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Riassunto "Medioevo" di Giovanni Vitolo, Dispense di Storia Medievale

Prima parte che comprende fino al capitolo 12.

Tipologia: Dispense

2017/2018

Caricato il 01/09/2018

Benedetta83771
Benedetta83771 🇮🇹

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Scarica Riassunto "Medioevo" di Giovanni Vitolo e più Dispense in PDF di Storia Medievale solo su Docsity! 1. IL MONDO ELLENISTICO ROMANO E LA DIFFUSIONE DEL CRISTIANESIMO La vicenda complessiva dell’impero romano ha somiglianze con le vicende di altri grandi organismi politici del tempo. A crearli furono popoli delle steppe euroasiatiche, definiti “indoeuropei”. A volte presero il posto delle popolazioni già presenti nei territori, ma in genere si fuse con esse. Il primo di questi grandi organismi è la Persia (attuali Iran, Iraq e buona parte di Pakistan e Afghanistan), conquistata da Alessandro Magno nel 331 a.C., passò poi sotto il dominio dei Parti (III sec. a.C.), che diedero vita a un potente impero che fu per secoli in lotta con quello romano per il possesso della Siria, Armenia e Mesopotamia. L’impero parto conservò l’impronta ellenistica che la regione aveva assunto sotto Alessandro Magno. L’India si configura come una grande civiltà agricola, creata dagli Ariani, un popolo indoeuropeo di pastori ed allevatori, divenuti contadini. In Cina, altra grande civiltà agricola che si formò due millenni prima della venuta di Cristo, dopo tensioni e scontri tra nomadi la situazione si stabilizzò e nel 246 a.C. seguì la creazione di un grande impero ad opera di Shihi Hwang-ti (detto Cesare cinese). Questi costruì uno stato fortemente accentrato, lottando contro l’aristocrazia e le pressioni degli Unni. Proprio per difendere il paese dalle loro incursioni, fece costruire nel 215 a.C. la “Grande Muraglia”. Il consolidamento proseguì con gli imperatori della dinastia Han (202 a.C.), una delle più gloriose della storia cinese. Si provvide a realizzare un reticolo di strade militari e insediamenti di contadini-soldati lungo la muraglia. Fra II e III sec. d.C. ci fu un periodo di aspre lotte sociali e incursioni degli Unni che portò prima alla divisione dell’impero in tre regni, successivamente alla sua riduzione alle sole province meridionali sotto la dinastia Chi. Indoeuropei erano anche i Celti presenti nel secondo millennio a.C. nella Germania renana, da qui si spinsero ad est nei Balcani, ovest nelle isole britanniche e a sud in Gallia, da dove giunsero nell’Italia padana. Qui furono bloccati dai romani e costretti ad arretrare, ma poi finirono per fondersi con le popolazioni latine (connubio latino-celtico), per contenere le pressioni di un altro popolo indoeuropeo, i Germani. È interessante sottolineare le analogie tra gli strumenti difensivi cinesi e romani: questi ultimi infatti, cercarono anche loro di fortificare la linea di confine lungo il corso di grandi fiumi (Reno, Danubio), costruendo a ridosso di essi fortificazioni e accampamenti per le milizie di frontiera (limitanei); l’opera difensiva che più somigliava alla Grande Muraglia fu il vallo di Adriano (122/127 d.C.), un lungo muro che correva da una parte all’altra della costa britannica, attrezzato di 320 torri di segnalazione, fortini ad ogni miglio, un fossato che correva all’interno del muro preceduto e seguito da terrapieni. Il limes (confine) segnava la separazione, netta sul piano politico, meno marcata dal punto di vista culturale, tra due diversi sistemi di vita. Da un lato troviamo i Germani che continuavano a spostarsi periodicamente, dall’altro un mondo imperniato sulle città e abitato da popolazioni inquadrate in sistemi socio-culturali complessi. La città non era un creazione originale dei romani, essi piuttosto ebbero il merito di estendere a tutta l’aria mediterranea e a regioni come Gallia e Britannia, elementi caratteristici della civiltà ellenistica, che avevano assimilato conquistando Macedonia, Egitto e Siria. Una città romana, diversamente da quella medievale, non si presenta separata dal territorio circostante, dato che non è circondata da mura (cominceranno a essere costruite nel III sec., sotto minaccia di invasioni esterne). L’urbs (centro urbano) aveva funzioni amministrative, politiche e commerciali di cui si avvalevano i residenti e gli abitanti delle civitas (territorio disseminato di case di contadini e ville di grandi proprietari). La campagna era organizzata attraverso centuriazione in un reticolo di campi di forma geometrica (centurie). Tra essa e il centro urbano si trovava il suburbio (una zona intermedia) in cui sorgevano, impianti artigianali, necropoli, ville lussuose e anfiteatri. La costruzione di questi ultimi e di altri edifici pubblici, nonché l’organizzazione di spettacoli erano a carico delle curie cittadine, piccoli senati locali cui presiedevano i maggiorenti della città. Ciò che caratterizzava questa classe sociale era il loro stile di vita. Le risorse provenienti dai latifondi erano destinate alla costruzione di ville e di edifici volti a innalzare il decoro della città. Peculiarità del loro stile di vita era anche la filantropia (spirito umanitario diffuso dallo stoicismo e altre correnti filosofiche) e la consuetudine alla pratica letteraria e ai dibattiti filosofici, per cui una buona mole di libri costituiva la dotazione di tutte le ville signorili (unico esempio: villa dei papiri a Ercolano). Questa consuetudine è dimostrata dal vanto che facevano delle loro biblioteche gli ignoranti arricchiti, di cui è espressione emblematica il personaggio di Trimalcione nel Satyricon di Petronio. Tra I e II sec. d.C. c’è una grande rifioritura della cultura e la diffusione della scrittura anche tra le classi meno abbienti. È proprio in questo periodo che entra in crisi la religione politeistica ufficiale, che non poteva più reggere il confronto con le nuove correnti filosofiche e i nuovi culti a finalità salvifica orientali. Questi offrivano ai proprio adepti disposti a seguire pratiche di espiazione e produrre impegno morale, la redenzione dal male e la salvezza individuale (culto del dio sole, culto di Iside e Osiride per ex.). Questo fenomeno si manifesta anche nelle altre regioni euroasiatiche in cui si erano formati complessi organismi socio-culturali: in India, Cina e Iran, attraverso buddhismo, confucianesimo e mazdeismo si era sviluppata la politica contro il politeismo e si era tentata una risposta nei confronti del dolore e della morte. Peculiare del mondo romano fu l’aspra concorrenza che si fecero le varie religioni salvifiche: all’inizio sembrarono trionfare il culto di Cibele e del dio Mitra, ma entrambi furono soppiantati dal cristianesimo nel corso del IV sec. Ciò avvenne per l’inconciliabilità dei riti e delle pratiche orgiastiche di quei culti con l’equilibrio morale e intellettuale delle elites cittadine. Lo stesso cristianesimo divenne maggioritario nel momento in cui si liberò dai toni apocalittici e da ogni forma di contestazione verso le evidenti ingiustizie che caratterizzavano la società del tempo (ex: schiavitù). A conferirgli un carattere rassicurante concorreva anche il tipo di organizzazione basata su una gerarchia sacerdotale (presbiteri, vescovi e diaconi). Il merito di aver reso universale il messaggio cristiano spetta in particolar modo a Paolo di Tarso “apostolo delle genti”. Per 30 anni fu il punto di riferimento delle comunità cristiane sparse per l’impero. La sua predicazione si svolse nelle città; la conseguenza fu che le campagne restarono legate ai loro culti tradizionali, che non di rado si erano sottratti anche all’influenza del paganesimo ufficiale. Di questo i cristiani ebbero subito consapevolezza, infatti coniarono il termine pagano, che vuol dire per l’appunto “contadino”, in riferimento a coloro i quali rifiutavano il messaggio di salvezza. La nuova religione finì per aderire sempre più intimamente alle strutture profonde della società romana: i vescovi ben presto vennero scelti tra quelle stesse famiglie che rappresentavano le elites cittadine. Questa comunanza tra amministratori pubblici e capi delle chiese locali crea le premesse per quel connubio tra autorità religiosa e politica che avrà in futuro sviluppi clamorosi. Ciò, infine, mostra come sia stato solo per breve tempo aderente alla realtà storica il modello della chiesa primitiva in cui i cristiani vivevano in perfetta carità. Prima di arrivare a ciò, il cristianesimo dovette affrontare delle persecuzioni, che risultano strane considerando che l’impero era in genere tollerante per quanto riguardava la religione. Infatti, in realtà, la diffidenza verso i cristiani era di natura politica e nasceva dal fatto che erano stati in origine assimilati agli ebrei, i quali più volte si erano ribellati all’impero. Queste ribellioni successivamente sfociarono in una crisi di enormi dimensioni, dalla quale si cercò di uscire accentuando l’intervento dello stato in ogni settore della vita economica e sociale ed il carattere sacrale del potere imperiale; quest’ultima operazione risultava inaccettabile ai cristiani, che rifiutavano ogni forma di venerazione religiosa nei confronti dell’imperatore. All’origine della crisi c’erano da un lato lo sviluppo abnorme delle città, nelle quali c’era una quota troppo alta della popolazione rispetto alle capacità produttive, dall’altro l’abbandono da parte dei contadini di terre che diventavano sempre meno produttive. Inizialmente la situazione si mantenne in un equilibrio precario, finché fu possibile rifornire di grano le città acquistandolo in Egitto. Però il peso di queste spese divenne insostenibile tra II e III sec., quando fu necessario destinare alla difesa contro la minaccia germanica quote sempre più elevate. Ovviamente la crescita della spesa pubblica aumentò l’inflazione. L’occidente inoltre comprava in oriente merci di maggior valore rispetto a quelle che vi esportava, principalmente a causa della domanda di prodotti di lusso che proveniva dalle classi più agiate. Così, alla lunga, l’occidente andò incontro a un progressivo impoverimento. I contraccolpi politici e sociali non tardarono a manifestarsi con carestie, epidemie, brigantaggio, pirateria, rivolte cittadine, tutto ciò proprio mentre i germani minacciavano l’impero. Proprio mentre l’impero era sul punto di sfaldarsi, riuscì a riprendersi grazie ad imperatori di un notevole spessore politico. Il personaggio-chiave fu Diocleziano, acclamato imperatore nel 284. Per frenare l’abbandono delle campagne, i contadini furono legati definitivamente alle terre, poiché gli fu proibita ogni mobilità e lo stesso si fece con artigiani, commercianti, ecc. Un decreto del 301 infine, fissava prezzi e salari, completando quest’opera di burocratizzazione dell’economia, che ritardò la caduta dell’impero quasi di due secoli. Inoltre attuò una riforma che prevedeva la divisione dell’autorità imperiale tra due Augusti e due Cesari (questi ultimi sarebbero poi succeduti ai primi, nominando a loro volta altri due Cesari). Il secondo Augusto e i Cesari acquistarono sempre più potere, mentre Diocleziano accentuò sempre più il suo ruolo sacrale. Il cristianesimo fu avvertito da Diocleziano come un elemento di pericolo per l’unità interna, perciò fu oggetto di persecuzione a partire dal 303. Costantino, suo successore, invece, intuì che il cristianesimo sarebbe potuto diventare un elemento di forza e con l’editto di Milano riconobbe alle chiese cristiane libertà di culto e restituì i beni confiscati. La scelta di Costantino si rivelò felice, considerando la rapida e piena adesione della chiesa all’impero. suolo, ripulito dalla vegetazione tramite fuoco e non sottoposto a pratiche di concimazione, doveva essere abbandonato per anni. Questo spiega i loro continui spostamenti alla ricerca di terre più ricche. L’acquisizione di nuove terre, però, non provocava tensione e scontri, poiché non esisteva il concetto di proprietà fondiaria e gli appezzamenti erano distribuiti ai vari clan, non al singolo. A livello individuale, essi mantenevano la proprietà della ricchezza da loro più ambita, vale a dire il bestiame. L’organizzazione della società girava tutta intorno alla guerra: l’unica gerarchia esistente era quella dei duces, capi militari riconosciuti per il prestigio guerriero e per la potenza magico-sacrale (quest’ultima faceva sì che il valore militare tendesse a trasmettersi nelle stesse famiglie). Nonostante il loro prestigio, questi non si consideravano superiori agli altri uomini liberi. L’unico strumento per emergere era la capacità, fondata sul valore di guerra, di aggregare intorno a se un gruppo di giovani guerrieri, per compiere scorrerie e razzie. Il gruppo si scioglieva dopo ogni impresa, ma negli anni tese a stabilizzarsi. Ciò portò a una maggiore ricchezza e al primo apparire in tempo di guerra di un capo unico scelto per il suo valore. All’origine di questa evoluzione c’era chiaramente l’influenza della civiltà romana, con le sue rigide gerarchie sociali. In particolare, carica di conseguenze fu la stabilizzazione di un comitato, perché creò le premesse per l’emergere delle elites guerriere. La ricettività dei germani nei confronti delle culture con cui venivano in contatto, è dimostrata dalle vicende dei Goti, un popolo formato per aggregazione nel corso dei vari trasferimenti. Al termine delle loro trasmigrazioni, si trovarono molto cambiati rispetto agli antenati; infatti, i contatti con altri popoli lasciarono una forte impronta sulla loro religione, assetto sociale (più gerarchico) e modo di combattere (a cavallo), portando alla creazione di monarchie tribali a carattere militare. La penetrazione dei germani nell’impero si faceva sempre più consistente. Già nel I sec. il loro apporto si rivelò indispensabile per il reclutamento delle legioni da schierare a difesa dei confini, sia per ripopolare le regioni periferiche spopolate proprio in conseguenza delle incursioni germaniche. Il risultato fu che nel III sec. la presenza dei germani nell’esercito era prevalente, arrivando a lambire anche i vertici. L’impero comunque riuscì a superare il momento critico, respingendo gli attacchi dei Goti, sconfitti nel 269 dall’imperatore Claudio II e per circa un secolo non furono più un pericolo (si tentò anche di ridurne l’aggressività convertendoli al cristianesimo). Quando però sembrava raggiunto un equilibrio tra romani e germani, arrivarono gli Unni dalle steppe asiatiche a turbare le acque. Travolsero e inglobarono prima gli Alani, poi gli Ostrogoti (goti dell’est) e infine i Visigoti (goti dell’ovest), legati all’impero da un trattato di alleanza. Questi, dopo aver tentato in vano di resistere, ottennero dall’autorità imperiale di varcare il confine e stanziarsi in Tracia (Romania), dove si sarebbero mantenuti con i tributi delle popolazioni locali, dovendo provvedere alla difesa della regione. Il pericolo a questo punto pareva scongiurato, poiché gli unni, organizzati come insieme di tribù guidate dall’aristocrazia guerriera e non come un esercito, vedevano affievolirsi la loro potenza espansiva man mano che si allontanavano dalle regioni d’origine. La loro ondata ebbe però l’effetto indiretti di ridestare le tensioni tra germani e romani: in Tracia l’insediamento dei visigoti si era rivelato difficoltoso a causa dell’ostilità della popolazione e delle rapine ai danni della città. Ne nacque una guerra aperta che terminò il 9 agosto 378 con uno dei più grandi disastri militari della storia romana: la distruzione dell’esercito imperiale da parte dei goti presso Adrianopoli e la morte sul campo dell’imperatore Valente. Questa viene considerata dagli storici l’inizio della fine dell’impero. Sembrò di riprendere in mano il controllo della situazione grazie a Teodosio, che riuscì a stipulare un accordo coi visigoti che prevedeva il loro trasferimento nell’Illirico (Bosnia-Erzegovina, Albania, Grecia). Con Teodosio fu possibile restaurare (392-395) l’unità imperiale assai labile. Si trattò di una situazione transitoria, infatti fu inevitabile che alla sua morte l’impero venisse diviso definitivamente tra i suoi due figli Onorio e Arcadio. Al primo spettò l’occidente e al secondo l’oriente. Poiché erano entrambi molto giovani, il padre impose ad Onorio la tutela del generale vandalo Stilicone, mentre ad Arcadio quella del goto Rufino. La scelta dei due tutori si inquadrava nella politica di Teodosio di apertura verso le popolazioni germaniche attraverso l’accoglimento nell’impero come federati e nell’esercito. Ciò comportò l’ingresso dei germani nel senato, provocando tensioni nell’aristocrazia senatoria. Il personaggio-chiave di questo processo fu Stilicone, stretto collaboratore di Teodosio. La sua posizione si faceva di volta in volta più delicata: infatti, da un lato, cominciò a crescere nella corte l’opposizione verso elementi di origine barbarica (reazione all’estromissione degli ufficiali di origine germanica dalle alte cariche militari e non concedergli più stanziamenti in Oriente); dall’altro, aumentavano le pressioni degli Unni, alimentati dall’impero d’oriente, su visigoti e altri germani. La situazione precipitò nel 406, quando nella notte di s. Silvestro il confine del Reno fu superato da Vandali, Alani e Svevi, cui si aggiunsero Franchi e Burgundi, fino a giungere in Spagna. Il prestigio di Stilicone fu scosso irrimediabilmente, per cui finì vittima di una sollevazione delle truppe romane. Questo evento aprì le porte in Italia ai Visigoti, guidati da Alarico: dalla porta Salaria (24 ago. 410) entrarono a Roma e sottoposero la città a un saccheggio per 3 giorni (il saccheggio, comunque, coinvolse esclusivamente i quartieri più ricchi, per questo si ha l’impressione che Alarico lo abbia voluto compiere a scopo puramente dimostrativo verso Onorio, con il quale aveva cercato inutilmente di giungere a un accordo per lo stanziamento dei Visigoti). Con la città, crollò il mito della sua invincibilità e la fede nella sua missione eterna, provocando discussioni tra pagani e cristiani: i primi condannarono il cristianesimo, considerandolo causa della crisi dell’impero; i secondi, reagirono in maniere differenti di cui rilevante è la reazione di s. Agostino, che rinnovò in una sua opera la sua fede nella civiltà romana ed elaborò un’ideologia politica che darà la sua impronta a tutto il medioevo. Una data di non ritorno fu il crollo della frontiera del Reno. Morto Alarico qualche mese dopo, i Visigoti si stanziarono come federati in Aquitania e Gallia meridionale. Anche Vandali, Alano, Svevi, Franchi e Burgundi furono riconosciuti come federati sulla base dell’istituto dell’hospitalitas, che prevedeva di cedere 1/3 delle terre ai germani. I nuovi federati erano più di soldati stanziati: vivevano con le loro famiglie e con le proprie leggi. L’autorità dell’imperatore d’occidente si esercitava oramai solo sull’Italia e le province ad essa confinanti (Provenza, Dalmazia, Rezia, Norico). La scomparsa di Stilicone aveva creato l’illusione che anche in Italia potesse aversi un orgoglio nazionale e l’estromissione dei germani dai vertici dello stato. Presto però fu chiaro che l’apporto dei germani era essenziale per la sopravvivenza di ciò che restava dell’impero, per cui si tornò a una politica di convergenza tra i due popoli, di cui si fece interprete Ezio, un generale di origine romana cresciuto tra gli unni. Questi ultimi sotto la guida di Attila avevano invaso la Gallia e minacciavano l’Italia. Ezio riuscì a batterli nel 451 sui Campi Catalaunici, alla testa di un esercito formato da Visigoti e Burgundi. Tuttavia, l’anno dopo, Attila arrivò in Italia attraverso il Friuli, distruggendo Aquileia (i cui abitanti si recarono nelle isole della laguna, dando vita a quella che sarà poi Venezia). La sua marcia si arrestò quando andò incontro al papa Leone I, in qualità di ambasciatore di Valentiniano III. Per questo la tradizione cristiana attribuisce lo scampato pericolo a un miracolo attuato dal pontefice, probabilmente, però, il ritiro di Attila è nato dal timore di un attacco di Costantinopoli ai suoi domini. Nel 454 Ezio fu ucciso dall’imperatore stesso, che a sua volta cadde l’anno dopo per mano di seguaci di Ezio. La loro scomparsa creò una situazione ancora più confusa, con il succedersi rapido di vari imperatori privi di potere reale, nelle mani di comandanti delle forze romano-barbariche. Tra questi di spicco fu Odoacre. Questi, dopo aver deposto nel 476 il giovane imperatore Romolo Augustolo, rimandò a Costantinopoli le insegne imperiali, dichiarando di voler governare ciò che restava dell’impero d’occidente in nome dell’imperatore d’oriente con il solo titolo di patrizio; allo stesso tempo assunse il titolo di re dei germani che lo avevano appoggiato. Questi avvenimenti, pur provocando sofferenze alla popolazione, non sconvolsero l’assetto sociale dell’Italia, caratterizzato dall’egemonia dell’aristocrazia senatoria, che aveva avuto nell’ultimo secolo una notevole capacità di iniziativa politica. Anche se al tempo di Odoacre dovette cedere le proprie terre (per l’hospitalitas), non gli fece mancare il suo sostegno, vedendo in lui il personaggio adatto all’inserimento non traumatico delle popolazioni germaniche nella società. Per incarico dell’imperatore Zenone, preoccupato dell’espansionismo di Odoacre in Dalmazia, Teodorico nel 489 portò in Italia il suo popolo. L’aristocrazia si volse dalla sua parte, perché vide in lui la capacità di mantenere saldi gli equilibri sociali esistenti. Infatti Teodorico mostrò subito di voler operare in accordo sia con l’aristocrazia, sia con la chiesa cattolica. Era la prima volta che in Italia si stanziava un intero popolo e che si operava un trasferimento di terre di così grandi dimensioni (hospitalitas); l’operazione però non fu traumatica, a causa del declino demografico allora in atto. Così si realizzò una coesistenza di due comunità con distinti ordinamenti giuridici e unite nella figura di Teodorico, titolare della carica di prefetto d’Italia. I goti erano governati da comites (conti) ed erano gli unici ad avere il diritto di portare le armi. I romani, esclusi dall’esercito, formavano una comunità distinta: continuavano a vivere secondo il diritto romano e il tradizionale apparato politico-amministrativo. Questa pratica costituiva una novità per l’Italia, ma non per le altre regioni dell’impero, specialmente quelle ai confini, poiché in esse era consueta la pratica dell’ospitalità, che aveva portato alla possibilità di un gruppo etnico di vivere secondo le proprie leggi, in un territorio regolato da leggi differenti (personalità del diritto). Teodorico perseguì l’obbiettivo di tenere separati i due popoli rifacendosi a una legge romana del 370, che vietava i matrimoni tra romani e barbari e sosteneva l’arianesimo come elemento essenziale di identità culturale. L’aristocrazia gota, che ricopriva cariche militari, entrava a far parte del consiglio del re (consistorium) insieme ai romani, ma non più del senato (presidio della romanità). Ad eccezione del ceto dirigente, gli ostrogoti hanno mantenuto anche nell’abitazione differenze coi romani: vissero sotto forma di presidi militari, mantenendo una propria coscienza politica e uno stile di vita ispirato alla loro cultura bellicosa. Teodorico stesso riteneva ineguale lo scambio tra i due popoli e che l’integrazione dovesse avvenire in un secondo momento in cui i goti avessero preso coscienza della loro possibilità di elevarsi al livello di civiltà dei romani. Cassidoro (colto aristocratico romano fedele al re) compì molti sforzi affinchè questo avvenisse, non in vano: infatti, non erano pochi i goti che sapevano il latino e il greco, e i romani che conoscevano il goto. Simbolo del fascino che esercitavano la cultura romana e insieme quella barbarica su Teodorico, è il mausoleo destinato a custodire le sue spoglie, che rivela nell’impianto strutturale e negli elementi ornamentali un indubbio riferimento alla cultura barbarica e allo stesso tempo si inserisce nella tradizione dei monumenti imperiali. Il sogno di Teodorico di essere “custode della libertà e propagatore del nome romano” si infranse contro le resistenze del mondo germanico e di quello romano: la sua politica scontrò con un analogo progetto concepito dal re dei franchi Clodoveo; inoltre si complicavano anche i rapporti col mondo romano in seguito al ristabilirsi dell’intesa tra papato e impero d’oriente. Questa ebbe come duplice conseguenza di orientare favorevolmente verso l’imperatore l’aristocrazia romana e di inasprire i rapporti con i goti, che erano ariani, dato che papa e imperatore avevano concordato misure severe contro gli eretici. Dopo la morte di Teodorico nel 526, la potenza dei goti aveva iniziato una parabola discendente. Tra il 533 e il 534, i Vandali dell’Africa furono travolti dall’espansionismo di Giustiniano e sparirono definitivamente dalla scena politica. I due organismi più saldi nati dal disfacimento dell’impero d’occidente erano Visigoti (Gallia centro-meridionale, penisola Iberica) e Franchi (Gallia nord-orientale). Questi regni furono accomunati dalla capacità dei loro sovrani di dare stabilità al loro potere fondandolo su una convergenza tra aristocrazia romana e episcopato cattolico. I Visigoti, dopo aver ottenuto l’Aquitania da Onorio, si espansero in Provenza e nella penisola Iberica. Furono però bloccati dai Franchi che nel 507 li sconfissero, togliendo loro l’Aquitania, spingendoli definitivamente vero la penisola Iberica. Qui non modificarono la loro organizzazione politica, caratterizzata da un connubio con l’aristocrazia locale. Ciò influì sull’aristocrazia gota, che alle sue attitudini guerriere unì la cura per i patrimoni acquisiti, e sulla monarchia, che si volse all’assunzione di prerogative proprie degli imperatori romani, tentando di portare a pieno compimento il processo di elevazione del re al di sopra del popolo. Questo portò a una notevole attività legislativa valida per entrambe le popolazioni (ordinamento giuridico valido per l’intero territorio del regno=territoriale), volta a mettere per iscritto per la prima volta le leggi e le consuetudini dei visigoti. Questo orientamento monarchico provocò dissenso tra l’aristocrazia gota, interessata a far valere il principio dell’elezione del re da parte del popolo in armi. Tale problema resterà aperto per tutto il medioevo e fu risolto volta per volta con soluzioni di compromesso tra prerogative dinastiche e principio elettivo, quindi contribuì ad orientare sempre di più la monarchia verso la fusione dei due popoli e alla collaborazione con l’episcopato cattolico. Ne nacque una collaborazione che si espresse nel concilio di Toledo (assemblee di vescovi ed esponenti dell’aristocrazia gota), convocata dal re per deliberare sui problemi relativi al regno. Tutto ciò lasciava presagire stabilità per i visigoti, turbata alla fine dall’arrivo degli Arabi nel 711. A questo stesso imprevisto fu sul punto di soccombere anche il regno dei Franchi, che ebbe, però, la forza di fermare a Poitiers nel 732 l’onda dell’espansione araba. I franchi, però, a differenza dei visigoti non avevano sempre fatto parte di un organismo politico unitario: a partire dal 482, tanti piccoli aggregati furono inglobati nel dominio di Clodoveo, iniziatore della dinastia merovingia. Dopo aver eliminato nel 486 l’ultima presenza romana in Gallia, si volse verso le popolazioni germaniche per scacciare, o dominarle. Trovò un ostacolo sono in Teodorico (re degli Ostrogoti), il quale intervenne a difesa di visigoti e alamanni e cerò di coordinare intorno a se tutti i gruppi etnici minacciati dai franchi. Ciò nonostante, quando morì nel 511, Clodoveo controllava tutta la Gallia romana. I suoi successori inglobarono i Turingi, Burgundi e la Provenza. Alla base dei suoi successi c’era la collaborazione con la colta aristocrazia gallo-romana e con l’episcopato cattolico. Ne è la prova la tempestiva conversione di Clodoveo dal politeismo al cattolicesimo; in questo modo eliminò le tensioni che si stavano creando con ostrogoti e visigoti (ariani). Così si accelerò anche la fusione tra aristocrazia franca e gallo-romana, nonché tra i popoli. Da questo incontro venne fuori un ceto dirigente che non corrispondeva più a nessuno dei due: i capi dei clan franchi impararono a usare non solo come mezzo di orientali. Fra X e XI sec. le differenze erano diventate talmente profonde che si deve parlare di diverse nazioni slave, affini linguisticamente, ma con una loro peculiare identità, formatasi durante un processo lungo e contrastato. Gli slavi meridionali si insediarono nei Balcani tra VII e VIII sec., dopo aver compiuto già al tempo di Giustiniano varie incursioni. A un certo punto, però, alla loro pressione si aggiunse quella degli Avari (popolazione mongolica proveniente dal nord del Caucaso), e si fece sempre più forte, culminando nell’assedio di Tessalonica e di Costantinopoli, ciò proprio un periodo in cui Bisanzio era impegnata in una lotta con i Persiani; per questo non fu possibile contrastare l’occupazione di ampie regioni della penisola balcanica, che furono interamente slavizzate. Fu sul finire del VII sec., che i bizantini poterono occuparsi di recuperare la loro influenza sui Balcani. Qui intanto la situazione si era complicata, per la conquista da parte del popolo turco dei Bulgari, della Dacia e della Mesia, regioni in cui si erano insediate già tribù slave; il risultato fu che i Bulgari subirono un processo di slavizzazione, formando una formazione politica bulgaro-slava, riconosciuta nel 681 da Bisanzio con un trattato di pace. Nelle restanti regioni di insediamento slavo, si tentò di recuperare la posizione perduta, alternando massacri a azioni diplomatiche. Tra gli interventi di carattere non violento ebbe priorità l’opera di evangelizzazione, per cui ci fu una bipartizione tra i popoli slavi che ricevettero il cristianesimo da Bisanzio, e i popoli slavi che lo ricevettero da Roma. Questa divisione di carattere religioso è ancora oggi uno dei motivi della contesa tra serbi e croati. La cristianizzazione fu opera soprattutto di due missionari: Cirillo e Metodio, due fratelli, che non si limitarono all’evangelizzazione, ma affiancarono ad essa un’attività di stimolo sul piano culturale, attraverso la creazione di una lingua liturgica slava; Cirillo creò un alfabeto, partendo dalla base dell’alfabeto greco corsivo, cui seguì l’alfabeto cirillico. La sopravvivenza di Bisanzio fu possibile anche grazie ad una profonda riorganizzazione dell’impero avviata dall’imperatore Maurizio e proseguita poi dal successore Eraclio. Maurizio, trovandosi nella necessità di concentrare tutti i suoi sforzi nei Balcani e in Asia Minore, volle mettere le province occidentali dell’impero in grado di provvedere alla propria difesa con milizie locali, affidandole a governatori militari, detti esarchi, che furono posti a capo dell’apparato amministrativo, annullando così la separazione tra potere militare e civile. L’uccisione di Maurizio (602) da parte del sottoufficiale Foca, rese impossibile il progetto e inaugurò un periodo disastroso, caratterizzato da persecuzioni contro gli esponenti del precedente governo e da una grave debolezza nei confronti dei tradizionali nemici, in particolar modo dei Persiani, i quali, professandosi protettori delle minoranze religiose perseguitate dall’impero, invasero e conquistarono Antiochia, Alessandria e Gerusalemme, da cui furono asportate sacre reliquie di valore inestimabile. Proseguì l’opera di ricostruzione l’imperatore Eraclio, che puntò, ispirandosi ai principi di Maurizio, alla riforma militare e amministrativa della parte orientale dell’impero: ciò che restava dell’Asia Minore fu così diviso in nuove circoscrizioni territoriali (temi) a capo di cui c’era uno stratega. Si trattava di una organizzazione che era stata già attuata in età antica (limitanei), la novità quindi stava nell’ampiezza dell’intervento che coinvolse: ex mercenari, contadini, ex schiavi, slavi, immigrati che fuggivano dalle pressioni dei Persiani. Le misure di Eraclio non tardarono a dare frutti, soprattutto sul piano del patriottismo e della coesione interna. Riuscì così a mobilitare le forze dell’impero tra il 626 e il 630 contro i Persiani, sconfiggendoli definitivamente. Conquistò definitivamente Ctesifonte, capitale dell’impero e impose un trattato di pace che prevedeva la restituzione dei territori conquistati, il pagamento di un’indennità di guerra e la restituzione della santa croce portata via da Gerusalemme. Questa situazione espresse bene il tramonto di una formazione politica (Persiani), che di li a poco sarebbe stata definitivamente conquistata dagli Arabi. Dopo ciò Eraclio si volse immediatamente verso Costantinopoli per cacciare gli Avari definitivamente, che premevano per entrare nella città. Dinnanzi alla nuova minaccia araba, Eraclio ritenne necessario fare un ulteriore passo per superare l’opposizione dei monofisiti. Nel 638 dal patriarca di Costantinopoli Sergio fu elaborata una formula di compromesso che accettava la conclusione del concilio di Calcedonia dell’esistenza di due nature di Cristo, ma le presentava unite sotto un’unica volontà (monotelismo). Questa nuova dottrina ebbe all’inizio buona accoglienza anche a Roma, dove tardarono a coglierne il carattere eretico. Il risultato fu che all’approvazione del papa Onorio, seguirono l’opposizione dei pontefici successivi e l’insorgere di un lungo conflitto tra impero e papato che restò acceso fino al 680. Dunque, il monotelismo non solo era stato respinto dai monofisiti e dagli ortodossi, ma aveva anche reso gli animi più accesi. Da ciò risultò indebolita la capacità di resistenza di fronte all’invasione degli arabi, che nel 638 investirono Siria, Palestina ed Egitto, dove, confidando nella tolleranza religiosa islamica, aprirono loro le porte di Alessandria. Eraclio, dopo aver recuperato attraverso smaglianti vittorie gran parte dei territori che erano appartenuti all’impero, dovette assistere alla loro perdita definitiva sotto l’urto degli arabi. Questi, tuttavia, non riuscirono a venire a capo della resistenza dei bizantini, grazie alla saldezza dell’ordinamento militare e amministrativo di Eraclio, che costituirà il fondamento dell’impero fino al 1453. Ormai l’impero era ridotto a circa un terzo di ciò che era, comprendendo gran parte della Turchia, la Tracia, parte dell’Italia dei longobardi, ma all’interno di questi confini seppe resistere alla pressione di arabi e bulgari ed anche a riprendere una politica estera, soprattutto nei Balcani. Il risultato fu il formarsi di una civiltà slavo-ortodossa, con la bizantinizzazione degli slavi. 4. L’ITALIA TRA BIZANTINI E LONGOBARDI Giustiniano nel 535 avviò la riconquista dell’Italia, inviandovi un esercito guidato da Belisario. La prima fase di guerra si concluse nel 540 con la conquista di Ravenna e il ritiro dei goti oltre il Po. Mentre Belisario veniva richiamato in patria, i goti ripresero l’offensiva nel 542, sotto la guida del re Totila, che tentò di mobilitare contadini e schiavi arruolandoli. I bizantini al comando del generale Narsete, lo sconfissero e uccisero e, qualche mese dopo, sopraffecero anche il successore Teia. La guerra, però, non finì con la sua morte. Dei gruppi resistettero fino al 555 sull’Appennino, mentre nel 554 l’Italia veniva saccheggiata da franchi e alamanni, chiamati dai goti in un disperato tentativo di ribaltare le sorti della guerra. La riconquista fu accompagnata dal tentativo di restaurare gli antichi rapporti sociali e di dare al territorio un nuovo assetto amministrativo, sulla base della prammatica sanzione di Giustiniano. Terre e greggi furono restituiti ai vecchi proprietari, lo stesso si fece con gli schiavi, anche se ormai erano sposati con donne libere, le chiese cattoliche ottennero buona parte dei terreni confiscati alle chiese ariane, infine, l’Italia fu divisa in distretti nei quali l’amministrazione civile era assegnata a un iudex e quella militare a un dux, posti sotto l’autorità di Narsete. Nello stesso tempo si mise in piedi un apparato fiscale e si arrivò a riscuotere le tasse arretrare, mentre le spese pubbliche venivano ridotte. Tutti questi provvedimenti, avrebbero dovuto fornire all’impero i mezzi per una politica espansionistica, ma ebbero l’effetto di generare nei cittadini nostalgia per il precedente regime politico, creando le premesse per il crollo del dominio bizantino in gran parte della penisola, in seguito all’invasione dei longobardi. I longobardi erano un popolo germanico originario della Scandinavia, che nel 568 giunse in Italia, attraverso il Friuli, sotto la guida del re Alboino. Questi non avevano avuto un contatto in precedenza con il mondo romano, come gli altri popoli germanici, e il loro trasferimento dalla Pannonia (Ungheria) non era stato concordato con Bisanzio, né avveniva sotto il principio dell’ospitalità. Di conseguenza il loro regno si pose nei confronti della popolazione latina come dominazione straniera che non aveva bisogno di apporti di elementi locali. Infatti, erano fra tutti i popoli germanici, quelli che meno si allontanarono dalle loro tradizioni: il re aveva un carattere militare, eletto dall’aristocrazia nei momenti di necessità; l’esercito si articolava in gruppi di guerrieri appartenenti a famiglie che si muovevano con una certa autonomia, stanziandosi nei territori via via conquistati. Questo fece si che la conquista procedesse in base all’iniziativa dei duchi, che avanzavano non con un piano unitario, ma nelle direzioni dove trovavano minor resistenza. Il duca che si spinse più a sud fu Zottone, che giunse a Benevento. Le varie conquiste però erano prive di unità con il grosso territorio dei longobardi concentrato nella pianura padana, in Piemonte, Friuli, Trentino, Toscana. I bizantini infatti, riuscirono a mantenere la Romagna, le isole, il litorale veneto, l’Istria, le coste di Liguria e Toscana, un fascia da Civitavecchia ad Amalfi e gran parte di Puglia e Calabria. L’incompletezza della conquista, oltre che dalla resistenza bizantina, fu causata anche dallo spirito dei duchi, che, alla morte del re Alboino e del suo successore, non si diedero un re per ben 10 anni: periodo della anarchia militare. A tal riguardo le fonti sono scarse e cripitiche, ma oggi si tende a credere che in alcune aree gli sconvolgimenti della conquista siano stati a più forte insediamento lombardo, come in Lombardia, unica regione italiana che ha tratto il nome da un popolo germanico, dove molti proprietari romani furono uccisi e le terre requisite. La popolazione romana, se non fu ridotta in schiavitù, fu completamente privata di capacità politica. Poterono inserirsi in questo dominio militare quei discendenti dei romani che furono capaci di accumulare beni e risorse finanziarie a patto di accettare il diritto e la tradizione dei dominatori. Proprio l’Italia, la culla della romanità, ebbe l’impatto più traumatico con le popolazioni germaniche. Perciò il 568 segna un punto di rottura, visibile non solo nei volti dei nuovi proprietari e nella condizione di inferiorità dei latini, ma soprattutto nello sconvolgimento sia delle circoscrizioni amministrative romane, sia di quelle ecclesiastiche (i vescovi, privati dei titoli, si rifugiarono nei territori bizantini, poiché i longobardi, ariani, non mostrarono di avere nessun riguardo per la chiesa cattolica). Ciò, non significa però disarticolazione della rete degli insediamenti urbani e rurali: infatti, i longobardi, scelsero siti già abitati dai romani; gli stessi cimiteri, i resti tipici della civiltà longobarda, sorsero in siti già utilizzati. Le strutture edilizie erano state già degradate dal IV-V sec., per cui, l’invasione longobarda, è stata solo un fattore aggravante. D’altronde, i longobardi, erano già abituati, dal loro precedente soggiorno in Pannonia, a servirsi di costruzioni e infrastrutture romane già degradate. I longobardi, spinti dalla necessità di difendere i beni acquisiti, furono bene presto indotti a darsi un ordinamento politico più evoluto. Così, si volsero verso il modello romano, con conseguente rafforzamento del ruolo del re, che comportava la ricerca dell’appoggio dell’episcopato cattolico e del popolo romano. Quindi, iniziarono dalla restaurazione dell’autorità regia, nel 584 ad opera di Autari, che si fece cedere dai duchi metà delle loro terre per consentire alla monarchia i mezzi necessari al suo funzionamento (si sottrassero alla richiesta solo i duchi di Benevento e Spoleto, molto autonomi). Per gestire i beni della corona e limitare i poteri dei duchi, furono creati i gastaldi, che avevano una funzione di controllo per conto del re ed i gasindi, legati al re da vincoli personali. Ad Autari successe Agliulfo (590), con il quale, per la prima volta, non ci si pose in contrasto con la chiesa cattolica, allora guidata da Gregorio Magno, un grande e importante pontefice. Era discendente di una nobile famiglia romana (Anici), dopo essere stato prefetto di Roma, si era dedicato alla vita religiosa e aveva trasformato in monastero la sua casa; nominato cardinale, soggiornò a lungo a Costantinopoli e, tornato a Roma, divenne consigliere del papa, per poi succedergli; divenuto pontefice, mantenne i suoi costumi di monaco, facendosi chiamare servus servorum Dei, appellativo destinato a diventare ufficiale per i pontefici. Allora, il primato del pontefice, era privo di contenuti effettivi e questo era un fattore di debolezza, perché lasciava i vescovi dell’occidente privi di punti di riferimento sicuri. Il vuoto fu colmato da Gregorio Magno, che concepì di rendere autonomo il papato dall’impero bizantino, facendone la guida della chiesa universale. L’autorità si basò sulla capacità di ristabilire uno stretto collegamento con gli altri vescovi occidentali, attraverso lo scambio di lettere, in cui si discuteva dei problemi più disparati. Per loro scrisse anche opere di edificazione religiosa. Allo stesso tempo, si preoccupò di riordinare e diffondere la liturgia romana e di un’importante opera di evangelizzazione delle popolazioni pagane e ariane: in Inghilterra, ma soprattutto tra i visigoti in Spagna e i longobardi in Italia, anche se qui, non conseguì il successo sperato dall’adesione al cristianesimo. Questa intensa opera, non gli fece mai assumere caratteri di intolleranza, per cui ai missionari si raccomandava di procedere gradualmente e nel rispetto delle tradizioni locali. La sua attività gli permise anche di dedicarsi al governo e alla difesa di Roma, salvando la città dagli attacchi dei duchi di Spoleto e Benevento e del re Agliulfo. I Dialogi sono un’opera di cui fin dal XVI secolo si è discussa la paternità gregoriana, ma che ora la maggioranza degli studiosi sono orientati ad attribuire al pontefice. All’origine della perplessità, sono il carattere popolaresco e il basso livello letterario dei dialogi, che sembrano inconciliabili con il resto della sua produzione. Queste difficoltà risultano però superate, se si tiene conto della situazione dell’Italia e della chiesa al tempo. Per cogliere la gravità della situazione, basta fare il confronto con la Gallia dei Merovingi, dove la chiesa continuava ad essere guidata da vescovi e abati provenienti dall’aristocrazia ed operava in piena sintonia con le gerarchie militari e politiche. Ne risultò uno sforzo di tutti i potenti contro la cultura folklorica. Nell’Italia non ci fu niente di tutto questo: la crisi delle città si rifletteva sull’organizzazione ecclesiastica e sull’attività pastorale, svolta da un numero esiguo di chierici e sacerdoti, tra i quali eta sempre più difficile trovarne uno in grado di assumere dignità vescovile. Una chiesa che ha quindi difficoltà di rapporti col potere politico e non riesce a svolgere la sua opera di evangelizzazione. Per cui, fu necessaria l’opera dei padri italici (soprattutto monaci di modesta estrazione sociale) che potevano portare avanti l’opera di evangelizzazione nelle campagne, non in quanto uomini di chiesa, ma come uomini di Dio. I tentativi di Gregorio di avere contatti con la corte regia di Pavia, ebbero successo grazie al fatto che la regina Teodolinda era cattolica oltre che influenzata dalla cultura romana. Il battesimo con il rito cattolico nel 603 dell’erede al trono Adaloaldo, non comportò però la conversione in massa dei longobardi a causa soprattutto della resistenza dei duchi, legati alle tradizioni nazionali. Accadde così che lo schieramento cattolico e quello nazionalista si fronteggiarono ancora e che sul trono si succedettero regnanti cattolici e ariani. Tra questi, i personaggi di maggior spicco furono Rotari, già duca di Brescia, che nel 643 fece mettere per iscritto le leggi longobarde e riprese la guerra contro i bizantini conquistando la Liguria, e Grimoaldo, anche duca di Benevento, che proprio per questo rese effettiva l’autorità del re sui territori nel meridione. Il dio e a far fare atto della sottomissione alla sua autorità. Quando ci fu il pericolo che la sua religione fosse assimilata al politeismo, cominciò ad attaccare i culti idolatrici suscitando l’ostilità dei quarishiti, timorosi di perdere proventi dalle loro attività legate alle divinità della Kaaba. Nonostante ciò, Maometto proseguì la sua opera, definendo il rituale della preghiera che il credente doveva recitare rivolto verso Gerusalemme. Nel 622 la sua posizione si fece insostenibile, per cui lasciò di nascosto La Mecca e raggiunse la città della famiglia materna, che cambiò il suo nome in Medina. Questa fuga fu considerata l’avvio di una nuova era che venne fatta iniziare col primo giorno del mese di muharam, corrispondente al 16 luglio 622. Qui cercò di riunire intorno a se tutti gli abitanti della città, tra cui numerosi ebrei, incoraggiandone la conversione all’Islam, ma ebbe successo solo con gli arabi politeisti. Gli ebrei, che inizialmente avevano apprezzato la vicinanza al messaggio di Abramo, si allontanarono via via che si precisavano i caratteri originali di questo culto. Un punto di non ritorno fu la decisione di sostituire La Mecca a Gerusalemme come punto di orientamento per la preghiera. Contemporaneamente si andava delineando il carattere esclusivistico per cui quella era l’unica vera fede e si istituì il digiuno nel mese di ramadan, in ricordo della rivelazione. Il pensiero di Maometto non ebbe da lui una sistemazione scritta, ma fu fissato una ventina di anni dopo la sua morte nel Corano per volere del califfo Othman e per mano di Zaid ibn Thabit, che era stato segretario di Maometto e fece ricorso sia a testimoni diretti che a ricordi personali. La lingua adoperata fu quella usata comunemente dai poeti arabi, destinata ad avere una grandissima diffusione come lingua di cultura e sovrastare i vari dialetti. Gli elementi fondamentali dell’islamismo sono chiamati “pilastri della religione”. Il primo pilastro: “non c’è altro dio che Allah e Maometto è il suo inviato”, proclama l’unicità di Allah e distingue l’islam dalle altre religioni monoteistiche, la profezia di Maometto è la più perfetta e Dio non ne invierà altre, per cui chi abbandona l’islam si macchia di una colpa gravissima. Questo pilastro spiega anche il trattamento subito dai non credenti caduti sotto dominazione islamica, che dovevano convertirsi o essere messi a morte se pagani, oppure, se appartenenti a una religione monoteista, potevano conservare la propria fede, ma dovevano pagare una tassa. Il secondo pilastro è la preghiera che si recita sempre rivolti verso La Mecca, in forma anche individuale, 5 volte al giorno e in forma comunitaria in una moschea il venerdì a mezzogiorno. La preghiera del venerdì ha lo scopo di mantenere vivo lo spirito comunitario dei fedeli. L’iman non è un sacerdote, ma un qualsiasi musulmano studioso di testi sacri che ha il compito di commentare alla luce del corano i problemi del momento. Di qui la grande autorità morale che ha sempre avuto nei riguardi dei fedeli e della politica. Il terzo pilastro è il ramadan: l’intero mese è consacrato alle pratiche devozionali e all’approfondimento della fede, è proibito dall’alba al tramonto bere, mangiare, avere rapporti sessuali e fumare. Il divieto non vale la notte. Si conclude con una grande festa: la festa di rottura del digiuno. Il quarto pilastro è il pellegrinaggio a La Mecca almeno una volta nella vita, che si svolge in un preciso periodo e tramite un rito minuzioso. Il quinto pilastro è l’elemosina legale, diversa da quella volontaria e che corrisponde a un decimo del reddito (ad essa sono tenuti tutti i fedeli benestanti). A questi 5, alcuni mussulmani ne aggiungono un sesto, la jihad, la guerra santa, considerata l’equivalente della crociata cristiana. In realtà ha un significato più ampio, indica non solo la guerra vera e propria, ma anche una lotta del credente contro se stesso e le sue cattive intenzioni. Si fa della jihad un uso strumentale, lanciando gli arabi alla conquista del mondo e alla conversione degli infedeli. Si fece ricorso anche alla sunna: la tradizione relativa al comportamento di Maometto in certe circostanze. Maometto accoglieva aspetti caratteristici della cultura araba, dando però una nuova configurazione a quel mondo, superandone il carattere tribale. A questo esito si arrivò per vie frastagliate e poco mancò che la morte di Maometto rimettesse tutto in discussione. A Medina si fece costruire una casa, che divenne luogo di preghiera e riunione, raccogliendo intorno a se la maggioranza degli abitanti. Allo stesso tempo, i ripetuti attacchi alle carovane tra La Mecca, Siria ed Egitto che fornivano mezzi di sussistenza per i musulmani, per il commercio meccano costituivano una minaccia. Così i quraishiti, dopo aver tentato la via delle armi ed aver accettato una tregua, nel 630 si convertirono all’islam aprendo a Maometto le porte della città. Da allora crebbe il numero di tribù beduine che si convertirono. L’aggressività e il dinamismo arabo arrivò a lambire anche l’impero bizantino, che però non è mai stato raggiunto con Maometto in vita. Alla sua morte (632) insorsero contrasti tra i suoi seguaci per trovare un suo sostituto (califfo), che avrebbe dovuto reggere la società secondo lo spirito di Maometto. Il primo califfo fu Abu Bakr, uno dei maggiori seguaci del profeta e suo suocero. Alcune tribù non riconobbero la sua autorità, abbandonando l’islam, ma il califfo reagì con energia e ristabilì il suo controllo. Con la sua scomparsa nel 634 si riaprì la spinosa questione di un successore, che fu risolta per qualche decennio attraverso l’elezione di membri della famiglia e dei più stretti seguaci del profeta. La situazione comunque restò tesa, fino a giungere al culmine con l’elezione al califfato di Ali, genero di Maometto, che stabilì la sua sede a Kufa, arrecando un duro colpo a Medina e La Mecca. Deposto secondo una sentenza che lo riteneva colpevole della morte del predecessore Othman, si mantenne in armi con i suoi seguaci, detti sciiti, contro la maggioranza degli ortodossi sunniti. La sua morte nel 661, aprì a una nuova fase storica. [Maometto ruppe presto i ponti con le altre due religioni monoteiste: mentre la rottura col giudaesimo fu violenta e radicale, l’atteggiamento verso il cristianesimo fu pacato, in particolare, la simpatia del profeta è per la figura di Gesù, considerato il più grande dei profeti del passato. Però il corano introduce un elemento di differenziazione, dichiarando che Dio non può avere figli. Allo stesso modo, il cristianesimo ha negato a Maometto la qualità di profeta. Ciò nonostante all’inizio i rapporti tra islam e cristianesimo non furono ostili.] Le lotte per la successione al profeta avevano esaltato lo slancio espansivo della comunità islamica, perché i successi permettevano loro di arricchirsi tramite bottini di guerra e sopivano i contrasti interni. Successivamente a questi slanci, l’impero persiano e parte dell’impero bizantino (Africa e Siria), vennero assorbiti completamente da loro. A questi successi, contribuirono anche la debolezza di persiani e bizantini che si erano combattuti a lungo e l’eccessiva pressione fiscale su egiziani e siriani da parte dei bizantini, per cui questi accolsero gli arabi come liberatori. Fu presto chiaro che l’uguaglianza di tutti i musulmani prevista dal corano fosse esclusivamente teorica: infatti, i primi seguaci di Maometto e i capi delle tribù che si erano unite a lui, acquisirono sempre più potere; inoltre, i non arabi convertiti all’islamismo (mawali), vennero a trovarsi su un piano di inferiorità, in quanto soggetti alla protezione di un capo tribù. Da un punto di vista religioso e fiscale erano equiparati agli altri musulmani, ma non potevano entrare nell’esercito, e quindi non potevano partecipare alla spartizione dei bottini di guerra e delle terre. La situazione cambiò nell’VIII sec., quando i mawali furono reclutati per i nuovi progetti espansionistici. Questi, con i musulmani arabi, formavano ora delle nuove comunità, distinte rispetto alle popolazioni sottomesse e creavano nelle loro vicinanze degli accampamenti, da cui poi ebbero origine le future metropoli (El Cairo per esempio). I cristiani e gli ebrei conservavano la loro religione e gran parte dell’organizzazione sociale, pagando la tassa di soggezione e un’imposta in rapporto al reddito, si trattava comunque di tasse non eccessivamente gravose. Per il governo dei territori conquistati fu necessario provvedere a un apparato amministrativo, che fu in buona parte ripreso da quello delle precedenti dominazioni, per cui rimasero al loro posto i vecchi funzionari. A capo di ogni provincia fu posto un governatore (emiro) che amministrava gli introiti di guerra e riscuoteva le tasse. Il governo di territori estesi e la creazione di un apparato amministrativo più complesso, comportò un rafforzamento della figura del califfo, che stabilizzando il suo potere, lo rese ereditario. Una spinta in questa direzione era in precedenza stata data già da Othman, del clan degli Omayyadi; infatti, si poggiò ai membri del suo clan favorendone l’ascesa ai vertici dell’amministrazione e allargò la base del suo potere con una vasta clientela politica. Per questo, dopo aver perso temporaneamente il poter con l’ascesa al califfato di Ali, tornarono al potere nel 660 con Muawija. La stabilizzazione del accentuò l’aspetto politico della funzione del califfo, rispetto a quello religioso e coincise con la ripresa dell’espansione e il rafforzamento dell’apparato amministrativo, volto a diventare più omogeneo nei vari territori. La capitale diventava Damasco, in Siria, per esercitare maggiore pressione sull’impero bizantino, l’acerrimo nemico degli arabi. Intanto in Iraq, gli sciiti si mantennero a lungo in armi, minacciando l’unità dell’impero. In realtà episodi di insofferenza si manifestarono un po’ ovunque, ma, nonostante tutto gli omayyadi riuscirono ad esercitare la loro spinta espansiva. Il primo obbiettivo era Costantinopoli, che fu attaccata sia per mare che per terra, senza però riuscire a sferrare un colpo decisivo ai bizantini, che anzi distrussero la flotta araba nel 677. Riuscirono però a indebolirli, giungendo nel Mediterraneo e attaccando ripetutamente Cipro, Rodi e Creta e diventando padroni del Mediterraneo Occidentale. Nello stesso tempo fu ripresa l’espansione in Africa settentrionale, che fu interamente conquistata, nonostante la resistenza di bizantini e berberi. Questi, guidati dalla profetessa Kahina, inflissero ai conquistatori molte sconfitte, ma alla fine si piegarono e si convertirono rapidamente all’islam, mantenendo una certa autonomia e rivendicando l’uguaglianza di tutti i musulmani. Nel 711 poi gli arabi passarono le colonne d’Ercole, conquistarono la Spagna e passarono in Gallia, dove restarono per qualche anno, mantenendo il controllo della Linguadoca e Provenza. Intanto si avanzò ad un’altra gloriosa offensiva verso l’Asia centrale e l’India. Anche in questi territori la conversione fu rapida, però risultò difficile la convivenza con i dominatori, per cui scoppiarono violente rivolte destinate a rivelarsi fatali per gli omayyadi. La situazione precipitò nel 747, in seguito a un’insurrezione armata promossa dagli Abbasidi, che si ritenevano legittimi successori di Maometto, rivendicando la parentela (al-Abas, zio paterno). Impadronitisi del potere con l’appoggio degli sciiti e ucciso l’ultimo califfo omayyade, spostarono il centro dell’impero dalla Siria all’Iraq, per esercitare maggior controllo su una regione molto inquieta. Qui fondarono la nuova capitale Baghdad. Alla stesso tempo fu avviata una riorganizzazione dello stato sul modello dell’assolutismo monarchico orientale, cui aderiva sempre di più la figura del califfo, che non era più un vicario di Maometto, ma un rappresentate di Dio in terra. Mentre i califfi si allontanavano sempre più dai sudditi, il potere effettivo confluiva nelle mani di potenti funzionari, primo fra tutti il visir. Novità furono introdotte anche nell’esercito, risultando formato maggiormente da mercenari non arabi, iraniani, berberi e turchi, passò inoltre sotto il controllo di capi militari (emiri) che acquisivano un ruolo sempre maggiore. Non valse a frenare questa tendenza la creazione di un emiro degli emiri, che si poneva anche al di sopra del visir. Queste nuove forme di reclutamento sia nell’amministrazione che negli eserciti, serviva ad annullare le differenze tra arabi e non arabi, e ad affermare l’uguaglianza avanti allo stato di tutti i musulmani. Potente fattore di unità culturale si rivelò la lingua araba, non solo il principale mezzo di comunicazione, ma anche la lingua della cultura, che registrò una fioritura in tutti i campi: medicina, filosofia, astronomia, fisica, matematica, geografia, giurisprudenza e letteratura. L’arte non ebbe la stessa fioritura che ebbe con gli omayyadi, ai quali risalgono i monumenti più importanti dell’architettura araba. Si ebbe un grande slancio anche sul piano economico, di cui beneficiarono non solo gli islamici, ma anche le regioni che entravano in contatto con loro (Bisanzio, Italia meridionale). Il principale settore produttivo era quello agricolo. Uno stimolo al mondo agricolo assai forte veniva dalle città che accentuarono il ruolo importante avuto nel mondo ellenistico- romano. Notevole fu l’incremento demografico, sia nelle vecchie che nelle nuove città, diventando sedi produttive, commerciali e di vita intellettuale. In più notevole fu lo sviluppo dell’artigianato e conseguentemente del commercio. Un mondo come quello arabo-musulmano, aveva una superiorità schiacciante rispetto al mondo cristiano. Tuttavia rivelava al suo interno elementi di debolezza: innanzitutto, l’aumento della ricchezza aveva accentuato gli squilibri sociali, in particolare, la concentrazione di terre e beni nelle mani degli alti funzionari, capi militari e esponenti della borghesia mercantile, faceva sì che queste categorie avessero privilegi fiscali ai danni dei piccoli coltivatori. Lo stesso grandioso sviluppo delle città, andava ai danni delle campagne, con la conseguenza che queste si spopolassero, mentre nelle città si formavano gruppi di emarginati e indigenti, pronti a insorgere. Nonostante i notevoli progressi nell’agricoltura, il mondo agricolo era alle prese con problemi drammatici, quali mancanza di acqua e scarsità di manodopera. Ma non furono questi gli squilibri che provocarono una crisi dell’impero, quanto piuttosto la nascita di forti spinte autonomistiche, da parte di governatori locali e a causa di rivalità nella dinastia regnante. All’inizio gli emiri non misero in discussione formalmente l’unità dello stato, riconoscendo l’alto dominio del califfo. Già agli inizi del X sec., tuttavia, le tensioni si fecero più acute: il titolo di califfo fu rivendicato dai Fatimidi e dall’emiro di Cordova, discendente della dinastia omayyade. Inoltre la parte centro-orientale dell’impero, subiva pressioni dai Turchi, ben presto accolti nell’esercito come mercenari, islamizzandosi e diventando il sostegno principale della dinastia abbaside, che mantenne il potere fino al 1258, quando Baghdad fu messa a ferro e fuoco dai mongoli di Hulagu Khan. La Spagna musulmana, divenuta nel 756 un emirato del governo di Baghdad e poi un califfato, grazie a una politica aperta nei riguardi dei cristiani e degli ebrei, e alla centralizzazione del suo apparato politico, raggiunse in poco tempo una grande prosperità economica e un alto livello di civiltà. In questo periodo, fu realizzata una politica espansionistica ai danni dei cristiani del Nord (ai quali fu tolta Santiago di Compostela), dei berberi musulmani del Marocco e dell’Algeria occidentale. Nel giro di qualche decennio, il califfato omayyade entrò in crisi e si frantumò in una serie di piccoli stati. La disgregazione fu interrotta dagli Almoravidi, una dinastia berbera, che dopo essersi insediata in Marocco, conquistò la Spagna. Questa dinastia fu a sua volta inglobata dall’impero degli Almohadi, ma ormai il dinamismo espansivo islamico si scontrava con l’Europa cristiana. e cavalli erano le pecore, capre, maiali la dotazione della famiglia contadina, ma essi non fornivano concime. Per questi motivi, si compensava con tecniche come il sovescio (interramento delle piante), il debbio (incendio delle stoppe) e il più usato maggese (riposo dopo ogni raccolto dal mese di maggio per un anno; il terreno era diviso due parti, una produttiva e una a riposo, che si alternavano). Il contadino non era proprietario della terra che coltivava, né degli animali che allevava e spesso era di condizione servile. Questa situazione cominciò quando i grandi proprietari cominciarono a ridurre la superficie coltivata delle loro aziende, sia per la mancanza di schiavi, sia per il declino della città che non consentiva lo smercio dei prodotti; così l’importante divenne non tanto l’abbondanza di beni, quanto di uomini, che il calo demografico aveva reso una merce preziosa. Di qui la tendenza ad accasare gli schiavi (casati) e dargli un pezzo di terra, in modo che potessero provvedere la sostentamento proprio e della famiglia. Al padrone destinavano parte del raccolto e un numero di giornate lavorative (corvèes), oltre che prestazioni in natura (polli, uova, oggetti di artigianato) nelle festività, come simbolo per ricordare loro la dipendenza. Alcuni schiavi rimanevano in casa del padrone ed erano definiti praebendari (da praebenda: vitto loro fornito). Il proprietario concedeva anche terre a coltivatori liberi, richiedendo una quota minore di raccolto e di giornate lavorative. Ai coloni liberi si andavano affiancando anche i piccoli proprietari, che non avevano più la protezione dei funzionari pubblici. Questi, infatti, avevano abbandonato le città esposte alle scorrerie, per rifugiarsi in residenze fortificate nelle loro terre. A loro si rivolgevano i piccoli proprietari che rinunciavano ai privilegi in cambio di protezione, gli altri si rivolgevano ai grandi proprietari per diventare coloni, riprendendo in affitto le terre che gli cedevano, assicurandosi così la protezione. Comunque, in Italia, non si giunse mai alla scomparsa della piccola nobiltà, che rimase a lungo al sicuro nelle aree sotto il governo bizantino. A seguito di questo processo, le grandi proprietà si articolarono in pars massaricia, costituita dalle terre date in concessione ai coloni, e pars dominica, costituita da terre gestite dal proprietario attraverso fedeli amministratori. Queste due parti non formavano un blocco compatto, se non in rari casi. L’insieme delle due formava la curtis o villa, nomi che in seguito vennero impiegati anche per indicare il complesso di beni che facevano capo alla curtis, formato anche da una parte di boschi, prati, stagni e terre incolte. La storica inglese Eileen Power, ha descritto la vita che si svolgeva in una curtis: il contadino coltivava il suo manso con aiuto di moglie e figli, tirando personalmente l’aratro nei casi in cui non possedesse buoi o equini; qualche altro membro della famigli teneva d’occhio gli animali al pascolo; molto tempo era dedicato allo sfruttamento dell’incolto con caccia, pesca e raccolta di legna e frutti; altro tempo si impiegava per lavori come l’aratura, la vendemmia, la mietitura e la fienagione. Per comprendere la consistenza delle prestazioni d’opera, si può fare riferimento ai polittici, degli inventari dei beni dei grandi monasteri (IX sec.), di cui il più noto e ricco di informazioni è quello di Irminone (811-829), abate del monastero di Saint-Germain-des-Pres, che possedeva 25 ville. Di queste, 21 avevano estensione di 33.000 ettari circa, 16.000 destinati alla gestione diretta e la parte restante divisa in 1.600 mansi (1.400 di liberi, 216 di servi); in tutto i coloni fornivano 50.000 corvèes, un apporto molto consistente, se si considera che di quei 16.000 ettari solo 4.000 erano destinati alla coltivazione, mentre il resto era boscaglia. Comunque non si può generalizzare, anche perché, da una parte, le proprietà dei monasteri erano meglio organizzate, dall’altra, bisogna considerare la variabile della condizioni ambientali. Ciò che si può dire con certezza, è che si cercava di creare equilibrio tra le terre in affitto e quelle in conduzione diretta: l’estensione di queste ultime era in rapporto al numero di prestazioni su cui si poteva fare affidamento. Si trattava, però, di un equilibrio precario, perché l’estensione delle curtis poteva essere soggetta a variazioni, per donazioni di terre o divisioni ereditarie. Questo rapporto tra riserva e massaricio è la caratteristica dell’economia curtense. Questo tipo di economia, si considera volta all’autoconsumo, ma si tratta di una semplificazione: infatti, la dove era possibile vendere l’eccedenza di produzione e rifornirsi di utensili, non si esitava a farlo; bisogna poi considerare che i prodotti curtensi non sempre venivano consumati sul posto, poiché parecchi proprietari disponevano di più corti o li si trasportavano nella residenza abituale (il caso dei monasteri che ne necessitavano per nutrire poveri e pellegrini). Sebbene questa divisione delle terre risalisse all’età romana, il rapporto tra le due parti è nato in età franca, per poi espandersi nel tempo e nell’Europa, senza mai ricoprire l’intero territorio, per coesistere con la piccola proprietà contadina o perché non era sempre stabile il collegamento tra riserva e massaricio. Per riferirsi ai grandi proprietari, è più appropriato usufruire del termine signori. Questo perché egli aveva pieni poteri sia sui praebendari sia sui casati, esigendo totale obbedienza. È vero che col cristianesimo le condizioni di vita servili erano migliorate, per cui questi avevano ottenuto il diritto di avere beni e famiglia, ma nonostante tutto restavano sotto il dominio dei padroni, anche perché la chiesa non era ancora arrivata a condannare la schiavitù. In origine la situazione dei servi era comunque diversa da quella dei coloni liberi, che erano dipendenti dal proprietario solo dal punto di vista economico. Però, man mano che i funzionari pubblici si mostravano come oppressori o scomparivano, cresceva il ruolo dei grandi proprietari come protettore dei dipendenti e dei piccoli proprietari nelle zone circostanti. Era una dipendenza con un riconoscimento formale: nell’VIII sec. troviamo documenti in cui si riconosceva per iscritto l’autorità del signore in cambio di protezione e aiuto (commendatio). Questo scivolamento dei contadini verso una condizione di soggezione personale fu, tuttavia, assai lento, durò secoli, e non giunse ovunque allo stesso livello. L’economia dell’Europa altomedievale, è stata a lungo considerata una ”economia naturale” (da Aristotele), priva di commerci, caratterizzata da una circolazione della moneta assai limitata. Pirenne attribuiva all’espansione araba la ruralizzazione dell’Europa e la rarefazione dei commerci. Oggi si è giunti alla conclusione che l’Europa dei sec. V-VIII, era certamente impoverita, ma senza che questo significasse assenza assoluta di commerci e ritorno al baratto, innanzitutto per l’impossibilità delle curtis di essere autosufficienti in tutto e per tutto; a ciò è da aggiungere l’esistenza, documentata, di fiere e mercati locali nei quali i cittadini vendevano le proprie eccedenze, per procurarsi denaro per pagare il canone; senza contare che gli abitanti di una corte non vivevano isolati; le città, inoltre, continuavano ad ospitare artigiani. Si trattava comunque di un commercio che riguardava pochi beni di valore modesto, per il quale bastavano le monete in argento. Quelle d’oro divennero sempre più rare, perché venivano fuse per ricavare oggetti preziosi, sia perché presero la via dell’oriente dove servivano per acquistare beni di lusso (spezie, stoffe, profumi, papiro). Il commercio di questi prodotti, infatti, non finì mai, né finì la circolazione dell’oro, solo che ora a circolare erano monete orientali. L’Europa, nonostante ciò, continuava a esportare in oriente metalli, legna, pelli o schiavi (di paesi slavi, da cui il nome schiavo). Si trattava di traffici a lunga distanza che non esercitarono mai stimolo sull’economia locale, ma contribuirono a tenere viva una via che si rivelerà preziosa, quando la società europea, nel mille, manifesterà slancio espansivo. È da precisare che non tutto l’occidente era economicamente depresso, alcune regioni rimasero ben collegate all’oriente bizantino ed arabo (Italia meridionale, Ravenna, Venezia). 7. L’IMPERO CAROLINGIO E LE ORIGINI Dopo la morte di Clodoveo, il regno dei franchi conobbe un progressivo indebolimento del potere regio e l’emergere di 4 organismi politici (Neustria, Austrasia, Aquitania e Borgogna) in concorrenza tra loro e percorsi da forti tendenze autonomistiche da parte dell’aristocrazia. Nel corso del VII sec. la lotta per l’egemonia si restrinse a Neustria e Austrasia, guidata non da sovrani ma da maestri di palazzo. Nel corso dell’VIII si imposero definitivamente i maestri di palazzo dell’Austrasia, detti pipinidi, poiché discendenti da Pipino di Landen. Artefice delle fortune della famigli fu Pipino II di Heristal, arbitro assoluto del potere in Austrasia, Neustria e Borgogna dal 687 al 714, mentre l’Aquitania si configurava come indipendente. Degno successore fu Carlo Martello, il figlio, che intraprese un’opera di ricomposizione politico-territoriale: rinsaldò il suo potere e lo estese nelle zone in cui fino ad allora il dominio franco non si era imposto con decisione, quali la Frisia (tra Germania e Olanda), Alemannia e Turingia (Germania). Infine si occupò dell’Aquitania, nonostante il pericolo arabo che si era spinto in Borgogna. La vittoria che riportò su di loro a Poitiers nel 732 non valse a ricacciarli, ma gli conferì un enorme prestigio e il ruolo di campione di cristianità. Questo gli consentì, dopo la scomparsa del re Teodorico IV (737), di lasciare il trono vacante e di comportarsi a tutti gli effetti come un re fino alla morte (22 ottobre 741). Divise, tra l’altro, il regno tra i due figli Carlomanno (assegnandogli Austrasia, Alemannia e Turingia) e Pipino il Breve (Neustria, Borgogna e Provenza). I due fratelli non furono in grado di proseguire la strada intrapresa dal padre, per cui due anni dopo, per venire a capo dell’opposizione dell’aristocrazia, ripristinarono la monarchia merovingia elevando al trono un re fantasma, Childerico III. Importante fu l’attività missionaria di un monaco anglosassone, Bonifacio, che, in accordo con papa Zaccaria, si recò a predicare il vangelo a frisoni e sassoni, legati ancora a culti pagani. La sua opera risultò vantaggiosa per l’acquisizione di quelle zone all’influenza della chiesa romana e al dominio dei franchi. Egli infatti puntò subito su salde basi organizzative, creando distretti ecclesiastici, diventati poi sedi vescovili. Successivamente volse il suo interesse al regno dei franchi stesso. Così furono convocati tre concili dal 742 al 744, dando avvio al riordinamento della chiesa franca. Si ebbe una svolta nel 747, quando Carlomanno abdicò, ritirandosi nel monastero di Montecassino e lasciando campo libero a Pipino. Questi nel 750, secondo gli annales regni francorum, inviò a papa Zaccaria due ambasciatori per chiedergli se dovesse essere re chi ne aveva il titolo o chi deteneva di fatto il potere, e il papa si sarebbe pronunciato a favore di quest’ultimo. La testimonianza degli annales non va comunque presa alla lettere, perché interessati a legittimare il potere di Pipino. Fatto sta che allora il papato fosse orientato a stabilire un saldo legame con la potenza franca, in cui vedeva l’unica sostegno contro la ripresa dell’espansionismo in Italia. Nel 751, chiuso in convento Childerico, Pipino si fece acclamare da un’assemblea, facendosi ungere con l’olio santo da Bonifacio, secondo l’uso degli antichi re giudaici. In questo modo intendeva dare al suo potere un fondamento sacro, ponendo le premesse per una monarchia di diritto divino. Si fece consacrare di nuovo nel 754 insieme ai figli Carlomanno e Carlo, dal pontefice Stefano II, recatosi da lui per chiedere aiuto contro i Longobardi. Ciò che consentì ai Pipinidi il loro slancio espansivo, fu la loro capacità nell’aver intuito le enormi potenzialità politiche e militari insite nell’istituto della clientela armata. Infatti, l’attitudine guerriera si era attenuata, ma non annullata, per cui la partecipazione all’esercito regio restava sempre una prerogativa di tutti gli uomini liberi. Questa attitudine, però, si conservava intatta in alcune minoranze guerriere e si potenziava con la diffusione di nuove tecniche militari. Conseguentemente al ridursi della possibilità di ricompensarli con i frutti di razzie e scorrerie dopo la fine delle guerre di conquista, sovrani ed esponenti della nobiltà, avevano tenuto attorno a loro un certo numero di uomini armati mediante concessione di terre. In cambio questi si impegnavano, con un giuramento, a prestare servizio militare in determinate circostanze. Non era un espediente diverso da quello che il capo militare adottava per lo sfruttamento delle sue terre con le corvèes. La differenza consisteva nella qualità del servizio, considerato più prestigioso nel caso del guerriero. Accadde che l’ingaggio del guerriero venisse formalizzato con una cerimonia e sancito con un giuramento di fedeltà. Così il termine celtico vassus (servitore), passava ad indicare il cavaliere legato al signore con vincolo di fedeltà. Per indicare la ricompensa di questa fedeltà si usò il termine feudo, che passò dal significato di bestiame o bene mobile a bene fondiario. All’interno dell’esercito regio i vassalli venivano acquistando un ruolo sempre maggiore, legato non solo all’abilità, ma anche ad un efficace equipaggiamento, che ormai non era più alla portata di tutti. Le nuove tecniche di combattimento (d’urto), infatti, richiedevano l’uso di armature molto più pesanti, che costavano l’equivalente di 20 buoi. I Pipinidi disponevano di seguiti armati così equipaggiati, con maggiore larghezza rispetto alle altre famiglie. Carlo Martello puntò all’ampliamento delle clientele vassallitiche, non limitandosi all’ingaggio di cavalieri, ma anche reclutando esponenti dell’aristocrazia già dotati di seguiti armati. Il risultato fu che si creò intorno alla famiglia un aggregato di clientele politiche e militari, sovrapponendo i merovingi e svuotandoli di poteri. Pipino il Breve diede inizio a una nuova fase di espansione dei Franchi in Europa. A farne le spese furono per primi i longobardi, che con il re Astolfo erano impegnati in una politica espansionistica in Italia, conquistando Ravenna, Spoleto e minacciando Roma. Per questo il pontefice Stefano II si recò in Francia, nel 754 per rinnovare l’unzione di Pipino con l’olio santo e conferirgli il titolo di re e patrizio dei romani (protettore della chiesa), titolo con il quale il papa fece leva per chiedere un intervento contro Astolfo. Tuttavia non gli fu facile convincerlo perché negli ambienti di corte c’era un partito filo-longobardo. Allora il papato era già proteso alla creazione di un dominio in Italia centrale e risale proprio a quel tempo la creazione della falsa donazione di Costantino (con cui l’imperatore avrebbe ceduto a papa Silvestro Roma e l’Italia). La spedizione di Pipino in Italia avvenne nel 755 e mostrò subito il potenziale bellico dei franchi. Astolfo trovò rifugio a Pavia, dove si arrese e promise di lasciare al papa Ravenna ed altri territori sottratti ai bizantini. Però, non appena Pipino lasciò l’Italia, Astolfo si rimangiò la promessa, riprendendo attacchi a Roma. Nel 756 perciò ci fu una nuova spedizione, che valse a sconfiggere definitivamente Astolfo. Anche questa volta Pipino onorò il suo ruolo di patrizio dei romani, anche perché il nuovo re longobardo, Desiderio, era meno bellicoso e voleva intrattenere rapporti di amicizia con i franchi. Per questo, si sancì il nuovo corso della politica longobarda attraverso il matrimonio dei figli di Pipino, Carlomanno e Carlo, con le figlie di Desiderio. La pace duro circa 15 anni, in cui morirono papa Stefano, Pipino (768) e Carlomanno. viveva un certo numero di chierici. In queste riforme furono coinvolti anche monasteri, che erano sorti un po’ ovunque in quel periodo, anche perché la nobiltà franca assicurava loro protezione dando un ulteriore fondamento alla protezione che già esercitava sul popolo. Per questo si era affievolita la disciplina interna, poiché gli abati avevano più familiarità con pratiche di governo che con i testi sacri e le funzioni liturgiche. Perciò si arrivò ad un’opera di restaurazione della disciplina monastica, portata a pieno compimento da Ludovico il Pio, attraverso l’imposizione della regola benedettina. Per effettuare questa riforma si ritenne indispensabile elevare culturalmente i monaci e i chierici, per cui furono costruite delle scuole presso le chiese e i monasteri appositamente. Queste scuole potevano essere frequentate da esponenti di famiglie nobili destinati all’amministrazione pubblica. Desiderio di Carlo sarebbe stato quello di estendere a tutti i sudditi i benefici dell’istruzione. Il rilancio della scuola dopo due tre secoli, ebbe impulso dalla serie di uomini intellettuali (ecclesiastici), che riunì presso la sua corte ad Aquisgrana, dando vita alla “accademia” o “schola palatina”, un cenacolo di uomini di uomini di cultura varia, animato dal monaco anglosassone Alcuino di York, responsabile della riorganizzazione delle scuole nell’impero (altri intellettuali: lo storico Paolo Diacono, i grammatici Pietro di Pisa e Clemente Scoto, i poeti e teologi Paolino d’Aquileia e Teodulfo d’Orleans, infine Eginardo che scrisse la biografia di Carlo). Uno strumento particolarmente importante per la rinata attività di studio e il recupero dei testi, fu la rinnovata scrittura carolingia, molto chiara, che ebbe diffusione in tutta Europa, superando il particolarismo grafico. Dopo la morte di Carlo, l’impero entrò in crisi, ma non la rinascita culturale, che per contro ebbe il suo culmine con Carlo il Calvo. Ciò fu possibile perché la base della cultura non era solo nella corte di Carlo, ma soprattutto si basava nelle scuole istituite nelle chiese e nei monasteri. Anche la crisi che si manifestò sul finire del secolo, che colpì la cultura, non valse a cancellare il patrimonio che si era creato. Infine, l’opera della chiesa, manterrà anche in vita nei momenti più critici, l’idea dello stato come fonte di ogni potere e comando. 8. LA CRISI E L’ORDINAMENTO CAROLINGIO E LO SVILUPPO DEI RAPPORTI FEUDALI La costruzione politica di Carlo Magno presentava non pochi elementi di debolezza, riconducibili alle persistenti tradizioni franche. Il problema più grande era quello della successione: il sovrano si attenne alla tradizione franca e nell’806 divise i domini tra i suoi tre figli, dando a Carlo la maggior parte della Francia e le conquiste orientali, a Ludovico l’Aquitania e a Pipino Italia e Baviera, rinviando il momento della designazione del suo successore. Ad eliminare ogni incertezza fu la morte improvvisa dei fratelli di Ludovico, che nell’814 raccolse nelle sue mani l’intera eredità paterna. Era diverso da Carlo, essendo portato ad accentuare il carattere sacrale del potere imperiale, attuando una stretta compenetrazione tra chiesa e stato, accomunati dalla finalità di guidare la comunità cristiana alla salvezza. Una delle sue prime preoccupazioni fu di risolvere la questione della successione, per cui, nell’817 emanò una costituzione con cui proclamò l’indivisibilità dell’impero, destinato al primogenito Lotario, mentre agli altri due figli assegnava territori periferici (Pipino e Ludovico). Lotario fu subito mandato in Italia, dove operò energicamente, emanando capitolare e imponendo la “constitutio romana” al papato, con cui si stabiliva che il papa scelto, prima di essere consacrato, dovesse giurare fedeltà all’impero. Tuttavia, Ludovico, non riuscì a mantenere il proposito di non dividere l’impero e a tenere a bada i figli, intorno ai quali si accumulavano gli interessi di famiglie aristocratiche. Ne nacquero tensioni, che videro lo stesso Lotario ribellarsi al padre coi fratelli. Così l’imperatore tentò di arginare la situazione allargando le schiere dei suoi vassalli aumentando a tal fine i benefici. Il rimedio si rivelò inefficace a lungo andare, perché impoveriva il patrimonio del fisco. A tutto ciò si aggiunse un nuovo principio emanato dagli uomini di chiesa, destinato a porre le premesse per gli interventi dei pontefici in ambito politico: quando l’imperatore non fosse stato in grado di assolvere i suoi compiti, spettava alla chiesa intervenire. Con la morte di Ludovico il Pio, la situazione precipitò, per cui si giunse a uno scontro diretto tra Lotario e i fratelli (a Pipino era succeduto nel frattempo Carlo il Calvo). Nell’842 questi stipularono un patto solenne, promettendosi reciproco aiuto e, per farsi capire dai loro soldati, Ludovico il Germanico lo stipulò in francese e Carlo il Calvo in tedesco (l’uno la lingua dell’altro). Infine, Lotario fu costretto a partecipare al trattato di Verdun nell’843, che prevedeva la divisione dell’impero (a Carlo la parte occidentale, a Ludovico quella orientale e a Lotario quella Centrale). Lotario conservava il titolo ufficiale di imperatore, ma di fatto non aveva nessun potere sulle proprietà dei fratelli. La sua posizione era ulteriormente indebolita dalla mancanza di omogeneità etinco-geografica dei territori a lui soggetti. Gli successe Ludovico II (855), a lungo impegnato in Italia contro i saraceni. Nell’876, alla sua morte, Carlo il Calvo ottenne la corona e i suoi territori. Nell’844, poi, in mancanza di eredi diretti, il figlio di Ludovico il Germanico, Carlo il Grosso, riunì nuovamente nelle sue mani la totalità dell’impero, coronando il sogno degli uomini di chiesa, che volevano ripristinare l’autorità imperiale. Si trattò, però, di una restaurazione effimera, perché l’imperatore si rivelò impotente nel fronteggiare le incursioni normanne e gli intrighi dell’aristocrazia; perciò fu costretto ad abdicare e ritirarsi in un monastero, dove morì l’anno seguente. L’impero venne suddiviso quindi in tre regni. Si trattò non di un semplice smembramento, poiché investì l’organizzazione politica del mondo carolingio e la stessa organizzazione ecclesiastica. Già nel sec. IX, la capacità delle monarchie di coordinare i poteri locali era debole e discontinua. Il fenomeno si estendeva nelle stesse contee, in cui il conte non riusciva ad esercitare una reale egemonia sui minori centri di potere, così, limitò il centro d’azione ai territori posti sotto il suo diretto controllo (terre avute in feudo, beni di famiglia, terre appannaggio della carica). Non di raro egli stesso contribuiva alla dissoluzione dell’ordinamento pubblico, superando i confini della circoscrizione e creando basi di potere nelle contee circostanti, operando quindi in concorrenza con altri poteri. Tra essi in primis le signorie monastiche e vescovili, dotate di immunità, la cui concorrenza col conte nasceva dal loro stesso espansionismo. Conseguenza più grave era che l’esempio di queste signorie vescovili/monastiche esercitava forte attrazione su quanti, potendo disporre di possessi fondiari, tendevano a ritagliarsi dei pubblici domini in un distretto. Da qui il formarsi di signorie, i cui titolari, pur se sprovvisti di una formale delega, esercitavano poteri pubblici. Per indicare queste nuove realtà, la storiografia oggi sua il nome di “signorie bannali” (da banno), a preferenza dell’inadatto “signorie feudali”, poiché non tutti i titolari erano vassalli di qualcuno e non poche signorie erano “abusive”. Per comprendere come si fosse giunti a questo punto, bisogna tener presente il carattere rudimentale dell’amministrazione carolingia, la cui debolezza era celata dal carisma di Carlo Magno. La formazione dell’impero franco, non era valsa a mettere fine alle incursioni dei seminomadi. Una vasta area ancora instabile del punto di vista etnico-territoriale, era quella slava (dal Baltico al Mediterraneo). Qui fecero irruzione gli Ungari nel sec. IX. Provenienti dalle steppe della Russia centrale, si stanziarono in Pannonia (attuale Ungheria). Questo non cambiò le loro attitudini predatorie, per cui ogni anno praticavano incursioni nell’Europa carolingia (in Germania, Francia, Italia dove giunsero fino in Puglia e Campania, Spagna e Belgio) e si ripeterono fino alla metà del sec. X. Le formazioni politiche nate dopo la morte di Carlo, furono del tutto impotenti al riguardo, se non offrendo grossi tributi in denaro e dirottandoli verso territori nemici. A fare spese di tutto ciò non furono tanto le città, quanto monasteri e centri abitati privi di difese. A mettere fine alle scorrerie contribuirono prima l’organizzazione del regno di Germania ad opera della nuova dinastia Sassone, poi l’esaurirsi della loro spinta offensiva successivamente alla conversione al cristianesimo ad opera di missionari germanici. Contemporaneamente, l’Europa veniva aggredita da sud e nord da bande di predoni e corsari, provenienti da paesi musulmani e dalla Scandinavia. Ad esserne investita fu soprattutto l’Italia, dove il pericolo dei saraceni (come venivano chiamati), rimase fino ai principi del sec. XI. La loro pericolosità si faceva forza della frammentazione politica che affliggeva la penisola, per cui si inserirono nelle lotte tra i potentati locali. Così costituirono emirati a Bari e Taranto, facendone punti di partenza per le incursioni. Dove non riuscirono a stabilire dominazioni su territori più ampi, crearono insediamenti fortificati (ribati), come accadde ad Agropoli e a Saint Tropez (Provenza). Da qui per oltre ottanta anni partirono per le loro incursioni e solo nel 973 il marchese di Torino e il conte di Provenza riuscirono a snidare il loro covo. Obbiettivi delle loro razzie erano sia le città, sia le grandi abbazie, dove facevano incetta di oggetti preziosi: ne fecero le spese S. Gallo (Svizzera), S. Pietro (Piemonte), Montecassino; tra le città Capua, Isernia, Rome dove fu saccheggiata anche la basilica di S. Pietro. Inoltre andavano anche alla ricerca di giovani e donne, che poi rivendevano come schiavi nei mercati arabi. Spesso l’unico modo di fermarli era versare loro ingenti tributi in denaro, come si faceva in Italia meridionale. La resistenza armata ebbe esiti alterni, mai risolutivi. [Montecassino ha avuto la sventura di trovarsi sempre in prima linea negli eventi più rovinosi per la storia italiana, a partire dall’alto medioevo. La prima distruzione fu compiuta dai longobardi nel 580 (simbolo dell’inizio del medioevo). Allora i monaci trovarono rifugio a Roma, portando con se il testo originale della regola benedettina. A un certo punto, dopo l’abbandono, fu frequentata da eremiti. Nel 717 ci fu una vera e propria rifondazione, sostenuta da re longobardi e franchi tramite generose donazioni, aiuti di ogni tipo e monacazioni illustri come quella del re Rachis e Carlomanno. Giunsero, inoltre, monaci da tutta Europa, tra cui Paolo Diacono, che tenne scuola. A interrompere questa fioritura culturale furono i saraceni che la distrussero nell’833. Alcuni monaci coraggiosi si fecero trovare intenti a pregare in chiesa, dove furono trucidati. I superstiti si rifugiarono a Teano e Capua. Il terzo rifondatore è considerato Aligerno.] Le regioni d’Europa risparmiate dalle incursioni di ungari e saraceni, furono investite da quelle di Normanni e Vichinghi, che dalla Scandinavia si misero in movimento compiendo atti pirateschi, non disdegnando soste più lunghe per svolgere traffici con le popolazioni locali. Quelli provenienti dalla Svezia si diressero in Russia, dove riorganizzarono la politica di quel territorio. Alcuni si diressero verso Islanda e Groenlandia, altri verso Inghilterra, Francia del nord e Irlanda e anche verso il Mediterraneo, raggiungendo Catalogna, Provenza e Toscana. In questi luoghi compirono razzie e creavano insediamenti; città e monasteri venivano assaliti se non versavano tributi; anche l’imperatore Carlo il Grosso li pagò per salvare Parigi, finendo per essere giudicato poco dignitoso e venendo deposto nell’887. Neanche i suoi successori giunsero a risultati apprezzabili, Carlo il Semplice non trovò altro modo che tentare di renderli sedentari, concedendogli in feudo la Normandia, dove dimostrarono di riuscire ad assicurare al territorio un forte inquadramento politico. Anche i danesi direttisi verso l’Inghilterra dimostrarono la tendenza a trasformarsi in sedentari, arrivando a controllare la parte centrale dell’isola, anche se non si trattò di un dominio stabile, in quanto non trovarono un capo capace di imporsi. I sovrani dei regni formatisi dopo la dissoluzione dell’impero, tentarono di riorganizzare i territori innalzando fortezze, sbarrando fiumi o potenziando le mura della città. Non riuscirono però a tenere sotto controllo la situazione data la mobilità del nemico. Fu inevitabile perciò coinvolgere nella difesa le forze locali, autorizzando la costruzione di castelli ed altre opere difensive, che aveva un impatto importante sul paesaggio, la vita e l’organizzazione del territorio. Il signore non contava esclusivamente sulle sue forze, si rifaceva anche agli abitanti delle terre circostanti, in considerazione del fatto che anche loro se ne sarebbero serviti, per cui imponeva loro anche turni di guardia e manutenzione. In questo modo svolgeva funzioni di natura politica e ben presto anche di natura giudiziaria; se poi si aggiunge che nel territorio del castello sorgeva anche una chiesa per l’assistenza religiosa, si comprende come il territorio incastellato si configurasse come un organismo politico completo. Alcune di queste signorie di castello erano nate in modo abusivo, spesso, invece, tutto era in regola, perché all’origine c’erano fortificazioni erette dal conte e da lui affidate ai suoi dipendenti. Ben presto però il conte ne perse il controllo, perché i vassalli tendevano a considerare ereditaria la funzione e la fortezza loro attribuita. Il risultato fu che il potere tendeva ad esercitarsi in maniera autonoma (Giovanni Tabacco l’ha definita allodializzazione del potere). Il ruolo del castello andava al di la anche della sfera politica, coinvolgendo economia e società. Con il termine castello si intendono due realtà medievali distinte: il castello in senso moderno, presidiato da soldati e abitata dal castellano, in cui la popolazione si rifugiava solo se necessario oppure un centro abitato preesistente che ora veniva circondato da mura e fossato. In entrambi i casi il popolamento della zona risulta modificato, perché le persone tendevano a insediarsi all’ombra della fortezza per assicurarsene la protezione. Così si viene formando quel palazzo caratterizzato dalla diffusa presenza di castelli che dominano i paesi sottostanti. Ripercussioni si ebbero anche sulla rete viaria. Nel momento in cui la popolazione si concentrava nei centri fortificati, i distretti pievani si modificarono, divenendo parrocchie, il cui ambito territoriale coincideva col castello. L’Europa del sec. X, per quanto poco evoluta e immersa nel mondo rurale, necessitava di un minimo di organizzazione politica, che si aveva dal basso, per adeguare le strutture politiche ai bisogni della società. All’epoca i domini signorili erano tutt’altro che compatti, per cui un signore radicato in un territorio, non di rado aveva possedimenti minori in località lontane, nelle quali operavano con maggiore forza altri signori locali. La tendenza che emerse fu quella di coordinare questi poteri concorrenti per cui i signori territoriali (o bannali o di castello), riservavano a se la difesa del territorio, quindi la facoltà di imporre servizi di guardia e militari, sia l’alta giustizia, lasciando ai signori fondiari la bassa giustizia, ovvero le cause civili e quelle relative agli obblighi di natura economica. Non sempre si arrivò a questi accordi in maniera pacifica, ci fu infatti una sorta di guerra tutti contro tutti, che giustifica la definizione del X sec. come “secolo di ferro”. Le formarsi la coscienza nazionale di vivere all’interno di un regno comune, cui contribuì fortemente Ottone I di Sassonia, che rese effettiva la sua autorità nei 5 ducati. Dopo una rivolta stroncata dei duchi di Lorena, Franconia e Baviera, sostituì sempre i duchi e i maggiori funzionari con membri della sua famiglia, anche se non sempre corrisposero alle sue aspettative. Anche l’appoggio dei vescovi si rivelò fondamentale: Ottone li coinvolse appieno nel governo di città e contee, facendone dei signori territoriali, esigendo però un pari impegno religioso. Infatti, non pochi vescovi stavano avviando interventi di riforma e nasceva un forte impegno missionario, che Ottone sosteneva allo scopo di estendere la sua influenza sulle popolazioni slave ancora pagane. Tutto ciò comportava piena libertà per il re nella scelta di vescovi e abati, che egli scelse sempre da famiglie a lui legate, per cui si configurava come un vero e proprio capo della chiesa tedesca. Favorì la ripresa degli studi, per cui dotti provenienti soprattutto dall’Italia si riunivano alla sua corte. Il naturale risultato della sua intensa attività fu l’incoronazione a Roma nel 962, considerata dai contemporanei come una restaurazione dell’impero di Carlo Magno. Ottone rimase in Italia per 4 anni, durante i quali cercò di risollevare le condizioni del papato, assumendosi la responsabilità di garantire la correttezza dell’elezione papale, attribuendosi il diritto di giudicare l’eletto prima della consacrazione. Dopo un soggiorno di 1 anno in Germania, ritornò in Italia per 6 anni. Dopo aver fatto incoronare il figlio Ottone II, volse l’attenzione al meridione, ottenendo che i principi di Benevento e Capua si riconoscessero suoi vassalli. Non ebbe grande fortuna coi territori bizantini, per cui intavolò trattative, con le quali l’imperatore Giovanni Zimisce riconobbe a Ottone il titolo imperiale e cedette in matrimonio ad Ottone II la figlia Teofane, che portava in dote i territori dell’Italia meridionale. Ottone I morì poi nel 973. La sua costruzione politica resistette, soprattutto per il sostegno vescovile. I 10 anni in Italia, però contribuirono a rendere difficile il trapasso dei poteri al figlio, che impiegò 7 anni per venire a capo delle resistenze dei duchi germanici. Nel frattempo in Italia gli sfuggiva di mano la situazione: a Roma aveva ripreso a imperversare l’aristocrazia, i principi longobardi avevano ripreso la loro autonomia a Benevento e Capua, i saraceni attuavano scorrerie in Calabria e i bizantini non mostravano di voler onorare i patti matrimoniali. Nel 980 Ottone preparò una campagna in meridione, ma subì una grave sconfitta in Calabria da parte dei saraceni. Non demorse, ma la morte lo colse un anno dopo a 28 anni. Ottone III, il suo erede, troppo giovane per governare, si trovò sotto le veci della madre e della nonna Adelaide, per poi a 16 anni prendere in mano il potere. Tentò di dare una spinta al connubio tra regno e sacerdozio, per cui il suo primo atto fu di nominare papa un suo parente, Gregorio V e come suo successore il maestro Gerberto d’Aurillac, che prese il nome di Silvestro II, ponendosi in successione con Silvestro I, cui era destinata la falsa donazione di Costantino. L’imperatore si trasferì a Roma per guidare la cristianità alla salvezza governando col pontefice e prevedeva la sottomissione di tutte le potestà terrene, scontrandosi con ostacoli insormontabili: in Germania cresceva lo scontento per la scarsa considerazione che aveva avuto l’imperatore nei loro confronti, in Italia i feudatari abituati all’indipendenza non gradivano l’operato del re, in particolar modo l’aristocrazia romana. Il risultato fu una sollevazione dei feudatari, per cui Ottone fu costretto a lasciare Roma. L’anno dopo a 22 anni morì senza eredi. Gli successe il cugino, Enrico II, che concentrò i suoi sforzi sulla Germania, di nuovo alle prese con l’indipendentismo dell’aristocrazia e con la pressione degli slavi. Decisivo fu l’appoggio dei vescovi, cui fece concessioni ancora più ampie, combattendo contemporaneamente la rilassatezza dei costumi e incoraggiando a tal fine i movimenti di riforma. La lontananza dall’Italia aveva favorito i progetti dell’aristocrazia, che non amava questo legame con i tedeschi. Così fu incoronato a Pavia nel 1002 Arduino d’Ivrea, primo re nazionale. In realtà la sua vicenda si svolse all’interno delle lotte per il potere dell’aristocrazia feudale, per cui nel 1004 Enrico valicò le Alpi, sconfisse Arduino e ottenne la corona di re d’Italia. Intanto Enrico II si fece incoronare imperatore da papa Benedetto VIII, della famiglia dei Tuscolo, di cui faceva parte anche il suo successore, questo fatto fa capire come appena gli imperatori tedeschi si allontanavano dall’Italia, avessero difficoltà a mantenervi attivo il proprio potere e riemergessero le tendenze autonomistiche dei signori locali. In Italia non si era avuta la formazione di grandi principati territoriali come in Francia e Germania, per via della presenza di re in costante attività militare, delle incursioni dei saraceni e ungari e della vitalità delle città. Queste, se pur depresse economicamente e indebolite da una crisi demografica, avevano conservato vitalità, accresciuta con la politica ottoniana dell’appoggio ai vescovi, che appunto risiedevano nelle città. Questi non potevano operare senza consenso dei cittadini, che quindi erano ben lieti di sostenerli, avendo in cambio maggiore libertà di movimento e coinvolgimento nella vita politica locale. In Campania e Puglia, regioni tra le più urbanizzate del tempo, le città apparivano avviate alla ripresa demografica del X sec. Le città traevano vantaggio dai collegamenti col mondo bizantino e arabo, in piena fioritura e la loro struttura sociale si differenziava, con l’emergere di nuovi ceti quali commercianti e artigiani. A questo si accompagnavano l’emergere di una consapevolezza dei cittadini di poter giocare un ruolo sul piano politico. Ciò accadde anche nelle capitali longobarde di Capua e Benevento. La differenza tra zone longobarde e bizantine era evidente al di fuori delle aree urbane, poiché nelle prime si manifestava la tendenza al formarsi di signorie fondiarie, da cui anche una forte spinta nella costruzione dei castelli in Italia meridionale. Le regioni sotto il dominio di Bisanzio (Puglia, Calabria e Basilicata) e i ducati di Gaeta, Napoli e Amalfi, erano sostanzialmente indipendenti: si trattava di circoscrizioni territoriali rette da uno stratega inviato da Bisanzio. Questo tipo di organizzazione, potenziata poi nel X sec. con l’inserimento di una struttura superiore di governo, si rivelò efficace per dare stabilità al dominio bizantino, ampliatosi sensibilmente in seguito a un rinnovato impegno militare, che aveva portato al recupero di terre dai longobardi e imperatori sassoni. Tendendo ad assicurarsi il consenso alla loro dominazione anche da parte della popolazione, cercarono di guadagnarsi l’appoggio dei vescovi e largheggiarono nel concedere titoli onorifici ai ceti dirigenti locali. 11. INCREMENTO DEMOGRAFICO E PROGRESSI DELL’AGRICOLTURA NELL’EUROPA DEI SEC. XI-XIII Nella seconda metà del sec. XI, compaiono improvvisamente nuovi soggetti politici capaci di infliggere un duro colpo alla potenza bizantina: Normanni e Veneziani. Non di tratta di casi isolati, ma solo la punta di un movimento più ampio che vedeva l’occidente in crescita. Nel ‘700 per spiegare l’improvvisa crescita del sec. XI, si rifacevano alla leggenda dell’Anno Mille: sul finire del primo millennio si sarebbe arrestato lo sviluppo economico-sociale, poiché gli uomini erano in attesa della fine del mondo e solo all’apparire del nuovo millennio, fugato ogni timore, gli uomini si sarebbero dati da fare per recuperare il tempo perso. Oggi siamo in grado di capire meglio il lento processo che portò a questo fenomeno, attraverso l’andamento demografico, nuove tecnologie agrarie e la formazione di nuove rotte commerciali. All’inizio del nuovo millennio è certo che dopo il calo dei sec. III-VI e la stagnazione dei secoli seguenti, la popolazione era nuovamente in aumento: ovunque è in atto un ampliamento delle terre messe a coltura, attraverso opere di dissodamento, disboscamento e bonifica; le città si ripopolano e diventano centri di scambi commerciali e attività produttive; salgono i prezzi dei prodotti agricoli, che ora trovano nel mercato contadino uno sbocco consistente; le famiglie nobili risultano formate da più membri; il possesso fondiario risulta più frantumato, diviso tra un numero maggiore di figli; i ritrovamenti ossei lasciano pensare anche ad un aumento delle aspettative di vita. A questi elementi si aggiunge anche la fondazione di nuovi villaggi, che, se da una parte potrebbe non significare molto, dato che nuovi abitati nascono anche con la popolazione in calo, le città e i villaggi fondati nei sec. XI-XII sono così numerosi che non ci sono dubbi sul fatto che siano legati ad un aumento demografico, anche se non è facile individuarne l’inizio. L’unica regione in Europa per cui si può elaborare una stima più certa dell’incremento demografico è l’Inghilterra, dove fu stilato il Domesday Book, una specie di censimento a fini fiscali degli abitanti del regno, che dimostra che dal sec. XI al XIV la popolazione è poco più che triplicata. Ovviamente le condizioni di partenza dei vari paesi non erano le stesse. L’Italia per esempio era molto più popolata in alto medioevo, quindi aveva meno terre da mettere a coltura rispetto ad altri paesi e, per questo, è stato stimato un aumento della popolazione solo del doppio. È poi da aggiungere che tra una regione e l’altra c’erano forti squilibri, per cui si registravano anche in villaggi vicini andamenti demografici differenti. Quindi non c’è dubbio che ci sia stato all’inizio del nuovo millennio un aumento della popolazione in Europa, ma tutt’ora resta aperta la questione della causa del fenomeno. Un altro fenomeno che coinvolse tutta l’Europa fu l’ampliamento dello spazio coltivato. Anche in questo caso bisogna tener conto delle condizioni di partenza dei paesi: Italia e Francia meridionale non avevano le sconfinate distese boschive dell’Europa centro-orientale. Quindi, nelle aree già relativamente popolose l’espansione delle coltivazioni avveniva nelle zone incolte che facevano già parte delle corti o dei villaggi, per cui non si avevano spostamenti della popolazione e l’opera di dissodamento era sancita da contratti tra il coltivatore e il proprietario. Per lo più erano contratti verbali, ma in alcune zone erano messi per iscritto, come in Emilia Romagna, Salerno e in particolare i più propensi sembravano essere gli enti ecclesiastici. Comunque, sono numerose le fonti relative all’impegno dei signori laici nel valorizzare zone completamente disabitate, nelle quali attiravano coloni anche per aumentare il numero di uomini a loro assoggettati. In questo caso la colonizzazione prevedeva spostamenti di gruppi consistenti di contadini, che lasciavano le loro terre dando vita a nuovi villaggi. Questi nuovi centri abitati si chiamavano villenuove o borghi franchi (quest’ultimo in riferimento a particolari condizioni giuridiche in cui si trovavano gli abitanti). Un ruolo di rilievo ebbero anche i nuovi ordini monastici: i cistercensi e i certosini. Questi, desiderosi di riscoprire lo spirito originario della regola benedettina e insofferenti alla ricchezza e alla potenza della grandi abbazie del tempo, si rifugiarono in territori spopolati, dove erano costretti a provvedere da soli al proprio sostentamento. Ben presto però, i lavori più pesanti venivano svolti da conversi, ovvero monaci allo stato laico, per cui intorno ai monasteri sorsero nuovi villaggi di contadini. Non bisogna pensare, però, che tutta la popolazione impegnata nelle opere di colonizzazione si concentrasse nei villaggi: soprattutto nelle aree urbanizzate la messa a coltura di nuove zone comportava la costruzione di nuove dimore per i contadini sparse nei campi. In particolare accadeva in area salernitana. Altrove, come in Toscana, era diverso: si trattava, infatti, di una riorganizzazione dell’attività produttiva per cui la casa colonica diveniva una azienda agraria, in modo tale da superare la dispersione delle terre dell’alto medioevo, per procedere alla chiusura dei campi mediante siepi e segnali di vario genere per impedire soprattutto l’ingresso di animali estranei all’azienda. Questa espansione, non va però considerata lineare e continua, si deve tener conto che a volte i successi furono limitati e alcune terre dopo del tempo non risultavano produttive. Il fenomeno interessò anche vastissime aree fino ad allora deserte, modificando la natura stessa dei luoghi. Questo è il caso dei Paesi Bassi, disseminati di paludi e acquitrini, dove l’intera zona fu sottoposta a bonifiche attraverso la creazione di dighe, capaci di impedire l’invasione del mare e di canali di drenaggio per liberare le terre dalle acque. Sulle aree recuperate si procedette a impiantare aziende agrarie di allevamento. Uno sforzo di queste dimensioni fu possibile con l’intervento dei conti di Fiandra e altri signori territoriali, ai quali quelle terre ora produttive fornivano nuove entrate. Al contempo in Spagna il ripopolamento e la coltura procedeva insieme al movimento di riconquista da parte dei cristiani sui territori che avevano occupato gli arabi. Il paese che condusse il più grande slancio espansivo era la Germania, che si spinse al di la delle frontiere imperiali verso il Baltico e i territori slavi al di la dell’Elba. L’iniziativa fu dei principi territoriali che diedero vita a una grandiosa spinta verso oriente, guidando i coloni in territori da cui otto secoli prima erano partite le migrazioni verso occidente delle popolazioni germaniche. Dopo una sollevazione degli slavi, fu necessario riprendere tutto daccapo. Dopo poco, però, nuove ondate di colonizzatori provenienti non solo dalla Germania, ma da Frisia, Fiandra e Westfalia, fecero sorgere villaggi e castelli assorbendo completamente gli slavi. Verso la fine del XII sec., poi, si rivolsero verso le regioni del Baltico appartenenti al gruppo linguistico finnico (Finlandia, Estonia). Altre ondate ci furono in Baviera, Slesia, Boemia, in Austria, dove fu fondata Vienna nel 1018. Due motivi in particolare spingevano i contadini a spostarsi in terre abitate da popolazioni ostili: l’incremento demografico che rendeva eccessivo il carico umano sulle terre già coltivate e il desiderio di migliorare le proprie condizioni di vita, sottraendosi al potere dei signori fondiari. Flussi migratori così intensi ebbero conseguenze nelle terre d’origine dei migranti, per cui i signori tentarono di arginare le partenze dei contadini, prima riportando indietro i fuggiaschi con la forza, poi si resero conto che l’unica possibilità era venire incontro all’esigenza di una maggiore libertà. Così i contadini riuscirono a strappare ai propri signori una serie di diritti (riconoscimento di usi locali, possibilità di gestire servizi di interesse comune), agevolati dall’economia del tempo, che richiedeva maggiore libertà ed iniziativa ed il superamento dei vincoli che ostacolavano la produzione. In questo modo la curtis subì trasformazioni, ovviamente di diversa intensità a seconda della zona d’Europa. Dovunque, però, la tendenza era di ridurre la riserva padronale e di estendere l’area a diretta gestione dei contadini, riducendo le prestazioni d’opera e mettendosi in condizione di pagare canoni in denaro sostitutivi alle corvèes. Intanto anche i signori potevano disporre di società detta commenda. I vantaggi di questa società erano molteplici: il mercante partiva e aveva la possibilità di trovare capitali di cui aveva bisogno o di investire solo una parte del suo capitale; intanto, i risparmiatori che lo finanziavano, facevano fruttare il proprio denaro senza muoversi dalle città. A un certo punto alla commenda si affiancò, per poi sostituirsi, la societas maris o contratto di compagnia, che rispetto alla prima non era stipulata per un solo viaggio, ma per molteplici operazioni commerciali. Era un tipo di società da tempo diffusa per il commercio terrestre. Prendevano il nome dalla famiglia che deteneva il capitale maggiore (Bardi, Peruzzi, Acciaioli, Medici), ma non sempre erano stabili. Ben presto queste società non si dedicarono solo ai capitali dei soci, ma anche di privati, in cambio di una partecipazione agli utili e di un interesse fisso. In questo modo svolgevano una vera e propria attività bancaria, accettando depositi e facendo prestiti a privati, sovrani e pontefici. I prestiti ai sovrani erano fatto più per ricevere esenzioni e facilitazioni commerciali. Solo più tardi, nel ‘400, l’attività bancaria assunse una sua autonomia con la creazione di vere e proprie banche. Lo sviluppo dell’economia richiese il superamento del sistema monetario di Carlo Magno, basato sulla libra d’argento, divisa in 20 soldi, ciascuno di 12 denari. Queste erano monete di poco conto, per cui si coniava solo l’argento. Queste monete andavano bene per piccoli traffici locali, non per quelli a carattere internazionale, che richiedevano monete d’oro, bizantine o arabe. Così, i mercanti dell’Europa dovettero porsi il problema di dotarsi di una moneta stabile, capace di circolare ovunque. L’iniziativa fu presa da Venezia, che coniò il grosso d’argento (2,18 gr, di cui 2,103 di argento), copiata subito da altre città italiane e della Francia. Questo non risolse il problema, perché si trattava di ancora di monete d’argento, mentre il volume degli scambi richiedeva l’uso dell’oro, che circolava anche sotto forma di pezzi valutati a peso. All’origine dell’abbandono della monetazione aurea occidentale, non c’era solo la scarsità di quel metallo, ma anche la debolezza economica di quei sovrani, rispetto a quelli orientali, le cui monete erano universalmente riconosciute e preferite. Nei primi decenni del XIII secolo, però, si crearono le condizioni per ribaltare la situazione: gli operatori economici europei dominavano i mercati e la scena politica era occupata da Federico II, che riprese nel 1231 la coniazione dell’oro. Fornai, macellai, ferrai, falegnami, calzolai, sarti, erano sempre esistiti nelle città. La loro attività si incrementò man mano che si intensificavano i rapporti con le campagne circostanti e la popolazione cresceva. Tra sec. XI e XII, però, ad essi si aggiunsero nuovi artigiani, specializzati in attività non solo per la clientela locale, ma per un mercato anche a carattere internazionale. Per questo, si può parlare di un tipo di produzione simili all’industria, senza grossi impianti e concentrazione di operai. Il settore dell’industria medievale fu senz’altro quello tessile e laniero, nelle Fiandre e poi anche in Italia. Contemporaneamente in Italia cresceva la produzione di cotone e seta. Il settore laniero si pone all’attenzione dello storico soprattutto per la novità della sua organizzazione: infatti, per produrre panni di lana erano necessari circa una 30ina di processi tecnici. Finchè si trattò di produrre pochi panni, il piccolo artigianato potè farvi fronte. Quando si cominciò a lavorare per un mercato più ampio, per cui era necessario molto più materiale e attrezzi più grandi, fu inevitabile il passaggio ad una diversa organizzazione, basata sull’opificio decentrato: il grande mercante assunse un ruolo da imprenditore, promuovendo una specializzazione produttiva per cui le numerose operazioni furono divise tra un gran numero di botteghe e artigiani; alla fine il prodotto finito arrivava nelle mani del mercante che si occupava di immetterlo nel mercato. Erano anche altre le attività produttive. Tra queste la lavorazione dei metalli per la produzione di armi ed attrezzi di vario tipo, resa possibile dall’estrazione di rame e ferro che avveniva in Spagna, Germania, Svezia, Ungheria e Lombardia, dove fu fiorente la produzione di armi: gli armaioli milanesi erano famosi in tutto il mondo per le corazze di finissima maglia di acciaio. Un settore completamente nuovo era quello della fabbricazione della carta, inventata in Cina; il primo e più importante centro di produzione di carta in Italia fu Fabriano (Ancona), già nel ‘200 la carta italiana conquistava le vette dei mercati europei; nel ‘300 la fabbricazione di carta si spostò anche in Francia, Germania, Svizzera, Fiandre, Inghilterra e Polonia. C’erano poi altri ambiti, nei quali è sottile il confine tra arte e industria: lavori in avorio, artigianato del vetro, ceramiche artistiche; si trattava di tutti settori in cui la produzione restò sempre al livello della bottega artigiana. L’unico settore che superò subito i confini dell’artigianato per valicare quelli dell’industria è quello delle costruzioni navali, che richiedeva impianti costosi e il coinvolgimento di molti operai. L’unità produttiva di base era la bottega artigiana con a capo il maestro, che era il titolare, cui si affiancavano familiari, collaboratori, apprendisti e salariati. Gli apprendisti vivevano in casa del maestro, che si impegnava con un contratto scritto a trasmettere loro i segreti del mestiere in un tot di anni. Non tutti però, finito l’apprendistato, avevano modo di mettersi in proprio, per cui era più facile che divenissero salariati. Diventare maestro significava non solo un maggior guadagno, ma anche acquisire strumenti di partecipazione politica, attraverso le corporazioni di arti e mestieri. Sulla loro origine si è discusso a lungo: alcuni hanno sostenuto la continuità con analoghe associazioni preesistenti, altri con delle associazioni religiose ed altri ancora le hanno considerate una novità in tutto e per tutto. Oggi si tende a credere che anche se sembrano continuare associazioni preesistenti, si configurano come nuove. Ne facevano parte a pieno titolo solo i maestri, in posizione subordinata i discepoli e i collaboratori e i salariati ne erano esclusi, anche se erano soggetti ai loro tribunali, e non potevano nemmeno dar vita a propri organismi associativi. Provvedevano a rifornire di materie prime le botteghe degli aderenti, regolamentavano i salari, i prezzi di vendita, controllavano quantità e qualità dei prodotti, provvedevano alla mutua assistenza dei soci, configurandosi come delle confraternite, tant’è che avevano una propria cappella o un ospedale. Queste sono caratteristiche comuni alle corporazioni di tutta Europa, ma in alcune città queste raggiunsero una grande autonomia politica (Paesi Bassi, Germania, Italia centro-settentrionale), non solo per la propria influenza sulle autorità, ma anche per le competenze politico-amministrative che gli venivano riconosciute. Tra le altre novità tecnologiche, la più importante fu quella dell’utilizzazione dell’energia idraulica, non sconosciuta in precedenza, anzi usata nei mulini ad acqua, si rivelò preziosa per l’invenzione dell’albero a camme che consentì di azionare vari meccanismi a scopi industriali (follatura dei panni, lavorazione del ferro, concia delle pelli, carta). Infine, nel sec. XII comparvero anche i mulini a vento sulle coste dell’atlantico.
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