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Riassunto Mezzogiorno moderno. Dai viceregni spagnoli alla fine delle Due Sicilie, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto di Mezzogiorno moderno. "Dai viceregni spagnoli alla fine delle Due Sicilie" di Aurelio Musi. Testo da portare all'esame di Storia del Mezzogiorno. Voto esame 29/30.

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 17/02/2023

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Scarica Riassunto Mezzogiorno moderno. Dai viceregni spagnoli alla fine delle Due Sicilie e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! RIASSUNTO – MEZZOGIORNO MODERNO, MUSI Introduzione Regno è una categoria, un insieme di istituzioni, una comunità politica, un soggetto che si configura come una nazione prima delle nazioni dei Risorgimenti dell’Ottocento. Al suo vertice c’è un sovrano, il re è il solo il grado di tenere insieme le parti diverse del territorio meridionale. Regno di Napoli (tra il 1130 e 1302) composto anche dalla Sicilia (la quale entrerà poi nel sistema aragonese. Viceregno (dal 1503 al 1507), rientra nel sistema imperiale spagnolo, il regno di Napoli perde la sua indipendenza. Figura del viceré, massimo organo di governo e alter ego del sovrano spagnolo, suo rappresentante nei territori imperiali. Nel 1734 novità politica col “re proprio”, nuova dinastia borbonica. Regno delle due Sicilie dal 1816, nuovamente indipendente fino al 1860. Regno-viceregno due polarità delle popolazioni meridionali. Mezzogiorno è invece una categoria che rappresenta una realtà più complessa: confini storico-temporali più mobili e più longevi del Regno di Napoli. Quando si parla di mezzogiorno bisogna partire dalla geografia che è insieme fattore di identità e di differenziazione sempre e comunque dinamico. Dunque, a partire dal XIII sec la storia del regno di Napoli deve essere considerata partendo sempre dal rapporto con la storia del Mezzogiorno. Isole meridionali e 12 province continentali: Abruzzo Citra e Ultra, Contado di Molise, Principato Citra e Ultra, Terra di Lavoro, Basilicata, Calabria Citra e Ultra, Capitanata, Terra di Bari e Terra d’Otranto. La storia della Sicilia e Sardegna non può essere esclusa dalla categoria Mezzogiorno d’Italia. 2. Tre vie alla modernità Tre vie: via napoletana, via siciliana, via sarda.  La via napoletana caratterizzata per alcuni compromessi che hanno ispirato la condotta del soggetto protagonista, il potere sovrano, nei confronti della nobiltà feudale e della capitale. - Il primo compromesso con il baronaggio, al quale viene riconosciuto il ruolo di forza sociale ed economica egemone, dotata di giurisdizione, in cambio dell’obbedienza alla Corona. - Il secondo riguarda il riconoscimento alla capitale del suo primato nel Regno. Nel progetto dei sovrani spagnoli il rapporto privilegiato con la capitale, sede della Corte viceregia, doveva rappresentare un contrappeso al potere della nobiltà feudale nelle province.  In Sicilia invece il primato della capitale Palermo è stato più tormentato: in primo luogo il monocentrismo urbano del Mezzogiorno continentale, una grande metropoli si oppone al policentrismo della Sicilia. In secondo luogo il dualismo fra Palermo (città del grano e del baronaggio) e Messina (città della seta). In Sicilia la linea politica della Monarchia spagnola non è stata molto diversa da quella seguita a Napoli: ma il compromesso con la feudalità ha finito per prevalere nella sua versione più conservatrice, e il baronaggio, ha inciso con la sua pressione giurisdizionale in forme più consistenti e per una durata maggiore rispetto a quelle del regno napoletano. Qui il compromesso ha rappresentato uno scambio ineguale, più favorevole al baronaggio che alla monarchia.  La via sarda allo stato moderno nell’età spagnola è stata caratterizzata da tre fattori: le istituzioni pubbliche come fonte di reddito per i ceti privilegiati, il rafforzamento di togati e nobili, le tensioni stamentarie dei ceti interne al Parlamento sardo. Dopo il dominio imperiale romano, saraceni, pisani e genovesi si successero sull’isola fino quando nel 1297 fu concessa in feudo a Giacomo II d’Aragona. La supremazia etnica fu delle ristrette elite urbane e feudali aragonesi. Furono la guerra di successione austriaca a differenziare, come nel Medioevo, il percorso storico di Sardegna e Regno di Napoli. Le isole e il mezzogiorno continentale, verso metà del Quattrocento, erano stati unificati dai re aragonesi. Con la pace di Utrecht, a conclusione della guerra di successione spagnola, la Sardegna passò prima per un breve periodo agli asburgo, poi alla dinastia sabauda, mentre i regni di Sicilia e di Napoli agli Asburgo d’Austria. In tutti e tre i regni meridionali appartenenti alla Spagna la Corona è stata il soggetto politico protagonista del passaggio alla modernità. “Modernità” non equivale a “innovazione”: la linea complessiva della Spagna del Mezzogiorno fu quella della conservazione degli equilibri preesistenti, non certo della loro trasformazione dalle fondamenta. Questo fattore ha pesato a lungo nella storia del Mezzogiorno. L’Italia ha vissuto il suo percorso moderno inquadrata in sistemi imperiali: cioè in organizzazioni politiche sovrastatuali e sovranazionali. La tendenza all’unità d’Italia si fece lentamente strada soprattutto a livello linguistico, culturale e artistico. Le due vie nazionali, siciliana e sarda, mostrano alcuni tratti comuni. L’antagonismo tra i due centri delle isole (tra Palermo-Messina e Cagliari- Sassari) ha motivazioni a tratti similari. Quello siciliano affonda le radici sia nelle differenti funzioni urbane sia nella diversità di stratificazioni socio-economiche di Palermo e Messina sia nella condotta politica delle due città. Anche in Sardegna, esso è legato alle differenti funzioni urbane e al primato politico-religioso. L’antagonismo si affievolisce quando occorre fare fronte comune e si afferma il senso di appartenenza nazionale. 5. Economia e società Ruolo chiave del Mediterraneo, obbiettivo secolare delle potenze straniere. Porto di Messina di grande importanza per i mercanti. Le tre parti del Mezzogiorno mostrano una dinamica demografica simile: crescita della popolazione nel XVI sec, contrazione fra Seicento e inizio Settecento, ripresa a partire dagli anni 30 del XVIII sec. I cicli dell’economia anch’essi analoghi, caratterizzati soprattutto dall’economia agricola. Fattori di fragilità: - Prevalenza del sistema feudale e rendita agricola della signoria terriera, innovazioni tecnologiche non prevenute. - Economia agricola basata prevalentemente sul trinomio olio-vino-seta, prodotti esposti all’andamento climatico e al ciclo epidemia-carestia-epidemia. - Deficit quasi permanente della bilancia dei pagamenti e del rapporto import-export. - Debole attività manifatturiera, scarsa disponibilità di capitali per investimenti - La dipendenza da operatori d’affari e mercanti stranieri - La pressione fiscale sproporzionata - Sistema fiscale che sostiene il debito pubblico perché colpisce in prevalenza i ceti deboli - Forte esposizione alla congiuntura internazionale Il sistema sociale complessivo del Mezzogiorno rispecchia questo quadro della sua economia strutturale, i suoi caratteri sono: - Una società di ordini in cui prevale lo status conferito dalla nascita e dal posto occupato nel sistema gerarchico prescrittivo più che il merito individuale. - La progressiva, ma lenta trasformazione da società di ordini in società di classi - La permanente condizione di equilibrio di poteri giurisdizionali che convivono e concorrono sullo stesso territorio - Le forme di conflittualità e rivolta contro l’introduzione dell’Inquisizione - La lenta gestazione di una nuova classe politica a Napoli a partire dalla rivoluzione del 1799. L’unificazione politica dell’Italia fu la condizione indispensabile perché il Mezzogiorno entrasse in una nuova fase di modernizzazione economico-sociale. 6. Il palinsesto istituzionale Metafora di Galasso utilizzata nel senso che assume per estensione e similitudine. È possibile per lui seguire il testo dell’ordinamento napoletano, siciliano e sardo, per tre secoli e rilevarne svolgimenti e variazioni che tuttavia non ne modificano la struttura originaria: una stratigrafia delle istituzioni che consente di identificare sempre la struttura preesistente alle trasformazioni. Questa metafora si applica solo per la periodizzazione di tre secoli. Il termine a quo non è solo solo l’inizio del governo prima aragonese poi spagnolo nel Mezzogiorno, ma allude anche alla costruzione del difficile equilibrio Ferdinandeo tra l’affermazione del modello politico-istituzionale aragonese e l’attivazione di più efficaci strumenti di centralizzazione e di governo del territorio. Il termine ad quem fa riferimento al 1806, con l’inizio della legislazione riformatrice della macchina statale centrale e periferica ad opera di Giuseppe Bonaparte, e successivamente di Gioacchino Murat a Napoli e l’influenza delle riforme napoleoniche in Sicilia e sardegna. Con la “rivoluzione francese” dell’ordinamento napoletano e la sua prosecuzione nel Regno delle due Sicilie che viene meno il palinsesto istituzionale dei secoli precedenti. 7. Una cultura Europea Anche a livello di governo del territorio, croce rilevava lo squilibrio nella politica spagnola più rivolta alla capitale, alla sua espansione edilizia privata e pubblica, alle infrastrutture, che alle province, dove i viceré non riuscirono a sradicare la delinquenza “e soprattutto il banditismo o brigantaggio, quasi un’istituzione alla quale il governo stesso faceva ricorso”. Il risveglio civile e politico del regno di Napoli fu opera dei fermenti culturali degli ultimi decenni del Seicento. L’unificazione della penisola fu una scelta inevitabile e positiva per il Mezzogiorno d’Italia: rappresentò la realizzazione di un obbiettivo delle elite intellettuali che vedevano nell’unificazione l’unica via per costruire la patria sul fondamento della libertà. Grazie all’unificazione il Mezzogiorno imboccò la via maestra per superare i suoi problemi storici. La forzatura di Croce era determinata dalla sottolineatura costante dell’importantissima funzione storica svolta dalla monarchia spagnola nel mezzogiorno: la riduzione dei baroni a sudditi. Ciò che mancava era l’attenzione all’intreccio fra terra e funzioni, terra e poteri pubblici delegati che rimase, per tutto l’antico regime, la caratteristica peculiare della posizione feudale. Oggi l’equilibrio fra tradizione e innovazione ha indotto la storiografia a orientare la ricerca e la riflessione intorno ai seguenti punti: - Il superamento e la piena storicizzazione della leggenda nera e dell’antispagnolismo. - La considerazione del mezzogiorno d’Italia nel quadro dell’integrazione politica rappresentata dal sistema imperiale spagnolo. - Gli scambi e intrecci tra Spagna e Mezzogiorno. - Motivi, fattori e strumenti della lunga durata. 3. Nel sistema imperiale spagnolo La formazione politica che si sviluppa sotto Filippo II (1559-1598), successore di Carlo sul trono di Spagna e sui domini castigliano-aragonesi, più che un impero può essere meglio definita come sistema imperiale. Questo modello è distinto rispetto al modello di federazione di stati. La rappresentazione federale è destituita di fondamento poiché il modello di potere assoluto e del Re Cattolico come unico titolare della sovranità non è mai messo in discussione. Si possono identificare 5 caratteri nel sistema imperiale spagnolo: 1) Il primo è l’unità religiosa e politica. Due fedeltà si declinano al singolare, quella a dio e quella al re. L’Unità dinastica, insieme a quella religiosa, è l’unico riferimento unitario del sistema imperiale spagnolo, costituendone il più potente fattore di legittimità e la sede più elevata e più efficace di aggregazione politica. 2) Il carattere del sistema imperiale spagnolo è la presenza di una regione-guida al suo interno. È la Castiglia a svolgere tale funzione. Da qui deriva la forza economica, sociale e politica del sistema. Filippo II localizza la capitale a Madrid (processo di castiglianizzazione e maggiore centralizzazione del potere). La crisi del seicento, investendo la Castiglia infatti, colpisce al cuore del sistema ed è all’origine del suo lento declino. 3) Terzo carattere è l’interdipendenza tra le parti attraverso la configurazione di sottoinsiemi. Sottoinsieme significa: - Una serie di funzioni tra loro coordinate e assegnate ad alcune parti omogenee del sistema - Un sistema di potenza regionale - Uno spazio politico relativamente unitario 4) Rapporto tra concentrazione e partecipazione politica, tema che rinvia alla questione del rapporto tra domino e consenso e fra integrazione, rappresentanza, resistenza. 5) Infine, l’egemonia nelle relazioni internazionali. È qui la radicale novità di un organizzazione di potere che inaugura il piano mondiale della vita politica. È questa la prima forma moderna di globalizzazione politica. CAP 3: NEL SOTTOINSIEME ITALIA 1. Il Regno di Napoli Lo schema di governo degli Asburgo nel mezzogiorno spagnolo fu il prodotto del rapporto fra le esigenze di indirizzo unitario nel complesso imperiale e le specifiche condizioni del contesto locale del Regno di Napoli. Da un lato cioè la monarchia degli Asburgo doveva dare omogeneità al governo del sistema imperiale, dall’altro non poteva non tenere conto del patrimonio culturale, giuridico e istituzionale di Napoli. Il risultato fu un sistema di compromessi che garantì la lunga durata del rapporto fra Spagna e Napoli: un equilibrio fra dominio e consenso che entrò in crisi in alcune congiunture, ma si spezzò solo all’inizio del Settecento. Al vertice dell’apparato vi era il viceré, egli non era onnipotente, era dipendente dal sovrano è limitato dalle funzioni delle magistrature, gelose delle loro prerogative, esse erano: il Consiglio Collaterale, il Sacro Regio Consiglio, la Camera della Sommaria. Il sacro regio consiglio diventò corte suprema di giustizia nel periodo spagnolo. La regia camera della sommaria era stata istituita da Alfonso d’Aragona nel 1450 come tribunale finanziario. Il più importante viceré spagnolo di Napoli fu Pietro di Toledo (1532-1553). Fu artefice di un radicale riassetto urbanistico della capitale: il taglio della via che ancora oggi prende il suo nome e che divise in due la città con la fondazione di un nuovo grande insediamento settentrionale per gli alloggiamenti militari (gli attuali “quartieri spagnoli”). Cercò di consolidare il dominio spagnolo, applicando nel governo del Regno un particolare modello assolutista. I napoletani si ribellarono al tentativo del Toledo di introdurre anche a Napoli il Tribunale dell’Inquisizione. Sei fasi nella storia politico-istituzionale del Regno di Napoli durante la dominazione spagnola. 1) Prima fase caratterizzata da una fluidità e dall’oscillazione fra tentativi di maggiore centralizzazione. Qual è il disegno politico che il sovrano spagnolo intende perseguire nel Napoletano? Ferdinando Il Cattolico è l’artefice della nuova monarchia spagnola, un modello di sviluppo politico-amministrativo contrassegnato da una concezione sostanzialmente patrimoniale dello stato, che esclude la fusione di territori diversi in un solo dominio e che intende costruire l’unità nella diversità e nel rispetto delle autonomie e delle leggi tradizionali. Il dualismo delle due Corone fu ribadito e perpetuato. In questa fase caratterizzata dal predomino del patriziato urbano, dal peso politico delle sue intenzioni rappresentative, i sei Seggi (cinque nobili e uno popolare), dal primato della capitale. Il piano perseguito dal Cattolico era evitare squilibri e pericolosi accumuli di potere in una sola direzione che avrebbero compromesso il programma politico della corona e reso impossibile l’efficace esercizio di governo da parte del potere centrale. Il compito che il Cattolico affida ai suoi viceré è quello di raccogliere l’eredità del Regno aragonese, promuovendo però, al tempo stesso, l’integrazione di Napoli in un organismo di ben più vaste proporzioni come aspetto dello sviluppo di una realtà politica articolata e multinazionale quale era la corona d’Aragona. 2) La seconda fase coincide con la costruzione politico-amministrativa dei primi anni di regno carolino. Età di sperimentazione che coinvolge l’intero assetto dell’impero. 3) La terza coincide con il Viceregno di Toledo (1532-1553) e la svolta imperiale degli anni Quaranta del cinquecento con un regime più autoritario e centralizzato. Nuova visione più moderna di egemonia continentale fondata sulla Spagna. Essa implica una ristrutturazione dell’Impero. 4) La quarta fase coincide con l’età filippina. Fase in cui il regno è parte integrante del sottosistema Italia. 5) La quinta fase è quella che coincide con i regni di Filippo III e Filippo IV: fra integrazione dinastica e resistenza. Poteri di diritto e poteri di fatto interagiscono e condizionano il gioco della rappresentanza nei domini della corona spagnola. Quelli europei sono governati dalla logica del compromesso. 4 compromessi: tra la monarchia e la feudalità, quello tra la monarchia e la capitale, quello tra sistema finanziario pubblico ed operatori economici privati, infine quello tra stato e chiesa soprattutto sul fronte della fiscalità. Il primo compromesso è il più importante ed esemplare. Elemento di fondo nell’elaborazione strategica per il governo dei territori: la ricerca dei mezzi più adatti per neutralizzare il potere politico dell’aristocrazia feudale, ma al tempo stesso, la tendenza a mantenere o allargare la sua sfera di giurisdizione, la sua forza sociale ed economica. Questo fu il modello che si affermò in Castiglia. Questo fu il modello che si affermò anche nel Regno di Napoli. 2. Napoli: una capitale nell’impero spagnolo Le funzioni urbane di Napoli si perfezionano nel corso del Cinquecento: mercato di beni, denaro, consumi; città di servizi, città artigiana, città terziaria con lo sviluppo delle professioni pubbliche, burocratiche, civili, dotata anche di centri di assistenza sociali. Città di corte vicereale e di corti patrizie. Questo complesso di funzioni spiega la tendenza che inducono ad emigrare verso la capitale del regno. La parte più ampia dell’aristocrazia napoletana è costituita dai fuori seggio. Si può ricostruire la crescita e l’identikit dei nobili napoletani nel cinquecento attraverso l’habitat aristocratico. Chi sono questi aristocratici che danno l’assalto allo spazio urbano della capitale nel corso del XVI sec? I primi arrivati sono aragonesi e castigliani, vertici dei settori militare, politico e amministrativo. Il secondo gruppo è costituito da guerrieri a fine carriera che si ritirano in pensione nella capitale. Il terzo nucleo è costituito da una potente ed agguerrita nobiltà di provincia, che alimenta il fenomeno dei “baroni in città”. La sociologia del popolo del cinquecento mostra tre grandi articolazioni: - La prima costituita dal popolo nobile: ristretto gruppo formato prevalentemente da alti magistrati che occupano i vertici degli uffici napoletani, da gradi mercanti, banchieri e operatori finanziari indigeni e stranieri. - La seconda articolazione è il sistema delle professioni: burocrazia civile e militare, avvocati, notai e medici. A fronte di un vertice ministeriale, l’èlite dei tre consigli (collaterale, la sommaria, il sacro regio consiglio), sta una massa di dipendenti della burocrazia civile, militare e comunale di Napoli. - La terza è quella degli addetti ai servizi, al commercio, all’artigianato: senz’altro la componente più numerosa della popolazione attiva. 3. Le province L’avvento degli spagnoli blocca le spinte autonomistiche di feudalità e città. Il baronaggio limita fortemente l’autonomia urbana. Un ruolo reso possibile grazie anche a quella sorta di compromesso intercorso con la monarchia che, nel trasformare la feudalità da potenza politica a potere sociale ed economico, e dotandola di un ampia sfera giurisdizionale, le consentì appunto di controllare più efficacemente le collettività locali. La prima politica della corona spagnola è quella di creare intorno all’Aquila, nel suo contado, un cordone di feudatari spagnoli fedeli. Il contado del Molise è la più piccola provincia del Regno: vi convivono persistenze feudali e fermenti mercantili. Il tratto economico- sociale distintivo della parte appenninica della provincia è la conversione dall’agricoltura alla pastorizia. La Campania è formata dalle tre province di Principato Citra e Ultra, Terra di Lavoro e dalle sue enclaves di Benevento e Pontecorvo. Principato Citra (attuale provincia di Salerno) è un microcosmo differenziato, che rispecchia la varietà di condizioni geoeconomiche tipica di tutta l’Italia meridionale peninsulare. In questa come nella provincia di Principato Ultra lunga durata del feudalesimo “moderno”. Dal primo Seicento il Principato Citra si presenta sempre di più e meglio come provincia di città. Altro fattore di lunga durata nella storia del Principato Citra è la presenza di nuclei manifatturieri dislocati fuori dal centro provinciale. 3 momenti che scandiscono la periodizzazione e la dinamica sociale dell’aristocrazia feudale in questa provincia: 1) Primo momento caratterizzato dalla concentrazione dei grandi patrimoni delle grandi famiglie baronali della provincia, ad ex i Sanseverino. 2) Secondo momento caratterizzato dalla crisi dei Sanseverino che iniziata nel Quattrocento culmina nel Cinquecento con la dissoluzione del patrimonio feudale. 3) Crisi politica e finanziaria nelle grandi famiglie aristocratiche producono effetti nella dinamica sociale del Principato: mutamenti nella fisionomia dell’aristocrazia. Nella storia del Principato Ultra Avellino diviene nel Cinquecento centro di un vasto stato feudale. Alla fine dell’età dei Lumi Galanti spiega perché la Campania ossia la Terra di Lavoro fu chiamata felice dagli antichi: per l’estrema fertilità della sua terra e per la possibilità di giovarsi di una rete di infrastrutture fluviali, che ha favorito l’apertura del commercio a breve e media distanza. Galanti considera anche il rapporto uomo-ambiente: egli sottolinea la fertilità della terra, la ricchezza di piante fruttifere, di oliveti, canapa e lino, buoni pascoli per le greggi. Anche ricchezza cerealicola. Tuttavia alla ricchezza della terra non corrispondono né una consistente urbanizzazione né una rete di villaggi. L’area circostante a Napoli avverte fortemente l‘influenza della capitale, tuttavia ci sono città libere come Capua più indipendenti. Terra di Lavoro può dunque essere considerata come la più rappresentativa regione del regno. Essa si identifica con la romana Campania felix. Una delle province più infeudate del regno è la Basilicata: frammentazione degli insediamenti e isolamento hanno a lungo segnato il volto di questo territorio. In questa provincia si insediano anche famiglie di feudalità spagnola come i Reverter. Altra particolarità di questa provincia è la presenza di minoranze linguistiche, etniche e religiose: ebrei, albanesi e greci. Le La corte diviene luogo visibile del potere. Molte furono le strategie matrimoniali di integrazione con la grande aristocrazia spagnola. Al protagonismo napoletano del mezzogiorno peninsulare d’Italia fa pendant il policentrismo regionale siciliano. Nel corso del XVI sec la popolazione isolana è concentrata prevalentemente nelle città: il tasso di urbanizzazione dell’area regionale è tra i più elevati nell’Europa dell’epoca. Analogie e differenze fra la Sicilia e il mezzogiorno peninsulare spagnolo: - Entrambe le aree fanno parte del sottosistema Italia - Svolgono funzioni strategico militari simili come frontiera e riserva di uomini e mezzi finanziari - Riserva di uomini e mezzi finanziari e funzioni per il drenaggio di risorse - Funzioni legate alla circolazione delle principali produzioni (cereali, vino, olio, seta) - Circolazione di mercanti e uomini d’affari stranieri - Entrambi i regni sono destinatari di linee direttrici che partono dal centro del sistema e devono trovare la loro attuazione nelle parti del sottosistema ad opera dei viceré, massima autorità di governo. Le differenze: - Via napoletana alla modernità che si è avvalsa di un sistema di alleanze politiche rispetto a quella siciliana che ebbe un sistema di alleanze più debole - La Sicilia si è sempre opposta ad un tentativo di castiglianizzazione: gli ostacoli provenivano sia dal bipolarismo Palermo-Messina, dalla necessità permanente di mediare nei conflitti di interesse fra le due città e dalle rivendicazioni autonomistiche dei ceti privilegiati. - La via napoletana è insieme il frutto di un compromesso tra monarchia spagnola e baronaggio, mentre in Sicilia non si è creata un’autonoma funzione ministeriale in dialettica con l’aristocrazia feudale e cittadina. - Forme di controllo e superamento delle crisi politiche e sociali, in Sicilia il governo spagnolo deve fare ricorso a strumenti di controllo esterno, a mezzi di pressione sulle magistrature, mentre a Napoli la gestione e il superamento delle crisi possono contare sia sull’alleanza monarchia- baronaggio, sia sull’alleanza monarchia-ministero togato. 5. Il Regno di Sardegna Anche il regno di Sardegna è integrato nella monarchia asburgica di Carlo V nel segno della continuità pattizia con casa d’Aragona. I sudditi sardi rivendicano insieme L’unità storico-politica aragonese e la difesa della loro autonomia giuridico-costituzionale. L’isola entra a far parte della logica sottosistemica e della politica mediterranea che, con Ferdinando il Cattolico e i suoi successori, costituirà il filo conduttore della strategia internazionale dei sovrani spagnoli. Il ruolo più importante affidato all’isola scaturisce dalla sua posizione geografica: essa garantisce la continuità delle linee di comunicazione tra Carlo e il resto dell’Impero. Fisionomia e funzione dei viceré “italiani” appaiono assai ben caratterizzati durante l’età Carolina. Il caso sardo è esemplare per verificare la continuità catalano-aragonese. Quattro funzioni principali del viceré: quella giudiziaria, legislativa, politico-amministrativa, militare. Nell’età di Filippo II l’integrazione economica e politica della Sardegna nel sistema imperiale spagnolo di fa più intensa. La politica protezionistica induce l’élite del regno alla coltura specializzata e all’impianto di manifatture. Il sottosistema Italia nel complesso funzionò. Il processo di integrazione politica si perfeziona sotto Filippo III attraverso un più avanzato stadio di integrazione dinastica. Con due variabili decisive: i conflitti fra la nobiltà e i viceré e la congiuntura economica. La Sardegna spagnola è in prevalenza una società feudale. La sua storia attraversa due fasi: - Nel periodo aragonese l’estensione del feudo è funzionale al controllo militare sul territorio sa parte della corona. L’investitura regia privilegia i baroni catalani e gli alleati sardi. - Nella prima metà del Quattrocento la seconda fase. A caratterizzarla: l’ampia estensione del feudo che aggrega migliaia di vassalli e il diritto di dividere il beneficio fra i figli di venderlo. La feudalità diventa così, a partire da Carlo V, parte integrante dello stato monarchico. Possiamo assimilare la storia feudale della Sardegna spagnola ai caratteri mediterranei degli Stati signorili: - Un regime su uomini e su terre che fa leva soprattutto sulla giurisdizione - Il rapporto fra monarchia e baronaggio fondato su compromessi e forme di contrattazione fra feudatari e comunità - La formazione di grandi patrimoni che si configurano come stati, cioè complessi socio economici, aziende da amministrare, apparati per la gestione e il governo giudiziario e fiscale - La possibilità per il personale amministrativo, mercanti, uomini d’affari di integrarsi nelle file della nobiltà attraverso l’infeudamento. Confronto demografico con le altre capitali italiane è penalizzante per Cagliari, città fortificata, sede della corte vicereale e principale porto dell’isola. Nel complesso la storia della Sardegna spagnola conferma le funzioni dell’isola come parte periferica del sottosistema italia: bastione mediterraneo del sistema imperale, ingranaggio della sua catena di comando in relazione diretta con gli altri viceré italiani, formazione economica integrata nei circuiti produttivi e commerciali mediterranei, in grado di sostenere il fabbisogno (soprattutto cerealicolo) delle altre aree imperiali. 6. Le rivolte italiane Sicilia e Regno di Napoli, 1647-48, Messina, 1674-78: il sottosistema italia è colpito da un’ondata di rivolte, esse testimoniano sia dei fattori di fragilità del governo imperiale spagnolo sia dei fattori di forza che rendono possibile alla monarchia cattolica il superamento delle crisi e dei conflitti. Le fragilità sono: - La difficolta di affrontare più fronti bellici contemporaneamente in una condizione di deficit di bilancio - L’impegno a sostenere insieme guerre offensive e difensive - L’incapacità di governare la contraddizione fra l’accentuata pressione fiscale e militare due reinos dell’Italia meridionale e a linea direttrice del “far da sé” nella difesa dei territori, imposta dalle classi dirigenti madrilene alle autorità del governo locale - L’inevitabile effetto destabilizzante del compossesso conservatore fra monarchia e il baronaggio del mezzogiorno - La gestione politica fallimentare di alcuni viceré I fattori di forza nelle congiunture delle rivolte: - Le divisioni interne al fronte dei ribelli e la disomogeneità delle spinte ideologiche e politiche - La catena di comando dell’impero e la collaborazione fra le componenti del sottosistema Italia, che continuano a funzionare anche nelle condizioni critiche sia degli anni Quaranta sia negli anni Settanta - Il sostegno e la fedeltà di gran parte dei ceti privilegiati e meglio integrati nel sistema imperiale - La capacità di recuperare il consenso di ceti non nobili, magistrati, pubblici funzionari e civili. Uno sguardo comparativo al ciclo di rivolte degli anni 40 del Seicento nel sistema spagnolo mostra 3 elementi: 1) Il primo è costituito dall’applicazione della politica madrilena nella specificità dei contesti. Un medesimo gruppo dirigente realista applica le linee della repressione e della restaurazione 2) Ciclo che si conclude positivamente per la monarchia (sequenza crisi, rottura e restaurazione dell’equilibrio vicereale). 3) Le linee comuni della restaurazione e un nuovo stadio dell’assolutismo monarchico furono possibili anche grazie a figure di rilevante statura politica che andarono a ricoprire la carica vicereale nelle aree di crisi della Monarchia. La rivolta di Messina fu un evento a più dimensioni che portò allo scoperto i problemi economico-sociali irrisolti dell’isola e le tensioni esistenti fra le sue realtà urbane, le contraddittorie aspirazioni della sua classe dirigente e i limiti della capacità di gestione della crisi da parte dell’élite della monarchia cattolica. La congiuntura 1674-78 mostrò i limiti dell’espansionismo e della supremazia francese di luigi XIV. Ma la monarchia spagnola non era finita perché molti meccanismi politici e amministrativi funzionavano ancora bene e perché la fedeltà verso la corona dei sudditi era ancora solida. 7. Rinascimento e Barocco Nel periodo di Alfonso e Ferrante d’Aragona si formò una cultura e letteratura napoletana. Personaggi importanti furono Giordano Bruno e Tommaso Campanella (la sua opera detta città del sole). Napoli e la sua cultura offrono uno straordinario contributo in tutte le direzioni: nella pittura, nella scultura, nell’architettura, nella letteratura e nella musica. A dimostrazione che, come per il Rinascimento, anche per il Barocco è possibile parlare di un Regno pienamente inserito nella civiltà europea. Accanto ad intellettuali appartenenti all’establishment del potere ce ne sono altri che invece operano al di fuori. Il seicento culturale napoletano si apre con il contributo di alcune personalità decisive. Il 1601 viene pubblicata la più importante opera della storiografia nazionale napoletana prima di Pietro Giannone: la Historia della città e Regno di Napoli di Giovanni Antonio Summonte. Seicento secolo della formazione di accademie come l’accademia degli Oziosi. La Napoli blocca fu laboratorio anche della cultura figurativa. CAP 4: UN NUOVO ORDINE DELL’ANTICO REGIME 1. Il declino dell’impero Declino lento della Spagna imperiale nella seconda metà del Seicento, non una decadenza. Declino significa l’emergenza dei limiti strutturali del sistema imperiale spagnolo: lo squilibrio fra la moltiplicazione degli impegni militari e le risorse per sostenerli, il permanente deficit di bilancio, la dilatata dimensione dell’impero, sistema delle relazioni internazionali mutato. La fase compresa tra la seconda metà del XVII sec e i primi decenni del successivo si può caratterizzare come un nuovo ordine dell’antico regime. Il sistema imperiale spagnolo riconosce dopo Vestfalia la sovranità di tutti gli stati e colloca in secondo piano la confessione religiosa. Il declino è anche visibile nella relazione fra il centro e le sue periferie. Galasso ha rilevato che, nelle condizioni di vischiosità della società napoletana alla fine del seicento, gli squilibri politici interni potevano correre rischi di ribaltamento. Ma fu la crisi dinastica ad accelerare i tempi di una vera e propria congiura aristocratica. I segnali apparvero in piena evidenza alla fine dell’anno 1700. Si prepararono i piani per la trasformazione del regno di Napoli in una repubblica. La reazione aristocratica dimostrò l’impasse in cui si venne a trovare il partito patrizio al momento della successione. Il gioco internazionale delle potenze metteva in crisi il protagonismo napoletano e accelerava la trasformazione del partito patrizio in partito asburgico. Il 7 luglio 1707 le truppe austriache entrano a Napoli, finisce il lungo governo spagnolo nel Mezzogiorno. 2. Il riformismo asburgico: valori e limiti Nel 1701 tentativo represso di insurrezione organizzato dai baroni detto “congiura di Macchia” (per la partecipazione del principe di Macchia). Essa non aveva un moderno programma politico di autonomia di governo e riforme. Fu soltanto un episodio di reazione aristocratica che voleva difendere i privilegi della nobiltà feudale. Gli austriaci non ebbero il consenso necessario per realizzare idee e progetti di riforma. Il baronaggio restava il vero potere forte del Regno. 3. Crisi della coscienza europea e preilluminismo I mutamenti più significativi del periodo austriaco riguardarono l’affermazione del ceto civile e professionale come classe di governo e la diffusione della cultura giurisdizionalistica, tendente a limitare l’interferenza della chiesa di Roma nella vita dello stato, i privilegi e le immunità del clero. Giudizio di questa fase di Croce: né la nobiltà, classe dominante ma non dirigente, né la monarchia, momento unificante del territorio e fattore di aggregazione politica, hanno creato effettiva coscienza nazionale, solo il protagonismo intellettuale è riuscito, in alcune fasi della storia di Napoli, a svolgere questa funzione. In questa fase si forma lo spirito laico e la progressiva autonomia fra chiesa e stato. L’apporto più importante una questa direzione fu dato Pietro Giannone con la Istoria simile del Regno di Napoli in cui egli esalta i poteri pubblici contro le ingerenze della chiesa nella vita dello stato. L’altro esponente dei fermenti culturali dell’età austriaca fu Gianbattista Vico autore della scienza Nuova. Egli concepì l’enciclopedia delle scienze come un’analisi del mondo storico e dello svolgimento storico dell’umanità. Quale giudizio complessivo ha espresso la storiografia sull’età austriaca? Giudizio negativo per quanto riguarda l’effettiva capacità di realizzare riforme e di incidere nel governo del territorio, ma largamente positivo per quanto riguarda la formazione e la cultura della classe dirigente. CAP 6: 1799 1. Echi della grande rivoluzione Alla fine del 1794 si apre a Napoli il processo contro imputati definiti per la prima volta “giacobini”. Circa tremila persone furono inquisite, particolarmente colpiti gli aristocratici e gli intellettuali. Riflessi ed echi della rivoluzione francese in Italia nel periodo 1790-93. La crisi a Napoli è soprattutto commerciale: il Regno è penalizzato, dopo il blocco continentale, dal rapporto preferenziale con gli inglesi. In questi anni viene formandosi il nucleo dei patrioti italiani. La fortuna italiana del giacobinismo è notevole. 2. La “rivoluzione passiva” e la repubblica napoletana Nel saggio storico Cuoco scrive che la rivoluzione del 1799 e la repubblica a Napoli hanno prodotto “non la felicità di una nazione, ma la sua rovina”. Due modelli di nazione di confrontano in uno scambio ineguale: quello della Francia e quello dell’insieme degli Stati italiani. La prima, la Francia, unita, forte, dotata di una ragguardevole potenza militare. La seconda, formata dai piccoli stati italiani oggetto di conquista e protezione straniera. Perché Napoli dopo la fuga del re non si organizzò a repubblica? Per Cuoco la nuova organizzazione politica non decolla per 3 motivi: - Le idee della rivoluzione napoletana non sono tratte dal fondo della nazione. - Napoli capitale si rivela impreparata a guidare la rivoluzione - Il rispetto dei bisogni e degli usi del popolo sono condizioni necessarie per il successo di una repubblica nazionale Lo scenario della rivoluzione passiva non è però predeterminato necessariamente verso il fallimento secondo cuoco. Più che passiva, la popolazione come massa è indifferente, incline cioè a non sposare la causa di nessuno dei due partiti in contrasto, quello rivoluzionario e quello controrivoluzionario. L’indifferenza della massa non è per Cuoco una caratteristica di per sé negativa per due motivi: perché è una condizione che consente al popolo di essere arbitro imparziale e non è immobile. Si sposta facilmente verso chi non promette idee astratte ma vantaggi materiali. Una volta conquistata, la massa si governa facilmente. Il problema principale, dunque, per la nazione napoletana non è tanto la tendenza alla rivoluzione passiva, quanto la sua scissione interna. Cuoco attribuisce un ruolo decisivo all’unità del territorio-paese identificata nella figura del sovrano. Egli è il garante del rapporto tra corte e paese, il re deve identificarsi con la nazione napoletana. A fine Settecento questa identità viene meno, si lacera il rapporto tra corte e paese anche e soprattutto per la responsabilità della regina Carolina. E allora emergono con maggiore evidenza le diversità della nazione napoletana: due nazioni, due popoli, due morali, la diversità di clima, fisco, del sistema feudale anarchico, dei costumi. La capitale non è capace di unire a sé le province. La scissione tra patrioti napoletani e popolo è anche dovuta alle idee astratte e all’esterofilia dei primi. Il 1799 costituisce dunque il progetto più alto della nazione napoletana, ma insieme anche il fallimento della sua realizzazione. CAP 7: L’ETÀ NAPOLEONICA 1. Un epoca periodizzante per la storia del mezzogiorno Dopo la repressione della Repubblica napoletana del 1799 e la prima restaurazione borbonica di Ferdinando, il regno di Napoli fu investito dall’ondata riformatrice di Giuseppe Bonaparte (1806-1808) e di Gioacchino Murat (1808-1815). La corte di Ferdinando si trasferì in Sicilia, ma l’alleanza anglo siciliana contro napoleone comportò solo l’occupazione militare, una risorsa per il commercio inglese, il ritardo dell’avvio di riforme e di mutamenti politici e sociali interni. I primi anni dell’Ottocento videro anche la maturazione dell’aristocrazia liberale isolana e l’apertura della cultura e della politica siciliana verso idee più avanzate di organizzazione della vita istituzionale, sociale e civile. Anche in Sardegna si diffusero le idee dell’89, ma i tentativi di instaurare più avanzate forme di governo in riforme furono bloccati dal governo sabaudo. Il tempo della trasformazione del Mezzogiorno è lento, ma subisce accelerazioni tra il XVIII e il XIX sec. Due terreni di intervento: quello dell’amministrazione periferica e quello della feudalità. Ciò che muta è un rapporto storico di lunga durata tra il centro e la periferia. La provincia del mezzogiorno comincia ad acquistare un ruolo protagonista come una delle più importanti mediazioni tra società civile e Stato. L’opera dei commissari ebbe il merito di rendere possibile l’intervento del potere centrale e dei suoi organismi periferici: essi costituirono un elemento dirompente nella tradizione giuridica del regno in materia demaniale. 2. Sicilia “inglese”. Dopo il trattato di Campoformio del 1797 e la conseguente sfida antinglese nel mediterraneo lanciata da Napoleone la Sicilia assume un ruolo centrale sia per la politica francese sia per le speranze “italiane” della Repubblica Cisalpina. Le rivolte giacobine in Sicilia vengono riprese duramente da Ferdinando. Giuseppe Bonaparte propone un parlamento siciliano fondato sul compromesso fra i collegi napoleonici dei dotti, commercianti, possidenti e le rappresentanze cetuali di aristocrazia e clero. Pur entro la logica del primato dell’esecutivo si avverte la necessità di riconoscere anche formalmente la partecipazione delle élite alla ritrattazione dell’ordinamento statuale. Dalla costituzione del 1812 emerge un nuovo concetto di nazione siciliana: - il patto tra popolo e monarchia - Il moderno stato fondato sui diritti di libertà e uguaglianza di fronte alla legge, sulla separazione dei poteri, sulla sovranità della nazione - Il parlamento, fonte della legislazione ma anche sede della rappresentanza cetuale La nuova riforma aboliva i diritti derivanti dal potere dei delegati dei feudi feudatari: diritti di giustizia e di amministrazione, gabelle sui consumi, sulla produzione, doganali, ecc. aboliva pure i diritti di monopolio, ma non toccava i diritti sulla terra. Il processo legislativo siciliano abolì il feudo più che la feudalità. La stagione napoleonica formò le élite e la classi dirigenti isolane che contribuiranno al rinnovamento istituzionale e alla monarchia amministrativa borbonica. 3. Sardegna tra spinte rivoluzionarie e reazione Tra il 1792-3 la Francia rivoluzionaria tentò di attaccare la Sardegna e provocare una ribellione contro i Savoia anche al fine di bloccare l’espansione inglese nel mediterraneo. La resistenza dell’aristocrazia e del clero vanificò il tentativo, organizzando la resistenza. Le milizie sarde fermarono i francesi, comandati da un giovane Napoleone, ma il malcontento del popolo portò all’espulsione del viceré e dei funzionari sabaudi. L’invasione napoleonica dell’Italia settentrionale costrinse la corte savoiarda a trasferirsi a Cagliari nel 1799. CAP 8: LA MONARCHIA AMMINISTRATIVA 1. Seconda e terza restaurazione borbonica Nel 1815 Ferdinando IV di Borbone tornava sul trono, proclamando l’unificazione del regno di Napoli con quello di Sicilia, del quale era già sovrano, titolandosi re delle due Sicilie come Ferdinando I. A differenza della prima restaurazione condotta nel segno della violenza repressiva, la seconda restaurazione doveva seguire un’altra linea: quella dell’amalgama, dell’equilibrio cioè tra vecchio e nuovo ordine realizzato attraverso la monarchia amministrativa, un sistema che si apriva ad una gestione più moderna dell’esercito del potere nei compiti e nelle procedure. L’equilibrio così raggiunto da Ferdinando e dal suo governo fu comunque assai precario e non furono pochi i segnali di un progressivo distacco tra dinastia restaurata, ceti intellettuali, classe politica liberale e democratica. I moti del 1820 furono importanti perché misero in evidenza la diffusione e la rete organizzativa della Carboneria sia a Napoli sia nelle province del regno. Introdotta dalla Francia durante il regno di Murat, con l’intento di ottenere ordinamenti rappresentativi, la carboneria si sviluppò in età borbonica. Vi aderì la borghesia provinciale, desiderosa di un’autonomia amministrativa. Numerosi furono gli aderenti tra ufficiali e sottufficiali di carriera. Per la prima volta i moti del 1820 costituirono l’occasione per un confronto dei due modelli costituzionali più fortunati nell’Europa del tempo: la carta di Cadice del 1812, più democratica, che trasferiva la sovranità dal re al popolo e poneva il governo sotto stretto controllo di un parlamento unicamerale, quella francese, più moderata, caratterizzata dalla conservazione della sovranità nella figura del re e dal potere legislativo bicamerale. Ma la partecipazione della Sicilia portò in primo piano sullo scenario storico un problema destinato ad avere ripercussioni: la difficile integrazione della Sicilia in un quadro unitario più ampio. La durissima repressione militare che ne seguì fu favorita dai contrasti tra moderati e carbonari. La terza restaurazione di Ferdinando I fu segnata dal terrore. 2. Capitale e province Processi di grande rilievo di qua del faro: approfondimento della crisi di egemonia della capitale, iniziata già dopo la rivolta di Masaniello; l’aumento del peso delle province e del loro grado di differenziazione territoriale; una lenta trasformazione dei gruppi e delle classi sociali, caratterizzata dalla coesistenza tra vecchio e nuovo sia per quanto riguarda le strategie militari, sia per i comportamenti economici, sia per le dinamiche di mobilità. Napoli era la città più popolosa della penisola. Il colera che si abbatté a Napoli fra il 1836 e l’anno successivo portò allo scoperto i problemi della città dolente. Alla radice della diffusione del colera furono le precarie condizioni abitative, il tracollo e l’inquinamento di acque e fogne, dei servizi igienici essenziali. Il colera evidenziò anche le carenze della struttura ospedaliera. La capitale continuava a svolgere un ruolo di primo piano come centro di cultura. Aumenta il peso di province come Campania e Puglie. Gli assetti dell’agricoltura si presentavano come quelli tipici del mondo precapitalistico mediterraneo. Un’altra costante fu la cattiva distribuzione della popolazione in relazione al territorio. La ripresa soprattutto della manifattura tessile in aree come il Salernitano fu legata anche alla politica protezionistica promossa dai Borbone. Gli anni 30 videro una vera e propria invasone di imprenditori svizzeri. Il controllo del capitale straniero su queste aziende fu pressoché totale. Il periodo borbonico fu quello in cui meglio si definirono differenziazioni e tipicità degli spazi regionali del Mezzogiorno che avranno un peso rilevantissimo nell’Italia unita. 3. La restaurazione in Sicilia L’economia siciliana, nella prima metà dell’Ottocento, fu caratterizzata dalla lenta trasformazione dell’agricoltura e dalla sostanziale permanenza del latifondo. Maggiore rilievo acquistarono l’attività della concia delle pelli, l’industria tessile a partire soprattutto negli anni 30. Ritardi si registrarono invece nel settore metalmeccanico. All’interno dell’isola si riproponeva lo scontro tra Palermo (rappresentante dei proprietari terrieri) e Messina (guida della resistenza anti borbonica), il moto anti borbonico messinese non ebbe successo. In questa fase la Sicilia costituisce il bacino di formazione di un movimento liberale e democratico che si svilupperà negli orientamenti postunitari. L’isola è stata inoltre il vivace laboratorio di ideazione e discussione dei principali modelli costituzionali, nati nel primo Ottocento europeo. 4. La Sardegna sabauda nella prima metà dell’Ottocento La struttura economica della Sardegna, durante la prima metà dell’Ottocento resta fondamentalmente caratterizzata da agricoltura e allevamento. I caratteri distintivi del paesaggio sono il patrimonio boschivo e la macchia mediterranea. Saldo negativo fra export agricolo e import di prodotti manifatturieri. Risveglio intellettuale nelle università di Cagliari e Sassari, vengono pubblicate numerose opere sulla storia dell’isola. La “fusione perfetta” della Sardegna nel regno sabaudo significa centralismo sul modello francese, scomparsa del parlamento sardo e della reale udienza, proclamazione di Torino come unica capitale, estensione all’isola dello statuto Albertino del 1848. Questo atto rappresenta per la Sardegna la fine di quel palinsesto istituzionale che ha costituito la nervatura costituzionale della “nazione sarda”, e la piena integrazione dell’isola nella nazione unitaria italiana. Si tratta di una storia di discontinuità. CAP 9: NEL 1848 EUROPEO 1. Gli eventi Primi dieci anni di regno di Ferdinando II (1839-1859), sovrano del regno delle due sicilie, definito “un intervallo di tolleranza” da Francesco de Sanctis. Ferdinando II interviene sulle finanze alleggerendo il peso fiscale sulle classi meno abbienti e riducendo le spese locali di ogni genere e gli stipendi dei dipendenti comunali. L’ordine pubblico migliorò, l’amministrazione della giustizia tornò al suo stato normale. Confermati i tre capisaldi della monarchia nazionale assolutistica borbonica: il rapporto con la chiesa, la stretta unione fra Napoli e Sicilia, la collocazione nella sfera d’influenza austriaca. Ferdinando potè avvantaggiarsi anche della congiuntura internazionale favorevole. La politica protezionistica favorì soprattutto l’industria manifatturiera (lana e cotone). Viene creata una moderna industria meccanica. La carenza di materia prime comportò il ricorso all’importazione, lo stato creò o potenziò gli stabilimenti. Ma l’intervallo di tolleranza durò poco: - il colera del 1837, - l’inversione della congiuntura economica internazionale, - il secondo matrimonio del re con Maria Teresa d’Asburgo,
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