza ai bambini orfani e abbandonati, che furono accolti inospiti per infanti e mantenuti dalle istituzioni pubbliche o dalle corporazione di mestiere. Da un alto bisognava far convergere tutte le donazioni e le elemosine verso istituti specializzati in opere pie selezionate da religiosi. Dall’altro si dovevano assistere insiemi di persone scelte in base alla loro capacità di mettere a frutto la beneficienza che la collettività aveva concesso., favorire una redistribuzione controllata della ricchezza fra i poveri; dovevano compensare il beneficio ricevuto, quando possibile, con un’attività lavorativa. Il modello cristiano dell’assistenza prevedeva due categorie entrambe virtuose: ricchi generosi e poveri laboriosi. Il grande umanista Leon Battista Alberti parlando degli ospedali nel suo Trattato di architettura ricordava come alcuni governanti per no vedere i mendicanti andare “uscio a uscio a chiedere l’elemosina, disturbando gli onesti cittadini inutilmente con l’accattonaggio e il loro aspetto ripugnante”, avevano vietato ai poveri di restare in città senza fare niente per di più di tre giorni (come nell’ordinanza di Filippo VI). Il criterio dell’utilità, inteso come attitudine al lavoro, entrò così nella gestione pubblica dei poveri, favorendo politiche di riutilizzo a basso costo di una forza lavoro altrimenti inattiva. Il povero doveva essere spinto a non cadere nell’ozio, a rendersi utile lavorando. Solo così l’economia della carità chiudeva un circolo virtuoso del denaro e della ricchezza pubblica. Di per sé la ricchezza non era un male, ma facilmente poteva esser usata male. L’avidità era in effetti il peccato antieconomico per eccellenza, perché impediva la circolazione dei beni. L’impulso ad accumulare beni per sé, era totalmente sterile: immobilizzava capitali senza farli fruttare, li tesaurizzava in una vana ostentazione di ricchezza. La chiesa aveva condannato severamente queste pratiche. I beni andavano messi in comune e fatti circolare in un sistema di scambi fondato, appunto, sulla carità, sulla capacità di dare e di distribuire in maniera equa e soprattutto gratuita il superfluo che diventava il necessario per i più poveri. Gli uomini della Chiesa erano gli unici a saper valutar cosa era superfluo e cosa era necessario. I minori francescani consigliarono re, prìncipi e governi cittadini di mettere in comune i beni per assicurare il bene comune. I francescani attualizzarono la metafora del “monte” come luogo di concentrazione della grazia infinita di Cristo da distribuire a tutti. Quel termine fu trasferito alle nuove istituzioni laiche che dovevano mettere in comune le ricchezze della città per distribuirle ai bisognosi in forme caritatevoli. Monti furono così chiamati gli istituiti pubblici fondati su capitali messi in comune con scopi morali ed esplicitamente ispirati ai valori cristiani. Per esempio i monti delle doti, i monti di pietà che offrivano prestiti di bassa entità a persone povere dietro consegna di un pegno. L’intento dichiarato del monte di pietà era quello di sostituire il prestito ebraico giudicato usurario e anticristiano con un prestito cristiano a interesse modico e giusto. Il pegno era comunque un legame che impegnava la persona ad attivarsi per ottenere la restituzione dell’oggetto. La povertà andava aiutata, ma sempre dietro una reazione positiva dell’assistito. Nulla era dato a fondo perduto. La saldatura tra la carità istituzionalizzata e la promozione di uno strato aristocratico che si faceva carico del governo della povertà era ormai compiuta: L’élite economica divenne anche un’élite politica e di governo che monopolizzava le cariche e controllava di fatto l’economia della città, la redistribuzione di beni e di ricchezze nella società urbana. Si crearono istituti esterni che gestivano le finanze pubbliche in forme speculative. Nel Quattrocento l’intero sistema finanziario del comune fu appaltato a una società di persone, il Credito di Tesoreria. I membri prestavano al comune in anticipo una somma e prendevano in gestione le entrate pubbliche, cioè riscuotevano per conto del comune tutti i dazi e le imposte indirette. In realtà era tutto sotto controllo: i membri della Tesoreria erano eletti dall’élite politica della città. In realtà un’èlite sdoppiata, in apparenza: pubblica nel Senato e privata nella Tesoreria ma in realtà espressione unica di un gruppo di potere cittadino che controllava l’economia urbana per conservare il potere 52
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