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Storia romana: Dalle origini a Roma Imperiale, Sintesi del corso di Storia Romana

Storia del dirittoStoria antica romanaStoria antica grecaArcheologia Classica

Questo testo tratta della storia romana, dalla preistoria italiana fino all'età imperiale. Si parla della cultura preromana, della fondazione di Roma, delle prime guerre e espansioni romane, fino alla fine dell'Impero Romano d'Occidente. informazioni sui popoli italici, la cultura etrusca e latina, la monarchia romana, la Repubblica romana e l'Impero romano.

Cosa imparerai

  • Come si organizzava la politica romana durante la Repubblica?
  • Che popolazioni abitavano l'Italia prima della fondazione di Roma?
  • Come terminò l'Impero Romano d'Occidente?
  • Che guerre si combatterono nella Repubblica romana?
  • Come si sviluppò la Roma antica?

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021

Caricato il 27/08/2021

piermilizia
piermilizia 🇮🇹

4.3

(9)

11 documenti

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Scarica Storia romana: Dalle origini a Roma Imperiale e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! STORIA ROMANA Storia romana, Giovanni Geraci — Arnaldo Marcone 1.1 L’Italia preromana Le informazioni su questo periodo ci provengono essenzialmente dai resti materiali, grazie ai quali conosciamo il notevole sviluppo della penisola italiana tra il III ed il I millennio a.C. -ovvero nel passaggio da età del Bronzo medio e prima età del Ferro- nel quale ebbe luogo lo sviluppo di prime forme complesse di organizzazione protostatale. Nell’età del Bronzo l’Italia presentava una certa uniformità e vede nella dorsale appenninica la maggior concentrazione di siti, cui numero si sarebbe ridotto in modo inversamente proporzionale rispetto alle dimensioni dei singoli centri, secondo una tendenza propria in particolare della cultura “terramaricola” sviluppatasi nella pianura emiliana fra i secoli XVIII e XII e caratterizzata da capanne che poggiavano su di una impalcatura di legno; documentata inoltre in questa fase una intensa circolazione di prodotti e di persone. È con l’età del Ferro che si diversifica il quadro delle culture locali, classificabili in due macrogruppi intenti l’uno alla cremazione (Italia settentrionale e costa tirrenica) e l’altro all’inumazione. Tra le società più peculiari si segnalano quella “Golasecca” (laghi piemontesi e lombardi), la “cultura di Este” (presso Padova) e quella “Villanoviana”, originatasi in Emilia ed Etruria per poi irradiarsi e per questo considerata antesignana degli Etruschi. Sul piano linguistico l’Italia si divide tra popoli parlanti idiomi indoeuropei (latino, fallisco, celtico, messapico e l’eterogeneo gruppo delle lingue italiche) e non indoeuropei (etrusco, ligure, retico e sardo). Tra le culture protostoriche italiane hanno una certa rilevanza anche le colonie della Magna Grecia, fondate dalla metà dell’VIII secolo, e la civiltà nuragica fortemente influenzata dagli stabilimenti fenici della costa sarda. Furono proprio i Fenici i primi a essere coinvolti nella progressiva complicazione delle forme istituzionali propria dell’avvicinamento dell’Italia all’orbita del Mediterraneo orientale, iniziato con la Sicilia nell’età del Bronzo. Abitati addirittura dal Paleolitico erano invece il Lazio e la stessa area di Roma -sul Campidoglio è stata provata la presenza di stabilimenti addirittura nel II millennio a.C.- cui culture dell’età del Ferro si sviluppano direttamente sulla scia dei villanoviani. Circa l’Italia meridionale risultano poco attendibili teorie come quelle dello storico di età augustea Dionigi di Alicarnasso secondo cui primi frequentatori dell’area sarebbero stati coloni Arcadi ma è vero che nel periodo riportato dal greco (il passaggio da Bronzo antico e Bronzo medio) assistiamo ad un notevole incremento demografico e ad un vivacizzarsi di frequentazioni commerciali e anche di carattere più complesso con popoli orientali, in testa i Micenei. Tra VIII e V secolo ha invece luogo una notevole espansione delle popolazioni dell'Appennino centro-meridionale, fenomeno che conosciamo meglio nel contesto del versante tirrenico con l’inserimento dei Sabini a Roma e di Equi, Ernici e Volsci nel Lazio meridionale per raggiungere il proprio apice con l’espansionismo dei Sanniti tra i secoli V e IV; sulla costa adriatica interessante è il caso dei piceni, dal VII secolo protagonisti di una cultura simile a quelle etrusca e latine. Il nome Italia, invece, si riferiva inizialmente alla sola estrema parte della Calabria per poi ampliare il proprio significato nel corso del V secolo all’intera penisola calabrese ed alla costa ionica sino a Metaponto, imponendosi su altri termini corrispondenti come Esperia, Ausonia o Enotria; circa l'etimologia del lemma Antioco di Siracusa (storico greco del V secolo) la individuò in un leggendario re Italo, mentre sembra oggi più probabile una derivazione dall’osco “viteliu” che indicherebbe la diffusione di bovini nella regione o la loro sacralità. 1.2 Gli Etruschi Circa questo popolo non abbiamo alcuna documentazione risalente ad esso stesso, per cui le informazioni a nostra disposizione derivano dalla documentazione archeologica, dalla ricerca topografica e dai dati onomastici presenti nelle iscrizioni (v. tomba Frangois di Vulci) oltre che da autori greci e soprattutto latini - ragion per cui il più delle informazioni che abbiamo è relativa alla fase terminale della civiltà etrusca e dunque al suo incontro con Roma. Noti ai Greci come “Tirreni”, in età antica la loro origine veniva ricercata secondo il modello degli insediamenti coloniali, ragion per cui Erodoto ne ipotizzava la derivazione dai Lidi, Ellanico di Lesbo dai Pelasgi e Dionigi di Alicarnasso li considerava genti autoctone. Ad oggi obiettivo degli studiosi è trovare le origini etniche degli Etruschi, collocate attorno all'VIII secolo a.C. individuato come puto di incontro tra due tendenze, rispettivamente di complicazione della struttura interna della società e delle economie locali e di influsso su di queste da influenze esterne perlopiù dalle colonie greche -ne risulta quindi uno sviluppo autonomo di tale società nella regione compresa tra i fiumi Arno e Tevere. Malgrado l’ampiezza delle aree sotto loro controllo nel periodo di massima espansione, gli Etruschi non diedero mai vita ad un Stato unitario preferendo l’organizzazione in città indipendenti -rette da sovrani detti “lucumoni” e, successivamente, da magistrati eletti annualmente, gli “zilath”- tra cui unica forma di aggregazione fu la lega, in realtà prettamente di carattere religioso, delle 12 città principali; profondamente aristocratiche, le città etrusche erano guidate da ristretti gruppi di proprietari terrieri e ricchi commercianti. L'espansione degli Etruschi subì una prima battuta d’arresto nel 530 inseguito ad una battaglia navale dall’esito incerto con i Focei e dunque con la sconfitta inflitta loro dai Greci di Siracusa a Cuma (474), per andare incontro ad una progressiva contrazione su pressione dei Celti in Val Padana e dei Romani, nel 396 capaci di espugnare l’importante città di Veio. Peculiare fu lo sviluppo della sfera religiosa, nella quale ha particolare importanza la concezione dell’aldilà visto dapprima come continuazione della propria esistenza nella tomba e poi come luogo di arrivo a conclusione di un lungo viaggio. Devoti a divinità in gran parte assimilabili al pantheon greco, altro elemento notevole della religiosità etrusca sta nell’importanza attribuita all’interpretazione della volontà divina, l’“aruspicina”, praticata specialmente attraverso la lettura delle viscere degli animali sacrificati nelle quali si riprodurrebbe l’ordine dell’universo -la centralità degli auspicia sarebbe inoltre stata tra le maggiori influenze della cultura etrusca sul mondo romano, tra le quali possiamo ricordare anche gli insignia imperii e la celebrazione di giochi in onore dei defunti. Se la lettura di testi etruschi è semplificata dall’uso di un alfabeto riadattamento di quello greco, a complicarne la conoscenza concorrono la scarsità di testi di una certa estensione e l’essere una lingua non indoeuropea di isolamento quasi assoluto. Eppure risultano strettamente connesse all’etrusco alcune epigrafi risalenti al VI secolo a.C. ritrovate sull’isola egea di Lemno, il che permette di ipotizzare un’origine degli Etruschi dai Pelasgi o dai Popoli del Mare giustificando sia la forte rottura tra civiltà “appenninica” e Proto-villanoviana sia il carattere decisamente orientale di questa civiltà. La tesi, sostenuta ad esempio da Mario Torelli, è che gli Etruschi siano nati verso la fine dell’età del Ferro come eredi dei Villanoviani su forte influenza orientale, causa del superamento del carattere fondamentalmente egualitario del popolo italico. Il potere etrusco raggiunse l’apice nel corso della “talassocrazia etrusca” durante la quale quasi tutta Italia fu sotto il loro controllo; centri maggiori furono dapprima le città dell’Etruria meridionale (Veio, Cerveteri, Tarquinia e Vulci) ma probabilmente esistevano anche una dodecapoli padana a capo di Felsina e una campana guidata da Capua, abbattute rispettivamente dall’invasione gallica del IV secolo e dai Sanniti nel secolo precedente. Modesti sono anche i resti archeologici della civiltà etrusca, eccezion fatta per le necropoli e in genere l’architettura funeraria. Notevole fu il grado di perfezionamento raggiunto nella copertura a volta e dell’arco, mentre in fase tarda (ellenistica) prevalsero le tombe riproducenti la casa signorile e quelle più attente all’aspetto esteriore. Gli Etruschi praticarono con successo l’agricoltura, la metallurgia e l’artigianato artistico, oltre che nell’estrazione dei metalli. L’interesse per il mondo etrusco in senso lato ha origine molto antica, essendo riscontrabile già nel I secolo a.C. e più avanti nell’imperatore Claudio, mentre l’etruscologia come disciplina scientifica ha origine recente (XIX secolo). 1.3 Roma La ricostruzione della storia romana arcaica è per noi possibile soprattutto attraverso l'archeologia, dal momento che le testimonianze letterarie sono tutte di molto posteriori: Roma non risulta di interesse per la storiografia greca fino alla metà del IV secolo a.C. e i primi storici romani, Fabio Pittore e Cincio Alimento, scrissero entrambi alla fine del III secolo e ci sono giunti solo in forma frammentaria, così come molti loro immediati successori quali Cneo Nevio e Quinto Ennio. La versione canonica sulle origini di Roma risale all’età augustea ma il primo collegamento di tale vicenda a quella di Enea risulta attribuibile a Ellanico di Lesbo (V secolo a.C.) mentre appare di poco successivo il successo dell’eroe indigeno Romolo come fondatore della città. Problematiche, quindi, risultano tutte le nostre informazioni sul periodo tra il VII e il V condottieri come Porsenna di Chiusi, mentre sembra più verosimile la battaglia di Aricia nella quale i Latini sconfissero gli Etruschi limitandone fortemente le velleità sul Lazio. La cronologia di Varrone risulta però sospetta nella curiosa coincidenza cronologica tra la cacciata di Tarquinio il Superbo e la fuga da Atene del tiranno Ippia, potendone dedurre dunque un tentativo di parallelismo con la più celebre polis greca, per cui si può post porre questo evento di qualche decennio; nella fattispecie la documentazione archeologica sembra suggerire, tra 470 e 450, una brusca interruzione dei contatti culturali con l’Etruria. Massima magistratura repubblicana erano i due consules, inizialmente detti praetores, eletti dai comizi centuriati e diretti eredi dell’istituzione monarchica -spettava loro dunque il comando dell’esercito, il mantenimento dell’ordine interno, l’esercizio della giurisdizione civile e criminale, il potere di convocare senato e assemblee popolari, la cura del censimento e la compilazione delle liste senatorie. Circa le competenze religiose della monarchia alcune passarono ad una nuova figura, il rex sacrorum, al quale si affiancarono progressivamente altri sacerdozi di maggior peso politico come i pontefici o gli àuguri. Vari erano i limiti consolari, a partire dal carattere annuale e collegiale della carica, per passare al vincolo del volere del populus che li aveva eletti e alla provocatio ad populum, la possibilità per ogni cittadino di appellarsi all'assemblea popolare contro le condanne capitali inflitte dal console (nel tempo evolutasi da semplice richiesta d’aiuto ai concittadini ad un vero e proprio secondo grado di giudizio). È probabile che inizialmente il consolato non fosse collegiale ma che lo sia divenuto più tardi, magari dopo il decemvirato del 450 a.C. o addirittura dopo le leggi Licinie Sestie del 367. Le crescenti esigenze dello Stato determinarono la progressiva creazione di nuove magistrature già a partire dalla tarda monarchia, a partire dai questori, originariamente due e incaricati di assistere i consoli nella sfera delle attività finanziarie. Inizialmente designati dai consoli stessi, in seguito la carica divenne elettiva. Secondo la tradizione risalgono invece al 443 a.C. i censori, ai quali venne trasferito il compito di tenere il censimento, funzione importantissima sul piano militare e politico, e, dopo il plebiscito Ovinio (fine IV, inizio III secolo a.C.), la redazione delle liste senatorie -fu forse da questa funzione che si sviluppò la generale supervisione sulla morale dei cittadini, la cura morum. Questi magistrati venivano eletti ogni 5 anni e restavano in carica per 18 mesi. In situazioni di emergenza i supremi poteri della Repubblica potevano essere affidati ad un dictator, carica nominata e non elettiva, privo di colleghi con eguali poteri ma affiancato da un magister equituum (da lui scelto e a lui subordinato) e contro il volere del quale non valevano né la provocatio ad populum, né il veto opposto dal tribunato della plebe. Originariamente noto come magister populi, il dittatore era presumibilmente chiamato a fronteggiare soprattutto crisi militari ma si può tranquillamente supporre che l’inappellabilità delle risoluzioni prese fece della carica un’arma del patriziato contro le aspirazioni della plebe. Mancava a Roma una netta distinzione fra cariche pubbliche e massime cariche religiose (sole eccezioni il rex sacrorum e i flamini, più che sacerdoti personificazioni terrene degli dèi), tra le quali si possono individuare tre collegi principali: i pontefici avevano potere su quanto non fosse esplicitamente materia di altri sacerdozi, gli àuguri affiancavano i magistrati nel trarre auspici ed interpretare la volontà divina e infine i duoviri sacris faciundis, incaricati di custodire l’antichissima raccolta di oracoli dei Libri Sibillini e di consultarla in caso di crisi -proponendo solitamente l'introduzione di culti stranieri. Altre personalità religiose erano gli haruspices di derivazione etrusca e i feziali, responsabili di assicurare a Roma il favore divino in guerra. Il vecchio consiglio regio dei capi delle famiglie nobili sopravvisse nella Repubblica, divenendone anzi il perno cui composizione era scelta prima dai consoli e poi dai censori, nonché dagli ex magistrati. La carica senatoria era vitalizia, potendo dunque dispiegare la propria politica con continuità d'azione e approfittare della frequente lontananza dei consoli, al comando di campagne militari. Grande era infine lo spazio delle assemblee popolari, riservate ai maschi adulti di libera condizione e in possesso del diritto di cittadinanza (riservata in teoria ai figli legittimi di padre cittadino e ai figli illegittimi di madre che aveva diritti civici, ma circa la concessione del quale Roma dimostrò notevole apertura anche rispetto a stranieri e liberti). Ne esistevano almeno quattro, la più antica delle quali erano i comizi curiati, assemblea delle gentes sostanzialmente riferibile al diritto familiare e progressivamente svuotata di significato; centrali nella prima età repubblicana furono i comizi centuriati, incaricati dell’elezione delle magistrature maggiori e fondati sulla ripartizione della cittadinanza in classi di censo e, all’interno di queste, in centurie (ma che in origine erano probabilmente organizzati su di un’unica classis fatta da chiunque potesse procurarsi da sé l'armamento della fanteria pesante, distinta dalla cavalleria supra classem e da chi avrebbe servito come fanteria leggera infra classem) ognuna delle quali costituiva un’unità di voto garantendo la maggioranza alle componenti più ricche; ultimi per data di creazione furono nel 447 i comizi tributi, all’interno dei quali si votava per tribù cioè a seconda di quale fosse la tribù territoriale di iscrizione, 4 urbane (numero fisso malgrado l’aumento demografico) e in numero crescente da 16 a 31 rustiche, il tutto a vantaggio dei grandi proprietari terrieri nell’elezione delle magistrature minori ma soprattutto nell’attività legislativa. Tutte queste assemblee presentavano notevoli limitazioni, dal momento che ai magistrati incaricati spettava di convocarle, stabilime l’ordine del giorno e sottoporre a voto le proposte di legge che l'assemblea poteva accettare o respingere senza diritto alla discussione o alla modifica (riservati a riunioni più informali, le contiones) e che i consoli, in presenza di presagi funesti avevano modo di sospenderne i lavori. Le istituzioni romane presentavano dunque un carattere poco organico frutto, come sostenuto da Polibio, di continue lotte e vicissitudini alle quali si tentò progressivamente di dare definitiva soluzione istituzionale; nella fattispecie è evidente nella prima fase della Repubblica l’interesse dell’aristocrazia di assicurare un’equa distribuzione del potere tra tutti i suoi membri onde evitare un monopolio individuale del potere, come dimostrano anche le disposizione del codice delle XII Tavole (451- 450 a.C.), con notevole successo malgrado la presenza saltuaria di chiare aspirazioni autocratiche. 2.2 Il conflitto tra patrizi e plebei Dalle fonti a nostra disposizione (Dionigi di Alicarnasso, Tito Livio, Diodoro e Plutarco) risulta evidente che sul fronte interno la Repubblica romana fu segnata, dalla nascita al 287 a.C., da continui scontri di natura sia economica che politica fra patriziato e plebe -cui miglior definizione risulta quella negativa di “non patrizi”. La caduta dei Tarquini e il mutato scenario internazionale ebbero infatti una notevole serie di ripercussioni sul piano economico, a partire dalla fine del ruolo di Roma come intermediario nella via commerciale tra città etrusche del nord e del sud conseguenza del crollo definitivo del potere etrusco in Campania successivamente alla vittoria di Ierone di Siracusa nella battaglia navale di Cuma (474 a.C.); si aggiungano a ciò le frequenti razzie proprie dello stato perenne di guerra, frequenti annate di cattivo raccolto e una serie di epidemie. Gli effetti dei cattivi raccolti colpivano prevalentemente i piccoli agricoltori, costretti ad indebitarsi per prendere in prestito sementi dai proprietari più ricchi col rischio di insolvenza e dunque di incorrere nel nexum (riduzione in stato semiservile del debitore). In questo scenario, dunque, tra le richieste della plebe figuravano la mitigazione delle norme sul tasso massimo di interesse e sulla condizione dei debitori insolventi e una più equa distribuzione dell’ager publicus sul piano economico, su quello politico la fine del monopolio patrizio delle magistrature e un codice scritto di leggi. La progressiva presa di coscienza della plebe arriva di pari passo con un profondo mutamento nella struttura dell’esercito: l'esercizio dei diritti civici è indissolubilmente legato alla possibilità di difendere lo Stato, come dimostra l'ordinamento centuriato, e il passaggio, proprio nel V secolo a.C., da un modello di combattimento aristocratico a quello oplitico-falangitico col trionfo della fanteria pesante non avrebbe che acuito la pretesa di maggior protagonismo. Il conflitto sarebbe esploso nel 494 a.C. con la prima secessione della plebe sul colle Aventino, lasciando la città priva di forza lavoro e di difensori, ove vennero prese una serie di risoluzioni poi note come leges sacratae, per cui ci si dotò di propri organismi politici (i concilia plebis tributa, nei quali si votava fino al 471 si votava per tribù e autorizzati ad emanare provvedimenti, i plebiscita) e di una coppia di rappresentanti ed esecutori della volontà assembleare (i tribuni della plebe, col tempo aumentati fino alla decina, dotati di poteri come lo ius auxilii, lo ius agendi cum plebe e lo ius intercessionis e protetti dalla sacrosanctitas) mentre risultano posteriori, contrariamente a quanto non voglia la tradizione, il potere del tribuno di convocare il Senato, la validità per l’intera cittadinanza dei plebiscita e l'istituzione degli edili plebei, magistratura dalle oscure funzioni originarie e in tarda età repubblicana incaricata di organizzare i giochi, sorvegliare i mercati e controllare l’edilizia pubblica. Insomma, la prima secessione ebbe un risultato politico lasciando insoluta la questione dei debiti dalla difficile risoluzione, complici l’opportunismo delle famiglie plebee ricche, intenzionate a cavalcare il disagio economico per accrescere il proprio potere politico, e lo spirito riformista ma anti-rivoluzionario della plebe -come dimostra la vicenda di Spurio Cassio, console nel 486 e promotore di una ridistribuzione delle terre a causa della quale venne accusato di ambire alla tirannide e quindi ucciso. Circa la richiesta di un codice di leggi scritto nel 451 venne nominato a tal scopo un decemvirato, esclusivamente patrizio e dotato di poteri straordinari col completo controllo dello Stato, cui lavoro sarebbe stato integrato già l’anno dopo da una seconda commissione decemvirale (di censo misto) poi sciolta per il rischio di una proroga dei poteri assoluti: risultato furono le leggi delle XII Tavole, dalle chiare influenze greche e modificate già nel 445 con l'abrogazione del divieto di matrimoni misti in seguito ad un plebiscito Canuleio. Questa misura, rendendo possibile la mescolanza del sangue, mise per la prima volta in pericolo il monopolio patrizio sugli auspicia e, quindi, il consolato, per cui la tradizione vuole che dal 444 al 367 a.C. il senato avrebbe deciso di anno in anno se lo Stato sarebbe stato guidato da due consoli patrizi o da un certo numero di tribuni militum consulari potestate -narrazione però poco attendibile e lacunosa, probabilmente le due magistrature si affiancavano l’un l’altra. Allontanatasi da Roma la minaccia dei Galli la crisi riprese sicché nel 387 vennero create, nei territori di recente conquista di Veio e Capena, quattro nuove tribù con conseguente redistribuzione di piccoli appezzamenti di terreno (4-7 iugeri) comunque insufficienti per l’autosufficienza di una famiglia, complice la cattiva distribuzione dell’ ager publicus, del quale ogni cittadino poteva occupare tanta terra quanto era capace di lavorarne, principalmente in mano ai ricchi capaci di contare sul lavoro dipendente e per questo vero punto focale delle lotte agrarie romane. Insufficiente anche questo e soffocato nel sangue l'ennesimo (presunto) tentativo demagogico, ebbe inizio l’opera riformatrice dei tribuni della plebe Caio Licinio Stolone e Lucio Sestio Laterano promotori di un ambizioso pacchetto di proposte definitivamente approvate nel 367 con la dittatura di Marco Furio Camillo, chiamato proprio a fronteggiare tale crisi già degenerata nella letterale anarchia politica; un primo provvedimento permetteva di detrarre da totale di un debito gli interessi già pagati e la possibilità che un debito fosse estinguibile in tre rate annuali, un secondo fissava le dimensioni massime di proprietà demaniale occupabile da un privato (secondo la tradizione fissata in un inattendibile 500 iugeri) e infine un ultimo circa l’abolizione del tribunato militare con potestà consolare e la completa reintegrazione del solo consolato alla testa dello Stato; nel 366 vennero inoltre create due nuove cariche ad alleggerire il consolato -ora aperto anche ai plebei- ovvero il pretore, incaricato di amministrare la giustizia, e i due edili curuli, dalle funzioni simili ai loro colleghi plebei. Le Leggi Licinie Sestie avrebbero chiuso la fase più acuta del conflitto, mentre nel 342 un plebiscito del tribuno Lucio Genucio ammise la possibilità che ambedue i consoli fossero plebei (come avvenne per la prima volta nel 172) e proibì l’iterazione della stessa carica entro i dieci anni, finendo indirettamente per accrescere il potere del senato. Nei decenni successivi tutte le cariche sarebbero state aperte e occupate anche da plebei (perfino la dittatura con Caio Marcio Rutilo, 356 a.C.) e inevitabilmente la plebe perse almeno in parte la propria identità prima ben definita; nel 326 secondo Livio, nel 313 secondo Varrone venne abolita la schiavitù per debiti. Ovviamente tale processo di riforme non fu indolore, come dimostra la parabola, segnata da fallimenti e opposizioni, del censore Appio Claudio Cieco cui politica avrebbe comunque portato nel lungo termine all’inclusione del capitale mobile fra i criteri di calcolo del censo garantendo riconoscimento a ceti diversi dalla grande proprietà terriera (non un caso che questi siano anche gli anni in cui per la prima volta Roma conia una propria moneta, la cosiddetta monetazione romano- campana), nonché all’operato di Cneo Flavio, responsabile della divulgazione delle formule giuridiche procedurali e del calendario dei giorni fasti; fautore inoltre di vaste opere pubbliche come il primo acquedotto o la Via Appia, Appio è stato considerato da studiosi come il francese Michel Humm il vero creatore dell’uguaglianza “geometrica” pilastro degli assetti istituzionali della Repubblica compiuta. Punto d’arrivo di queste lotte fu, già secondo gli antichi, la legge Ortensia del 287, voluta dal dittatore plebeo Quinto Ortensio e implicante la validità per tutta la cittadinanza dei plebiscita completamente equiparati alle leggi votate da comizi tributi e comizi centuriati. Risultato del nuovo scenario sarebbe stato dunque l’imporsi di una nuova aristocrazia, detta nobilitas, composta dalle più ricche famiglie plebee e dalle famiglie patrizie con maggiori capacità di adattamento, mai completamente chiusa e capace di imporsi politicamente usando il seggio permanente al senato come arma. 2.3 La conquista dell’Italia Alla caduta della monarchia Roma controllava secondo la tradizione un territorio esteso dal Tevere alla regione Pontina, dato che sembrerebbe confermato dalla stipulazione del primo trattato romano-cartaginese già nel primo anno della Repubblica. Tra la fine del VI e l’inizio del V secolo, però, in reazione alla crisi interna di Roma le città latine ad essa sottoposte tentarono di affrancarsi coalizzandosi in una lega cui natura ci è perlopiù oscura e di cui conosciamo solo la guida dittatoriale e la condivisione di una serie di diritti per i il proprio progetto egemonico ponendosi come protettrice di Turi (282 a.C.) e poi anche di Crotone, Locri e Reggio, lasciando una guarnigione in ognuna di queste poleis. Lo scontro avrebbe avuto inizio con l'imposizione a Taranto della fazione democratica e antiromana, da cui l’attacco a Turi e la cacciata dei Romani come dei loro sostenitori; per condurre la guerra, però, Taranto bisognava ancora una volta di soccorso esterno, rivolgendosi a Pirro, re dei Molossi e comandante in capo della Lega epirotica, il quale avrebbe giustificato propagandisticamente il proprio intervento come crociata in difesa della grecità e dunque in virtù della sua discendenza da Achille -nel concreto ambiva a costituire un proprio dominio occidentale in quanto genero del defunto sovrano siracusano. L’epirota sbarcò in Italia nel 280 a.C. a capo di un esercito tanto numeroso da costringere Roma ad arruolare per la prima volta anche i capiti censi; non fu sufficiente e ad Eraclea Pirro fu vincitore, sebbene con gravissime perdite, ottenendo però il favore di Lucani e Bruzi. Il sovrano non fu capace di cogliere i frutti della vittoria e fallì nell’istigare una rivolta etrusca, pensando dunque di intavolare trattative di pace -rifiutate dai Romani. Le ostilità ripreso nell’A pulia settentrionale e ad Ausculum Pirro fu di nuovo vincitore (279 a.C.) e ancora incapace di chiudere la guerra, vedendo la sua alleanza deteriorarsi nella mortificazione degli alleati per i tributi richiesti. Disperatamente a corto di denaro, Pirro pensò di accettare le richieste d’aiuto di Siracusa nel conflitto con Cartagine per il controllo della Sicilia, in risposta a tale decisione Roma e Cartagine strinsero un’alleanza difensiva rivelatasi progressivamente vincente sul sovrano greco e costringendolo a tornare sul continente dove dovette chiedere ulteriori tributi per arrivare a darsi al saccheggio dei templi dei suoi alleati. Nel 275 a.C., a Benevento, Roma fu infine capace, a capo del console Manio Curio Dentato di costringere alla rotta l’armata del re dei Molossi, il quale decise per il ritorno in patria una volta lasciata una guarnigione in Taranto -la città si sarebbe arresa infine nel 272, per essere poi costretta all’alleanza con Roma, mentre il controllo sul Meridione venne consolidato con la campagna nella Puglia meridionale nel 267-266. La guerra tarantina, inoltre, segnò il “successo” internazionale dei Romani, entrati nell’interesse dei Greci. Risulta ambiguo ma non totalmente sbagliato, per i contesti fino qui esposti, parlare di una “romanizzazione”. 2.4 La conquista del Mediterraneo Nel 264 Roma controllava tutta l’Italia peninsulare. Lo scontro con Cartagine ebbe inizio in seguito alla questione dei Mamertini, mercenari al servizio di Agatocle, alla morte del quale occuparono Messina entrando in conflitto con Ierone di Siracusa. I guerrieri si posero dapprima sotto la tutela punica per poi fare appello a Roma, all’intervento della quale era ovvio ci sarebbero state reazioni da parte sia cartaginese che siracusana. Cartagine era allora cuore di un vasto e ricchissimo impero votato al commercio e retto da un regime oligarchico e prese prevedibilmente male la sfida romana sul controllo dello Stretto. La prima guerra punica (264-241 a.C.) ebbe dunque inizio col passaggio del console Appio Claudio Caudice e vide inizialmente prevalere la risposta romana sulle controffensive nonché il cambio di fronte di Ierone, passato dalla parte di Roma. questa situazione determinò un cambiamento nelle ambizioni romane, adesso rivolte alla cacciata dei Cartaginesi dalla Sicilia. A tal scopo Roma si dotò, sorprendentemente, di una flotta contando anche sull’aiuto degli alleati magnogreci, i socii navales, tanto efficiente da ottenere già nel 260 un’importante vittoria nelle acque di Milazzo -forse con l’aiuto dei ponti mobili detti corvi. Roma optò per l’attacco diretto ai possedimenti africani di Cartagine con un’invasione partita nel 256 a capo di Marco Attilio Regolo, capace di prendere Tunisi ma colpevole di aver imposto condizioni di pace troppo dure per i cartaginesi che preferirono proseguire le ostilità e anzi subendo nel 255 una pesante sconfitta dal mercenario spartano Santippo, mentre buona parte della flotta era persa in un nubifragio a cui seguì una sconfitta nel 249 nella battaglia navale di Trapani. Si ritrovò in posizione di forza Cartagine, similmente incapace di far fruttare i propri successi anche poiché ritrovatasi impegnata anche in un fronte africano a causa di una rivolta dei Numidi (247), vanificando i successi siciliani di Amilcare Barca. Nel 242 Roma ebbe una nuova grande flotta a sua disposizione e già l’anno dopo, alle isole Egadi, distrusse la marina punica e chiuse il conflitto. Fu così che per la prima volta Roma controllò un ampio territorio al di fuori della penisola italiana, la Sicilia, territorio sentito come diverso e distinto dall’Italia e dunque necessitante una forma istituzionale originale, sicché alle comunità in precedenza soggette a Cartagine venne imposto un tributo annuale consistente in una quota (un decimo secondo le Verrine di Cicerone) del raccolto di cereali -favorendo il decollo demografico romano e l’approvvigionamento degli eserciti. L’amministrazione della giustizia, il mantenimento dell’ordine interno e la difesa dalle aggressioni esterne vennero affidate prima ad uno dei quattro questori della flotta (quaestores classici) e, dal 227, ad un nuovo pretore eletto appositamente, da cui il termine provincia. Il governatore provinciale era assistito da un questore per le questioni finanziarie, da alcuni legati in materia di giustizia e da un gruppo di funzionari inferiori, mentre l’esazione delle tasse venne affidata a compagnie di privati cittadini con gare d’appalto. La provincia di Sicilia, ai suoi inizi, non si estendeva su tutta l’isola esistendo ancora il regno siracusano e Messina, qualificata come civitas foederata -così come esistevano all’interno della provincia comunità privilegiate, le civitates liberae et immunes, senza controllo amministrativo e giudiziario diretto e senza pagamento del tributo. Le altre città erano civitates stipendiariae; in teoria ogni legge doveva avere una sua lex provinciae ma così non fu. I governatori avevano grande autonomia di azione ma poca possibilità, per la brevità della propria carica, di fare delle province dei propri feudi personali. Alla Sicilia si sarebbe aggiunta nel 237 la provincia di Sardegna e Corsica; subito dopo la fine della guerra, Cartagine andò incontro ad una ribellione dei mercenari e delle popolazioni nordafricane, poi estesasi alle guarnigioni in Sardegna che prontamente chiesero aiuto a Roma capace di imporsi in un vero e proprio atto di prepotenza sui Punici. La Sardegna vide una continua resistenza degli indigeni che richiese un controllo militare costante coordinato da un magistrato dotato di imperium, da cui forse la novità dei governatori provinciali. Pochi anni dopo Roma tornò a far sentire la propria presenza nell’ Adriatico, dove il regno d’Illiria col declino dell'Epiro aveva espanso la propria influenza verso la costa dalmata. I Romani vi dichiararono guerra nel 229 e non solo la prima guerra illirica si risolse rapidamente a loro favore, ma permise anche di ottenere il ruolo di protettori delle città greche; impresa da poco sarebbe stata anche la seconda guerra illirica, senonché pose le premesse per l’ostilità tra Roma e la Macedonia. Nel frattempo maggiori sforzi vennero impiegati nella conquista dell’Italia settentrionale, complice una discesa dei Galli che nel 236 li portò alle porte di Rimini; quattro anni dopo Caio Flaminio avrebbe proposto di distribuire ai singoli cittadini romani l’ager Gallicus, con l'evidente fine militare di controllare meglio il corridoio che apriva la strada all’Italia centrale, da cui lo scoppio della guerra gallica risoltasi nella brutale battaglia di Telamone (225 a.C.) premessa della penetrazione nella valle Padana sempre a capo di Flaminio e chiusasi nel 223 a.C. con la resa degli Insubri e la caduta di Mediolanum. L'occupazione dell’area avrebbe dato inizio a vasti movimenti migratori verso la fertile pianura, specie a sud del Po, da cui nuove colonie come Bononia (189 a.C.), Mutina e Parma (entrambe 183 a.C.) -tutti primissimi casi di colonie fondate nell'entroterra e popolate da migliaia di famiglie. Mentre i Romani si occupavano del nord Italia, Cartagine tentava di consolidare la propria presenza in Spagna attraverso campagne interpretabili come un affare privato della famiglia Barca e che avrebbero suscitato le preoccupazioni della colonia greca Marsiglia, alleata di Roma. Nel 226 a.C. un’ambasceria romana concluse con Asdrubale un accordo per cui il fiume Ebro veniva posto come linea di confine tra le aree di influenza punica e capitolina, reso debole in partenza dalla posizione in territorio cartaginese di Sagunto, in qualche modo alleata con i Romani. Questa questione venne sfruttata abilmente da Annibale per far scoppiare le ostilità, per cui dapprima espugnò Sagunto per poi rivolgersi verso la penisola italiana al fine di colpire Roma nel suo stesso territorio e di separarla dagli alleati italici. L’invasione dovette avvenire necessariamente via terra e così fu nel 218 a.C., riuscendo ad evitare lo scontro col romano Publio Cornelio Scipione, a passare le Alpi e ad ottenere il sostegno immediato di Insubri e Boi. Annibale fu da subito vittorioso dapprima sul fiume Trebbia e poi al lago Trasimeno, sicché a Roma si nominò un dittatore, Quinto Fabio Massimo, promotore della strategia per cui si dovesse evitare lo scontro diretto coi cartaginesi e limitarsi ad impedire che giungessero aiuti da fuori; la strategia alla lunga era brillante ma disastrosa nell'immediato, cosicché la dittatura venne svuotata nell’equiparazione dei poteri del magister equituum Marco Minucio Rufo, fautore di un più energico contrasto ad Annibale risoltosi nel 216 a.C. nella disastrosa sconfitta di Canne. Nel suo dilagare, Annibale cercava l'appoggio delle comunità italiche a dire di Livio appoggiandosi alle fazioni popolari e antiromane (ipotesi oggi scartata a vantaggio di quelle “ellenistica” e “realistica”). Dopo Canne numerose furono le defezioni a vantaggio dei Punici (tra le varie: Sanniti, Lucani, Bruzi e poleis come Metaponto, Locri, Turii, Crotone e Capua), oltre al sostegno offerto da Siracusa, dove morto Ierone era salito al trono l’ambizioso nipote Ieronimo, e dalla Macedonia di Filippo V. Roma riuscì straordinariamente a resistere, anche grazie alla perdurata fedeltà degli alleati del centro Italia e alla scarsa abilità di Annibale nel tenere in piedi la sua rete di alleanza. Col ritorno alla strategia di Fabio Massimo e gli arruolamenti straordinari di schiavi i Romani recuperarono alcune delle posizioni perse nel Mezzogiorno (v. Capua, riconquistata nel 211 a.C.). Una flotta di 50 quinquiremi scoraggiò le fantasie di invasione di Filippo V, ulteriormente mortificate dall’apparentamento dei Romani con una coalizione greca antimacedone nella quale primeggiava la Lega etolica. La volta decisiva della guerra si ebbe in Spagna, dove per diversi anni i due Scipioni riuscirono ad impedire l’arrivo di aiuti ad Annibale, rimanendo entrambi uccisi nel 211; li sostituì il figlio omonimo di Publio Cornelio Scipione, nel 209 a.C. capace di conquistare Nuova Cartagine e di sconfiggere Asdrubale nella località di Baecula, senza però riuscire ad impedirne l’arrivo in Italia in una spedizione interrotta già nel 207 con la sconfitta sul fiume Metauro. L’anno dopo Scipione sconfiggeva gli eserciti cartaginesi in Spagna nella battaglia di Ilipa e Annibale si ritrovò bloccato nel Bruzio. Eletto console nel 205, Scipione preparò l’invasione dell’Africa, forte dell’alleanza col re della tribù numida dei Massili Massinissa: sbarcato nel 204, ottenne una prima grande vittoria l’anno seguente nella battaglia dei Campi Magni e dunque a Zama nel 202, la battaglia che chiuse la guerra. Il trattato di pace, siglato nel 201 a.C., fu durissimo prevedendo l’affondamento della flotta, il pagamento di una fortissima indennità, la cessione di tutti i possedimenti extra-africani, il riconoscimento del regno di Numidia (cui sovrano è interpretabile come il primo dei reges socii et amici populi Romani) e l’obbligo di chiedere a Roma il permesso di dichiarare guerra. La guerra avrebbe profondamente mutato Roma sul piano culturale, politico ed economico, come sottolineato da Amold J. Toynbee nel Hannibal's legacy: the Hannibalic war’s effects on Roman life a partire dall'adozione di un sistema di controllo più stringente sulle città alleate in una vera e propria svolta autoritaria palese, ad esempio, nella punizione di Capua come nella fondazione di colonie nuove a partire dal 197. Seguì una diffusa crisi della piccola e media proprietà come conseguenza della morte in guerra, da cui la progressiva imposizione al posto dell’autoconsumo familiare del modello di sfruttamento latifondistico della terra basato sullo sfruttamento del lavoro degli schiavi, soggetti al lavoro permanente in quanto non soggetti al servizio militare e facilmente sostituibili da un mercato molto affollato. Si afferma dunque il modello economico della villa, segno di un’agricoltura quasi capitalista. Come già detto, nella prima guerra macedonica Roma si costituì una fitta rete di alleanze con vari Stati greci -in particolare la Lega etolica, il regno di Pergamo e Atene. La seconda guerra macedonica sarebbe stata invece causata dall’attivismo di Filippo V in Asia minore, regione dove finì per scontrarsi direttamente con Pergamo e la repubblica di Rodi; la guerra scoppiò nel 201 a.C., vedendo il macedone inizialmente battuto e poi vincitore nella battaglia di Lade. Data la situazione di crisi in cui volgevano potenze ellenistiche come l’Egitto (in difficoltà per l’ascesa al trono di Tolomeo V Epifane) o la Siria divenne naturale la richiesta di soccorso a Roma che, dopo aver promulgato un ultimatum con evidenti finalità di propaganda, vide Publio Sulpicio Galba dichiarare guerra a Filippo e sbarcare in Grecia già nel 200. Al 198 a.C. risale invece il cambio di guida con Tito Quinzio Flaminio, capace di attrarre al suo fianco perfino la Lega achea, storicamente alleata della Macedonia, e dunque di battere Filippo sul campo di Cinocefale arrivando ad una pace che comunque non comportò lo smembramento del regno -con grande disappunto degli Etoli. L’anno dopo (196 a.C.), in occasione dei Giochi Istmici, Flaminio ufficializzò pubblicamente la posizione di Roma proclamando l’autonomia e la libertà per tutti gli Stati greci, palesando il disinteresse per la costituzione di un governo diretto sulla regione -e questo nonostante Flaminio stesso si sarebbe trattenuto un altro anno per una campagna contro Nabide di Sparta, evacuando solo nel 194. Nei medesimi anni si veniva a delineare una vera e propria “guerra fredda” tra Roma e Antioco III, intenzionato ad estendere la propria egemonia alle città greche dell’Asia minore occidentale tra cui Lampsaco e Smirne fecero appello a Roma. Le tensioni continuarono a montare sino a quando, nel 192 a.C., Antioco non accolse l’appello degli Etoli alla cacciata dei Romani ritrovandosi però senza alleati sul posto e venendo duramente sconfitto alle Termopili già l’anno seguente. Il conflitto si prolungò anche nel 190 quando il console Lucio Cornelio Scipione e il fratello Scipione Africano guidarono l’esercito alla conquista dell’Asia minore, avendo ragione delle armate siriache presso Magnesia al Sipilo nello stesso anno ma concludendo la pace solo nel 188 a.C., presso Apamea, con un trattato che rendeva particolarmente chiaro il disinteresse di Roma per una presenza diretta nel Mediterraneo orientale -gli stessi territori strappati ad Antioco vennero spartiti tra gli alleati Pergamo e Rodi, mentre la Lega etolica perse il suo ruolo di primo piano in Grecia a vantaggio della Lega achea. L’ampliarsi degli orizzonti di Roma ebbe prevedibili conseguenze anche nell’assetto politico interno, come dimostra la vicenda del “processo degli Scipioni” certamente ispirato da Marco Porcio Catone, massimo oppositore del crescente individualismo che rischiava di mettere in pericolo la gestione collettiva della politica da parte della nobilitas; al contempo la repressione del culto di Bacco prevista dal Calpurnio Bestia che si limitò a cercare di conseguire la pace; nello scandalo ci fu un frequente alternarsi di comandanti, fino a Quinto Cecilio Metello, del cui seguito faceva parte Caio Mario, homo novus dal 107 solo responsabile del conflitto con Giugurta, capace di vincerlo in tre anni una volta aperto all’arruolamento volontario dei capite censi che con Mario sarebbe divenuta una pratica regolare; il regno sarebbe stato assegnato a Gauda, un fratellastro del vecchio sovrano fedele a Roma. nel frattempo due popolazioni germaniche, i Cimbri e i Teutoni, spinti da problemi di sovrappopolamento avevano iniziato un movimento migratorio verso sud riuscendo a sconfiggere il console Cneo Papirio Carbone presso Noreia (113 a.C.) e continuando a dilagare in Gallia. La situazione d’emergenza raggiunse una gravità tale per cui crebbe la polemica verso l’incapacità dei generali d'origine nobiliare e quindi Mario venne rieletto console nel 104 e ininterrottamente fino al 100 a.C., provvedendo questo ad una riorganizzazione delle legioni in dieci coorti (600 uomini) ciascuna delle quali costituiva un’unità tattica capace di operare con certa autonomia garantendo un più agile impiego della legione. Mario arrivò dunque pronto al confronto, sconfiggendo dapprima i Teutoni presso Aquae Sextiae (102 a.C.) e l’anno successivo i Cimbri ai Campi Raudii in una battaglia al termine della quale il console concesse sul campo la cittadinanza romana per atti di valore a mille soldati Umbri. Mentre era sul fronte, Mario aveva ritenuto utile appoggiarsi politicamente a Lucio Appuleio Saturnino, nobile in rotta con le fazioni conservatrici del senato, aiutandolo ad essere eletto tribuno della plebe nel 103 a.C. affinché promuovesse una redistribuzione delle terre d'Africa a favore dei reduci di Mario, una legge frumentaria che abbassasse ulteriormente il prezzo politico del grano e una lex de maiestate che punisse la lesione dell’autorità del popolo romano -cui termini erano stabiliti da un tribunale di soli cavalieri. Rieletto l’anno dopo, Saturnino promosse una legge agraria che prevedeva l’assegnazione di terre nella Gallia meridionale e la fondazione di colonie tra Sicilia, Acaia e Macedonia obbligando inoltre il senato ad un giuramento di fedeltà; candidatosi nuovamente, però, si ritrovò coinvolto in un tumulto insieme all’alleato candidato al consolato Glaucia, al termine del quale il senato proclamò un nuovo senatus consultum ultimum che li fece mettere a morte, fatto che costò un grave indebolimento per Mario, progressivamente uscito di scena. L’installarsi di Roma in Anatolia aveva esposto i capitolini alla minaccia della pirateria -con la quale tutte le potenze della regione erano in qualche modo conniventi- per cui nel 102 a.C. venne inviato il pretore Marco Antonio che in un paio d’anni sgominò il fenomeno e fondò la provincia costiera di Cilicia. Quando Mario invitò gli alleati italici e d'oltremare a inviare truppe in appoggio a Roma tra gli oppositori vi fu Nicomede III di Bitinia, secondo cui buina parte dei suoi sudditi erano ridotti in condizioni servili dai pirati o dai creditori; Roma rispose ordinando indagini affinché si ponesse rimedio al fenomeno anche liberando gli schiavi, incontrando l’opposizione dei proprietari che quindi interruppero l’iniziativa causando una serie di rivolte servili, le più grosse delle quali nuovamente in Sicilia a capo di un certo Salvio. Nel 96 a.C. buona parte la Cirenaica, parte del regno tolemaico, venne lasciata in eredità a Roma che se ne disinteressò per un ventennio. Perdurava il conflitto interno a Roma, così nel 98 a.C. passò un provvedimento che rese obbligatorio l'intervallo di tre nundinae (giorni di mercato) tra l’affissione di una legge e la sua votazione e vietò la formulazione della lex satura. Senatori e cavalieri continuarono la lotta per il controllo sui tribunali permanenti per i processi di concussione, poi nel 95 a.C. una legge Licinia Mucia istituì una commissione per l’espulsione da Roma dei residenti latini o italici illegalmente iscritti in liste di censo alla quale si oppose l’aristocratico Marco Livio Druso che anzi volle estendere la cittadinanza romana agli alleati italici. La proposta rispondeva alla necessità di colmare l’innaturale differenza di stato giuridico e sociale tra Romani e alleati, inspiegabile alla luce dell’espansione oltremare ed estesa a tutti gli ambiti della vita civica -addirittura perdendo le proprie terre nelle politiche redistributive; all’assassinio di Druso scoppiò la rivolta armata dapprima ad Ascoli per espandersi verso meridione lungo l’Appennino (mentre non aderirono Etruschi, Umbri, le città latine e le poleis magnogreche) aprendo ad una guerra lunga e sanguinosa combattuta di fatto tra ex commilitoni. L'andamento incerto del conflitto fece valutare già nel 90 a.C. una risoluzione politica per cui in primo luogo si accordò la cittadinanza agli alleati combattenti e poi, con la lex Iulia de civitate addirittura di intere città alleate o che deponessero le armi, una tattica di successo che già nell’89 vide contenuta la rivolta ormai ridottasi a rancorosa rivalsa etnica, sedata soprattutto grazie a Cneo Pompeo Strabone e Lucio Cornelio Silla. La concessione della cittadinanza a tutta l’Italia fino alla ‘Transpadana inaugurò un’inedita fase di unificazione politica della penisola. 3.2 I primi grandi scontri tra fazioni in armi Durate la guerra sociale i Parti della dinastia degli Arsacidi avevano progressivamente sottratto ai seleucidi i loro possedimenti orientali fino ad occupare stabilmente la Mesopotamia e la Babilonia. Nella penisola anatolica vigeva un forte frazionamento politico tra piccoli stati dinastici, favorito da Roma che anzi vegliava di modo che non se ne realizzasse l’unità; a rompere questo equilibrio sarebbe stato Mitridate VI Eupatore, dal 112 a.C. re del Ponto e che dapprima fece accordi con la Bitinia per la spartizione di Paflagonia e Galazia, poi si espanse nel Bosforo Cimmerio, della Crimea e della Colchide. Non pago, Mitridate accusò Roma di essere stato depredato dal momento che alla morte del padre gli erano state sottratte quelle donazioni territoriali -specie la Grande Frigia- accordategli per l’aiuto nella guerra contro Aristonico ma accorpate alla provincia d’Asia tra il 120 e il 116. L’attivismo del sovrano avrebbe attirato le attenzioni di Roma specialmente a partire dal 104 a.C., tant'è che il senato vi inviò prima Mario in un corpo diplomatico di osservazione e poi Silla (92 a.C.) affinché intervenisse per rimettere sul trono di Cappadocia un sovrano gradito a Roma -la regione venne recuperata, assieme alla Bitinia, allo scoppio della guerra sociale da Tigrane, re d’Armenia e genero di Mitridate. Nuovamente Roma inviò una legazione, capeggiata da Manio Agquilio, che ripristinasse la situazione originaria (90 a.C.), ma Nicomede IV, riottenuto il trono di Bitinia, si ritenne autorizzato a condurre scorrerie nel Ponto circa le quali Mitridate chiese giustizia, non avuta, e decidendo dunque per la guerra contro Roma. La sua azione si fondò su un’opera efficacissima di propaganda rivolta al mondo greco, presentandosi come sovrano filelleno ed evergete -tanto efficace che il pontino raccolse un consenso tale che la guerra risulta quasi essere una sollevazione contro Roma del mondo greco-, mentre sul piano militare fu presto capace di controllare tutta l'Asia, dandosi al massacro di migliaia di civili romani. Con l’occupazione della Grecia centrale verso la fine dell’88 a.C. arrivò anche la risposta di Roma che reagì mandando il console Lucio Cornelio Silla, impegnato nell’assedio di Nola. Al contempo il tribuno della plebe Publio Sulpicio Rufo affrontava il problema della distribuzione degli italici, ormai cittadini romani, nelle tribù senza che venissero stravolti gli equilibri politici (al sicuro nei comizi centuriati, essendo la distribuzione patrimoniale degli italici simile a quella romana) per cui li si inserì in un numero limitato di esse. Sulpicio Rufo provvide inoltre alla crisi della politica causata dal generale impoverimento causato dalle guerre sociale e mitridatica richiamando gli esiliati, inserendo i neocittadini in tutte e 35 le tribù e ponendo un tetto all’indebitamento dei senatori. Trasferì inoltre il comando della guerra in Asia a Mario, per cui Silla non esitò a marciare su Roma alla testa dei suoi soldati a lui legatissimi anche come conseguenza della riforma mariana dell’esercito. Silla fece dichiarare i suoi avversari nemici pubblici, vennero subito eliminati sia Sulpicio che la sua legislazione, si approvarono alcune riforme -nonostante tutto ciò vennero eletti per 1’87 a.C. consoli a lui non favorevoli. Lo stesso anno Silla sbarcò in Epiro, diede il sacco ad Atene e sconfisse i pontici sia a Cheronea che a Orcomeno, scacciandoli dalla Grecia mentre andava scemando il consenso di cui godeva il monarca in Asia minore. Uno dei consoli dell’87 a.C., Lucio Cornelio Cinna, riprese la legislazione di Sulpicio Rufo e, una volta cacciato dalla città, si ricongiunse con Mario in Campania per marciare su di essa dichiarando Silla nemico pubblico. Un nuovo corpo, naturalmente mariano, venne inviato in Oriente a capo di Lucio Valerio Flacco e Cinna rimase al potere fino all’84 a.C. (dominatio Cinniana) promuovendo l’inserimento dei neocittadini tra tutte le tribù, riducendo di tre quarti l'ammontare dei debiti e fissando un nuovo rapporto fra moneta bronzea e argentea (fissandone il valore) -la sua parabola si chiuse quando venne ucciso in una rivolta dei suoi soldati mentre ammassava le sue forze presso Ancona per evitare un eventuale sbarco di Silla. Nell’86 in Grecia erano quindi presente due armate romane, una a capo di Lucio Valerio Flacco e una di Silla, che non solo non si scontrarono mai ma che anzi combatterono in maniera complementare e quindi si stipulò una pace a Dardano (85 a.C.) dalle condizioni relativamente miti che non pose fine alle ostilità in Asia minore dove continuò le incursioni in territorio pontico Lucio Licinio Murena in una contesa, poi fermata da Silla, nota come “seconda guerra mitridatica” (83-81 a.C.). Nell’83 a.C. la Siria entrò nell’orbita di Tigrane e Silla sbarcò in Italia carico di bottino, per sconfiggere i suoi avversari in un paio d’anni affiancato dai giovani Marco Licinio Crasso e Cneo Pompeo chiudendo una guerra civile da non meno di 100.000 morti pur permanendo sacche d’opposizione in Africa e in Sicilia. Silla avrebbe dunque introdotto le liste di proscrizione, elenchi di avversari politici da eliminare -specie senatori e cavalieri- cui nomi venivano notificati al pubblico, in una violenza tale da modificare la composizione dell’aristocrazia romana durata fino a tutto 1’81. Essendo morti in guerra entrambi i consoli, Lucio Valerio Flacco venne nominato interrex e a sua volta designò Silla dictator legibus scribundis et rei publicae constituendae, carica a mandato illimitato e compatibile col consolato rivestito nell’80; Silla si prodigò nel portare il senato a 600 membri, aumentò i pretori a 8 specializzandoli, ridimensionò i poteri dei tribuni della plebe, estese il pomoerium alla linea virtuale tra Arno e Rubicone. Compiute le riforme Silla abdicò dalla dittatura e si ritirò a vita privata (79 a.C.). Tentò un ridimensionamento dell’ordinamento sillano Marco Emilio Lepido, console nel 78 a.C., incontrando un’opposizione tale da scatenare una rivolta in Etruria alla quale si unì lo stesso Lepido e che venne stroncata dal senato emettendo un senatus consultum ultimum contro di lui e assegnando a Pompeo l’imperium. Le truppe superstiti nel 77 a.C. avrebbero raggiunto la Spagna Citeriore, dove dall’82 governava Quinto Sertorio in una sorta di Stato mariano in esilio capace di sopravvivere agli attacchi sillani fino al sopraggiungere di Pompeo il quale, dopo iniziali insuccessi, riuscì, a partire dal 74 a.C., a ribaltare progressivamente la situazione fino alla definitiva vittoria (71 a.C.). Risale al 73 lo scoppio della terza grande rivolta servile, la prima a godere di una vasta adesione di uomini liberi, cui scintilla scoccò in una scuola per gladiatori di Capua; il considerevole esercito, capeggiato dal trace Spartaco e dai celti Crisso ed Enomao, riuscì ad espandere la rivolta a tutto il sud Italia ma mancando di un piano unitario si ritrovò a vagare senza meta per la penisola fino a quando Marco Licinio Crasso non riuscì ad isolarlo e sconfiggerlo in Calabria (71 a.C.). Nel 70 Pompeo si candidò al consolato pur non avendo completato la trafila delle cariche e vinse le elezioni venendo eletto al fianco di Crasso, sicché i due avrebbero completato lo smantellamento dell’ordinamento sillano, già duramente colpito con l’abolizione del divieto per i tribuni della plebe di ricoprire altre cariche (75 a.C.), con la lex Terentia Cassia (73 a.C.) e dunque adesso col pieno ripristino dei poteri dei tribuni della plebe. Dopo un intervallo di quindici anni furono rieletti i censori, mentre il pretore Lucio Aurelio Cotta modificò la composizione delle giurie dei tribunali permanenti togliendone l’esclusiva ai senatori a favore di un maggior equilibrio fra questi, i cavalieri e i tribuni aerarii -di cui può essere considerato una conseguenza il processo per malversazione contro Caio Verre, di cui era accusatore Marco Tullio Cicerone. Nel medesimo decennio avrebbero rialzato la testa due minacce, i pirati e Mitridate. La pirateria, tollerata in Oriente dagli stessi Romani dal momento che favoriva il continuo afflusso di manodopera servile, aveva ripreso forza per l’endemica situazione di conflitto ma ormai la situazione aveva raggiunto proporzioni tali da divenire troppo costosa per investitori e consumatori. In tal senso nel 78-75 a.C. si tentò di rafforzare la presenza romana in Cilicia, mentre su Creta si sarebbero concentrati nel 74 a.C. Marco Antonio e dal 69 a.C. Quinto Cecilio Metello. La minaccia di Mitridate si sarebbe invece ripresentata quando, morto Nicomede IV di Bitinia, risultò che aveva lasciato il suo regno in eredità ai Romani in un testamento probabilmente oggetto di falsificazione: Roma era adesso dotata di accesso al Mar Nero e Mitridate si sentì costretto alla guerra. Protagonista della risposta romana sarebbe stato Lucio Licinio Lucullo, entro il 67 a.C. capace di occupare il Ponto e costringere Mitridate alla fuga in Armenia avendo dunque occasione di riorganizzare l’ Asia per poi proseguire verso l'Armenia stessa e dunque all’inseguimento dei sovrani sconfitti. Lucullo sarebbe stato improvvisamente interrotto dal malcontento dei suoi uomini e dalla fine dei finanziamenti, i suoi comandi revocati permettendo la riscossa di Mitridate e Tigrane. Nel 67 il tribuno della plebe Aulo Gabino invocò misure straordinarie contro la pirateria, ovvero la concessione a Pompeo di un imperium infinitum di tre anni su tutto il Mediterraneo col quale riuscì a confinare i pirati in Cilicia e sconfiggerli. Da qui Pompeo proseguì verso il Ponto mentre il re dei Parti teneva impegnato Tigrane. Mitridate si fece uccidere per non cadere in mani nemiche e il romano proseguì nel Caucaso, privò l'Armenia della Siria facendone provincia romana, occupò la Palestina e la riorganizzò nel regno di Giudea indipendente ma tributario (63 a.C.). Nel 62 a.C. Pompeo rientrò a Roma, carico di gloria e di bottino. Durante la sua assenza un’ultima grande crisi fu quella causata da Lucio Sergio Catilina, arricchitosi con gli eccidi dell’età sillana ma rovinatosi nella campagna elettorale per il consolato del 65 a.C. (candidatura poi respinta per indegnità) per poi incassare il sostegno politico e finanziario di Marco Licinio Crasso e Caio Giulio Cesare nella campagna elettorale del 63, perdendo contro l’homo novus pompeiano Cicerone; il programma di Catilina puntava molto sulla cancellazione dei debiti rivolgendosi però più agli aristocratici in rovina che non ai ceti più bassi. Gli alleati abbandonarono Catilina, il quale risultò nuovamente sconfitto, e questi pianificò una cospirazione per la quale concentrò in Etruria un esercito fatto in buona parte da veterani sillani. Il piano venne scoperto da Cicerone che lo denunciò al senato ottenendo che venisse emesso un senatus consultum ultimum, mentre l’esercito ribelle venne sconfitto a Pistoia. Lontano dalle mire dirette di Roma per la sua lontananza così cittadini meno abbienti, leggi contro la disoccupazione e riforma del calendario civile. L’eccessiva concentrazione di poteri e lo strapotere senza precedenti di Cesare finirono per creare allarme persino tra chi era stato un suo sostenitore, sicché nei primi mesi del 44 a.C., quando era imminente una campagna contro i Parti, venne messo in giro un falso oracolo secondo cui solo un re avrebbe potuto vincere tale impresa il che non fece che aumentare la preoccupazione per derive monarchiche del potere cesariano. Fu allora ordita una congiura con l’intento di abbatterlo prima della sua partenza: cadde trafitto dai pugnali alle idi di marzo. 4.1 Augusto L’inizio del Principato -il regime istituzionale incentrato sulla figura del reggitore unico, il princeps- è tradizionalmente collocato nel 31 a.C., ma è stato largamente sottolineato come “Roma ebbe un impero prima di avere degli Imperatori” risultando lo studio dell’Impero Romano più ampio e complesso che non quello dell’età imperiale in sé. Elemento di rottura è la posizione di potere assoluto di Ottaviano a partire dalla battaglia di Azio senza che questa avesse determinato la fine anche dei suoi problemi: già nel 32 a.C. il passaggio al campo antoniano dei due consoli e di più di trecento senatori compromise la rappresentatività delle istituzioni rimaste nell’Urbe, mentre persisteva il malumore dei soldati licenziati senza premi ed esclusi dai benefici in un clima di crescenti tensioni persistito anche malgrado la riduzione delle tasse di guerra e si scoprì addirittura un piano insurrezionale. Per sedare i tumulti militari Ottaviano e i suoi si indebitarono pesantemente mentre continuava, tra malumori montanti, la repressione dei maggiorenti che furono filo- antoniani oltre ad una ostilità del ceto senatorio tale che ancora nel 29-28 a.C. doveva recarsi armato in senato. Restava inoltre del tutto aperta la questione circa la veste legale da dare al potere personale del vincitore, risultando impraticabile l’ipotesi di un regime monarchico (forse ambito da Cesare) a causa della campagna propagandistica ordita contro Marco Antonio per cui la cesura con la Repubblica fu più che altro frutto di soluzioni adottate via via in forma di continui aggiustamenti e ripensamenti sicuro rispondenti ad una logica di fondo per cui è erroneo sia ritenere vi fosse un progetto chiaro e compiuto fin dal principio sia sostenere che il principato sia stato un esito casuale. Vi trovò compimento il processo di personalizzazione della tarda Repubblica, effetto della crisi sociale come dell’espansione militare, permettendo altresì una nuova sistemazione dei rapporti fra Roma, Italia e Mediterraneo in una progressiva razionalizzazione amministrativa che vide l’integrazione nel senato delle élite provinciali. All’inizio del 27 a.C. Ottaviano, entrato nel suo settimo consolato con collega l’amico Agrippa, rinunciò formalmente a tutti i suoi poteri straordinari accettando solo un comando decennale sulle province “non pacificate” e sulle rispettive guarnigioni legionarie (parte della Spagna, le Gallie, la Siria, la Cilicia, Cipro e l’Egitto), mentre tornò al popolo il governo di quelle “pacificate”, nelle quali si tornava al sistema tradizionale di assegnazioni tramite sorteggio; tale ripartizione (all’inizio non così netta e anzi più volte sottoposta ad aggiustamenti) garantiva ad Ottaviano competenza sulla maggior parte delle forze legionarie disponibili impedendo altresì che generali si conquistassero la gloria. Qualche giorno dopo il senato lo proclamò “Augusto”, gli concesse la corona civica in foglie di quercia e l’onore di uno scudo d’oro. Per comprendere meglio i fondamenti del potere augusteo valgano le sue stesse parole nelle Res Gestae: «Fui superiore a tutti per autorità, pur non possedendo un potere superiore a quello degli altri che mi furono colleghi nelle magistrature», rendendo evidente come l’architettura istituzionale delineatasi era ispirata alla prudenza e al compromesso con la tradizione repubblicana senatoriale e traeva origine dal dramma delle guerre civili. La nuova organizzazione rappresentava il definitivo superamento delle istituzioni, ormai inadeguate, della città-Stato senza che le strutture repubblicane venissero abolite ma risultando anzi più attive che in tutti i decenni precedenti nonostante ci si fosse insinuata una figura nuova, il principe. In tal senso Augusto sarebbe stato ininterrottamente eletto console dal 26 al 23 a.C., periodo nel quale si recò in Spagna settentrionale completandone la conquista -per cui in un solo colpo dimostrò di avere a cuore i suoi incarichi e rafforzava il contatto con l’esercito-, malgrado perdurasse l’instabilità nella capitale. Questa esplose nella triplice crisi del 23 a.C. di cui primo atto fu la grave malattia contratta dal princeps in Spagna e che gli fu quasi fatale rischiando di aprire nuovamente alla fase delle guerre civili dal momento che se da un lato mancavano ancora le condizioni per una successione pacifica del potere, dall’altro era impossibile abbandonare senza contraccolpi la monocrazia di fatto ormai vigente. Ottaviano, infatti, mancava di figli maschi e ciò lo aveva già portato a pianificare strategie dinastiche incentrate sulla figlia Giulia, data in moglie a Marco Claudio Marcello, evidentemente abbandonate quando, malato, consegnò il suo anello col sigillo ad Agrippa e la lista delle truppe e delle pubbliche entrate a Cneo Calpurnio Pisone. In ogni caso Augusto guarì mentre spirò Marcello sicché Giulia sposò Agrippa. Iniziava inoltre a suscitare irritazione il fatto che uno dei due seggi consolari fosse costantemente occupato da Augusto, al che l'occasione per affrontare la questione arrivò con la messa in stato d’accusa di Marco Primo accusato di alto tradimento per aver mosso guerra contro gli Odrisi Traci senza averne ricevuto autorizzazione: difesosi asserendo di aver ricevuto istruzioni dal princeps, Augusto negò sotto giuramento e questo costò a Marco la condanna. Difensore dell’imputato fu Murena, nello stesso anno coinvolto nella congiura ordita da Fannio Cepione, esponente di ambienti filorepubblicani, ai danni di Augusto. Questi traumatici eventi resero necessarie una serie di correzioni che definirono in modo pressoché definitivo la sostanza dei poteri imperiali. A metà anno Augusto depose il consolato (non lo ricoprì più se non per pochi mesi nel 5 e nel 2 a.C.), ottenendo in sostituzione un imperium proconsolare rinnovabile a vita che gli consentiva di agire come promagistrato su tutte le province, anche su quelle nel 27 attribuite al popolo, con un imperium maius. L’imperium non gli consentiva però di agire nella vita politica interna a Roma, sicché il principe ricevette dal senato la tribunicia potestas vitalizia (potendo dunque convocare i comizi, porre il veto e godere della sacrosanctitas) e il diritto di convocare il senato, per cui se Augusto deteneva poteri che presi isolatamente erano compatibili con la tradizione repubblicana, la rinuncia alla carica di console lasciava piena disponibilità della carica all’aristocrazia senatoria. Le elezioni, ristabilite in forma più o meno regolare dal 27 a.C., potevano essere influenzate da Augusto attraverso due procedure, la nominatio (accettazione delle candidature dal magistrato sovrintendente) e la commendatio (la raccomandazione da parte dell’imperatore stesso), mentre risale al 5 d.C. la legge consolare Valeria Comelia che istituì un complicato sistema di compromesso, la destinatio, per cui i comizi curiati avrebbero ratificato i candidati preselezionati tramite una votazione preliminare che li designava effettuata da 10 apposite centurie “destinatrici” composte di senatori e cavalieri tratti dalle liste dei giudici per i giudizi pubblici e costituito di volta in volta nell’immanenza della convocazione del comizio centuriato. La libera competizione elettorale risultava fortemente ridimensionata e le stesse assemblee popolari furono confinate ad un ruolo sempre più marginale mentre si perseguiva una sorta di equilibrio tra principato e le classi superiori. Nel 22 a.C., durante una carestia, il popolo offrì ad Ottaviano la dittatura ma egli la rifiutò e assunse la cura annonae, mentre dall’anno precedente Agrippa aveva ricevuto un imperium proconsolare (probabilmente non maius ma aequum) della durata di 5 anni. Tra il 22 e il 19 a.C. Augusto si portò sul confine orientale per risolvere le questioni armena e partica riuscendo con la diplomazia a recuperare le insegne delle legioni di Crasso e Marco Antonio. Scaduti gli imperia sia di Ottaviano che di Agrippa se li videro entrambi riconfermati per altri 5 anni, mentre Agrippa ricevette anch’egli la tribunicia potestas e mise al mondo due figli, Lucio Cesare e Caio, entrambi poi adottati da Augusto; da qui non vi furono più variazioni di rilievo nei poteri di Augusto, salvo l'assunzione del titolo di pontefice massimo alla morte dell’ex-triumviro Lepido (12 a.C.) e il conferimento del titolo di pater patriae (2 a.C.). Il potere personale accumulato di Augusto non era riconducibile alla somma delle magistrature repubblicane di cui esso era costituito e questo anche per lo sdoppiamento della sfera di competenza tra quella tradizionale repubblicana e quella specifica del princeps. Il senato aveva vissuto una profonda trasformazione in primo luogo quantitativa con un notevole aumento dei suoi membri (da 600 a più di 1000) e su questa agì Augusto per ripristinare la dignità e il prestigio dell’assemblea anche favorendo l’accesso delle élite provinciali più romanizzate, con una serie di misure adottate principalmente con la lectio senatus del 29/28 a.C. e nel 18 a.C., quando condusse una più radicale revisione riportando a 600 il numero dei senatori e rese ereditaria la dignità senatoria. In tal senso proibì l’uso del laticlavio ai figli dei cavalieri ma lo permise ai figli dei senatori a segnalare la loro condizione, per dunque innalzare ad un milione di sesterzi il censo minimo per entrare in senato (riservandosi la possibilità di concedere il diritto di accedervi a chi non vi appartenesse); era stata realizzata una distinzione netta tra ordo equester e senatus, finendo per creare un vero e proprio ordo senatorius monopolista delle più importanti magistrature a Roma e delle maggiori posizioni di comando militare e civile in provincia. Circa il governo di Roma l’operato augusteo può essere valutato su due piani, quello monumentale e quello della razionalizzazione dei servizi. Augusto non diede alcun rilievo particolare alla propria residenza, eccettuati i propri segni di onorificenza e la costruzione di un tempio ad Apollo, mentre il grosso dell’attività edilizia si concentrò nel Foro a completare i programmi edilizi di Cesare a cui si dedicò un tempio, restaurò il senato e fece erigere una basilica in nome dei figli di Agrippa e Giulia prematuramente scomparsi, costruì un nuovo Foro (Forum Augusti), trasformò il Campo Marzio edificandovi il Pantheon e il suo Mausoleo davanti a cui fece incidere su pilastri di bronzo le sue Res Gestae, costruì l’Ara pacis. Soprattutto per opera di Agrippa furono costruiti o restaurati molti edifici pubblici, acquedotti, terme, teatri e mercati e ci si preoccupò dell’organizzazione di servizi importanti per l’approvvigionamento alimentare (dall’8 d.C. col praefectus annonae) ed idrico e per la protezione da incendi (si creò un corpo di vigili del fuoco e inondazioni. L’Urbe, governata da un praefectus Urbi, venne ripartita in 14 regiones a loro volta suddivise in vici che insieme eleggevano i propri magistri, mentre non fu coinvolta da importanti novità amministrative l’Italia se non per la divisione in 11 regioni perlopiù a fini di censimento; più rilevante fu l’edificazione di strade e di un sistema di comunicazioni (ambo in mano ad un praefectus vehiculorum). L’amministrazione delle province vide un cambiamento politico che rifletteva la duplicità di sfere di competenza determinatasi nello Stato, sicché le province sotto responsabilità di Augusto vennero rette da legati Augusti pro praetore tra i cui poteri non figurava quello di raccogliere le imposte, affidato a procuratori di rango equestre, mentre nelle altre i governatori erano sempre senatori ma scelti a sorteggio tra ex-consoli ed ex-pretori, restavano in carica solo un anno e comandavano le forze militari presenti. Eccezione a tale esposizione fu l’Egitto, l’unica grande provincia governata da un prefetto equestre. Augusto stabilì nuovi criteri per determinare l’ammontare dei tributi meglio commisurati alle capacità contributive dei provinciali, si fece più forte nelle province la spinta all’urbanizzazione e si ampliò l’attribuzione a titolo personale della cittadinanza romana ad esponenti delle élite. All’indomani di Azio l’esercito romano aveva raggiunto dimensioni di gran lunga superiori le necessità e le possibilità dell’Impero, per cui era necessario smobilitare gli uomini conservandone il favore. Dapprima i veterani ricevettero soprattutto terre, poi denaro per cui dal 6 d.C. venne creato l’erario militare finanziato coi proventi di una tassa sulle eredità che garantì ai soldati un premio di congedo. Con Augusto il servizio militare fu riservato perlopiù a volontari, specie italici ma anche provinciali, a costituire un esercito di professionisti composto da 28 legioni (£170.000 uomini) al quale si affiancarono una guardia pretoriana permanente (corpo d’élite di cittadini romani acquartierato tra l’Urbe e le sue prossimità), contingenti di truppe ausiliari di fanteria e cavalleria reclutate tra i popoli soggetti all’ Impero che a fine ferma ottenevano la cittadinanza e una flotta di marinai non cittadini dalla crescente importanza. Innegabili furono i successi di Augusto anche in politica estera, propagandisticamente ridotta alla pax Augusta e alla chiusura della porta del tempio di Giano anche in virtù della preferenza del princeps per la diplomazia: i confini dell’Egitto vennero espansi verso sud grazie ad accordi con gli Etiopi (29-27 a.C.), quelli con il regno partico si stabilizzarono grazie alle relazioni con gli Stati contigui (la Giudea di Erode, la Cappadocia di Archelao e il Ponto di Polemone, successivamente tutti annessi) e in Armenia, zona più critica, Tiberio riuscì ad incoronare Tigrane II, gradito a Roma. Il disimpegno in Oriente garantiva ad Ottaviano di impiegare maggiori forze in Occidente, dove primo grande teatro di guerra fu la Spagna -definitivamente assoggettata nel 19 a.C.- e dunque l’arco alpino, la parte occidentale del quale vide le ostilità protrarsi dal 25 al 9, mentre in Africa L. Cornelio Balbo estese il controllo romano ai danni dei Garamanti e trasformò in cliente la Mauritania, sul cui trono pose Giuba II. Fronte più violento fu quello dell’espansione verso Reno e Danubio, impiegando due direttrici a partire dalla catena alpina nord-orientale; se la conquista delle Alpi settentrionali (17-15 a.C.) e la stabilizzazione del confine danubiano con la sottomissione di Pannonia e Mesia (14-9 a.C.) sarebbero state abbastanza rapide, l’insuccesso più clamoroso fu la mancata sottomissione della Germania. L’espansione verso il Reno venne affidata al solo Druso, nel 9 a.C. capace di raggiungere il fiume Elba ma motto di lì a breve, dovendo essere sostituito da Tiberio che dopo una serie di successi nell’Illirico ritornò sul fronte germanico nel 4 d.C. dove la massima minaccia era quella dei Marcomanni guidati dal loro re Maroboduo. Pronto all’attacco decisivo nel 6 d.C., Tiberio dovette abbandonare il progetto per sedare una rivolta tra Illirico e Pannonia da cui la scelta di assegnare a Maroboduo il titolo di re socio ed amico del popolo romano. Malgrado ciò, l'operato del legato in Germania P. Quintilio Varo si condusse in maniera tale da suscitare una vasta ribellione guidata da Arminio nella quale Varo si lasciò sorprendere in maniera catastrofica nella “selva di Teutoburgo”, una sconfitta di proporzioni tali da vedere l’annientamento di circa 20.000 uomini e la totale compromissione dell’espansione ad est del Reno, più avanti definitivamente bloccata da Tiberio imperatore. Una breve crisi era scoppiata anche in Armenia, dove la morte di Tigrane (8- 7 a.C.) creò un conflitto tra Romani e Parti sulla successione chiusosi solo tra 1’1 e il 2 d.C. con l'imposizione di un re filoromano. Soprattutto dal 19-18 a.C., Augusto, avvalendosi della tribunicia potestas, Claudio intervenne inoltre a razionalizzare il governo dell’Impero, fin qui privo di un vero e proprio apparato burocratico per cui tutto era in mano ai singoli magistrati al momento in carica, applicandovi come modello quello della gestione delle grandi domus private in mano a liberti di grande competenza e professionalità specifiche (da cui la dizione “impero dei liberti”) passando da un assetto privato ad uno pubblico; l’amministrazione centrale fu divisa in quattro grandi uffici, ovvero un segretariato generale, uno delle finanze (a rationibus), uno per le suppliche e la corrispondenza istituzionale (ab epistulis) e uno per l’istruzione dei procedimenti da tenersi davanti all’imperatore (a libellis). In campo giudiziario si assistette ad un crescente ruolo diretto del principe, mentre il percorso di razionalizzazione determinò la ricerca di nuove soluzioni ai problemi di approvvigionamento granario e idrico -v. costruzione del porto di Ostia, bonifica piana del Fucino e completamento degli acquedotti Aqua Claudia e Anio Novus. Fu molto interessato alla questione delle province, come dimostrano il discorso a favore dell’accesso in senato dei notabili della Gallia Comata, e per i primi anni di governo dovette risolvere le questioni lasciate aperte da Caligola ponendo fine alla guerra in Mauretania (42 d.C.), trasformando in province vari Stati orientali (Licia 43 d.C., Tracia 46 d.C., Giudea 44 d.C.) ed espellendo gli Ebrei da Roma dopo aver ristabilito i privilegi delle comunità ebraiche in oriente così come delle poleis greche. Tornò nell’orbita partica l'Armenia ma venne conquistata e ridotta a provincia, sotto il comando di Aulo Plauzio, la Britannia meridionale (43 d.C.) mentre più lungo e complesso sarebbe stato il completamento della sottomissione del territorio. Ben presente lungo tutto il principato sarebbe stata la lotta politica interna come dimostrano la tentata congiura di Lucio Arrunzio Camillo Scriboniano (42 d.C.) e la vicenda di Valeria Messalina, terza moglie del princeps particolarmente attiva nell’eliminazione dei rivali interni alla casa imperiale ma caduta in disgrazia nel 48 d.C. quando si legò troppo platealmente al console designato, mentre riuscì nel suo intento Agrippina minore ottenendo nel 50 d.C. l’adozione da Claudio del figlio Domizio (da qui Nerone Claudio Cesare Druso Germanico) saldandone la posizione dopo averne affidato l’educazione a Seneca, appositamente richiamato dall’esilio, e con la nomina a unico prefetto del pretorio del fedelissimo Sesto Afranio Burro. Malgrado le precauzioni della moglie Claudio avrebbe designato come erede non il solo Nerone ma anche il figlio Britannico, nato dal matrimonio con Messalina, per morire improvvisamente nel 54 d.C., suscitando sospetti di assassinio. Alla base della concezione antica della società vi era l’assunto che vi dovesse essere un’articolazione formalmente riconosciuta dello status giuridico delle persone, il che spiega ad esempio le differenze volute da Augusto tra ceto equestre e senatorio. Inoltre era fenomeno caratteristico della società e dell'economia dalla tarda Repubblica anche la schiavitù (cui incidenza è calcolata al 40% solo in Italia), specialmente nell’agricoltura -prima di un progressivo passaggio in età imperiale ai coloni liberi-, nelle case, nelle attività artigianali, nei “servizi” (soprattutto fra i greci più istruiti) e nella gestione finanziaria e amministrativa del patrimonio imperiale secondo una vera e propria organizzazione gerarchica. Lo status giuridico non va però confuso con la ricchezza che, seppur costituisse il presupposto per il miglioramento della propria condizione sociale, non lo garantiva automaticamente -lo schiavo affrancatosi col patrimonio accumulato rimaneva legato all’ex padrone da un rapporto di clientela. I liberti rappresentarono, specie nel I secolo d.C., il ceto economicamente più attivo esprimendosi ai massimi livelli nella casa imperiale. L'imperatore aveva modo di intervenire a mutare lo status di un soggetto o di un gruppo garantendogli anche dei privilegi ma la concessione della cittadinanza non era che un primo passo verso la promozione sociale nei ceti dirigenti, l’ordo senatorius e il ceto equestre. Oltre ai soldi anche l’esercito fu un importante fattore di promozione sociale nel corso dell’età imperiale. Il principato di Nerone, tra il consolidamento dei poteri dell’imperatore e l’istituzionalizzazione della sua figura, sarebbe stato la conferma della debolezza dei residui della tradizione repubblicana, secondo un profondo mutamento nella concezione del potere del princeps evidente già nel De Clementia del di lui precettore Lucio Anneo Seneca (55 d.C.). L’opera, di fatto un “programma di governo” per Nerone, testimonia l’influenza su di esso esercitata dal filosofo, pari solo a quella del prefetto del pretorio Afranio Burro, fautore di una linea di collaborazione col senato poi abbandonata per un’idea teocratica e assoluta del potere imperiale. Il passaggio di poteri avvenne quasi senza scosse e i primi anni di principato videro il governo di fatto dei due sopracitati e della madre Agrippina, cui invadenza irritò sempre più l’imperatore finché nel 59 d.C. la situazione non precipitò quando ella tentò di impedirgli il matrimonio con Poppea Sabina e venendo per questo fatta assassinare. Prima di questo traumatico evento l’amministrazione generale fu efficiente, si pensi alla riforma dell’ aerarium del 56 d.C. con la quale l’imperatore entrava strutturalmente nell’amministrazione del tesoro o l’abolizione delle imposte indirette, le vectigalia, volta a favorire il commercio; prendeva intanto forma l’interesse neroniano per la cultura e le arti, per cui nel 59 vennero aboliti i combattimenti gladiatori alla morte e organizzati ludi teatrali-musicali, gli Juvenalia e poi i Neronia (60 d.C.). Punto di non ritorno fu la morte di Burro (62 d.C.), dopo di cui Nerone sposò Poppea e acquistarono sempre più protagonisti i nuovi prefetti del pretorio, capaci di adombrare Seneca. Evento drammatico fu dunque l’incendio di Roma (64 d.C.) che distrusse i due terzi della città, mentre Nerone si adoperò per prendere misure d’urgenza non sempre sufficienti pur ritrovandosi poi sospetto di esserne stato il diretto responsabile, optando quindi per addossare le colpe sulla invisa comunità cristiana che contò numerosissimi giustiziati. La città venne riedificata secondo un piano urbanistico più razionale e rigoroso, seppur con costi talmente alti da rendere necessarie nuove esazioni e dunque perdere consenso. Il princeps tentò di rispondere alla crisi con una riforma monetale (64 d.C.) con cui ridusse di peso e di fino 1’ aureus e il denario che però fu causa di un immediato aumento dei prezzi. Per rimpinguare le casse dello Stato venne adottato anche lo strumento dei processi e delle confische in un crescendo di tensione già nel 65 d.C. esploso in un tentativo di congiura, quella dei Pisoni -dall’ispiratore Caio Calpurnio Pisone-, che coinvolse vari strati dell’élite e che una volta scoperta vide l’inizio di una spietata serie di uccisioni anche eccellenti come quelle di Seneca e Fenio Rufo -l’opposizione sopravvisse e vi fu nuovo tentativo di abbattere Nerone nella congiura vinciana dall’ispiratore Annio Vinciano (scoperta e stroncata nel 66 d.C.). In politica estera il regno del Ponto orientale fu tolto a Polemone II e annesso (64 d.C.), si annetterono le Alpi Cozie (65 d.C.) e progettata una spedizione nel Caucaso verso il Mar Caspio, ma i principali teatri di intervento furono Armenia (dove la rifiuto dell’imposizione della sovranità romana si distrussero le capitali), Britannia (sconvolta da rivolte antiromane puntualmente sedate da Caio Svetonio Paolino) e la Giudea. Nel 66 Nerone fece un lungo viaggio in Grecia, di fatto una toumée artistica nella quale partecipò a festival ed agoni, dal quale dovette tornare nel 68 per l’aggravarsi della situazione nell’Urbe in virtù di cui vi fu dapprima una rivolta di Vindice, legato della Gallia Lugdunense, poi molte altre ultima delle quali quella dei pretoriani che, su istigazione del prefetto Caio Ninfidio Sabino abbandonarono Nerone, sicché il senato lo dichiarò “nemico pubblico” per riconoscergli come successore Galba e il princeps dovette scegliere per il suicidio. Con la sua morte ebbe fine anche la dinastia giulio-claudia, troppo gravemente falcidiata dai contrasti interni per proporre successori a Domizio, aprendo dunque ad una grave crisi che fece, seppur per poco, rivivere all'Impero l’incubo delle guerre civili. 4.3 L’anno dei quattro imperatori e i Flavi Creatisi le condizioni per una nuova guerra civile, il 68/69 d.C. venne definito da Tacito come il longus et unus annus che svelò l’arcanum imperii, cioè che la proclamazione di un imperatore poteva avvenire anche fuori Roma ed essere prerogativa dell’esercito -che pur rimaneva saldamente appannaggio di esponenti italici. È chiaro che l’Impero non poteva più essere appannaggio di una sola famiglia, senza che però si riuscì ad individuarvi un’alternativa realistica e duratura. Immediato successore di Nerone fu Servo Sulpicio Galba, anziano senatore allora governatore della Spagna Tarraconense e proclamato imperatore dai suoi soldati alla notizia della ribellione delle truppe galliche di Vindice; il titolo venne inizialmente rifiutato, pur iniziando a creare una rete di oppositori di Nerone che includesse anche i pretoriani, e accettato solo una volta che fu il senato ad offrirglielo con una scelta che non tutti accolsero con entusiasmo, a partire dal prefetto del pretorio, Ninfidio Sabino, fautore di una rivolta duramente repressa. Il malcontento raggiunse dunque anche i pretoriani, la plebe e i soldati a causa delle politiche di austerità volte a rimediare alla crisi finanziaria ereditata da Nerone e fu in questo clima che all’inizio del 69 d.C. due legioni di stanza a Magonza si ribellarono, venendo subito seguite dall’esercito della Germania Inferiore che proclamò imperatore il proprio legato Aulo Vitellio, mentre a Roma i pretoriani acclamarono Marco Salvio Otone (15 gennaio 69 d.C.) per poi massacrare Galba e Pisone Frugi Liciniano, da lui cinque giorni prima associato al potere nel disperato tentativo di conservarlo. Popolare soprattutto fra pretoriani e cavalieri, Otone ottenne anche il riconoscimento del senato, delle province danubiane, dell’Africa e dell’Oriente ma non delle legioni tedesche in rivolta, non paghe della morte di Galba e adesso in marcia contro il suo successore. A capo del senatore di rango consolare Vitellio, queste sconfissero le truppe di Otone nella battaglia di Bedriaco (14 aprile 69 d.C.) spingendo l’imperatore a togliersi la vita. Vitellio arrivò a Roma solo a giugno ed ebbe grandi difficoltà a frenare i soldati che avevano combattuto per Otone, per cui furono congedati e sostituiti gran parte dei legionari mentre non si poté nulla contro il sommovimento delle truppe danubiane. Dal momento che nessuno dei governatori delle province in questione -Pannonia, Mesia e Dalmazia- aveva un rango paragonabile a quello di Vitellio, la scelta ricadde sul comandante delle truppe in Giudea, Tito Flavio Vespasiano. Proclamato imperatore il 1° luglio dal prefetto d’Egitto, Vespasiano vi si recò di modo da essere arbitro del rifornimento granario di Roma mentre arrivava in Italia il legato della legione in Pannonia Marco Antonio Primo, sconfiggendo le armate di Vitellio sempre presso Bedriaco (24-25 ottobre 69 d.C.). Lo scontro sarebbe proseguito dentro Roma, costando la vita al prefetto dell’Urbe (sostenitore di Vespasiano) Flavio Sabino, almeno fino all’entrata in città di Antonio Primo capace di uccidere l'avversario. Il senato riconobbe allora Vespasiano come imperatore e lui e Tito come consoli. Con Vespasiano ebbe inizio la dinastia dei Flavi, apparentemente stabile in forza del principio della trasmissione dinastica del potere, celebrata attraverso l’esaltazione della aeternitas imperii -ma che durò solo fino al 96. Il princeps rimase ad Alessandria fino all’estate del 70 d.C., mentre i suoi generali si occupavano dei due fronti militari rimasti aperti, quello batavo e quello in Giudea. I Batavi erano un popolo stanziato presso le foci del Reno cui territorio era entrato a far parte della Gallia Belgica, su cui il controllo romano era ancora perlopiù fondato sui rapporti intessuti con le élite locali e non è ancora chiaro se la loro rivolta vada considerata come sollevazione antiromana autonoma o piuttosto in quanto prolungamento dei conflitti interni del 69. Leader del movimento fu Giulio Civile, postosi a capo di un movimento di protesta contro la durezza degli ufficiali di Vitellio e per questo incoraggiato da Antonio Primo. Tali truppe, alla sconfitta del proprio imperatore, giurarono immediatamente fedeltà a Vespasiano; in tal modo Civile divenne niente più che un ribelle eversore e le tribù galliche tentarono la secessione nell’imperium Galliarum, schiacciato dopo una iniziale serie di successi specie grazie all’invio di Quinto Petilio Ceriale in una spedizione tra le cui conseguenze vi fu l'affidamento di qui in poi della difesa dei territori renani a legioni di nuova costituzione provenienti da altre parti dell’impero. In Giudea invece Vespasiano era già riuscito a reprimere la maggior parte dei focolai di ribellione, finché nel 70 il comando non fu lasciato al figlio Tito, capace di prendere Gerusalemme e distruggeme il Tempio. Nel 71 celebrò il trionfo ma in realtà la rivolta non si era estinta proseguendo in centri di resistenza particolarmente accanita, l’ultimo dei quali a cadere fu Masada nel 73. Minimo comun denominatore dei Flavi sarebbe stato il rigido impegno nell’amministrazione e, specie sotto Vespasiano, verso la razionalizzazione dei poteri dell’imperatore e il consolidamento del suo ruolo istituzionale. Ritenendo infatti fosse divenuta imprescindibile una definizione formale di tale potere, Vespasiano la ottenne nella legge comiziale nota come lex de imperio Vespasiani, probabilmente non una nuova definizione istituzionale quanto una ricapitolazione e formalizzazione di tutte le prerogative dell’imperatore via via acquisite. La legge, probabilmente del 69, rientra in quella parte dell’opera di normalizzazione svolta dal collaboratore Muciano e da Domiziano, mentre dopo i rientri di Vespasiano e Tito furono loro ad accentrare su sé stessi il grosso delle cariche (interessante l’esercizio della cesura particolarmente inclusivo rispetto i provinciali). Il principe dovette fronteggiare da subito il grave deficit di bilancio provocato da Nerone, guadagnandosi la fama di imperatore tirchio ed esoso ma che in realtà fu molto capace (riuscendo ad ottenere il denaro non solo per ricostruire il Campidoglio ma anche per una serie di nuove opere pubbliche come il Colosseo) facendo leva non solo sull’aumento delle tasse o sui bottini di guerra, ma anche su una miglior organizzazione dell’apparato di riscossione delle imposte specie nelle sue principali articolazioni finanziarie, l’erario e il fisco: furono istituiti il fiscus Iudaicus (cassa centrale per nuove tasse), il fiscus Alexandrinus e il fiscus Asiaticus (casse volte a riorganizzare il sistema di riscossione delle tasse vecchie), fu revocata l’immunità fiscale della Grecia, venne avviato un vasto programma di recupero dei terreni pubblici abusivamente occupati dai privati tanto impopolare da essere bloccato già sotto Domiziano. I liberti vennero rimossi dagli uffici delle amministrazioni centrali a vantaggio di funzionari dell’ordine equestre a sottolineare che si trattava di servizi dello Stato e non personali. Vi furono interventi nel campo dell’istruzione, un'estensione della cittadinanza volta a rispondere alla crisi di reclutamento, il ristabilimento dell’ordine lungo il confine danubiano ponendo le basi della fortificazione del limes germanico. Si deve inoltre a Vespasiano il definitivo abbandono della politica orientale degli Stati cuscinetto retti da re clienti, procedendo dunque alla loro (non indolore) annessione. Vespasiano riuscì a godere di un politica di consolidamento interno che mise fine alle guerre di espansione del predecessore. Tale nuovo corso non fu gradito a tutti, andando a generare una forma di dissenso riscontrabile, ad esempio, nella condanna a morte di quattro ex-consoli sollevando ostilità nei riguardi del nuovo imperatore ancora assente. Nel 119 d.C. furono sedate ambo le rivolte in Mauretania e in Britannia, mentre la Dacia venne divisa dapprima in due e dunque in tre province distinte (Parolissense, Inferiore e Superiore). Al fine di aumentare il consenso intorno a sé, Adriano stabilì che i beni confiscati alle persone condannate andassero all’erario piuttosto che al fisco, per poi aiutare finanziariamente i senatori indebitatisi e arrivando a cancellare i debiti contratti con la cassa imperiale in Italia negli ultimi quindici anni; come se non bastasse fece distribuzioni al popolo e incrementò il programma alimentare traianeo. Adriano fu inoltre amministratore attento e riformatore della disciplina militare, favorendo il reclutamento dei provinciali e creano nuove unità, i numeri, fatte da popolazioni non romanizzate che conservavano armamenti e metodi di combattimento tradizionali. Uomo di grande cultura e fautore delle arti, Adriano fu grande costruttore di palazzi e fondatore di città, intenzionato tra le altre cose a ridare splendore alle poleis. Nelle province, invece, si occupò di rafforzare e consolidare i nuovi territori oltre il Reno riordinati da Vespasiano e Domiziano, fece costruire il vallo sull’istmo Tyne-Solway in Britannia e riuscì a scongiurare una nuova guerra coi Parti; in Africa iniziò la costruzione del fossatum Africae al fine di controllare gli spostamenti delle popolazioni nomadi e le attività economiche legate alla transumanza, fu iniziato ai Grandi Misteri Eleusini (129 d.C.) e volle far risorgere Gerusalemme come colonia romana, Aelia Capitolina, ottenendo però lo scoppio di una nuova ribellione (132 d.C.), a capo del presunto Messia Simone Bar Kochbà repressa violentissimamente dai romani sotto la gestione di Sesto Giulio Severo, vittorioso nel 136 -a conclusione delle operazioni agli ebrei fu vietato l’ingresso ad Aelia Capitolina e la provincia stessa venne rinominata Siria Palestina. Nel 134 d.C. Adriano fece definitivamente ritorno in Italia, nella sua villa di Tivoli, dopo aver trascorso viaggiando dodici dei ventuno anni del suo principato, preferendo ora dedicarsi ad una intensa attività riformatrice per cui venne ristrutturato il consilium principis, assimilato ad un organo di governo e introducendovi sia dei giuristi, sia i due prefetti del pretorio in una definitiva differenziazione dalla cerchia di amici dell’imperatore. L'imperatore si preoccupò dunque di dare una forma di riferimento unitaria al diritto civile e alle competenze giurisdizionali dei governatori provinciali, superando l’uso della pubblicazione annuale dell’ edictum perpetuum da parte del pretore urbano in forma di riferimento permanente in un testo unico curato da Salvio Giuliano (134 d.C.). Al fine di garantire una più efficiente e capillare amministrazione della giustizia, Adriano divise l’Italia in quattro distretti giudiziari assegnati a senatori di rango consolare venendo accusato di intaccare lo stato privilegiato dell’Italia rispetto le province. A difendere gli interessi del fisco venne istituito 1’ advocatus fisci. La salute di Adriano subì un netto tracollo nel 136 d.C., inasprendone anche il carattere e, sopravvissuto ad una grave crisi, scelse a sorpresa come suo successore il console Lucio Ceionio Commodo. Morto improvvisamente questi il primo gennaio del 138, il 25 febbraio proclamò come nuovo erede il senatore originario della Gallia Narbonense e membro del consilium principis Tito Aurelio Fulvo Boionio Antonino, adottato ma senza escludere elementi di carattere paradinastico. Il 10 luglio 138 d.C. Adriano morì. Il principato del ricchissimo senatore Antonino, detto “Pio” per la pacatezza e la drittura morale, è ricordato per la sostanziale mancanza di eventi traumatici ed episodi bellici di grande rilievo come “l’apogeo dell’Impero”. Antonino Pio si pose in sostanziale continuità col predecessore (anche se a differenza sua non si mosse mai dall’Italia), tanto da entrare in conflitto col senato solo quando questo volle contrastarne l’apoteosi, opzione tanto difesa dal princeps da accettare l'abolizione dei quattro legati consolari. Tutte le operazioni militari furono condotte da suoi luogotenenti, delle quali le più rilevanti furono l'espansione nella Scozia meridionale di Urbico (142-143 d.C.) e la costruzione del vallum Antonini sul nuovo confine, una cauta espansione intorno al limes della Germania Superiore (155-160 d.C.) e la soppressione del ribellismo in Mauretania Tingitana. Cosciente e parsimonioso amministratore, non ebbe rilevanti forme di opposizione. Antonino Pio morì il 7 marzo 161 d.C., nominando suo successore Marco Aurelio sul quale aveva precedentemente concentrato ampi poteri e cariche pur non avendolo mai al suo fianco in una vera e propria coreggenza. Il principato di Antonino venne ricordato sia come il migliore della storia dell’Impero, sia criticato per l’immobilismo e la mancata incisività. In questi anni l’Impero raggiunse l’apice del consenso presso le élite provinciali e cittadine, cui integrazione avvenne soprattutto con la concessione della cittadinanza romana e l’attribuzione di un inedito valore alla vita cittadina. Nel mondo antico, infatti, la città rappresentava la civiltà e l’antitesi della barbarie e Roma fece il possibile per sviluppare questa struttura societaria piegandola ai propri fini amministrativi -appoggiandosi a quanto preesistente o fondando colonie. Esisteva una grande varietà di civitates e poleis: le città peregrine (precedenti alla conquista e classificabili in stipendiarie sottoposte a tributo, libere con diritti speciali, libere e immuni esenti anche dal tributo e federate, ovvero in un rapporto di uguaglianza con Roma), i municipi (città peregrine capaci di elevare il proprio status e ai cui abitanti è accordato o il diritto latino o il diritto romano) e le colonie (in origine città di nuova fondazione con apporto di coloni cittadini romani e organizzate a immagine di Roma ma a partire da Claudio lo status di colonia poteva essere attribuito anche in forma onoraria). Si realizzava così una gerarchia tra le città tale da favorire lo spirito di emulazione che si sviluppava a partire dalla realtà vigente al momento della conquista, per cui se nell’Oriente ellenizzato l’esperienza cittadina si basava sulla lunga tradizione della polis e in Spagna, Africa e Sicilia le tradizioni greche si mescolavano a quelle fenicie e puniche, nell'Europa continentale alcune zone potevano vantare tradizioni celtiche ma altrove, ad esempio in Germania, non vi era alcuna cultura di tipo urbano. L’assimilazione di aspetti del diritto e il riconoscimento delle autorità e dell’amministrazione romana non significarono automaticamente un livellamento di tutti gli aspetti sociali e culturali. Marco Aurelio succedette ad Antonino Pio senza problemi e sorprese tutti quando, recuperando quanto preordinato da Adriano, appena divenuto imperatore pretese e ottenne che anche il fratello adottivo Lucio Vero fosse riconosciuto come tale e condividesse il potere con lui nel primo caso di “doppio Principato” in un vincolo dinastico rafforzato con la promessa a Lucio della secondogenita di Marco. Cospicua parte delle fonti letterarie propose un contrasto tra i due assegnando al primo tutte le virtù e facendo dell’altro un indolente vizioso. In ogni caso Marco Aurelio avrebbe speso gran parte del suo impero impegnato in guerra sulle frontiere -rimase a Roma in tutto pochi mesi nel 169 d.C. e poi tra il 176 e il 178. Fin da subito vi furono agitazioni sui confini in Britannia, in Germania e in Rezia, sedate con relativa facilità, mentre al 161 d.C. risale la riapertura della questione partica quando Vologese IV decise di occupare l’ Armenia per poi dilagare in Osroene e in Siria. Si aprì un lungo conflitto articolato in tre fasi, armeniaca (fino al 163 d.C.), partica (163-165 d.C.) e medica (165-66 d.C.) e chiuso nel 166 d.C. con la conclusione di una pace probabilmente affrettata dall’epidemia di peste (più probabilmente morbillo o vaiolo) dilagante in Oriente, per cui Armenia e Osroene vennero affidate a principi clienti sotto la protezione dei legati di Cappadocia e Siria e le truppe romane occuparono le sponde dell’Eufrate fino a Dura Europos, in un importante avanzamento che forse favorì l’apertura di nuove rotte commerciali con l’estremo Oriente (risale al 166 d.C. la testimonianza di un’ambasceria di mercanti romani in Cina). D’altro canto a causa della guerra la peste arrivò anche in Occidente e i popoli del nord-est (sui quali premevano già altre popolazioni di ceppo germanico), constatato lo sguarnimento della frontiera, si fecero pericolosi. Le scorrerie tra Reno e Danubio avevano avuto luogo almeno dal 160 d.C. ma fu nel 166 che Quadi, Marcomanni e almeno un’altra decina di popoli germanici e sarmatici si riversarono sulle zone mal difese della Rezia, del Norico, della Pannonia e della Mesia giungendo a minacciare l’Italia (v. assedio di Aquileia). La risposta di Marco Aurelio e Lucio Vero iniziò nel 168 con la creazione di una grande zona militare unificata, la praetentura Italiae et Alpium ma subì un duro colpo già nel 169 con l’improvvisa morte di Lucio per un attacco apoplettico; di nuovo sul fronte nel 170 a Sirmio, in Pannonia, l’imperatore non riuscì ad avviare un’offensiva risolutiva almeno fino al 171-172 d.C., quando le operazioni militari, complici le trattative diplomatiche condotte allo scopo di spezzare la coalizione nemica, si spostarono finalmente in territorio nemico sconfiggendo prima i Marcomanni e poi i Quadi (173 d.C.). Marco Aurelio lasciò il fronte danubiano solo a metà del 175 quando il fratello Avidio Cassio, probabilmente ingannato da informazioni false sulla morte del princeps, si era fatto proclamare imperatore per essere poi assassinato dalle sue stesse truppe. Nel 177, dunque, ripetendo lo stesso schema inaugurato all’inizio del suo impero, si associò come coreggente il figlio Commodo, portandolo con sé al fronte quando nel 178 Marcomanni e Quadi si ribellarono per le dure condizioni di pace; le legioni sarebbero penetrate oltre al Danubio per centinaia di chilometri col chiaro intento di procedere all’annessione ma l’operazione fu bruscamente interrotta dalla morte di Marco Aurelio (17 marzo 180 d.C.). In politica interna Marco Aurelio operò in continuità coi suoi predecessori, introducendo un compenso trecenario (caso unico fin qui per il ceto equestre) per il capo supremo dell’amministrazione finanziaria (a rationibus o rationalis) e generalizzando il registro delle nascite dei cittadini romani. Seguace della dottrina stoica, Marco Aurelio è passato alla storia come l’immagine stessa dell’imperatore-filosofo. Commodo, il primo principe già “nato in porpora”, ci viene narrato dalle fonti come la perfetta antitesi del genitore per quanto ad oggi possiamo affermare come il suo governo fu variamente connotato a seconda dei collaboratori e dei ministri di cui si avvalse, finendo per abbandonare loro completamente la direzione dei pubblici affari. In ogni caso Commodo restò sul fronte per oltre sette mesi dopo la morte del padre (arrivò a Roma il 22 ottobre 180), per poi decidere di non proseguire le ostilità e di rinunciare al progetto del padre di una maggior presenza romana in Europa settentrionale, preferendovi la creazione di una rete di clientele in un'ottica di rafforzamento del limes. Commodo subì un primo tentativo di congiura nel 182, a cui seguì la rottura del principe con i parenti ed una lunga serie di epurazioni nella quale caddero anche figure di spicco come il prefetto del pretorio Tigidio Perenne, poi sostituito dal liberto frigio Marco Aurelio Cleandro. I numerosissimi processi per tradimento furono presumibilmente motivati anche dalla necessità di rimpinguare le casse dello Stato, messe a dura prova dalla continua organizzazione di lussi e giochi per la plebe di Roma. Altro importante fenomeno di opposizione fu quello che vide un disertore, Materno, riunire numerose bande armate attive tra Gallia e Spagna per recarsi a Roma attentare alla vita stessa del princeps durante la processione della Magna Mater (27 marzo 188). Morto Cleandro, Commodo si diede come mai a dimostrare la sua prodezza nell’arena, fatto che, insieme alle inclinazioni dispotiche e alle innovazioni in campo religioso (giunse alla pretesa di rifondare Roma come Colonia Commodiana), determinò la definitiva rottura col senato. Tra il 190 e il 192 l’imperatore abbandonò di nuovo il governo ad un cortigiano, Eclecto, alla sua nuova concubina Marcia e al prefetto del pretorio Quinto Emilio Leto i quali, temendo per la propria vita, furono gli stessi ad ordire la congiura nella quale perì il princeps il 31 dicembre 192. Tutto il consenso che Commodo era stato capace di costruirsi era tra la plebe di Roma e i pretoriani, ma è indubbio che sotto di egli vi furono importanti fenomeni di integrazione della cultura provinciale, specie con l'accoglimento nel pantheon romano di molte divinità straniere (la Magna Mater, Serapide, Iuppiter Dolichenus, Mitra...) volto anche alla creazione di un carisma divino intorno a sé stesso, fino a proporsi come divinità in terra. Alla sua morte Commodo subì la damnatio memoriae, ma venne poi riabilitato da Lucio Settimio Severo (195 d.C.). Uno dei fattori fondamentali per comprendere l’economia dell’Impero Romano è l’eccezionale fabbisogno alimentare dell’Urbe, ormai oltre il milione di abitanti (verosimilmente % dell’intera popolazione italiana), che ci permette di parlare del servizio annonario per la capitale come una circolazione di prodotti priva di pari, quantitativamente e qualitativamente, in tutto il Mediterraneo antico. Lo stesso apparato statale rappresentò un importante incentivo per la produzione e la circolazione di beni, in particolare relativamente all’esercito che assorbiva gran parte del bilancio dell’Impero e ne condizionava l'economia. È difficile stabilire se vi fosse effettivamente un’economia definibile di mercato (restiamo in un sistema precapitalista), ma è indubbia l’esistenza di circuiti regolari di scambio quantomeno entro il bacino del Mediterraneo, cui principali motori propulsivi furono la necessità di approvvigionamento alimentare di Roma e l’annona militare. Il grado di sviluppo raggiunto dall’economia romana all’inizio dell’età imperiale raggiunge proporzioni tali da richiedere una categorizzazione a sé stante, volendo di “peculiare economia preindustriale”. Viene oggi ridimensionato il problema del mancato sviluppo tecnologico, per cui possiamo affermare che se difficilmente un’invenzione veniva perseguita era frequente che un’innovazione (specie se finalizzata a modificare i modi di produzione rendendoli più efficienti e meno costosi) venisse recepita e sviluppata -v. ricorso a sistemi di rotazione delle colture. 5.1 La crisi del III secolo e le riforme di Diocleziano Il periodo compreso tra la morte di Commodo (31 dicembre 192) e l’ascesa al trono di Diocleziano (20 novembre 284) vide la profonda trasformazione dell’Impero romano: su tutte le frontiere la pressione degli attacchi si fece tale da metterne in pericolo l’integrità, esplose il problema dell’assenza di un sistema di successione rigorosamente definito (da cui la frequenza di generali vittoriosi che aspiravano al trono), molti nuovi culti, soprattutto orientali, si emanciparono da quelli tradizionali cittadini e una rapida svalutazione della moneta impoverì i ceti medi. Tutti questi elementi determinarono una profonda crisi morale ed una diffusa sfiducia nei valori tradizionali tali per cui è lecito parlare di questa come di “un’epoca di angoscia”. Tra l’altro, il III secolo fu fase decisiva per il costituirsi delle strutture primitive della Chiesa cristiana e del suo successo, ragion per cui proprio in questi anni si fece più dura ed evidente l’avversione da parte prontezza d’azione in caso di pericolo soffocando però il rischio di usurpazioni: ne derivò la tetrarchia, per cui l’Impero era guidato da quattro monarchi, due dei quali, gli Augusti, di rango superiore ai Cesari. Veniva così introdotto il principio della cooptazione. La tetrarchia ebbe attuazione progressiva, per cui nel 285 nominò Massimiano Cesare per elevarlo ad Augusto l’anno successivo, il disegno venne poi completato pochi anni dopo con la nomina a Cesari di due alti ufficiali, Galerio e Costanzo Cloro. L’unità dell'Impero era garantita dall’autorità del primo Augusto in un sistema che risultava notevolmente più funzionale, fondandosi sulla divisone delle aree di competenza (Diocleziano l'Oriente, Massimiano da Milano controllava Italia, Spagna e Africa, Galerio da Tessalonica Balcani e area danubiana e Costanzo Cloro da Treviri vegliava su Germania, Gallia e Britannia), con l’ovvia conseguenza di un profondo e irrimediabile svuotamento di senso degli organi della tradizione repubblicana. Ad aggravare ciò concorrevano l’appellativo dominus, la vita del sovrano in ritiro nel proprio palazzo e la metamorfosi del potere in “religione politica”. Altre riforme dioclezianee riguardarono l’organizzazione delle province, ridotte di dimensioni e tra le quali figurò anche l’Italia ormai priva di posizione di privilegio, cui governo venne assegnato perlopiù ad elementi del ceto equestre affiancati da duces nelle province di frontiera; furono dunque raggruppate in 12 “diocesi” rette da vicari, rappresentanti diretti del prefetto del pretorio. Venne riformato anche l’esercito, non solo aumentando le legioni e ordinando la cavalleria in unità indipendenti, ma anche dividendo le forze armate, sulla scia di Gallieno, tra limitanei stanziati lungo le frontiere e comitatenses sottoposti al diretto seguito dei tetrarchi e concepiti come forza di pronto intervento in caso di emergenza. Sul piano fiscale venne riformata l’imposta fondamentale, quella sul reddito agricolo, fondata su di una particolare base imponibile che teneva conto del rapporto tra terra coltivabile (iugum) e numero di coltivatori (caput) a cui l’Italia provincializzata non fu più immune per la prima volta dal 167 a.C., su quello monetario vennero coniate monete d’oro e d’argento di ottima qualità a sostituire il vecchio denario (di fatto una moneta di bronzo appena rivestita d’argento) e una moneta divisionale in rame, il follis. Diocleziano tentò inoltre di imporre un calmiere, comminando la pena di morte per chi non vi si attenesse (301), mentre in politica estera riuscì a stabilizzare le frontiere e a vincere i Persiani imponendo loro una pace onerosa (298). Di spirito conservatore e promotore di un’intensificazione del culto imperiale, Diocleziano fu istigatore di grandi persecuzioni contro i cristiani proceduta dapprima con la distruzione dei luoghi e del materiale di culto (febbraio 303), poi con l’arresto dei sacerdoti e infine con l’obbligo di sacrificio per tutti (primavera 304). Questa serie di editti vide la propria massima applicazione in Oriente nei territori sottoposti a Diocleziano e Galerio, mentre in Occidente e specie dove regnava Costanzo Cloro la repressione fu più blanda e di durata contenuta. Più avanti anche Galiero decise di recedere da tale politica repressiva, accettando come vero il dio dei cristiani e di fatto riconoscendone il culto come religio licita (30 aprile 311). L’impero di Diocleziano (e quello di Massimiano) finì pacificamente il 1° maggio del 305, coni Cesari salire al posto dei precedenti Augusti: il sistema della tetrarchia, apparentemente vincente, collassò già l’anno successivo quando, alla morte di Costanzo Cloro, l’esercito proclamò imperatore suo figlio Costantino, mentre anche il figlio di Massimiano, Massenzio, rivendicò per sé il potere imperiale. 5.2 Da Costantino a Teodosio Magno: la Tarda Antichità e la cristianizzazione dell’Impero Il periodo che inizia con Costantino e che arriva sino a Giustiniano occupa un posto a sé stante nella periodizzazione storica, un tempo indicato come “Basso Impero”, termine che contiene in sé l’idea di questa come una fase di inarrestabile declino, e oggi come “Tarda Antichità”. La caratterizzazione negativa del periodo si doveva princiaplemente a due fattori, la forma politica del Dominato e la netta distinzione fra honestiores e humiliores propria dello Stato coercitivo. Indubbia è ormai la vitalità delle esperienze culturali e artistiche di quest’età, così come certa è la trasformazione apportata dalle riforme di Diocleziano e Costantino, a partire dalla forte pressione sulla società necessaria per il mantenimento della burocrazia e dell’esercito. Il governo dello Stato è detenuto dai direttori delle più alte cariche civili e militari e l’allontanamento dell’imperatore da Roma implica un distacco dell’aristocrazia senatoria dagli organismi di potere; scompare il ceto equestre, assorbito in quello senatorio, ed è evidente la fine del potere reale del senato, in questo frangente definito da alcuni (esageratamente) come il “consiglio municipale” di Roma. In ambito economico la Tarda Antichità presenta elementi di vitalità nelle sue articolazioni fondamentali, in un contesto lungi dal presentare caratteristiche prefeudali ma che vede l’affermarsi del colonato come immobilizzazione della forza-lavoro agricola col sistema del patrocinium (patronato dei grandi proprietari terrieri sui propri dipendenti). Non presenta invece tratti di immobilismo la società, al contrario ricca di possibilità di ascesa sociale nell’amministrazione come nell’esercito. Il termine “Tarda Antichità” venne coniato a Vienna dallo storico dell’arte Alois Riegl individuando un’originale “intenzione artistica” sintesi di volontà e sensibilità espressive innestate sulla tradizione classica ma che se ne distaccavano evidentemente; se controverso è il momento iniziale della Tarda Antichità, è grossomodo accettato come questa finisca con l’invasione longobarda in Occidente (568 d.C.) e con la fine del regno di Giustiniano in Oriente (565). Età di forti contraddizioni, malgrado la cristianizzazione si assiste al montare dei caratteri autoritari e repressivi con l'ampliamento nell’uso della tortura, l’appesantimento delle pene detentive e il perseguimento della sofferenza del condannato nei casi di pena di morte. Non è chiaro se questa vera e propria crudeltà giudiziaria -alla quale pur si accompagna un miglioramento della posizione di donne e schiavi- origini dalla dottrina stoica o dal cristianesimo, mentre risulta più chiaro il parallelismo con le tendenze assolutistiche e il tentativo di rispondere alle difficoltà incontrate nel far rispettare le leggi. Tra II e III secolo assistiamo all’esaurimento del ciclo della villa schiavistica come centro produttivo autonomo, per cui la produzione viene decentrata in varie unità minori sulle quali predomina la conduzione indiretta tramite grandi e piccoli affittuari senza che vi sia una contraddizione con la concentrazione fondiaria in atto. Le incursioni barbariche determinarono invece la chiusura dei circuiti commerciali mediterranei (da cui l'avvicinamento di Roma all'Africa per rispondere ai fabbisogni alimentari) in un contesto di accrescimento del fiscalismo. Gli anni successivi la morte di Costanzo Cloro segnarono il fallimento del sistema tetrarchico, testimoniato già nel 310 d.C. quando Costantino abbandona l’ideologia dioclezianea per aderire ad un culto solare monoteistico e dunque al cristianesimo subito dopo aver sconfitto l'avversario Massenzio nella battaglia di ponte Milvio (312), secondo la tradizione vinta nel segno di Cristo. La conversione al cristianesimo di Costantino fu evento di portata rivoluzionaria, apparendo più in sintonia col suo tempo che non il padre della tetrarchia fautore di una versione aggiornata della religione tradizionale di Roma. Nel febbraio del 313 l’Augusto d'Occidente de jure Licinio si incontrò con Costantino a Milano accordandosi sulle questioni fondamentali di materia religiosa, promulgando il cosiddetto “editto di Milano” a cui probabilmente si devono solo misure applicative ed integrative relativamente l’Oriente circa la tolleranza esposta nell’editto di Galerio contenute in una lettera con cui Costantino annunciava la sua vittoria a Massimino. I contrasti tra i due Augusti iniziarono presto e proseguirono fino al 324, anno della battaglia di Adrianopoli nella quale Licinio venne sconfitto. Nel frattempo Costantino confermò la sua linea di aperto sostegno e vicinanza al cristianesimo convocando sinodi a partire da quello di Arles del 314. Sul piano amministrativo Costantino raggruppò le diocesi di Diocleziano in quattro grandi prefetture (Gallie, Italia e Africa, Illirico e Oriente) ognuna retta da un prefetto del pretorio e si riformò anche il governo dell’Italia, definitivamente equiparata a qualunque altra regione dell’impero ma con la peculiarità di essere la sola diocesi retta da due vicari, il vicarius Italiae di stanza a Milano e di istituzione dioclezianea e il vicarius urbis con sede a Roma, evoluzione del preesistente supplente del prefetto del pretorio. Venne inoltre costituito l’ordine dei comites, dal 330 distinti secondo gradi, cui ruolo politico iniziò a prevalere su quello dei prefetti del pretori, figure ormai sempre più periferiche -venne perso il controllo diretto sulle truppe, ora di competenza dei magistri militum. L’esercito venne riformato sulla scia della separazione tra limitanei e comitatenses senza però riuscire a superare il problema militare e in primis la mancanza di soldati che vennero sempre più arruolati fra i barbari -la politica di assorbimento si era rivelata, insieme al continuo impiego di tutte le risorse dell’apparato militare, una delle due possibili soluzione alla questione germanica pur al costo di una “barbarizzazione della società”. Grande costruttore, la più grande opera di Costantino fu indubbiamente la nuova capitale, Costantinopoli (la data tradizionale, il 330, è quella della dedicatio-consecratio mentre i lavori iniziarono nel 325), progettata come una nuova Roma tanto da riproporne monumenti e urbanistica fino ad avere un suo proprio senato -poverissimo di prestigio. Tale atto presupponeva un valore per sé (si affermava una nuova concezione del governo dell’Impero che mirava alla collaborazione con le élite provinciali mediata dall’amministrazione di corte) e anche uno in sé (fondare una capitale è gesto imperiale per eccellenza). La conversione di Costantino risulta una questione problematica, sicuramente dettato da ragioni politiche come fu l’editto di tolleranza di Galiero e come testimonia la monetazione che continua a proporre il Sol ma anche da un’adesione sincera compiuta nel battesimo (337). Costantino morì nel giorno di Pentecoste, il 22 maggio del 337, considerandosi “isoapostolo” e “vescovo di quelli che sono fuori” ma conservando la carica di pontefice massimo della religione pagana. Sorprendentemente Costantino non si occupò mai in modo coerente della sua successione; la divisione in prefetture fa ipotizzare una proposta di tetrarchia per i suoi figli e nipoti ma è poco plausibile bramasse un collegio di imperatori in rapporto paritario tra loro. L’esercito preferì però una rigida successione dinastica favorendo, col massacro dei nipoti, dunque vi fosse un accordo di governo congiunto tra i figli Costantino II, Costante e Costanzo rivelatosi tanto fragile che il primo venne uccio già nel 340 e il secondo nel 350. Il sopravvissuto Costanzo associò al trono il cugino, unico superstite alla strage del 337, Giuliano in un’altra soluzione poco stabile che non degenerò in un altro conflitto solo per l'improvvisa morte del figlio di Costantino (361). Il bagno di sangue posteriore alla sua morte rende quantomeno ambigua l’eredità di Costantino, sul piano istituzionale chiaramente fallimentare tanto da essere prodromica alla divisione ufficiale fra Oriente ed Occidente, tant’è che la sua memoria assolutamente positiva va ricondotta alla non coincidenza del destino dell’Impero con quello della Chiesa, in fortissima ascesa anche grazie all'operato di Costantino tutt'ora celebrato e circondato da mitologia di carattere agiografico (v. inventio crucis). Giuliano regnò come imperatore unico per appena due anni, nei quali tentò un programma di ampio respiro volto ad un’amministrazione onesta e rivitalizzazione del ruolo delle città (in un’epoca di declino generale del sistema urbano) fallito a causa della guerra coi Persiani e dalle tensioni interne suscitate dal suo tentativo di reinstaurare il paganesimo che gli era valso l’epiteto di Apostata e che si caratterizzò tanto con misure discriminatorie quanto in un tentativo di riformare la religione tradizionale anche imitando il proselitismo e l’assistenzialismo dei cristiani. Morto durate un’offensiva in Persia, gli succedette il cristiano Gioviano, prosecutore della spedizione in un clima politico molto teso e improvvisamente defunto nel febbraio 364, venendo sostituito dal suo ufficiale di recente e rapidissima carriera politica Valentiniano. Costui si scelse immediatamente un collega, il fratello Valente (Augusto già dal marzo 364) al quale assegnò l'Oriente, preferendo lui concentrarsi soprattutto sulla Gallia a consolidare il confine renano, organizzando anche una spedizione al di là del fiume, l’ultima che vide l’esercito romano vittorioso oltre i suoi confini (368). Pur avendo Valentiniano elevato alla dignità augustea il figlioletto Graziano (367), quando morì (375) l’esercito elesse l’altro figlio ancora bambino, Valentiniano II, al fine di rafforzare la dinastia e la stabilità interna. L’obiettivo fu raggiunto, riuscendo a reggere all’impatto della sconfitta di Adrianopoli, battaglia campale tragicamente persa da Valente contro i Goti, dilagati in Tracia sotto pressione degli Unni; la disfatta rese centrale il tema della convivenza coni barbari, particolarmente caro a Teodosio, generale spagnolo chiamato come collega da Giustiniano alla morte di Valente. Consapevole di non poter cacciare i Goti, Teodosio vi strinse un accordo che ne faceva foederati tenuti a fornire truppe a Roma ma garantiva loro un territorio autonomo e il mantenimento dei propri capi e delle proprie leggi (382). Nel 383 ci fu un’usurpazione in Britannia da parte dell’ufficiale Magno Massimo, per espandersi prima in Gallia — fatto che spinse Graziano al suicidio- e poi in Italia, provocando la risposta di Teodosio che ne ebbe ragione (388). Teodosio dovette affrontare una nuova crisi quando il generale franco Arbogaste fece assassinare Valentiniano Il e nominò imperatore il retore Eugenio (392), vincendo anche lui sul fiume Frigido già nel 394. Interessato alle questioni religiose, l’imperatore emesse nel 380 il fondamentale editto con cui il cristianesimo era riconosciuto come religione ufficiale dell’Impero; l’anno dopo convocò un concilio a Costantinopoli per ribadire il credo niceno e promulgò una legislazione sempre più dura contro i seguaci del paganesimo. Protagonista degli ultimi decenni del IV secolo sarebbe stato il vescovo di Milano Ambrogio, simbolo dello stretto intreccio fra religione cristiana e vita politica tanto forte da poter costringere Teodosio ad una penitenza pubblica (Natale 390). Il sovrano tardoantico necessitava di individuare una sorgente di legittimità che fosse alternativa al senato, uscito debolissimo dalla crisi del III secolo, e venne individuata nelle teorie ellenistiche che volevano il sovrano immagine dell’ordine divino sulla terra che governava come “legge vivente” pur non essendovi sottoposto in virtù del suo ruolo. La semi-divinità si spiega inoltre col dovere di incrementare il sentimento morale dei sudditi dovendosi dunque presentare come “icona” della divinità -il monarca come unico intermediario per arrivare al cielo. La sacralizzazione dell’imperatore non nasceva dal nulla (lo stesso appellativo Augusto suggerendo l’idea di una persona posta al di sopra degli altri ne è la prova) e trova un suo affascinante parallelismo nell’avversario storico di Roma, la Persia, dove i sovrani sasanidi si ponevano come “rappresentanti e promotori della religione di Zaratustra”. L'imperatore tardoantico è tale per “grazie dell’organizzazione villica (cereali, vite, olivo) anche a causa dell’importante calo demografico che produsse un generale abbandono dei campi, divenuti inadatti a queste produzioni, e un’adozione per necessità del sistema “silvo-pastorale” tipicamente germanico. L’Italia aveva conosciuto un certo periodo di ripresa nell’età di Teodorico (488-526), con la rinascita di agricoltura e commercio, cui frutti vennero bruscamente interrotti dallo scoppio della violentissima guerra greco-gotica che, specie negli anni tra il 541 e il 552, vide l’apice degli abusi a danno dei civili da parte di ambo le parti. 6.3 Bisanzio Del tutto distinte rispetto quelle dell’Occidente, le vicende dell’Impero d’Oriente finiscono per questo dal 395 sotto la categorizzazione di “storia bizantina”. Primo imperatore d'Oriente fu il figlio di Teodosio Arcadio, a cui seguì nel 408 Teodosio II, nel cui lungo regno Bisanzio dovette fronteggiare la minaccia barbarica rappresentata in primo luogo dagli Umni , riuscendo a non subire importanti perdite territoriali e mantenendo la compattezza interna a tal punto da riuscire a gestir anche i Persiani. Giustiniano fu anche promulgatore di una raccolta delle leggi imperiali, il Codice Teodosiano del 438. La seconda metà del V secolo venne turbata soprattutto dalle controversie religiose ma anche da problemi finanziari, in una duplice crisi risolta da Anastasio, capace inoltre di bloccare una vasta offensiva Persiana nel 502-503. Nel 527 divenne imperatore Giustiniano, cui progetti (realizzati e non) di ricostruzione dell’ Impero rappresentano l'estrema conclusione del mondo antico. Nel 528 costituì una commissione, presieduta dal giurista Triboniano, predisposta a raccogliere le costituzioni imperiali cui risultato, il Codex Iustinianus, rappresenta il primo nucleo del Corpus Iuris Civilis, la straordinaria raccolta del diritto romano nella quale entrarono anche i 50 libri del Digesto e le Istituzioni. Giustiniano non godette del favore degli storici contemporanei, anche per l’influenza della moglie, l’ex ballerina Teodora, aderente al credo monofisita (molto forte in Siria ed Egitto) mentre lui si fece difensore dell’ortodossia, ribadita col concilio di Calcedonia del 451 in intesa col papato -fu infatti imperatore molto vicino alla Chiesa, come testimonia anche la chiusura della scuola di Atene (529). Nessuno di questi problemi distolse Giustiniano dai progetti in politica estera, sicché già nel 533 il generale Belisario sconfisse l’ultimo sovrano vandalico, Gelimero, ottenendo dunque Africa, Sardegna e Corsica, mentre più lunga e difficile fu la conquista dell’Italia -la guerra greco-gotica durò infatti dal 535 al 553. Divenuta prefettura dell’Impero, l’Italia venne affidata ad un prefetto del pretorio e la vita politica riorganizzata con la Prammatica sanzione del 554, in una vasta opera di restaurazione interrotta già nel 568 dall’arrivo dei Longobardi. La capitale dell’Impero, Costantinopoli, visse uno straordinario sviluppo demografico, complici l’intensa attività economica e le distribuzioni alimentari gratuite, che ne quintuplicò gli abitanti in appena un secolo. Il re e la sua corte vivevano completamente separati, seguendo un cerimoniale minuzioso volto a enfatizzarne la sacralità; l’imperatore bizantino, inizialmente dotato dei connotati del capo scelto per volontà popolare, trova una nuova legittimazione nell’investitura per grazia divina in un’ideologia che vide il supporto della Chiesa e il corroboramento di una serie di simboli come il complesso del palazzo imperiale. Nella società bizantina, di cui altro tratto peculiare sono i funzionari della burocrazia e dall'VIII secolo le alte gerarchie ecclesiastiche, non esistono cittadini ma sudditi e questo viene ricordato dal gesto della proskunema. Questo ruolo del sovrano ben si spiega col concetto di taxis, l'ordine cosmico immutabile in quanto voluto da Dio di cui quello terreno non è che un pallido riflesso esigendo l’immobilità sociale. Ruolo di primissimo livello è quindi quello svolto dalla Chiesa (città-vescovi, capoluoghi-metropoliti, città maggiori-arcivescovi, Costantinopoli, Antiochia e Alessandria-patriarchi), creando non pochi inconvenienti cadendo questa sotto tutela dello Stato. Assunse grandissimo ruolo il monachesimo, necessario per raggiungere la santità non essendo più possibile il martirio, e furono numerose le controversie religiose interne che si può dire si svilupparono insieme all'Impero stesso. Maggiori scuole teologiche a confronto furono quella di Antiochia, sostenitrice della convivenza in Cristo di due nature distinte, e quella di Alessandria che ne affermava la piena unità; il conflitto scoppiò quando divenne patriarca di Costantinopoli l’antiocheno Nestorio (428) suscitando le reazioni dell’alessandrino Cirillo, poi impostosi al concilio appositamente convocato ad Efeso. Un’ulteriore eresia, stavolta di origine alessandrina fu invece condannata al concilio di Calcedonia del 451. Il sistema politico vigente fin da subito a Costantinopoli fu il cosiddetto “cesaropapismo”, speculare alla teocrazia presupponendo non un patto speciale con Dio e un trasferimento di diritti ma un sovrano che pretende di agire come se fosse un papa -si affermava invece in Occidente una forma di governo che permettesse la rapida risposta a problemi puramente mondani e contingenti- il che spiega anche l’irruento interventismo nei concili interrotto per la prima volta da Teodosio II, nel 431 rimessosi alla volontà dei vescovi. Già nei primi secoli e specialmente con Giustiniano l'Impero si dotò di istituzioni assistenziali per i poveri, riuscendo al contempo a giustificare l'immensa ricchezza e i privilegi della Chiesa proprio in tal senso. La legislazione si occupò principalmente degli effetti della povertà sull’ordine pubblico, privilegiando dunque gli invalidi e i minori -laddove i validi furono addirittura respinti dalla capitale. È ormai completamente superato il potere personale del principato di Augusto, essendo divenuto ormai l’imperatore un autocrate dallo status sovrumano al governo per “grazia divina” mente in Occidente i nuovi regni romano-barbarici organizzati intorno a capi militari costituivano le condizioni per un’organizzazione economico-politica del tutto nuova. La frattura più grave arrivò forse però con la rottura dell’unificazione politica e della pacificazione del Mediterraneo, tra il VI e il VII secolo definitivamente compromessi dall’occupazione longobarda in Italia e dal dinamismo degli Arabi, portatori di una nuova fede, l’Islam, mentre si aggravava frattura religiosa anche dentro alla cristianità nel conflitto fra papato romano e Costantinopoli.
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