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Riassunto manuale "Un altro Novecento" di Stefano Bottoni, Appunti di Storia dell'Europa Orientale

Riassunto manuale di storia dell'Europa orientale: "Un altro Novecento", di Stefano Bottoni.

Tipologia: Appunti

2022/2023

Caricato il 10/01/2023

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alessandro.neri4 🇮🇹

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Scarica Riassunto manuale "Un altro Novecento" di Stefano Bottoni e più Appunti in PDF di Storia dell'Europa Orientale solo su Docsity! 1 STORIA DELL’EUROPA ORIENTALE “Un altro Novecento” CAPITOLO 1 L’Europa orientale nel periodo interbellico 1.1 La pace di Versailles e il nuovo assetto esteuropeo L’Europa degli Stati nazionali nacque, nella sua metà orientale, con il crollo dei tre grandi imperi multinazionali: asburgico, russo, ottomano. Le crisi finali di questi imperi si consumò in uno spazio di tempo breve: tra il 1908 (rivoluzione dei “Giovani Turchi”) e il 1923 (nascita della Repubblica Turca). Nel frattempo, si disgrega anche l’impero russo dei Romanov e quello asburgico. Il conflitto del 1914-18 contribuì in modo decisivo a disegnare una nuova Europa. Nacquero, o rinacquero, infatti, nuovi Stati dalla dissoluzione degli imperi: la Jugoslavia, Cecoslovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Austria, Ungheria. Alcuni di questi nuovi Stati, come la Jugoslavia, rappresentano una novità assoluta. Gran parte dell’opinione pubblica centroeuropea era convinta che solo lo smembramento degli imperi e la creazione di Stati-nazione avrebbero permesso di stabilire un equilibrio stabile in Europa. Una delle conseguenze dell’assetto di Versailles fu la creazione, intorno allo stato sovietico, di un “cordone sanitario”, inteso ad impedire la bolscevizzazione dell’Europa centrale. In questa direzione nasce, nel 1923, la “Piccola intesa”, un’alleanza difensiva tra Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania. Inoltre, l’Austria venne ridotta ad un piccolo Stato, ad un’entità politica di scarsa rilevanza, addirittura priva di un esercito permanente. Nel caso dell’impero ottomano, la sconfitta militare nella Prima guerra mondiale segnò il momento culminante di una crisi ormai secolare. 1.2 Stati nazionali e minoranze etniche: modelli e pratiche Il nuovo assetto europeo si ispirava al principio wilsoniano di autodeterminazione dei popoli, e lo Stato nazionale come organismo alla base dei rapporti internazionali. Il superamento della fase degli imperi multinazionali era considerato nel primo dopoguerra come un segno di progresso politico e culturale. Tuttavia, la discrepanza fra confini politici ed etnolinguistici che avevano caratterizzato gli imperi multinazionali, venne a riprodursi anche nelle formazioni nazionali. 2 Il problema delle minoranze emerse sin dall’inizio come una delle principali minacce alla sicurezza europea. I problemi territoriali riguardavano sia gli sconfitti che i vincitori. Anche i vincitori, infatti, erano divisi da problemi territoriali in grado di paralizzare ogni idea di cooperazione interstatale e interetnica. Nel 1919 i legislatori europei imposero a vincitori e sconfitti la stipula di un trattato con il quale gli Stati si impegnavano a difendere le popolazioni allogene, attraverso forme di autonomia culturale, religiosa e proteggendo la lingua minoritaria. Ciononostante, tutto ciò non si dimostra in grado di appianare i principali conflitti tra Stati e minoranze. La macchinosità e l’inefficienza del sistema elaborato dalla Società delle nazioni furono oggetto di durissime critiche da entrambe le parti del conflitto. Un caso a parte era costituito dalle comunità ebraiche, molto numerose in Ungheria, Romania e Polonia. In tutti gli stati post imperiali, gli ebrei vennero classificati come una minoranza etnica. Dopo la Prima guerra mondiale, infatti, aumentano le discriminazioni di tipo antisemita, le quali si nutrivano anche di rivendicazioni socioeconomiche contro il “capitale ebraico”. Negli ani trenta, vi è una crescente influenza delle teorie razziali nazionalsocialiste di estrema destra. Nonostante le molte discriminazioni, gli ex popoli “imperiali” continuavano a credere nella possibilità di condurre un’esistenza normale, o perlomeno tollerabile, in uno Stato altro. 1.3 integrazioni, minacce esterne, problemi economici Il quadro internazionale La dissoluzione degli imperi e la nascita di molteplici Stati nazional, fondati sul principio di autodeterminazione dei popoli, i generarono una situazione di costante debolezza geopolitica dell’Europa centro-orientale. Era impossibile conciliare il principio di autodeterminazione dei popoli con i tre grandi obiettivi di Versailles: riduzione potenza tedesca, contenimento di quella russa, ristabilimento dell’ordine internazionale in Europa. Le principali potenze giudicavano in modo diverso i risultati delle conferenze di pace del 1919-20. Gli USA reagirono con un crescente isolazionismo, delusi dall’architettura diplomatica emersa. L’Italia manifestava pubblicamente la propria insoddisfazione per la “vittoria mutilata” e cercava soddisfazione nei Balcani. Le maggiori responsabilità per il mantenimento del nuovo equilibrio geopolitica ricaddero sulla Francia e sulla Gran Bretagna, divise fin dal 1919 sulla soluzione della questione tedesca. AI confini dell’Europa era nel frattempo comparso, dopo la vittoria nella guerra civile, un nuovo impero multinazionale: l’Unione sovietica, che dominò la politica estera fino all’ascesa al potere dei nazionalsocialisti in Germania (1933). 5 (23%). Alla divisione etnolinguistica si aggiungeva quella religiosa: il 48% della popolazione era di fede cristiano-ortodossa, il 37% cattolica e l’11% musulmana. Fin dalla nascita, il regno SHS si trovò a dover affrontare molti problemi. Innanzitutto, il dover governare un così vasto mosaico di fedi e nazionalità diverse, ma anche tentare di unificare le entità storiche che comprendevano il nuovo Stato. Nel 1921 venne approvata una Costituzione centralizzata, modellata su quella belga: lo Stato assunse formalmente la forma di una monarchia costituzionale, con un parlamento eletto ogni quattro anni e un sistema proporzionale a suffragio universale. Alle elezioni del 1920 il partito comunista jugoslavo emerse come la principale forza antisistema ma l’anno seguente venne dichiarato fuorilegge sino a che, nel 1940, il giovane Tito divenne segretario del PCJ. In quel momento, la crisi dello Stato favorì l’aumento del consenso per il movimento comunista, che sarebbe diventato il fulcro della resistenza militare all’invasione italo-tedesca. Tornando agli anni 20, la lotta fra i due principali gruppi politici (serbi e croati) si inasprisce ancora di più, fino ad arrivare ad un punto di non ritorno, con sparatorie all’interno del Parlamento. Dopo questo evento, il re Alessandro ne approfitta per sciogliere il parlamento ed instaurare una dittatura regia (gennaio 1929). Il paese venne denominato ufficialmente “Jugoslavia”. Un ulteriore crisi avviene nel 1934, quando un sicario terrorista ribelle, assassina il re Alessandro a Marsiglia, episodio che sbloccò la situazione politica. Il reggente, principe Paolo, ristabilisce condizioni minime di pluralismo, stabilizzò la situazione finanziaria e cercò accordi con i movimenti di opposizione e con i vicini (Ungheria e Bulgaria). 1.5 Vincitori e sconfitti: Polonia, Romania, Ungheria e Bulgaria La “seconda repubblica polacca” Cancellata dalle mappe geografiche in seguito alle tre partizioni della seconda metà del Settecento, la Polonia tornò ad esistere come Stato indipendente nel 1918 sotto il nome di Repubblica di Polonia. La ricostituzione di uno Stato polacco figurava anche nei 14 punti di Wilson: l’opinione pubblica occidentale considerava come un atto di giustizia storica la rinascita della Polonia. Questo grande Stato nel cuore dell’Europa, però, si scontrava con gli interessi di tutti i nuovi vicini. Le dispute più spinose con la Germania vennero solo in parte risolte dagli accordi di Versailles. La città portuale di Danzica, a maggioranza tedesca ma vitale per l’economia polacca, venne dichiarata territorio “libero”, indipendente. La regione della Slesia vene divisa fra i due Stati, attribuendo alla Polonia la parte orientale, più industrializzata. Quindi le frontiere definitive della Polonia ricostituita furono stabilite solo nel 1923. 6 All’insicurezza esterna si accompagnarono continue turbolenze politiche interne, che caratterizzarono le vicende della “seconda repubblica polacca” sino alla sua cancellazione nel 1939. Il problema polacco non risiedeva solamente nel carattere multietnico dello Stato, ma nel fatto che la Polonia si componeva di territori provenienti da diversi imperi, le cui regioni si trovavano in stadi di sviluppo economico e culturale diversi. Dal 1918 fino alla morte, avvenuta nel 1935, assoluto protagonista della vita polacca fu il maresciallo Pilsudski, comandante in capo delle truppe polacche e capo provvisorio dello Stato negli anni iniziali, prima di instaurare una serie di governi autoritari. Nel maggio del 1926 Pilsudski assunse i pieni poteri attraverso un colpo di Stato e dette inizio a un regime denominato sanacja (risanamento). La sanacja garantì stabilità politica e un importante consolidamento economico e sociale. Negli anni che seguirono la presa del potere da parte di Hitler, la Polonia si dedicò ad una maggiore attività internazionale, per la difesa e la sicurezza del paese, firmando trattati di non aggressione sia con la Germania che con l’URSS. Dopo la morte di Pilsudski, fino al 1939 la sua dittatura parlamentare venne sostituita da quella dei “colonnelli”, sotto la quale si rafforzarono i tratti autoritari e antisemiti del regime politico creato a partire del 1926. Il partito comunista polacco, fondato nel 1918, svolse, invece, un ruolo secondario nella vita politica interbellica. La “Grande Romania” La Romania uscì dal primo conflitto mondiale come uno dei principali beneficiari del nuovo assetto europeo. Dopo aver assunto inizialmente, pur alleata degli imperi, una posizione neutrale, nel 1916 cambiò alleanza ed entrò in guerra a fianco della Russia e dell’Intesa. La Romania, dopo la Prima guerra mondiale, entrò in possesso di ampi territori appartenenti all’Ungheria (Transilvania su tutti), all’ex impero zarista (Bessarabia), all’Austria e alla Bulgaria (Dobrugia). Particolarmente importante fu l’incorporazione dei territori ex ungheresi, economicamente sviluppati e abitati da più di 5 milioni di persone, maggiormente di origine romena. La Romania era e rimase sino alla fine della Seconda guerra mondiale uno Stato multinazionale e multiconfessionale. Anche sul piano religioso la “Grande Romania” conobbe profonde trasformazioni: accanto alla religione ortodossa si rafforzarono diversi culti minoritari, come quello cattolico e quelli evangelico-luterano e calvinista. L’era interbellica rappresentò per la Romania un periodo complesso, ricordato per lo slancio economico che l’unificazione dette alla modernizzazione e all’urbanizzazione del paese (grande crescita di Bucarest), ma anche per l’incapacità dello Stato romeno di integrare i suoi nuovi cittadini. La costituzione del 1923 definiva lo Stato una monarchia costituzionale, dotata di un Parlamento bicamerale. 7 Nel primo periodo di governo i liberali si proposero di centralizzare lo Stato, sopprimendo le autonomie locali. Il loro principale avversario rimase, fino alla fine degli anni Trenta, il partito nazionale contadino (PNT). A partire dal 1931 conquistò uno spazio parlamentare l’estrema destra, con la Lega per la difesa cristiano-nazionale. Ad essa, nella seconda metà degli anni Trenta, si sarebbe affiancata la ben più consistente Guardia di ferro, un partito-movimento carismatico paramilitare. Questi legionari romeni costituivano, caso unico nell’Europa orientale interbellica, un movimento realmente antisemita, che praticava l’assassinio politico nei confronti degli avversari. Nessuno spazio aveva, invece, nella vita politica romena il partito comunista. La vita politica romena si rivelò, però, instabile e fragile, a dimostrazione di ciò vi è il numero elevato di elezioni nazionali e continue cadute di governi. Inoltre, dal 1927, quella romena era una monarchia zoppicante, a causa delle difficoltà della famiglia reale, dopo la morte di re Ferdinando. Intano, lo spostamento a destra dell’opinione pubblica influenzava le scelte dei partiti e creava tensioni crescenti con le popolazioni non romene. Nel 1938 re Carol II, attraverso una dittatura personale, legittimata da una nuova Costituzione, tentò di costruire uno Stato corporativo, su modello di quello italiano. Nel 1940, ci fu una crisi politico-diplomatica quando, grazie all’intervento diplomatico tedesco, e italiano, l’Ungheria riottenne la metà settentrionale della Transilvania, l’URSS annetteva la Bessarabia in virtù del patto Molotov-Ribbentrop e la Bulgaria rioccupava la Dobrugia. L’Ungheria di Horthy Fra l’ottobre 1918 e il giugno 1920, l’Ungheria attraversò un periodo convulso. Alla sconfitta militare si accompagnò una rivoluzione democratica che portò alla proclamazione della repubblica, dove il nuovo esecutivo instaurò subito una dittatura del proletariato ispirata al modello sovietico.Questa dittatura era tuttavia osteggiata soprattutto dalla popolazione contadina. Quando, dopo un invasione romena, cade questa dittatura bolscevica, sale al potere Horthy, leader del Comitato antibolscevico, che, alla guida dell’Armata nazionale, sgombera Budapest dalle truppe romene. Il partito comunista ungherese venne dichiarato illegale e la campagna di repressione assunse presto un carattere antisemita. Fu poi approvata una nuova Costituzione nel febbraio del 1920, che restaurava la monarchia benché priva di sovrano. Il reggente Horthy firmò poi il trattato di pace che riduceva il paese a dimensioni trascurabili e imponeva all’Ungheria il pagamento di pesanti riparazioni e la riduzione dell’esercito. L’Ungheria, gravemente impoverita dal punto di vista demografico, restò isolata sul piano internazionale fino al 923,, anno del suo ingresso nella Società delle nazioni. Il paese si trasformò improvvisamente da impero multinazionale in piccolo Stato quasi omogeneo con un’importante comunità ebraica residente soprattutto a Budapest. 10 Cecoslovacchia, allo smantellamento delle forme democratiche di tipo Occidente e alla creazione di regimi autoritari. Dopo il 1945 si diffuse l’opinione che l’intera opera di pace di Versailles avesse generato una serie di “Stati falliti” in partenza. I regimi politici affermatisi nella regione dopo il 1918 non possono venire facilmente inclusi nella categoria “fascismo” e no ebbero un carattere totale, almeno siano allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Il fallimento di Versailles deve essere attribuito ad una combinazione di fattori interni ed esterni. L’Europa orientale nel 1923 11 CAPITOLO 2 La Seconda guerra mondiale 2.1 La sfida tedesca Alla fine degli anni trenta la Germania nazista iniziò a preparare il terreno per una guerra europea di conquista. Entro il 1941 tutti gli Stati falla regione orientale finirono per soccombere all’offensiva tedesca: come vittime aggredite militarmente (Polonia), come oggetto di occupazione militare (Cecoslovacchia), come alleati/satelliti (Ungheria, Romania, Bulgaria) o come Stati formalmente indipendenti ma in realtà vassalli del Reich Tedesco. La politica estera di Hitler mirava apertamente alla revisione del trattato di i Versailles e alla conquista dello “spazio vitale” per creare una patria di tutti i tedeschi che vivendo dispersi nell’Europa orientale. Uscita nel 1922 dalla Società delle nazioni e riottenuto il bacino della Saar ne 1934, la Germania annesse pacificamente l’Austria nel 1938, fatto che accelerò drammaticamente la crisi europea. Prima vittima di questa crisi fu la Cecoslovacchia, dove Hitler appoggiava il movimento dei Sudeti, autonomia dei Sudeti a cui si oppose il presidente della repubblica Benes. La guerra, che appariva inevitabile, venne temporaneamente evitata in seguito alla conferenza di Monaco del 29-30 settembre 1939. Hitler, Mussolini, Chamberlain e Daladier si accordarono sulla cessione alla Germania dei territori dei Sudeti. Lo stato cecoslovacco crollò sotto l’invasione tedesca senza opporre alcuna resistenza: il territorio cecoslovacco divenne il “Protettorato di Boemia e Moravia”.. Benes si dimise e la Piccola intesa, i cui membri non tentarono neppure di difendere l’alleato, ebbe fine. Apparve, tuttavia, evidente che Hitler non si sarebbe fermato alla Cecoslovacchia e rivolse la sua attenzione verso la Polonia, in particolare verso la città di Danzica e il suo corridoio. Alla richiesta della Germania alla Polonia di cedere Danzica, il governo polacco si oppose. E, mentre la guerra si faceva sempre più inevitabile, la Germania firmava con l’Italia il Patto d’acciaio, alleanza rivolta proprio contro la Polonia, le cui frontiere erano sulla carta garantite dagli anglo-francesi e dall’URSS. 2.2 Dal patto Molotov-Ribbentrop all’invasione tedesca dell’URSS, 1939-41 Il meccanismo dell’alleanza Il patto di non aggressione sovietico-tedesco, firmato il 23 agosto 1939 dai ministri degli Esteri von Ribbentrop e Molotov, rese possibile l’invasione nazista e sovietica della Polonia e, subito dopo, l’incorporamento nell’URSS del Baltico e delle regioni 12 romene della Bessarabia. La svolta per la firma del patto ci fu dopo Monaco, quando i sovietici interpretarono il consenso britannico e francese allo smembramento della Cecoslovacchia come un via libera alle aspirazioni tedesche sull’Europa orientale. I due regimi intravedevano nella temporanea collaborazione importanti vantaggi reciproci. Ma nel 1940 il successo tedesco nella campagna a ovest, con la capitolazione della Francia e l’attacco alla Gran Bretagna, mise in allarme le autorità sovietiche ma Stalin sembrò non comprendere, o sottovalutare, le areali intenzioni di Hitler, per diversi motivi. Resta il fatto che l’esercito sovietico, disposto in una postura offensiva e privo di linee di difesa efficaci, si ritrovò del tutto impreparato all’attacco del 22 giugno 1941. Conseguenze in Polonia, nel Baltico e in Romania In base all’accordo con l’URSS, la Germania attaccò la Polonia con una fulminante campagna lanciata il primo settembre 1939, conquistandola in poco tempo. Il 17 settembre, dopo il collasso militare della Polonia, Stalin ordinò l’invasione della sua parte orientale come previsto dal patto di agosto, sancendo la spartizione della Polonia. Oltre all’Estonia e alla Lettonia, nella sfera d’influenza sovietica venne compresa anche la Lituania, scambiata con i Tedeschi per alcune regioni della Polonia. Nel frattempo l’URSS attaccava la Finlandia, la cui accanita resistenza costrinse l’Armata rossa a stipulare un’accordo che confermava l’indipendenza del paese ad eccezione della regione della Carelia, passata in mani sovietiche. Fra il 1939 e il 1941 la Germania e l’URSS provvidero a riorganizzare gli ex territori polacchi. La parte conquistata dalla Germania venne denominata “Governatorato generale”, in cui la dittatura nazista introdusse un regime di selezione razziale e germanizzazione. I sovietici occuparono invece l’area orientale, con il pretesto di difendere le popolazioni ucraine e bielorusse che subivano discriminazioni da parte del governo polacco. Per i polacchi, la “rivoluzione portata dall’esterno” costituì una catastrofe, con violazioni di proprietà, nazionalizzazioni e una repressione sistematica (vengon uccisi 21.000 prigioni di guerra a polacchi a Katyn). Si moltiplicano le deportazioni in URSS di prigionieri e dissidenti. Dopo aver concluso la “guerra d’inverno” e assistito alla capitolazione della Francia, l’URSS avviò l’annessione e la sovietizzazione dei tre Stati baltici. Nel 1940-41 i nuovi governi baltici instaurarono dittature monopartitiche, su modello sovietico, e variano una campagna di repressione contro gli oppositori. Il patto Molotov-Ribbentrop ebbe effetti dirompenti anche sulla stabilità politica e territoriale della Romania, costretta a cedere all’URRS la Bessarabia. Inoltre si vede costretta a cadere anche la Transilvania all’Ungheria e la Dobrugia alla Bulgaria: è la Fione della “Grande Romania”. 15 Lotta di liberazione e guerre civili nei Balcani La resistenza militare all’invasione delle forze dell’Asse assunse un ruolo centrale in Grecia e in Jugoslavia dover nacquero veri e propri eserciti partigiani di liberazione nazionale, diretti dal partito comunista. In Jugoslavia la resistenza armata si organizzò intorno a due nuclei, molto diversi fra loro: i “cetnici”, gruppo monarchico capeggiato dal colonnello Mihajilović, che mira creare una “Grande Serbia”, e i “partigiani comunisti”, capeggiati dal segretario di partito, Tito, che mira a alla creazione di uno Stato di tipo sovietico. Vi erano differenze anche nelle tattiche di combattimento: i comunisti agivano in modo molto più spregiudicato. Proprio questa temerarietà, però, fece guadagnare ai partigiani di Tito un numero crescente di sostenitori. Al momento della liberazione di Belgrado da parte dell’Armata rossa e delle truppe partigiane, nel 1944, i guerriglieri di Tito superavano largamente i cetnici. Tito, già conosciuto a Stalin e ai vertici del movimento comunista, emerse dal conflitto come il leader carismatico di un grande partito radicato sul territorio. Alla guerra di liberazione nazionale jugoslava si associò una serie di conflitti in parte ereditati dalla prima esperienza jugoslava come il problema del Kosovo e la rivalità serbo-croata in Bosnia. Inoltre, un elevato numero di vittime fu causato nel 1944-45 dalle vendette organizzate da gruppi di partigiani, a volte sostenuti dalle nuove autorità, contro i collaborazionisti e le nazionalità “infedeli” (croati, sloveni, ungheresi e tedeschi). Tutto ciò portò ad una lunga serie di vendette e violenze nei Balcani, comprese quelle perpetrate ai danni degli italiani dell’Istria e della Dalmazia (le cosiddette “foibe”). 2.5 Gli alleati/satelliti del Reich La fascia di paesi alleati del Reich compresa tra la Slovacchia e la Bulgaria costituì una zona relativamente pacifica fino al 1944. Essi dipendevano economicamente dal Reich in diverso grado. I satelliti del Reich si trovavano di fronte a un dilemma comune dopo la battaglia di Stalingrado (febbraio 1943): come uscire da un’alleanza ormai perdente senza rischiare si venire temporaneamente invasi dall’ex alleato o dall’Armata rossa. L’Ungheria dalla pace armata alla catastrofe Fino al marzo 941 l’Ungheria viveva in una sorta di neutralità armata e aveva ottenuto territori importanti senza dover combattere (Slovacchia meridionale e la Transcarpazia e la Transilvania settentrionale). Il sistema politico restava dominato dal “parlamentarismo autoritario”. Il momento della svolta si produsse nel marzo del 1941 in conseguenza dell’attacco alla Jugoslavia, dove il primo ministro Teleki era chiamato a scegliere fra schierarsi coll’alleato jugoslavo e perdere l’appoggio nazista 16 (con cui aveva firmato un patto di amicizia) o spartirai il bottino con Hitler. Teleki, divorato dal dubbio, si suicida Il nuovo governo opta per partecipare alla spartizione, ottenendo molti territori: si crea una “Grande Ungheria”, con confini molto più estesi di prima, ma privi delle province più ricche di materie prime. L’ultima possibilità di staccarsi dall’alleanza con la Germania fu nel 1942, con il cambio di governo. Il nuovo premier Kallay attua una o politica moderata e si oppose alle richieste tedeschi, cercando di sganciarsi dal conflitto. Nel marzo 1944, in seguito all’occupazione tedesca del paese, Kallay tenta la fuga viene deportato; Horthy è costretto a scegliere un nuovo Pirro ministro impostogli da Hitler. Da questo momento si intensificarono le violenze e le deportazioni degli ebrei. La situazione politica precipitò in autunno 1944 quando il collasso del frontale portò all’avanzata sovietica in Ungheria. Horthy prova un maldestro tentativo di abbandono dell’alleanza, venne deposto e Hitler insediò al potere un governo filonazista. Budapest, scelta come ultima linea difensiva antisovietica, venne sottoposta ad un assedio devastante. La liberazione da parte sovietica, 4 aprile 1944, colse l’Ungheria in uno stato di completa impotenza politica e prostrazione morale. La Romania del maresciallo Antonescu Le gravi perdite territoriali (oltre un terzo del paese) subite nel 1940 per mano sovietica, ungherese e bulgara, determinarono una gravissima crisi politica in Romania. Re Carlo II venne costretto dal maresciallo Ion Antonescu ad abdicare in favore del figlio Mihai, il quale emise un decreto che accordava al premier poteri semidittatoriali e la qualifica di “duce” (conducator) dello Stato. Fino all’agosto 1944 Antonescu rimase a capo di un regime militare di estrema destra, alleato della Germania nazista, avente una dura politica antisemita e intimidatoria nei confronti degli oppositori. Lo stato di Antonescu era fortemente accentrato e personalistico: si obbediva unicamente a lui, non ai ministri. Antonescu, antisemita, perpetrò una campagna militare di una violenza inaudita a Est per sterminare le popolazioni “ostili” per “purificare” la razza romena. Più tardi, per opportunismo politico, lo steso Antonescu si oppose alla d’esportazione degli ebrei di Bucarest e della Transilvania. Negli anni dopo l’invasione militare dell’URSS, la Romania cerca di un sciare dal conflitto negoziando una pace separata con gli alleati occidentali. La situazione giunse ad un punto critico nella primavera del 1944, quando Antonescu si oppose alle condizioni degli alleati per firmare l’armistizio. Qui si rese evidente la necessità di liberarsi del dittatore, che venne arrestati e deposto insieme ii membri del governo. Il tentavi o delle truppe tedesche di occupare Bucarest venne sventato dell’esercito, ora alleato dell’URRS. Le truppe sovietiche occuparono la capitale il 31 agosto 1944 Il 12 settembre la Romania firmò con l’Unione Sovietica l’armistizio, che prevedeva come unica concessione alla Romania la Transilvania. 17 La Bulgaria ai margini dell’impero di Hitler La Bulgaria trascorse i primi quattro anni di guerra in una condizione privilegiata di relativa tranquillità. Dopo l’acquisizione di molti territori (Dobrugia, Macedonia, Tracia occidentale), il paese aveva realizzato il proprio programma di espansione. IN cambio di una dipendenza totale dalla Germania, la Bulgaria venne autorizzata a non partecipare con truppe proprie alla campagna anti sovietica dell’Asse. I tedeschi, infatti, temevano il sentimento filo russo della popolazione, un fattore storico- culturale importante. La Bulgaria non dichiarò mai, infatti, guerra al’URSS. Re Boris III aveva instaurato un regime quasi autoritario, ma non di stampo fascista. Dopo la sua morte, 1943, venne instaurata una reggenza. In Bulgaria il partito comunista era ben organizzato ma si rivelò, fino al 1944, incapace di organizzare una resistenza. La questione ebraica non aveva, in Bulgaria, un’importanza paragonabile a quella degli altri stati: i 50.000 ebrei bulgari rappresentavano un fattore secondario. Tuttavia, il governo bulgaro si rifiutò di deportare gli ebrei, prestando ascolto anche alle protesta della Chiesa ortodossa. La comunità ebraica bulgara potè così preservarli nella propria interezza: caso unico in Europa orientale. Nel 1943-44, il peggioramento della situazione militare indusse l’élite conservatrice bulgara. A tentare di uscire dal conflitto ma, la scarsità dei contatti con il mondo occidentale e la volontà di non perdere territori, resero difficile il tutto. Il 5 settembre 1944 l’URSS dichiarò guerra alla Bulgaria e Sofia venne invasa dalle truppe sovietiche Il governo ordinò all’esercito di non resistere e ruppe le relazioni con la Germania. Il Fronte della patria, organizzazione antifascista dominata dal partito comunista, prese il potere. 2.6 Liberazione e occupazione L’offensiva sovietica in Europa centro-orientale si concluse il 9 maggio 1945 con l’ingresso dell’Armata rossa a Praga. Il giorno prima l’esercito tedesco aveva capitolato. Per gli ebrei, per le popolazioni slave che Hitler aveva ridotto in schiavitù, per i partigiani e gli oppositori politici e poter una parte della popolazione, ormai stretta dalla lunga guerra, l’Armata rossa rappresentò davvero l’unica salvezza. Per i “nemici”, invece, l’arrivo dei sovietici significò l’inizio di un periodo di terrore. Il numero di persone massacrate, soprattutto in Germania, Polonia e Ungheria, in seguito all’arrivo dei sovietici, si stima a centinaia di migliaia di persone. Passata l’ondata di violenza, l’occupazione sovietica divenne parte integrante della vita quotidiana dell’Europa orientale fino al ritiro delle truppe, nel 1990-91. 20 il quale i paesi dell’Europa orientale venivano divisi in percentuale tra Gran Bretagna e URSS. Le difficoltà incontrate dai sovietici nel plasmare la nuova Europa orientale si acuirono dopo la conferenza di Jalta del febbraio 1945. A Jalta gli Alleati decretarono lo smembramento, il disarmo e la smilitarizzazione della Germania: prerequisito fondamentale per la pace futura. La Germania e Berlino rimasero, così, divise in zone d’occupazione alleata, mentre Trieste venne anch’essa divisa in due zone: “Zona A” (amministrata dalla Gran Bretagna, e “Zona B”, amministrata dalla Jugoslavia. In Polonia si instaurò un “governo democratico provvisorio”. In Romania e in Bulgaria , Stati sconfitti, vennero allestite Commissioni alleate di controllo, dominate di fatto dall’URSS. La Jugoslavia venne instaurato un nuovo governo a guida comunista, retto da Tito. Jalta, però, non significò la divisione del mondo: sottolineò, invece, la volontà degli Alleati di continuare a collaborare anche in presenza di conflitti ideologici evidenti. Rivoluzione a tappe? Democrazie popolari e sovietizzazione Fin dal 1944-45 Stalin puntava a creare una situazione rivoluzionaria che gli consentisse di soggiogare militarmente e politicamente buona parte dell’Europa. Nei piani dell’URRS vi è l’estensione della propria influenza, eliminando qualunque forma di opposizione interna. Per descrivere ciò si usa frequentemente il termine “sovietizzazione, sia per indicare l’espansione militare sovietica del 1944-45, sia per indicare la creazione di regimi comunisti in Europa orientale postbellica. In realtà, il termine sovietizzazione si addice più propriamente ai territori annessi e/o militarmente occupato dall’URSS nel periodo 1939-45. In Europa orientale, il potere sovietico si impose durante la guerra con tempi rapidi e metodi brutali. La conquista del potere da parte dei comunisti, però, non fu predeterminata da un singolo piano per tutta la regione, ma ebbe luogo attraverso tappe intermedie. Queste tappe erano il prodotto finale di tre spinte: la pressione sovietica sugli eventi politici, la resistenza delle forze non comuniste e il deteriorarsi del rapporto con gli Alleati. L’Europa orientale rappresentava per Stalin, un’unica fascia di sicurezza. La priorità sovietica divenne, quindi, la stabilizzazione dei confini europei e del nuovo assetto statale e sociopolitico. Dal punto di vista politico, l’URSS occupò nel 1945 il vuoto di egemonia lasciato dalla Germania sconfitta e sarà in grafo in stabilire un dominio effettivo e duraturo sulla regione. I partiti comunisti erano generalmente usciti rafforzarsi dalla guerra. L’atteggiamento degli occidentali, infine, fui contraddistinto da rassegnazione e indifferenza. 21 3.3. Politica ed economia negli anni della transizione Fino al 1948 i paesi dell’Europa orientale non rappresentarono un’area politicamente ed economicamente omogenea. In tutte le “democrazie popolari” si ritrovano elementi comuni. I partiti e i movimenti di destra, di matrice nazionalista e fascista, vennero banditi. Il quadro si spostò decisamente a sinistra. I partiti comunisti crebbero enorme e dado 1945 al 1948 e le ampie alleanze antifasciste giunte al potere erano guidare da comunisti. Un secondo tratto comune delle politiche postbelliche fu rappresentati dalle riforme agrarie, che frammentarono i grandi latifondi detenuti dalla Chiesa cattolica e dalla nobiltà. Questi provvedimenti ebbero un impatto politico molto rilevante soprattutto in Polonia e in Ungheria. Le avanguardie: Jugoslavia e Albania Nel periodo 1945-48 la Jugoslavia rappresentò un modello per la rapidità e la profondità dei cambiamenti politici e sociali impressi al paese dal partito comunista. Nel dopoguerra, Tito divenne primo ministro, la Jugoslavia venne proclamata “repubblica popolare” e si accelerò la costruzione di un regime monopartitico. Tito non esitò ad imporre la statalizzazione dell’economia, coronata dal lancio del primo piano quinquennale nel 1947, ma il piano di industrializzazione forzata si sarebbe alla lunga rilevato un fallimento. Nel breve periodo, tuttavia, lo sforzo di ricostruzione del paese, devastato nelle infrastrutture, ebbe successo grazie all’appoggio del fondo i ricostruzione UNRRA., reso disponibile dagli alleati occidentali. Questo nuovo modello comunista di Jugoslavia influenzò totalmente anche l’Albania, che, con una costituzione del 1946, si dichiarava una repubblica democratica- popolare. “Rivoluzione dall’esterno”: Polonia, Romania e Bulgaria A differenza della Jugoslavia e l’Albania, altrove il peso del fattore sovietico si rivelò decisivo nell’ imporre governi e politiche economiche dall’esterno. In Polonia il governo comunista di Lublino si era imposto nel 1944 come l’unico riconosciuto dall’URSS ma nel biennio 1946-47 la forza dell’opposizione popolare polacca e la volontà sovietica di giungere a un controllo totale della vita politica emerse in modo drammatico. Dopo elezioni e referendum (“dei tre sì) caratterizzati da violenze e intimidazioni, nel 1947 venne approvata una nuova Costituzione con un misto di elementi socialisti e borghesi. Altrettanto complessa si rivelò la transizione economica, caratterizzata da una riforma agraria e da massicce concessioni alla media proprietà contadina. Fu traumatica, piuttosto, la caduta del commercio internazionale del paese a seguito del progredire della guerra fredda. Ciononostante, la fine della seconda guerra mondiale fu vissuta dalla popolazione come una rinascita nazionale, 22 indipendentemente dagli sviluppi politici ed economici. La politica imperialista di Stalin, però, portò progressivamente la Polonia ad una perdita di indipendenza fortemente risentita. Più facile la conquista del potere politico dei partiti comunisti in due degli stati sconfitti e occupati dall’URSS: la Romania e la Bulgaria. In Romania l’egemonia del partito comunista era in netta espansione, anche a causa di mancanza di ricambi nei partiti “storici”, che non poterò competere con quello comunista. All’inclusione relativamente indolore della Romania all’URSS contribuì la totale subordinazione economica nei confronti dell’URSS. Un passaggio cruciale per la conquista del potere fu rappresentato dalle elezioni de 1946, elezioni che si svolsero in un clima di generalizzata violenza e imbrogli, che portarono all’inizio del processo di costruzione della dittatura monopartitica. Il re venne costretto a lasciare il trono ed andare in esilio: la ORMania divenne una repubblica popolare. Nel 1948 fu firmato il trattato romeno-sovietico di “amicizia e mutuo soccorso”. In Bulgaria, nel 1944, il partito comunista disponeva ancora di un prestigio internazionale conquistato negli anni precedenti e superiore a quello romeno. La transizione bulgara presentò, tuttavia, caratteri Assisi più violenti, soprattutto nella prima fase di occupazione sovietica. I tribunali del popolo allestiti con lo scopo di giudicare i crimini di guerra si trasformarono in un’arma politica. L’attaccante indiscriminato alla destra riuscì a liquidare in pochi mesi un’élite alternativa, che pose il movimento comunista in una posizione di enorme vantaggio. Nel 1947 entrò in vigore una nuova Costituzione, ispirata a quella sovietica e jugoslava, che definiva la Bulgaria una democrazia popolare. Democrazie soffocate: Cecoslovacchia e Ungheria Nel 1945 la Cecoslovacchia si trovava in una condizione di relativo privilegio rispetto agli altri paesi dell’area grazie anche al trattato di alleanza e amicizia firmato con l’URSS nel 1943, che collocò il paese dalla parte dei vincitori. Nell’immediato dopoguerra la soluzione della questione nazionale fu al centro dell’attività politica. Vennero attuate misure punitive nei confronti dei tedeschi e degli ungheresi. Le autorità cecoslovacche, inoltre, premendo su quelle ungheresi per uno scambio di popolazione su base paritaria tra gli ungheresi di Slovacchia e gli slovacchi di Ungheria, scambio che venne parzialmente attuato. L’ultimo passo della nazionalizzazione accelerata del paese fu la campagna di “rislovacchizzazione” degli ungheresi. Grazie a ciò, gli ungheresi riuscirono ad evitare l’espulsione e la perdita dei diritti civili. Nel 1946-47 la Cecoslovacchia presentava un assetto polito ed economico caratterizzato dalla convivenza di elementi tipici della democrazia borghese e “popolare”. Ma la situazione cambiò nell’estate 1947, dopo che il paese approvò la partecipazione al Piano Marshall; dopo il governo venne brutalmente sconfessato dagli alleati sovietici. La conseguente rinuncia a godere degli aiuti del Piano Marshall, 25 La formazione del Kominform, l’Ufficio di informazione” dei partiti comunisti, tentò di dare all’importo esterno sovietico una coerenza organizzativa e una sistemazione ideologica. Lo scisma jugoslavo Stalin venne messo di fronte ad un dilemma: poteva autorizzare o tollerare deviazioni del socialismo su modello sovietico? Il primo caso fu quello della Jugoslavia, guidata da Tito, leader del più potente partito comunista dell’Europa centro-orientale. Egli godette del pieno appoggio dell’URSS sino al 1947. Ma il malcontento sovietico iniziato a crescere dal 1947, inizialmente per un accordo jugoslavo-bulgaro. Le autorità sovietiche intervennero quando Tito iniziò a preparare l’annessione militare dell’Albania, senza interpellare Mosca, Nel 1948 la disputava sovietica-jugoslava, rimasta fino ad ora segreta, si trasformò in una rottura politica. Gli jugoslavi rivendicavano il loro diritto di costruire un modello di socialismo diverso da quello sovietico. Le frontiere con la Jugoslavia vennero però chiuse e i rapporti commerciali interrotti. Il gruppo dirigente leale a Tito rimase compatto e avviò una campagna spietata contro i comunisti leali all’URSS. Le potenze occidentali, intanto, incoraggiarono Tito la sua “via jugoslava al socialismo”. Lo scontro Stalin-Tito si concluse senza un chiaro vincitore e l’esempio jugoslavo restò isolato. La questione tedesca e la nascita della RDT La questione tedesca emerse dalla fine della guerra come un test cruciale per l’evoluzione delle relazioni internazionali. Nel febbraio 1945, a Jalta, le potenze raggiunsero un accordo sulla spartizione della Germania in quattro zone di occupazione e la divisione della capitale Berlino in quattro settori. Era prevista anche una “denazificazione” e la democratizzazione della Germania, che venne, inoltre, obbligata al pagamento di pesanti riparazioni di guerra. Ma sin dall’inizio, gli obiettivi occidentali e quelli sovietici mostrarono un orientamento divergente. Mentre Stalin puntava a trasformare nel lungo periodo le quattro zone di occupazione in un’amministrazione unificata, gli occidentali si mostrarono più interessati alla ricostruzione di un’economia funzionante nelle zone da essi controllate (piuttosto che al pagamento delle riparazioni, a cui i sovietici erano molto più interessati). Nel marzo 1948 la conferenza di Londra stabilì l’unificazione delle zone di occupazione occidentali. Poco dopo venne annunciato il piano per la creazione di uno Strato tedesco-occidentale separato, con una nuova moneta. Stalin avrebbe, invece, preferito una Germania unificata, neutrale è capace di mediare politicamente ed economicamente tra il blocco occidentale e quello orientale. Stalin cercò, allora, di 26 costringere gli alleati occidentali a rinunciare ai loro progetti, con la minaccia di affamare Berlino, bloccando gli accessi per i rifornimenti. Grazie ai rifornimenti aerei organizzati dagli eserciti occidentali, però, Stalin fallì entrambi gli obiettivi. La conseguenza fu la formazione, nel 1949, di una Repubblica Federale Tedesca (RFT), uno Stato tedesco-occidentale, e la Repubblica Democratica Tedesca (RDT), di impronta sovietica. Ciò sancì la duratura esistenza di due Germanie: la loro formazione rappresentò una sconfitta per l’URSS. CAPITOLO 4 Terrore e disgelo, 1949-55 4.1 Isomorfismo istituzionale e rivoluzione culturale Un nuovo apparato statale Nel periodo compreso fra l’istituzione di regimi monopartitico comunisti (1948) e la morte di Stalin (1953) l’Europa orientale fu investita da una rivoluzione politica, sociale e culturale intesa a riprodurre il sistema forgiato in Unione sovietica da Stalin. Il sistema politico instaurato in Europa Orientale univa l’esigenza sovietica di assicurarsi una fascia di sicurezza in caso di conflitto con l’Occidente, alla volontà di modernizzare in senso socialista quei paesi. L’obiettivo era quello di uniformare il sistema politico e le strutture socioeconomiche a quelle funzionanti in URSS: “Isomorfismo istituzionale”. Le Costituzioni approvare entro il 1952 si ispirarono apertamente a quella staliniana. Interi ministeri e organi i governo localo furono cancellati e il loro personale licenziato. Al loro posto vennero immessi quadri di origine operaia, spesso giovani e inesperti, selezionati dagli organi di partito. Fu così che la fedeltà politica precedeva o sostituiva le competenze tecniche. Si venne a creare, quindi, un disordine amministrativo nei paesi dell’Europa orientale, in seguito alla presa del potere comunista. L’ecosistema stalinista Negli anni che precedettero la morte di Stalin il complesso di norme, valori, simboli, definito “l’ecosistema culturale” dello stalinismo, si stabilì in Europa orientale al culmine della guerra fredda e lasciò tracce che sopravvissero alla morte di Stalin. Nei giornali e riviste, che offrivano al lettore un’interpretazione onnicomprensiva della realtà, l’Occidente era descritto i come “marcio”, “decadente”, “imperialista” mentre 27 la classe operaia conduceva una lotta incessante contro il nemico esterno e interno. Stalin e i leader comunisti erano venerati come creature soprannaturali, il loro profilo fu immortalato in numerose creazioni artistiche: poesie, romanzi, dipinti, statue. La scienza sovietica godeva di un primato indiscutibile; ogni scoperta era celebrata come la dimostrazione della superiorità del modello socialista su quello occidentale. La stalinizzazione investì in modo radicale anche il sistema di istruzione, sia superiore che universitaria: dal 1948 l’educazione e la ricerca furono rivoluzionate per confermarle al modello sovietico. L’età dello stalinismo determinò una riorganizzazione dello spazio amministrativo: i confini delle capitali vennero allargati, l’obiettivo era quello di trasformarle in metropoli, simbolo di modernizzazione. Anche la programmazione del tempo libero era organizzata dal regime e coinvolgeva la quasi totalità della popolazione. Si organizzavano attività ricreative di massa: una su tutte lo sport di squadra (in particolare in calcio). Vennero marginalizzati, invece, gli sport singoli, in particolare il tennis, considerati “aristocratici”. L’Europa orientale della guerra fredda era isolata dall’Occidente non solo fisicamente, attraverso la chiusura delle frontiere – confini che restarono a lungo impenetrabili anche all’interno dello stesso blocco sovietico – ma anche da un punto di vista culturale. Questione nazionale e politica religiosa L’avvento del blocco sovietico decretò il temporaneo congelamento dei conflitti nazionali e territoriali. I rapporti fra le “democrazie popolari” e l’Unione Sovietica vennero regolati da una rete di trattati bilaterali di amicizia e cooperazione economico-culturale. I conflitti etnici che avevano contraddistinto i decenni precedenti lasciarono il posto a politiche di integrazione delle minoranze. Nei primi anni Stalin manipolò l’orgoglio nazionale e le rivendicazioni territoriali negli Stati dell’Europa orientale. Lì la rivoluzione culturale dello stalinismo implicò una rilettura radicale del passato nazionale dei singoli popoli. Gli storici dovendo indagare ed esaltare eroi popolari ed eventi sociali come le rivolte contadine del Medioevo, la liberazione dei sevi della gleba dell’Ottocento o lo sviluppo del movimento operaio e socialista. I regimi dell’Europa orientale seguirono una politica religiosa differenziata. In tutto il blocco orientale, però, la Chiesa ortodossa contribuì alla “lotta per la pace” co d’Aosta dai regimi comunisti. Le persecuzioni più acute furono subite, invece, dalle Chiese cattoliche, se pur con delle differenze; esse erano, infatti, legate da un vincolo di fedeltà al Vaticano. In particolare in Ungheria e Cecoslovacchia. Vennero arrestati centinaia di preti e monaci ostili , chiusi monasteri, sciolti gli ordini monacali. 30 come movimento politico e al “cosmopolitismo”, atteggiamento di cui gli ebrei erano ritenuti i principali latori e che è contrapposto al patriottismo socialista. La morte di Stalin interruppe immediatamente la catena di arresti e confessioni e gli imputati vennero messi in libertà. L’antisemitismo sparì dunque come argomento di propaganda. Le repressioni di massa Il quinquennio che precedette la morte di Stalin è conservato nella memoria popolare dei paesi dell’Europa orientale come il più violento mai vissuto in epoca di pace. L’imposizione dei regimi comunisti incontrò fino alla metà degli anni cinquanta un’opposizione attiva (resistenza armata) e soprattutto passiva (non non collaborazione, parole di critica). Il numero di cittadini sottoposto a misure prese vie nel 1948-53 (arresto, condanna) fu altissimo, intorno al milione di persone; quello dei morti è stimabile in diverse decine di migliaia. 4.4 Il disgelo e le due contraddizioni Rivolte, lotte intestine, immobilismo: le reazioni nel blocco alla morte di Stalin La morte di Stalin, avvenuta il 5 marzo 1953, originò in breve tempo cambiamenti che dall’Unione Sovietica si riversarono sull’Europa orientale. Osannata e indiscutibile in vita, la figura di Stalin iniziò ad essere oggetto di una revisione critica all’interno della direzione sovietica dopo la sua morte. Al sovraffollamento dei campi di lavoro orzato, si sommavano le disastrose condizioni economiche di un impero che aveva vinto la Seconda guerra mondiale ma che stava perdendo la pace. Nelle settimane successive alla morte di Stalin emersero segnali di profonda crisi interna. In URSS venne instaurata una nuova direzione collegiale, formata nel tentativo di evitare il ritorno di un’eccessiva personalizzazione del potere. In questa direzione collegiale presenziava il primo segretario del partito comunista sovietico, Chruscëv. Essa avviò un programma di correzione degli abusi criminali compiuti dalle autorità negli ultimi anni di Stalin. Molti prigionieri furono liberati. Le notizie provenienti da Mosca di cambiamenti e conflitti interni al vertice politico, scosserò profondamente le capitali esteuropee, dovei dirigenti comunisti faticavano a decifrare le intenzioni del cento. L’impatto più dirompente della destanilizzazione si ebbe in Germania Orientale e in Ungheria. Nel primo caso, il malcontento portò ad uno scontro armato, mentre nel secondo il partito comunista riuscì a prevenire le proteste popolari con un netto cambio di linea. 31 Il riavvicinamento Mosca-Belgrado e la nascita del “Patto di Varsavia” La morte di Stalin impose ai nuovi vertici sovietici e alle potenze occidentali un ripensamento delle rispettive strategie politiche-diplomatiche. Si aprì una strada alla ripresa, anche se limitata, degli scambi commerciali e culturali. Mentre l’Europa occidentale si andava dotando di strutture di integrazione politica ed economica, Chruscëv dovette constatare che il blocco sovietico mancava di un reale integrazione. A partire dalla fine del 1953, quindi, Mosca inizio a preparare segretamente il riavvicinamento alla Jugoslavia di Tito. Nel 1955 alcuni eventi accelerarono l’avvio di una più stretta integrazione militare del blocco sovietico. La Germania ovest entrò nella NATO. Poco dopo fu annunciata la creazione del Patto di Varsavia, i cui otto membri (URSS, Polonia, Germania Est, Cecoslovacchia, Ungheria, Romania, Bulgaria, e Albania) si impegnavano alla reciproca difesa nel rispetto della sovranità nazionale. Il patto venne concepito come una struttura speculare all’alleanza militare del blocco occidentale. Al Patto di Varsavia mancavano, però, prospettive strategiche di lungo periodo. Verso la metà degli anni cinquanta L’Europa orientale e la stessa URSS attraversarono un momento di grave difficoltà. L’unità forgiata da Stalin entrò in crisi dopo la sua morte. Sul piano politico, la destalinizzazione procedeva in modo contraddittorio o non procedeva affatto. Su queste difficoltà si innestò nel 1956 l’onda d’urto provocata dal XX Congresso del PCUS. CAPITOLO 5 Crisi politiche e consolidamento sociale, 1956-72 5.1 Il 1956 in Polonia e Ungheria L’impatto del XX Congresso e l’Ottobre polacco Il rapporto sui crimini dello stalinismo, letto nella notte del 24-25 febbraio 1956 da Chruscëv a chiusura del XX Congresso del PCUS, avviò nel blocco sovietico una grave crisi politica. Nell’aprile 1956 fu sciolto il Kominfom. In Polonia e in Ungheria l’ammissione degli errori e delle illegalità sovietiche rafforzò le correnti riformiste e contribuì a delegittimare le forze al potere. La censura du allenata, il Parlamento riacquistò un profilo più alto e molti oppositori furono rilasciati. Nel giugno 1956 gli operai e i contadini polacchi dettero avvio alle manifestazioni contro il regime. L’apice della protesta si toccò con lo sciopero del 28 giungo nella città di Poznan, repressa nel sangue dalle forze speciali polacche e da 32 contingenti sovietici. Le manifestazioni continuarono fino al mese di ottobre quando una nuova ondata di proteste (Ottobre polacco) si spinse fino a chiedere libere elezioni e il ritiro delle truppe sovietica dal paese. L?ottobre polacco si concluse, però, senza spargimenti di sangue. Alla guida del partito fu nominato Gomulka, finito in carcere durante il periodo stalinista per simpatie verso il modello di Tito. La sua nomina fu approvata a ah e dai leader sovietici. Gomulka riconobbe immediate la necessità per la Polonia di rimanere unita all’URSS all’interno del Patto di Varsavia, ma ottenne una concessione, richiesta a gran voce nelle rivolte: il definitivo abbandono dei territori polacchi da parte delle truppe sovietiche. Crisi e rivoluzione in Ungheria La rivoluzione ungherese, che prese avvio sull’onda delle manifestazioni polacche, fu l’esito di una christi politica che durava dal 1953. Gli ungheresi faticavano a metabolizzare completamente la forzata sottomissione al regime sovietico. Con l’avvento del nuovo corso impresso dalla dirigenza sovietica dopo la morte di Stalin, questa insofferenza trovò espressione polizia nella nomina di Imre Nagy alla guida del governo. Egli avviò un programma di riforme oltre che promuovere un’amnistia per i detenuti politici. La ferrea opposizione del segretario del partito comunista Rakosi, lo costrinse ad abbandonare l’incarico. La politica di Rakosi, però, non fece che alimentare il risentimento degli ungheresi, soprattutto studenti ma inseguito anche operai e lavoratori,, che nell’estate 1956, scesero a manifestare per le strade di Budapest. In ottobre, però, le manifestazioni si trasformarono in una vera e propria insurrezione. La decisione sovietica di reprimere la rivolta accelerò, dunque, la sua radicalizzazione. Su pressione dei manifestanti, la direzione del governo fu di nuovo affidata a Nagy, ormai punto di riferimento di una popolazione in rivolta che avanzava richieste di vera democratizzazione della vita del Paese. Nagy, nella speranza di ottenere il sostegno internazionale, annunciò l’uscita dell’Ungheria dal Patto di Varsavia proclamò la neutralità. Di fronte a questa decisione, le truppe sovietiche , all’inizio di Novembre 1956, occuparono la capitale e represso la rivolta nel sangue. Nagy venne arrestato e condannato a morte e fu costituito un governo fedele a Mosca, sotto la guida di Janos Kadar. La rivoluzione ungherese è stata oggetto, soprattutto dopo il 1989, di un ampio dibattito storiografico. Il ruolo di Nagy, frettolosamente trasformato in martire dopo il 1989, viene però discusso anche in modo riflessivo evidenziando le contraddizioni del suo approccio alla rivoluzione. 5.2 Continuità e rottura negli anni di Chruscëv L’URSS e i suoi satelliti superarono la crisi del 1956 e fino alla prima metà degli anni settanta vissero il periodo di maggiore vitalità economia e stabilità sociale. 35 strutture di potere del regime comunista. Inoltre, la RDT, aveva dovuto afforzate una doppia crisi: sia interna, dovuta al continui flusso di rifugiati verso ovest, che esterna, legata al mancato riconoscimento diplomatico da parte della Germania Ovest (considerata dall’Occidente l’unico Stato tedesco legittimo fino la 1969). Il socialismo al di fuori del blocco: Jugoslavia e Albania Negli anni sessanta l’unità del blocco sovietico intorno all’Unione sovietica, messa alla prova dall’eredità jugoslava e dalla rivoluzione ungherese, si ruppe definitivamente a seguito del deterioramento dei rapporti tra il partito comunista sovietico e il partito cinese. Si trattava di dissidi ideologici, strategici ed economici. Nel 1962 i due partiti ruppero i rapporti e nel 1969 il conflitto degenerò in uno scontro armato. Tito non si schierò dalla parte di Mosca. Nei primi anni sessanta Chruscëv ravvicinò la Jugoslavia al blocco sovietico e, nei decenni successivi, il rapporto Mosca-Belgrado si sarebbe stabilizzato. Sul piano socioeconomico il modello Jugoslavo si affermò come un esempio invidiato dagli altri paesi dell’Europa orientale. La costituzione jugoslava promulgata le 1963 fu soprannominata “Carta dell’autogestione” mentre la riforma economica del 1965 accentuò ulteriormente l’autonomia gestionale in tutti i settori produttivi. Negli anni sessanta la Jugoslavia di Tito, ormai consacrato presidente a vita, conobbe uno sviluppo economico tumultuoso.Il reddito pro capite aumentò in misura considerevole mentre la disponibilità di beni di largo con uso era assicurata dall’importazione di prodotti occidentali. Nel 1967 la Jugoslavia abolì l’obbligo di vista per l’uscita dal paese. La ristrutturazione dell’apparato di sicurezza, unita alla possibilità di recarsi all’estero, dette origine a una tumultuosa liberalizzazione culturale e politica. Seguirono manifestazioni e le proteste popolari in Slovenia, Croazia e Kosovo. Soprattutto in Kosovo avvennero violente manifestazioni che rivendicavano una maggiore autonomia dalla Serbia e un avvicinamento culturale all’Albania. La “normalizzazione” del 1971 riuscì a spengere la protesta, lasciandosi però alle spalle una serie di rancori e questioni politiche che nemmeno la nuova Costituzione del 1971 avrebbe risolto. Negli anni cinquanta, l’Albania di Hoxha dipendeva interamente dal sostegno politico, militare ed economico dell’Unione Sovietica, interessata all’importanza strategica dell’Albania. Ma in seguito alla riconciliazione con Tito, l’URSS perse interesse per un paese dal basso potenziale produttivo come l’Albania. I dissidi tra Tirana e Mosca iniziarono nel 1956. Gli albanesi, infatti, non gradirono la ripresa dei rapporti di Mosca con Tito e reagirono riproponendo il modello di sviluppo stalinista. Nel 1960 iniziò avvenne un vistoso avvicinamento dell’Albania alla Cina di Mao. Nel 1961 l’URSS ruppe, senza essere seguita dagli altri paesi del blocco, le relazioni diplomatiche con Tirana. Dal canto suo, l’Albania uscì dal patto di Varsavia, ufficialmente nel 1968. Hoxha si rivolse quindi alla Cina. La conseguenza più evidente della rivoluzione 36 culturale promossa da Mao fu la lotta antireligiosa. Nel 1967 l’Albania divenne il primo Stato ateo della storia: la costituzione non riconosceva alcuna fede religiosa. 5.4 Risultati e fallimenti del “socialismo reale” Integrazione economica e militare Per uscire dalla crisi seguita alla morte di Stalin e recuperare lo svantaggio strategico accumulato, sotto Chruscëv l’Unione sovietica avviò un programma di potenziamento della cooperazione economica. Negli anni sessanta il COMECON divenne un’agenzia internazionale. L’Europa orientale fu suddivisa in due macroaree: una settentrionale, più sviluppata (RDT, Cecoslovacchia, Polonia), nella quale conventare gli investimenti industriali (anche l’industria militare); e una meridionale (Romania, Bulgaria, Albania), incaricata di sviluppare il settore agroalimentare e l’industria leggera, L’Ungheria avrebbe occupato una posizione intermedia. Nonostante difficoltà politiche, le defezioni di Albania e Romania (scontente), dalla seconda metà degli anni sessanta il COMECON divenne il volano di un’integrazione economica. Il secondo importante aspetto dell’integrazione socialista riguardò la cooperazione militare. L’URSS impose ai membri del Patto di Varsavia, che aveva come obiettivo iniziale, poi fallito, quello di ottenere una smilitarizzazione della guerra fredda, di intensificare la modernizzazione del proprio apparato militare e preparare le proprie economie ad un eventuale conflitto armato. I piani prevedevano, in caso di minaccia o attacco occidentale, una rapida controffensiva per penetrare in profondità in Europa occidentale con truppe di terra, appoggiate da un vasto dispiegamento di missili. Questi “giochi di guerra” pianificati negli anni sessanta gravarono in misura considerevole sui bilanci statali degli alleati minori dell’URSS. A differenza di prima, a metà degli anni sessanta l’opposizione dei satelliti riuscì a bloccare o limitare l’iniziativa sovietica. L’Albania si allontanò dal Patto in seguito al dissidio sino- sovietico, mentre la lealtà militare della Romania lasciava alquanto a desiderare. Il dibattito sulla modernizzazione e i tentativi di correggere il sistema Dalla fine degli anni cinquanta all’inizio degli anni settanta l’URSS e l’Europa orientale si impegnarono in una competizione economica a tutto campo con la ondò capitalista. Le riforme roncò mine tentate in Europa orientale e nella stessa URSS a partire dal 1957-58 partivano da un concetto condiviso: la pianificazione centralizzata soffoca l’innovazione tecnologica e ostacola la collaborazione. La Germania Est fu il primo paese del blocco sovietico ad applicare un “Nuovo sistema economica di pianificazione e management”. In Unione Sovietica una riforma collettiva entrò in vigore nel 1965, un anno dopo la destituzione di Chruscëv, sostituito da Breznev. La 37 Romania fu il primo paese del’Europa Orientale ad aderire ad organizzazioni internazionali come il Fondo monetario internazionale e la Banca mondiale. Il tentativo ungherese fu invece il “Nuovo meccanismo economico” (NME); con esso furono eliminati la proprietà statale dei mezzi di produzione e il ruolo centrale della pianificazione nazionale, furono reintrodotto una cera libertà dell’impresa nella definizione di salari e prezzi oltre che una maggiore libertà di manovra per le piccole aziende. Sorse, inoltre, una nova leva di funzionari scelti non solo i un base ad un’asta sicura fede ideologica, ma anche alla preparazione professionale. Il NME ebbe inizialmente un grande successo il tasso di crescita salì e il volume del commercio estero aumentò. In seguito il processo riformatore rallentò a causa dell’opposizione dei sindacati e dei dirigenti dell’industria pesante, oltre che da una crescente ostilità verso un esperimento di quasi capitalismo condotto presso un membro del blocco sovietico. L’applicazione del NME fu, infine, bloccata nel 1972 da Mosca. Alla vigilia della prima crisi petrolifera del 1973, i paesi dell’Europa orientale si erano integrati nell’economia mondiale, sebbene in posizione semiperiferica. Le esportazioni rappresentavano ormai una quota determinante del reddito nazionale. Se le difficoltà economiche degli anni settanta ebbero anche cause esterne (crisi petrolifera), il problema maggiore fu l’esaurimento delle riserve naturali e umani per lo sviluppo dell’industria pesante. Vent’anni di socialismo: un bilancio in chiaroscuro L’Europa orientale attraversò nei venticinque anni successivi alla fine della Seconda guerra mondiale un cambiamento economico, sociale e culturale impressionante. Il dislivello economico fra l’Europa occidentale e quella orientale si ridusse considerevolmente negli anni cinquanta e, soprattutto, negli anni sessanta. Particolarmente dinamica fu la crescita nella seconda metà degli anni cinquanta e nel 1966-70, anche grazie alle riforme e ai correttivi adottati. I Paesi prevalente te agricoli si dotarono di un vasto settore industriale. Tutti gli indicatori utilizzati per valutare le condizioni generali di un paese registrarono nel periodo dal 1950 all’inizio degli anni settanta un progresso che interessò tutti gli strati sociali. Lo Stato organizzò la vita dei cittadini in ogni suo momento, senza tralasciare quello ludico. Negli nei sessanta fece la sua ricomparsa il turismo interno e anche esterno. L’avvio del turismo di massa rappresentava il segnale più visibile di una accomodamento ideologico del regime. Complessivamente negativo resta, infine, il bilancio delle riforme scolastiche e universitarie. 40 Entro la fine del 1973 la RFT (Germania Ovest) normalizzò le relazioni diplomatiche con tutti i paesi del blocco orientale. Parallelamente, la RDT ottenne il riconoscimento da parte dei paesi occidentali ed entrambi gli stati tedeschi furono ammessi all’ONU. L’Ostpolitik tedesca si accompagnò a un processo globale di distensione politica che nel 1975 culminò con gli accordi di Helsinki. I punti principali di questi accordi erano: rinuncia all’uso della forza, inviolabilità delle frontiere, risoluzione pacifica delle controversie, sviluppo degli scambi commerciali e delle collaborazione tecnico- scientifica oltre che il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Nella prima metà degli anni settanta l’Unione Sovietica e l’Europa orientale raggiunsero, sul piano dell’influenza politica internazionale, il culmine della propria parabola storica. L’industri militare divenne uno dei settori trainanti dello sviluppo economico. Ma diversi segnali preoccupanti minavano la stabilità del blocco sovietico: i limiti della distensione internazionale iniziavano ad emergere. In primis l’Occidente fece pressione sul punto dei diritti dell’uomo di Helsinki sul blocco sovietico. Successivamente, l’Occidente tornò a colpire gli interessi economici del blocco sovietico. Dalla fine degli anni settanta il clima internazionale convolve un netto deterioramento che precipitò i rapporti Est- Ovest in quella che è stata definita una “seconda guerra fredda” (1979.85). L’invasione sovietica dell’Afghanistan (1979), la contemporanea rivoluzione anti-occidentale in Iran e Nicaragua, l’ascesa al soglio papale dell’arcivescovo di Cracovia (papa Wojtyla), la crisi polacca del 1980-91 e il successivo colpo di Stato del gene reale Jaruzelski riportarono le relazioni internazionali alla contrapposizione frontale degli anni cinquanta. 6.2 Stabilità politica, disastro economico Il fascino discreto del grigiore brezneviano Nell’ultimo quindicennio di esistenza i regimi dell’Europa orientale divenne il luogo del “socialismo realmente esistente”. Il lungo periodo brezneviano (1964-92) impresse al blocco socialista un grigiore culturale ed estetico che rispecchiava l’assenza di carisma politico e umano del leader sovietico. La maggiore novità del periodo brezneviano fu l’assenza di sommovimenti politici e la riscoperta della dimensione privata e familiare: la popolazione approfittò della crisi ideologica dei regimi comunisti per costruirsi un’esistenza normale e dignitosa. Anche il dissenso era ritenuto un fenomeno, purché fastidioso, controllabile. Il grigiore del regime alimentò, tuttavia, in particolare nei giovani, un diffuso senso di disorientamento e sfiducia nel futuro. L’abbandono di ogni illusione circa la possibilità di riformare il sistema politico spinse molti giovani a tentare, quando possibile, di abbandonare il loro paese. 41 L’imposizione economica: stagnazione e indebitamento estero Il 1973 rappresentò un anno di svolta nella storia del blocco sovietico. La guerra del Kippur (6-22 ottobre 1973), combattuta vittoriosamente da Israele contro una colazione araba sostenuta militarmente dai paesi socialisti, indusse i paesi dell’OPEC a bloccare le esportazioni verso l’occidente. Questo causò un repentino aumento del prezzo del petrolio sui mercati internazionali. Tutto questo fece sprofondare l’economia mondiale in una crisi. L’URSS scelse di mantenere artificialmente basso il prezzo del petrolio e del gas esportati in Europa orientale, nel tentativo di assicurare stabilità economica e politica ai propri alleati. Proprio gli alleati dell’Unione Sovietica, negli anni settanta, ebbero le maggiori difficoltà a tenere il passo con i concorrenti occidentali, a causa della scarsa produttività e, soprattutto, del ritardo tecnologico. Poiché la “seconda guerra fredda” frenava anche lo sviluppo delle esportazioni destinate ai mercati occidentali, l’Europa orientale entrò in profonda crisi economica dalla metà degli anni settanta. Per evitare le prevedibili conseguenze sociali della crisi economica, i governi esteuropei furono costretti a indebitarsi sui mercati finanziari internazionali. Ciò consentì di migliorate temporaneamente il tenore di vita. I paesi più indebitati risultavano la Polonia, l’Ungheria, la Jugoslavia e la Bulgaria. Meno coinvolti dal fenomeno furono, invece, i paesi economicamente più conservatori e legati all’URSS: Cecoslovacchia e la RDT. 6.6 Traiettorie del declino e vie d’uscita dal socialismo reale Negli anni settanta e ottanta la storia del blocco sovietico dipese in misura crescente dall’evoluzione delle vicende nazionali dei suoi appartenenti. Di fronte alla crisi economica, i vari regimi elaborarono politiche e strategie diverse. In Jugoslavia, per esempio, la morte di Tito aprì una crisi di legittimazione politica che le élite non riuscirono a controllare, mentre, fuori dal blocco sovietico, l’Albania rimase fino alla fine un regime comunista impenetrabile. Il declino dell’Europa orientale era legato strettamente a quello sovietico. Sino alla morte di Breznev, 1982, Mosca rappresentò un fattore frenante per ogni tentativo di riforma. La fragilità interna dello Stato sovietico contribuisce a spiegare la sua sempre più fievole reazione di fronte alle spinte centrifughe dei satelliti. La Polonia da Solidarnosc alla giunta militare di Jaruzelski La crisi economica e politica del 1968 segnò per la Polonia l’avvento di un lungo periodo di agitazione sociale. Gomulka viene sostituito da Gierek, il quale cerca di modernizzare la struttura produttiva polacca grazie ad investimenti sulla tecnologia. Ciò portò la Polonia a resistere alla crisi petrolifera del 1973 me entrò in crisi pochi anni dopo. Nel 1976 il governo aumentò improvvisamente del 60% i prezzi dei 42 prodotti alimentari. La reazione popolare fu ancora una volta furiosa, con violenze di strada e attacchi alle sedi del partito. Successivamente altri due eventi catturano l’attenzione dei sovietici: l’elezione a papa di Wojtyla (sostenitore dell’opposizione polacca) e la creazione di un sindacato legalizzato, il Solidarnosc (che in poco tempo si affermò come la più importante organizzazione sociale del paese). Ciò che preoccupava i sovietici era il possibile diffondersi della protesta nel resto del blocco. Una svolta arrivò nel 1981, quando il generale Jaruzelski, con un colpo di Stato militare, prese il potere, appoggiato dall’esercito e delle forze dell’ordine. Solidarnosc venne messo fuorilegge, anche se continuerà ad esistere clandestinamente per qualche altro anno, anche grazie ai finanziamenti occidentali. Il regime di Jaruzelski cercò negli anni ottanta di stabilizzare la situazione finanziaria e sociale di un paese molto impolverato. Per quanto il regime (assai diverso da un ritorno del comunismo “classico”) godette di scarsa popolarità ma fu tollerato da una popolazione ormai stremata dalle continue tensioni del decennio precedente. Nella seconda metà degli anni ottanta, Jaruzelski iniziò ad avvicinarsi all’Occidente, portato la Polonia nella Banca mondiale. Stabilità e inquietudini: Cecoslovacchia, Ungheria, RDT Nei paesi più sviluppati e relativamente più prosperi del blocco sovietico, gli anni settanta e ottanta trascorse in sostanziale calma. In Cecoslovacchia un’oligarchia conservatrice e legatissima al vertice sovietico guidò il paese dal 1969 al 1987. Il paese proseguì una politica e comica più responsabile rispetto al resto del blocco. Fino alla seconda metà degli anni ottanta l’Ungheria di Kadar restò un regime illiberale ma permissivo. Egli sfruttò abilmente sul piano interno l’immagine di prudente riformatore guadagnata in campo internazionale, ottenendo ampi spazi di manovra in campo economico e culturale. Negli anni settanta il consenso al regime poteva dirsi un obiettivo raggiunto e si consolidò negli anni ottanta. Il consenso era legato in primo luogo a sostanziali concessioni di tipo economico e sociale. I comunisti ungheresi avevano imparato la lezione dagli eventi del 1956. Nel 1978, sotto la spina della crisi e contro le resistenze di Mosca, Kadar tornò alle riforme. L’Ungheria degli anni ottanta divenne il paese del blocco orientale più aperto all’Occidente. L’incoraggiamento al coni suo individuale e all’iniziativa privata favorirò l’economia. La Germania Orientale trasse, negli anni settanta, un enorme vantaggio in termini politici ed economici, dalle apertura consentite dall’Ostpolitik. Nell’ultimo quindicennio di esistenza, il “secondo Stato tedesco” si trasformò, più di ogni altro paese socialista, in una moderna società industriale densamente urbanizzata. L’economia rappresentò fino all’inizio degli anni ottanta il principale motore del 45 cittadini. A provocare il collasso del regime fu un moto di ribellione morale, la cosiddetta “rivoluzione di velluto”, che si concluse a dicembre con l’elezione di Havel alla presidenza della repubblica e la formazione di un governo non comunista. Speranze tradite? Romania 1988-90 La rivoluzione romena del 1989 resta un evento assai controverso. Questa si innescò a Timisoara, poco distante dalla frontiera con l’Ungheria e la Jugoslavia. Le manifestazioni del 16 e del 17 dicembre furono represse nel sangue ma be presto si estesero a Bucarest, Cluj e altre località, dove il 21 dicembre la polizia saprò sui manifestanti. La folla iniziò a scagliarsi contro il regime di Ceausescu, il quale venne catturato e condannato a morte il 25 dicembre. La violenza conobbe il suo picco più violento proprio nei giorni fra la d’esposizione di Ceausescu e la sua esecuzione. A far crollare la dittatura di Ceausescu non furono tanto le manifestazioni partite da Timisoara, ma una mancata comprensione da parte del regime del consenso in cui essere e venivano. Nell’ultima settimana di governo, poi, Ceausescu commise una serie di gravi errori tattico-strategici: 1) gestione dell’ordine pubblico a Timisoara 2) repressione sproporzionata 3) viaggio in Iran per concludere un accordo di forniture militari 4) discorsi in diretta televisiva in cui condannava duramente i moti. CAPITOLO 7 Ritorno all’Europa? Successi e fallimenti della democrazia postcomunista 7.1 il fattore nazionale I cambiamenti del 1989-90 ridisegnarono la mappa politica europea con una rapidità stupefacente. Il 3 ottobre 1990 le due Germanie si riunificarono in un unico Stato, dove la memoria del passato nazista caricava questa riunificazione di un significato particolare e non privo di rischi per la stabilità europea. Il 31 dicembre 1991, l’Unione Sovietica cessò formalmente di esistere. La crisi terminale dell’impero multinazionale, fortemente indebolito dal suo collasso economico e dal disimpegno in Europa orientale, si accompagnò alla sua disgregazione territoriale. Sull’intero processo Pesaro i conflitti interni al vertice politico. L’uscita dell’Europa orientale dalla sfera di influenza sovietica fu completata nel 1991, simultaneamente all’inizio dei combattimenti nell’ex Jugoslavia. Cessò di esistere il Patto di Varsavia, l’organizzazione politico-militare del blocco sovietico. Gli ultimi 46 contingenti militari sovietici si ritirano dai paesi dell’Europa Orientale tra il 1992 e il 1994. Nei primi anni novanta, l’Europa centro-orientale conobbe una proliferazione senza precedenti di nuove entità statali in seguito alla dissoluzione di tre federazioni multietniche: nel 1991 l’URSS, dalla quale si staccarono sei repubbliche (Moldova, Estonia, Lettonia, Lituania, Belarus e Ucraina); nel 1992 la Jugoslavia (con la secessione della Slovenia e della Croazia); nel 1993 la Cecoslovacchia (divisione Repubblica Ceca e Repubblica Slovacca). Il trionfo del fattore nazionale e dei principio di sovranità innescò in tutta Europa il timore del ripetersi delle catastrofi europee della prima meta del Novecento. 7.2 Alla ricerca della stabilità: le dinamiche politiche del postcomunismo Nei primi anni dopo il crollo del blocco sovietico avvenne la cosiddetta “transizione postcomunista”; il fine ultimo di questa transizione doveva esserà la formazione, in Europa orientale e in Russia, di società capitaliste di tipo occidentale. Dove ciò non è avvenuto, le colpe ricadono sull’incapacità delle élite politiche, sul nazionalismo delle popolazioni e sugli errori commessi dall’Occidente nell’esortare i propri modelli. Il 1989 non avviò una transizione ma una trasformazione, che non rappresentava né una semplice imitazione dei processi di costruzione della società democratica negli Stati orientali, né un’involuzione legata al semplice disfacimento della struttura preesistente. Gran parte delle nuove democrazie dell’Europa orientale approvò Costituzioni democratiche nel periodo 1989-93: la prima fu l’Ungheria mentre l’ultima la Lettonia. Il modello politico al quale si ispirarono i paesi dell’Europa centro-orientale postcomunista si accosta a quello tedesco, con una presidenza della repubblica investita di poteri di mera rappresentanza. L’equilibrio fra potere legislativo, esecutivo e giudiziario, nel quale u; ruolo centrale di controllo e contrappeso viene svolto dalla Corte costituzionale, era dettato anche dal timore di restaurazioni autoritarie. La partecipazione al voto del primo ventennio fu mediamente del 60%, una percentuale modesta ma vicina alla media europea. I partiti comunisti, sebbene non proibiti ostacolati, sono politicamente scomparsi. Nei primi anni novanta la vittoria andò, nella maggioranza dei Paesi, a coalizioni di movimenti che facevano riferimento al composito schieramento anticomunista, moderato o radicale. Il ritorno degli ex comunisti di sinistra, nella seconda tornata elettorale del 1993-96 rappresento, però, un fenomeno prevedibile. I governi dei primi anni novanta fronteggiano il compito di traghettare i proprio paesi fuori dalla grave crisi economica seguita al crollo del sistema socialista. 47 7.3 Economia e società: vincitori e sconfitti del cambiamento Il passaggio dall’economia pianificata ai mercato costituì una sfida ancora più difficile delle riforme politiche istituzionali. Le difficoltà economiche scoraggiarono il varo di un secondo Piano Marshall per l’Europa orientale e la Russia postsovietica; anche se, secondo gli scettici, i paesi ex comunisti erano troppo arretrati economicamente per poter assorbire eventuali aiuti. Il contributo finanziario statunitense fu modesto mentre un ruolo maggiore fu assunto dalla Comunità economia europea con il programma PHARE, anche se il suo contributo totale fu, ancora una volta, modesto. In Europa orientale il passaggio di quote di proprietà dallo Stato ai privati (privatizzazione) avvenne con. Differenti procedure: offerta pubblica, vendita diretta, voucher, bancarotta. La transizione all’economia di mercato e l’improvviso venire meno dell’immenso mercato sovietico, causarono il crollo delle esportazioni e una contrazione significativa del prodotto nazionale in Europa orientale, la quale, nel 1989-92, patì un delfino economico esteso a tutti settori dell’economia, in particolare nell’industria pesante. Ma la ristrutturazione industriale e delle economie determinò un aumento marcato della disoccupazione e modificò radicalmente lo stile e il tenore di vita delle persone. Le ondate di licenziamenti non hanno generato proteste violente o duratura mentre i vecchi sindacati del periodo comunista si sono gradualmente atrofizzati. Il cambiamento ha avuto un impatto profondo sulle generazioni più giovani e istruite. Ai giovani cresciuti nella realtà della digitalizzazione, la società di mercato ha offerto loro opportunità di realizzazione personale altrimenti impensabili. La possibilità di viaggiare, parlare lingue occidentali: tutto ciò ha trasformato i giovani nei vincitori del cambiamento. 7.4 Punire, ricordare o studiare: la gestione del passato totalitario Un Problema delle transizioni democratiche è il trattamento dei mandanti politici e degli esecutori materiali dei crimini perpetrati sotto la dittatura. Rispetto ai precedenti storici (nazismo e fascismo), i regimi comunisti esteuropei si distinsero per un’eccezionale compenetrazione fra classe politica, tecnocrazia economica e apparati di sicurezza (polizie politiche svolgevano un’estrema vastità di funzioni). Le nuove democrazie hanno cercato di affrontare la questione mediante procedimenti di risanamento della vita pubblica, che miravano alla sanzione del crimine e il risarcimento dei danni materiali e morali alle vittime, molto spesso opzione impraticabile al 100%. Secondo molti studiosi, la vera forma di giustizia simbolica possibile resta dunque il ricordo, una terapia democratica collettiva cui le società post-totalitarie si affidano per prevenire il ripetersi del crimine. 50 convinti che la Serbia andasse punita. FU così che la NATO iniziò un’intensa campagna di bombardamenti contro obiettivi militari e civili serbi. Il Kosovo fu, poi, posto sotto l’amministrazione provvisoria dell’ONU, prima della proclamazione ufficiale dell’indipendenza del paese, avvenuta nel 2008. L’ultimo decennio fra democratizzazione e tensioni La guerra del Kosovo approfondì in Serbia la crisi della leadership di Milosevic, aprendo la strada ai cambiamenti politico-istituzionali degli anni duemila. L’economia serba era allo stremo e la popolazione era sempre più desiderosa di chiudere la lunga parentesi dell’emergenza. Il governo di Belgrado si ritrovò, per la prima volta dall’inizio delle guerre Jugoslave, davvero isolato sul piano internazionale. Le elezioni videro, poi, Milosevic sconfitto in favore di una colazione liberal-democratica. Il nuovo governo si distinse per l’apertura all’Occidente e il tentativo di gestire pacificamente il problema kosovaro. La lunga transizione albanese Dopo la morte di Hoxha (1985), il successore fu Ramiz Alia, il quale non portò grandi cambiamenti. Solo nel 1990 egli avvio una cauta liberalizzazione politica nel partito, accompagnata da piccole partire al mercato. Poi, Alia autorizzò la formazione di partiti alternativi, il principale dei quali era il partito democratico di orientamento anticomunista. Molti approfittarono del disordine politico e, soprattutto, della gravissima situazione socioeconomica (il paese rischiava, allora, la carestia) per cercare di emigrare, soprattutto in Italia. Negli ultimi dieci anni, le dinamiche politiche sembrano essersi avviate verso una relativa normalizzazione. L’economia albanese si è ripresa grazie agli investimenti esserteli e, soprattutto, alle ingenti rimesse degli emigrati. Nel 2009 il appese è entrati nella NATO e ha presentato la propria candidature a membro dell’UE. 1- SLOVENIA 2- BOSNIA ED ERZEGOVIN. _| 3- MONTENEGRO 4- KOSOVO 5- REPUBBLICA DI MACEDONIA ue Vologda “O Sankt Peterburg n volge Velikij Jovgorod o ì Aa Jaroslav! NiZnij Novgogod FÉ D E.R A ZI 0 NE Tyer C {Garland . Moskva Kalmaro/) x Ù mali N US SA | ‘OMalini d e ESSO, © Kiaipeda oTula © Brjansk REPUBBLICA ) Berli FEDERALE DI E ssd GERMANIA, ide Charkivo, Lablin de Poltava Vist \ Stuttgari U CURA I N A oStuttg Dizpr Daipropetrovsk gVinnyeja @r—Daipropetrovsk o. pamuio oCluj-Napsca RO/M ANIA Crimea Veneri ug o © Timigoara Brio = Salati ) È dale 0% Riel Ì A Sevastopol Bgjogna\\ - Constanpa o Ì N e Vama 0 BULGARIA N Nr OSofija aBurgas o sù . 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