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Riassunto "Mondi connessi. La storia oltre l'eurocentrismo" di Sanjay Subrahmanyam, Sintesi del corso di Storia Moderna

Riassunto "Mondi connessi. La storia oltre l'eurocentrismo"

Tipologia: Sintesi del corso

2020/2021
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Scarica Riassunto "Mondi connessi. La storia oltre l'eurocentrismo" di Sanjay Subrahmanyam e più Sintesi del corso in PDF di Storia Moderna solo su Docsity! STORIA DELLA STORIOGRAFIA MODERNA – LIBRI “Mondi connessi, la storia oltre l’eurocentrismo” Introduzione; Le prospettive della storiografia negli anni in cui viviamo si sono allargate per effetto di una crescente insofferenza per gli steccati convenzionali eretti dal canone della storia nazionale e soprattutto per l’entrata in crisi del paradigma eurocentrico e con esso dell’idea di un’unica linea di evoluzione storica coincidente con la parabola dell’Occidente. E’ importante recuperare la possibilità di ripensare il modo di fare una “storia del mondo” che recuperasse alla ricerca regioni e continenti diversi dall’Europa, a prescindere dai rapporti che quest’ultima aveva avuto con essi. Si parla di una “svolta globale” nella storiografia, perseguita cercando di studiare le interazioni fra le macroregioni del pianeta, senza assumerne alcuna come punto di vista privilegiato e attraverso l’analisi del processo di graduale integrazione fra diverse parti del globo per ridurre distanze e differenze e favorire una percezione unitaria del mondo. Subrahmanyam arriva a mettere in discussione un’idea di storia del mondo moderno come predominio dell’Occidente e come trasmissione di conoscenze, tecniche e stili di vita dall’Europa al resto del pianeta. La tesi che l’autore difende è che la storiografia non sia un prodotto di importazione e che le culture indiane che prende in esame esprimessero una relazione con la storia già prima della colonizzazione inglese. L’obiettivo è prendere le distanze dagli studi subalterni, che vorrebbero restituire la prospettiva delle popolazioni assoggettate dal colonialismo europeo, chiamate “subalterne” e ascoltando le masse oppresse; secondo l’autore però questi studiosi risentono dell’influenza di Ashis Nandy, secondo cui la cultura indiana era incorrotta e astorica prima dell’arrivo degli inglesi. Subrahmanyam ritiene che in questa visione il senso storico sia considerato come un prodotto di importazione degli europei e accusa questi studiosi di relegare in un passato mitico l’India pre- coloniale, senza riscattarli da questa posizione; il loro studio li porta ad interessarsi del non- Occidente solo in rapporto all’Occidente, quindi mentre tentano di “provincializzare l’Europa” (Chakrabarty), ne restano prigionieri. Capitolo 1: dal Tago al Gange: una congiuntura millenaristica del Cinquecento; La domanda che l’autore si pone è: quali furono i grandi fenomeni che unificarono il pianeta nella prima età moderna e permisero a chi viveva nelle diverse parti del mondo di pensare per la prima volta all’esistenza di processi su una scala globale? Oltre alle epidemie, all’argento e metalli preziosi che circolarono nel mondo, possiamo evidenziare il complesso insieme dei movimenti politici millenaristici, che sembrano aver accompagnato il processo di espansione europea. Si è scritto molto su questi come spazi di ribellione e resistenza o come meccanismi di una disperata difesa di gruppi sotto pressione che avrebbero perciò prodotto i propri profeti. Ciò che si poco studiato è invece una visione dei movimenti politici millenaristici come ideologia dominante, pietra di costruzione di un impero e carburante di ambizioni imperiali. Secondo Jonathan Spence, il millenarismo è “un tipo di credenza che ha promesso un mondo alla fine dei tempi, in cui vi sarà un cosmo senza caos, un mondo di cose meravigliose, senza imperfezioni, una pace eterna oltre la storia governata da un dio incontrastato”. Le attese escatologiche erano comuni in Portogallo, e si nota dalle lettere del governatore portoghese Albuquerque che al largo dello Yemen sostenne di aver ricevuto un segnale divino che appoggiava i suoi obbiettivi, ovvero distruggere le città musulmane e creare un impero universale; sappiamo che queste attese erano molto importanti anche in Iran e lo ricaviamo da delle lettere di un emissario veneziano che si trovava alla corte del sovrano persiano Shah Tahmasp. L’obiettivo dell’autore è esplorare la congiuntura millenaristica che investì il Vecchio Mondo del 500, concentrandosi sul Portogallo ed sull’India; il millenarismo in questo caso viene usato per affrontare un problema di carattere globale che ebbe manifestazioni locali distinte fra loro. L’intera area mediterranea ha costituito nell’età di Carlo V un spazio attraversato da una congiuntura millenaristica. Il 1591-92 dell’era cristiana costituiva all’anno Mille per il calendario dell’egira, quindi quegli anni per il calendario islamico erano attesi con forti aspettative chiliastiche (millenaristiche). Nell’Europa della prima età moderna le ideologie millenaristiche avevano uno stretto collegamento con lo stato, che se ne serviva e le incoraggiava per i suoi scopi tra cui l’esercizio del potere. Questo è anche il caso delle regioni islamiche di cui si possiede una migliore conoscenza storiografica (Nord Africa, Iran, impero ottomano). Verso l’anno Mille dell’egira si diffuse l’idea di un riordinamento del mondo conosciuto, portato avanti da un rinnovatore; parallelamente si diffuse l’idea dell’imam Mahdi, che si sarebbe manifestato per promuovere una radicale riforma del mondo. A volte si afferma che solo gli sciiti credono nel Mahdi, ma ciò non è vero in quanto anche l’impero ottomano (formazione statale sunnita) ebbe una relazione centrale con il mahdismo nei decenni centrali del 500 soprattutto all’epoca del sultan Selim e di suo figlio Suleyman. Pare che quest’ultimo nei primi anni del potere abbia subito la cospicua influenza di correnti millenaristiche ereditate dal regno precedente. Dalle fonti emerge anche una sorta di comparazione tra Suleyman e Carlo V, come i due “soli del cielo” che avrebbero rafforzato le correnti millenaristiche nei loro regni; di particolare importanza è un’opera ottomana composta da un giudice, in cui si evidenzia la rivalità tra Suleyman e Carlo V e si dice che dal 960 dell’egira si sarebbe capito chi dei due fosse il vero sovrano universale. Da allora Suleyman cambiò le sue pretese e si mostrò come difensore dell’ordine interno, legislatore. Anche il vocabolario usato dall’entourage di Selim e Suleyman deve essere visto in relazione alla rivalità con la dinastia dei Safavidi. Quando Shah Isma’il, il fondatore della dinastia, nel 1501 assunse il titolo regio apparve subito circondato da un’aura escatologica e la sua figura ebbe ripercussioni fino a Lisbona e Venezia. L’importanza di questo re è data dal fatto che con le sue cerimonie e le sue pretese messianiche riuscì a vincolare a sé i suoi seguaci ed ebbe effetti anche all’esterno: i turchi iniziarono a prendere in prestito la terminologia dei safavidi (vedi Selim e Suleyman) e gli scrittori iniziarono ad associare Shah Isma’il in chiave negativa con il millennio. Successivamente si ebbe in Iran una fase di sanguinoso interregno che finì con Shah Isma’il II; la sua fase di regno è costituita da una recrudescenza di voci e forze politiche millenaristiche contro lo stato. In Iran con l’ascesa nel 1587 di Shah Abbas I l’atmosfera millenaristica cambiò: nel primo decennio del regno ci fu lo scontro con i nuqtawi, che portò i safavidi verso una forma di imamismo, più vicina alla sharia, che li portò ad abbandonare credenze leggendarie. I nuqtawi però continuavano a dire che gli Shah avevano perso ogni forma di legittimità e quando l’astrologo del regno previde la morte del sovrano regnante, Shah Abbas abdicò in favore di un nuqtawo; il giorno dell’allineamento dei pianeti (il giorno in cui il sovrano sarebbe morto) questo fu ucciso e Abbas tornò nuovamente al potere. La leggenda di Alessandro Nel 500 il millenarismo fu importante proprio perché era ad esso che si faceva ricorso per la costruzione di uno stato (Shah Isma’il) o per consolidare una rapida espansione geografica (Selim); altre volte fu utilizzato per muovere una sfida contro lo stato. Per il millenarismo fu importante l’arrivo imminente del millennio e l’attesa di una figura messianica si ricollegò ai sogni di un regno universale. Da qui fu ripresa una reinterpretazione della leggenda di Alessandro, visto non solo come un conquistatore ma come un profeta. Alcuni aspetti della leggenda erano considerati essenziali come il legame di Alessandro con Dario che parrebbe essere suo fratellastro e che poi uccise. Un altro elemento importante appare la scienza dei segni: pare che nelle sue peregrinazioni Alessandro sia approdato in un’isola leggendaria e che un albero lo avesse informato del suo destino; la scienza dei segni e l’astrologia sono importanti in quanto connettono la storia di Alessandro con un altro testo millenaristico molto importante, il “Libro di Daniele”, che aiutò a diffondere l’idea di un regno universale destinato a realizzarsi con il millennio. Un terzo elemento importante della leggenda è la ricerca dell’immortalità e dell’acqua della vita da parte di Alessandro, che viene guidato nella ricerca da Khizr; Khizr lo accompagnerà fino alla fine del suo viaggio, quando Alessandro morirà e sarà proprio lui a bere l’elisir: diventerà così l’emblema dell’arrivo imminente del regno eterno ed una sorta di guida-profeta. Un ultimo aspetto importante della leggenda di Alessandro è il suo impegno per la difesa della civiltà dalle barbarie. Portogallo e Castiglia erano molto uniti (i cospiratori contro il re portoghese trovarono rifugio in Castiglia e viceversa il primo viceré portoghese dell’India aveva partecipato all’assedio di Granada). Inoltre, Colombo al ritorno dal suo viaggio approdò a Lisbona dove fu ricevuto da Giovanni II prima di tornare dai Re Cattolici; inoltre al progetto spagnolo ai Caraibi presero parte un buon numero di portoghesi. Tutto ciò ci dice che per quanto riguarda personale, abilità e presupposti ideologici, non vi era una grande distanza fra spagnoli e portoghesi quando entrambi nel 1500 si lanciarono nell’impresa di costruire un impero. Vi erano ovviamente delle differenze in quanto all’epoca il Portogallo era povero, anche se pare che anche i Re Cattolici fossero a corto di risorse, ma il loro regno era più popoloso. Quindi una delle differenze maggiori era costituita dalle maggiori risorse umane spagnole e dal diverso impatto che la Reconquista ebbe sui diversi paesi. Inoltre anche il peso delle considerazioni pragmatiche fatte dai diversi paesi era notevole: i portoghesi in Asia sapevano di avere buone opportunità di arricchirsi con l’attività corsara, mentre il commercio spagnolo nei Caraibi non era di scala o intensità tale da garantire entrate stabili e fu per questo motivo che gli spagnoli fecero ricorso al sistema dell’encomienda. In assenza di un commercio da tassare, gli spagnoli decisero di organizzare la loro impresa in modo da produrre risorse. La presenza portoghese in Asia era caratterizzata da istituti di natura differente, in quanto al centro del problema vi erano le tensioni fra la corona centralizzatrice che voleva imporre il monopolio sulla rotta commerciale del Capo di Buona Speranza e i capitani e i nobili che vedevano nell’Oceano indiano un’opportunità di arricchirsi e in cui organizzare traffici privati. In Asia non vi erano vere e proprie dogane, ma l’istituto del “cartaz”, ovvero il permesso di navigazione, che era uno strumento di controllo e tassazione del commercio. Alla metà degli anni 20 la differenza tra Spagna e Portogallo appariva ormai consolidata dopo la conquista spagnola del Messico e l’affermazione dell’encomienda come istituto per organizzare la conquista, tanto che fu utilizzato anche in Perù. Tutto ciò si può confrontare con la situazione nell’Asia portoghese, che in questo periodo vedeva la minaccia turca. Quest’ultima spinse i portoghesi ad abbandonare il progetto di costruire una fortezza costiera vicino a Canton e pochi anni dopo il duca Jaime de Braganca suggerì di abbandonare le fortezze in Asia e di concentrarsi in Nord Africa. Sul finire degli anni 20 esplose un duro scontro tra due rivali che si contendevano la nomina a governatore dell’India, ma negli anni 30 l’impresa ultramarina portoghese non collassò. Anzi, si registrarono penetrazioni più in profondità in Brasile e furono introdotti cambiamenti significativi in Asia; in tutto ciò due questioni sembravano centrali: - Le piazzeforti in Nord Africa dovevano essere conservate e finanziate o semplicemente abbandonate? - Il commercio asiatico, in particolare quello del pepe, doveva essere aperto a tutti o rimanere un monopolio regio? E inoltre, gli scambi con Bassora, entrata sotto il controllo ottomano, dovevano essere permessi e a quali condizioni? Queste discussioni si rivelarono inconcludenti a parte quella del Nord Africa, in cui pare che alcune piazzeforti vennero abbandonate. Per quanto riguarda il pepe vi erano due pensieri opposti: vi era chi era contrario al monopolio regio ed era favorevole al commercio privato e chi sosteneva che il pepe fosse qualcosa di sacro. Analoghe lotte tra fazioni si riscontravano anche in Spagna tra i sostenitori di Colombo e chi lo riteneva “l’ammiraglio delle zanzare”. Gli anni 30 e 40 del 500 vedono importanti cambiamenti: - Ci furono mutamenti sul funzionamento dell’impero ultramarino portoghese; in Brasile vi fu un tentativo di penetrare più a fondo mediante il sistema dei capitanati. A spiegare ciò sono state proposte diverse tesi, una tra le quali potrebbe essere la rivalità con la Spagna che aveva da poco scoperto le miniere d’argento a Potosì. - Un altro mutamento fu il desiderio di consolidare le conquiste territoriali in India occidentale; - Infine vi fu un debole rilancio della ricerca di giacimenti di oro nell’Asia sud-orientale e di impossessarsi dei diversi tesori presenti nei templi; un esempio di ciò è la fallimentare spedizione contro il tempio di Tirumala-Tirupati. Tutte queste iniziative potrebbero sembrare slegate, ma si identificano tutte in un unico personaggio: Martim Afonso de Sousa. A quanto pare egli era in stretti rapporti sia con il sovrano portoghese Giovanni III, sia con la Castiglia mediante la famiglia di sua moglie e aveva servito i sovrani cattolici nelle guerre in Italia. E’ possibile quindi che conoscesse i successi di Cortes in Messico e in quel periodo era diffuso il pensiero che le spedizioni ultramarine spagnole avessero avuto più successo di quelle portoghesi. Appare verosimile affermare che i cambiamenti in Brasile e in India fossero parte di un movimento teso alla creazione di un istituto simile all’encomienda spagnola; l’aforamento (che deriva da foro: rendita terriera) entrò in funzione in modo frammentario, ma ebbe diversi sviluppi. Il suo inizio si può comunque individuare in questo periodo. Per la piccola nobiltà e i soldati si trattò di una soluzione felice in quanto erano stanchi di continue perlustrazioni costiere; inoltre alcuni capitani portoghesi in questo periodo iniziarono a ricevere in dono terre da altri stati asiatici. Così l’aforamento e il suo tenutario (foreiro) si trovarono a metà strada tra l’encomienda e un istituto presente in India (iqta). In ogni caso la vera “svolta territoriale” portoghese si verificò molto tempo dopo con la creazione di un’economia di piantagione in Brasile e la penetrazione in Angola e nell’Africa orientale. Nel corso del 500 quindi i portoghesi in Asia dovettero fronteggiare la minaccia costante delle potenze locali pronte a resistere: i turchi negli anni 20, la Birmania alla metà del secolo, i mughal e i safavidi alla fine del secolo. Tuttavia, nonostante le differenti modalità, i due imperi iberici non erano spazi realmente separati l’uno dall’altro. Alcuni importanti scritti sull’Asia furono pubblicati in Spagna e gli intrecci fra le due corti erano molti. Inoltre, un gruppo filospagnolo operava alla corte di Giovanni III e un buon numero di portoghesi illustri andarono a servire la monarchia asburgica. Intanto gli spagnoli, dopo Magellano, non avevano abbandonato l’idea di penetrare in Asia tramite il Pacifico. Sarebbe sbagliato pensare che gli agenti della monarchia spagnola desistessero dal progetto di arricchirsi dal commercio a lunga distanza, quindi possiamo affermare che benché l’impero lusitano fosse più piccolo di quello spagnolo, aveva ancora potenzialità a cui quest’ultimo aspirava come l’accesso ai mercati e prodotti asiatici. L’unione delle corone quindi non segnò una grande discontinuità nelle relazioni fra i due imperi, e dagli anni 50 del 500 il “l’esempio spagnolo” fu sempre tenuto presente dalla corona portoghese, pur ritenendolo un sogno inarrivabile. Avevano diversi modi di commerciare: - La corona spagnola si riservò un ruolo di supervisore ed ebbe bisogno di tenere in vita gli scambi verso l’Atlantico per motivi strategici, ma la sua idea di commercio non prevedeva per sé un pieno coinvolgimento della monarchia. - La situazione ideale per la corona portoghese era quella in cui la partecipazione privata si realizzasse in un contesto dominato dal Tesoro regio. Il traffico principale per loro era quello delle spezie e del pepe, che sarebbe rimasto sempre sotto il controllo di un agente di nomina regia. Dagli anni 60 con il re Sebastiano fu introdotto un sistema più vicino all’asiento spagnolo sia rispetto ai traffici che alle navigazioni. Negli anni 70 fu proposto un accordo contrattuale formale a diverse società, coinvolgendo i Fugger (della Germania), che avevano operato a lungo nell’America spagnola e investitori italiani. I contraenti inviavano quindi i loro agenti in Asia per organizzare i traffici lungo la costa del Capo. Si osserva quindi una situazione in cui inizialmente si avevano due modelli distinti e successivamente i portoghesi sembrano essere stati attratti dal modello spagnolo. Nel 600 a causa degli assalti alle navi da parte olandese furono costretti a tornare al diretto controllo regio sui traffici. La fase del regno di Sebastiano segnò per il Portogallo un periodo di crescita su vari settori: iniziò a crescere l’economia dello zucchero in Brasile e iniziò l’intensa importazione di schiavi dall’Africa. Nel decennio precedente l’unione vi fu anche il tentativo di ridefinire i confini tra i due imperi ultramarini da parte spagnola; infatti il viceré del Messico volle verificare i confini stabiliti dai trattati fra i due imperi e voleva aprire uno spazio agli spagnoli per commerciare con l’Asia orientale. Le motivazioni di quest’impresa ancora oggi sono motivo di dibattito, anche se vi sono pochi dubbi sul fatto che l’obiettivo principale fosse allontanare i traffici dai canali controllati dai portoghesi. I problemi più rilevanti emersero nelle Molucche quando gli spagnoli iniziarono ad insediarsi nella regione: questo gesto fu interpretato come una sfida dai capitani portoghesi. Da tutto questo ricaviamo che l’idea che gli Asburgo volessero una netta divisione fra i due imperi è sbagliata, in quanto dalla fine del 500 i confini tra i due imperi diventarono ancora meno netti per via di iniziative in diversi contesti geografici come la Cambogia, dove il governo spagnolo inviò una spedizione esplorativa, pur sapendo che era un territorio appartenente ai portoghesi secondo il trattato di Tordesillas. Così l’Asia sud-orientale divenne la nuova frontiera per gli esponenti degli strati sociali più umili che ambivano ad essere conquistadores. Soprattutto tra gli alti ufficiali dell’impero portoghese, l’idea di un unico impero iberico era vista con risentimento e un esempio di ciò è dato dal fatto che il viceré portoghese tentò di ostacolare l’ambasciatore asburgico nell’Iran safavide. Quando anche olandesi e inglesi tentarono di inserirsi nella scena asiatica, vi furono periodici tentativi di un fronte comune iberico contro di essi ma sempre con molta renitenza soprattutto da parte portoghese. Si può affermare che nei primi anni del 600 nell’impero portoghese si sia affermato un nuovo equilibrio tra commercio, parassitismo e fiscalità a base territoriale non solo in Brasile ma anche in Asia e ciò avvalora la tesi di pratiche uniformi all’interno del mondo iberico. Creare un impero unico e omogeneo fu comunque un’impresa superiore ai mezzi dei sovrani: un primo tentativo fu fatto da Olivares nel 1630, con l’unificazione degli eserciti e una riduzione nelle differenze istituzionali per integrare i due sistemi commerciali in uno soltanto. Niente di tutto ciò si dimostrò realizzabile e fu probabilmente uno dei motivi che portarono alla rivolta portoghese. Alcuni studiosi dicono che la storia delle relazioni tra le aree portoghesi e quelle spagnole d’oltremare dovrebbe essere divisa in due periodi con gli anni 20 del 600 come spartiacque. Prima di allora i mercanti portoghesi si diffusero nei possedimenti spagnoli. Da tutto questo discorso ricaviamo che il 1580 non fu affatto il punto di partenza delle interrelazioni fra i due imperi. Dal 1580 al 1622 ci fu un notevole profitto portoghese dovuto all’unione, mentre dagli anni 20 ci fu un’inversione nella natura delle relazioni dell’America iberica; tutto ciò fu legato ai tentativi spagnoli di controllare il contrabbando portoghese e di impedire l’afflusso di argento dai possedimenti spagnoli verso il Brasile. Successivamente la creazione della Compagnia olandese delle Indie occidentale ebbe un forte impatto sul commercio dello zucchero brasiliano e la decisione di non rinnovare la Tregua dei 12 anni da parte degli spagnoli sancì un periodo di crisi nei rapporti tra spagnoli e portoghesi, infatti l’appartenenza dei possedimenti portoghesi alla corona spagnola diventò un grande ostacolo. Nel 1640 si assiste al cosiddetto “panico nelle Indie” in seguito ad una presunta minaccia portoghese verso i possedimenti spagnoli. Le esperienze asiatiche e atlantiche dei due imperi non possono comunque essere trattate negli stessi termini: per quanto riguarda l’Asia infatti l’esistenza di una densa popolazione locale e di stati con preesistenti pratiche fiscali fece sì che non si crearono mai realtà come in Brasile o l’America spagnola. Anzi in molti casi furono costretti a trovare un compromesso con istituti e pratiche locali. Si può sostenere comunque che già prima del 1580 si fossero avviati alcuni processi-chiave, che resero l’intreccio degli imperi spagnolo e portoghese un fatto che tutti gli uomini del tempo dovevano tenere in considerazione. Ovviamente i due imperi non sono mai arrivati ad essere indistinguibili o sovrapponibili, ma è lecito chiedersi se ciascuno dei due imperi fu parte non solo di una “monarchia composita” ma di un sistema politico-fiscale sotto svariati aspetti composito. Capitolo 3: Trame del tempo: la scrittura storica nell’India pre-coloniale; In questo saggio l’intenzione dell’autore è far riflettere sulla considerazione sul piano epistemologico della relazione esistente fra l’Europa e regioni esterne ad essa. Ciò che l’autore condivide con gli studi post-coloniali è la preoccupazione per i programmi di studio che propongono una visione lineare della storia occidentale e per il fatto che si sta sempre più affermando il postulato secondo cui conoscere l’Europa significherebbe conoscere il mondo. Inoltre è sempre più diffusa l’idea secondo cui gli imperi coloniali otto-novecenteschi furono piuttosto antico, ma allora perché generazioni di storici, filologi si sono chiesti se le popolazioni dell’India meridionale pre-coloniale fossero indifferenti alla natura empirica del loro passato? L’India meridionale non ha indubbiamente prodotto storici come Tucidide o Erodoto, e l’opinione comune è che gli hindu non rivolgano molta attenzione all’ordine storico delle cose. Questo per l’autore è un errore e respinge l’idea che la storia sia un prodotto che è stato “importato” dalla dominazione coloniale. Accanto a voci che hanno accolto l’idea di uno storicismo a stampo occidentale, ve ne sono altre che hanno addirittura criticato gli effetti sulle percezioni indiane del passato, sostenendo che la storia abbia un carattere alienante rispetto ad una sensibilità un tempo più organica. Quindi le società senza storia sarebbero state felici e questa felicità sarebbe stata distrutta da sequenze di fatti concreti organizzate a posteriori. Si è a lungo ritenuto che l’Occidente non abbia portato in India solo la storia, ma anche l’orologio, la ferrovia e la personalità dissociata. L’opera “Textures of Times” esplora le molteplici sensibilità al tempo nell’India meridionale del 500, 600, 700 in rapporto alle visioni e alle comprensioni del passato in quella società. L’obiettivo è restituire alla storia un significativo corpo di scritti letterari dell’India meridionale risalenti al tardo medioevo e alla prima età moderna. Questi testi scritti in diverse lingue (telugu, tamil, sanscrito, persiano) sono sempre stati visti come qualcosa di diverso rispetto alla storia, a seconda del genere letterario a cui venivano ricondotti. Quello che si vuole mostrare è che nell’India meridionale la storia fu scritta in una pluralità di generi e scrivere storia non è una questione di stretta aderenza a caratteristiche e modelli formali. In Europa occidentale la storia si impose come un genere fisso e stabile, già prima della svolta positivistica dell’800. Un genere con caratteristiche formali chiare, una sua specifica cornice e un metodo preciso: le fonti venivano raccolte e organizzate secondo un ordine, classificate in base alla loro attendibilità ed esposte in una narrazione in prosa, in quanto questo genere era considerato l’unico genere adatto ad una storia che pretenda di incarnare la verità. In Europa ci fu quindi un certo tasso di specializzazione che in India non vi fu, quindi mentre in Europa nell’età contemporanea nasceva un corpus di storici, distinti da altri scrittori, in India la storia non costituiva un genere a sé stante e la scrittura storica non si riservò a nessun genere esclusivo. Inoltre, la scelta di un determinato genere o registro discorsivo varia in base ai gusti letterari di una comunità, soggetti anche essi a mutamenti nel tempo. Così quando vi è un passaggio da un genere all’altro, quello precedente viene a perdere la sua accuratezza storica e viene definito “letterario”. Sicuramente vi è una distinzione fra narrazione “fattuale” e “romanzesca”, però questi due registri discorsivi si possono individuare anche all’interno di uno stesso genere. Supponendo quindi che la storia si scriva nel genere letterario dominante di una particolare comunità, se per esempio sono i testi mitologici la forma letteraria dominante, la storia sarà scritta nel loro registro. E’ verosimile quindi che in ogni genere si possa riscontrare la storia e la non-storia, che si distinguono tra loro grazie alla trama. Le preferenze in ogni genere poi mutano regolarmente in ogni tradizione, con un relativo cambiamento nella scelta dei supporti storiografici. Non si devono dissolvere le nozioni di “fattuale” e di “finzione”, la differenza tra questi due è sempre in vigore se si è abbastanza sensibili da capirla, ma scrivere storia non è solo questione di produrre una fatticità non letteraria, dal momento che abbiamo a disposizione fonti di diverso genere, ma significa cogliere nella trama dei nostri documenti i marcatori fondamentali che ci aiutano a capire cosa abbiamo di fronte. Visto che ogni comunità scrive nel registro discorsivo dominante nella sua pratica letteraria, può succedere che nuove culture in ascesa in posizione di forza, possano negare la storia alle comunità che cercano di dominare, insieme alla storicità dei loro testi. Quindi a costituire la storia non è un dato universale, ma pratiche specifiche di un determinato tempo e di un determinato spazio. Queste pratiche però possono essere in guerra l’una con l’altra e si può rischiare che la storia di chi perde possa essere perduta. Come si riconosce il carattere storico delle diverse opere indiane? I criteri centrali derivano dalla trama; i lettori o ascoltatori che hanno familiarità con una cultura, hanno una naturale sensibilità per la trama, quindi capiscono quando la tradizione del passato poggia su elementi fattuali e ogni testo abbonda di segnali e indicazioni. Molto dipende dall’integrità del rapporto fra il narratore/scrittore e il suo pubblico, se questo si perde anche l’espressività della trama si perde. I testi tendono ad essere letti attraverso le tradizioni interpretative precedenti, ossia attraverso particolarità lessicali che si formano per stratificazione della tradizione letteraria; il problema è che la tradizione si può rompere, soprattutto se la comunità di lettori o ascoltatori del testo è fragile, così la natura del testo si confonde agli occhi di un nuovo pubblico di lettori slegato dal contesto originario di composizione, che tende a dare un giudizio estetico sul suo valore letterario. Il riconoscimento dei gusti che cambiano è un problema che viene raramente affrontato dalla critica letteraria, anche se è molto importante. Il contesto, fornendo notizie “oggettive”, non è detto che possa risolvere tali problemi (es: Pierre Menard, nel XX secolo ricreò una parte del Don Chisciotte più ricco dell’originale); si ricava che la trama è un qualcosa che va più a fondo rispetto ad una meccanica combinazione di parole ed è ciò che ci aiuta a risolvere la tensione fra testo e contesto. L’autore prende poi come esempio un testo in telugu che racconta la storia di un eroico principe; a prima vista potrebbe essere un racconto epico popolare e per il curatore del testo l’autore è semianalfabeta e quindi inattendibile (Arnaldo Momigliano “i gentiluomini colti producono storia e la gente di scarsa educazione produce racconti popolari”: questa visione riecheggia il carattere astorico e antistorico delle visioni popolari del passato e questi testi non sono considerati storici. Andando avanti nel testo però si nota una precisione e profusione di particolari e si ha la percezione che si tratti di un testo più informativo che performativo. Le scelte lessicali dell’autore caratterizzano il testo: si ha una qualità narrativa non evocativa, il tono non è lirico o retorico o affettivo, quindi non è teso a ricevere una risposta collettiva negli ascoltatori; ciò a cui siamo di fronte sembra più un resoconto, il dialogo riproduce forme di discorso realistiche. Si tratta dunque di non-storia o di storia dal basso? Il fattuale e il vero hanno due volti diversi e riuscire a distinguerli è uno dei compiti della storia; ci sono differenti tipi di storia e gli storici si stanno aprendo verso il “mito”, poiché esso è impregnato di significati più profondi ed è più adatto a ricreare la realtà che si pretende di descrivere rispetto ad alcuni modi di esprimersi. L’apertura al mito è materia di dibattito tra gli storici, iniziato già dall’antica Grecia tra due principali pensatori, Tucidide ed Erodoto. Per Tucidide nel mito c’era il rischio di smarrire la verità, a causa di una sorta di “reinvenzione narrativa”, quindi la storia davvero attendibile è la registrazione di eventi testimoniati di persona da uno storico, ogni altro tipo di scrittura è oggetto di scherno. Per Erodoto vi è una tensione legata alla possibilità di capire ogni cosa del passato e la realtà è qualcosa che va acquistando significato nel mito. Gli eventi narrati in forma storica non sono mai del tutto discontinui, si ha una cornice, una sequenza e il modello che lo storico crea può far riecheggiare forti nodi concettuali e culturali. Cogliere questi riecheggiamenti è l’essenza dell’analisi storica quando si passa da un autore ad un altro. La voce di ogni autore ci pone problemi di spazio, tempo, causalità e in tutto questo campo sia la voce empirica di Tucidide che quella lirica di Erodoto mantengono una influenza sulla pratica della storia. La pratica della scrittura storica dell’India meridionale oscilla fra questi due poli: era difficile liberare gli storici tamil, telugu e marathi dei secoli pre-coloniali dei loro moduli letterari per farli scrivere in prosa. Con il tempo prese convinzione l’idea che i testi letterari non sono accettabili come storia e gli storici si impegnarono sempre di più a ricostruire cronologie e dinastie, senza considerare che le stesse iscrizioni regie utilizzate come fonti, fossero state scritte come testi letterari. In tempi più recenti gli storici hanno mostrato più rispetto per le fonti locali; Romila Thapar ha letto le raccolte di antichi testi di storia e mitologia, considerandole storiografia in accezione più profonda. Esaminando alcuni testi di carattere storico è venuta fuori una notevole ricchezza in un miscuglio di cornici concettuali e forme diverse tra loro; Nicholas Dirks ha proposto un nuovo modello, chiamato “etnostoria”, proprio considerando le prospettive presenti nei racconti dell’India meridionale ed esplorando i modelli della loro struttura. Di solito però resta la percezione che le fonti etnostoriche siano “inferiori” rispetto al modello lucido di Tucidide o Erodoto e l’uso stesso dell’espressione “etnostoria” tende a nascondere il fatto che qualsiasi storia è etnostoria in quanto culturalmente modellata e determinata. Vi è anche il pericolo che l’etnostoria vista come riconoscimento degli aspetti normativi della visione del passato caratteristica dei testi considerati “esotici”, possa dissolvere la concezione di evento empirico o di cancellare la distinzione interna all’ecologia di generi che operano in un dato momento del mondo culturale che si sta indagando. Se questa distinzione si confonde si rischia di perdere la letteratura storiografica che si vorrebbe recuperare basandosi sulla trama, lasciando spazio solo alla letteratura. La distinzione si trova proprio al centro dell’impresa storiografica: in tempi recenti Jan Assmann ha fornito un modello interpretativo chiamato “mnemostoria”, ovvero la storia di come un argomento o un episodio o un individuo è ricordato e continuamente riconfigurato o rinarrato. La storia vista quindi come un’intera tradizione memoriale che si è formata poco a poco. Questo processo permette di osservare i cambiamenti dei processi del passato, in un ventaglio di forme di comunicazione del ricordo diverse tra loro (epica, testi mitologici tradizionali). Si può applicare anche a casi di studio di specifici eventi ed è importante per notare come questi sono stati rimodulati dai diversi autori; bisogna tenere ovviamente conto che non tutto può essere considerato storico, infatti si può avere un riadattamento del passato in un registro discorsivo non storico, che può essere chiamato “aitihya” ed è sempre vero e raramente fattuale; le sue verità di norma sono lontane da ogni senso di singolarità di un evento o di un processo ed è informato da una tensione tra il letterale e il figurativo. Nell’ecosistema dell’India meridionale coesistono sia la storia orientata verso i fatti, sia un modo di narrare il passato privo del senso di singolarità come l’aitihya. Queste due tendenze sono in un ricco rapporto di interazione, quindi è fuorviante postulare una predilezione hindu per un modo non storico di concettualizzare il passato e confrontare questa presunta preferenza con opzioni più propriamente storiche legate al buddismo dello Sri Lanka. Per quanto riguarda questo paese infatti Daniel parla della nozione di “eredità”: secondo lui la coscienza dei tamil della loro storia politica è fioca come una candela in confronto al sole, quindi viene riaffermata l’idea sullo scetticismo riguardo la capacità di pensiero storico o l’interesse per esso da parte degli hindu. A volte la questione dell’aitihya interroga sé stessa sollevando la questione della fattualità e della singolarità di un racconto riportato. Un testo giaina ne è un esempio, descrivendo il confronto tra gli intellettuali brahmani e un grande maestro giaina. In questo testo ricorrono motivi regolari, la guerra del Mahabharata si è combattuta di continuo e la maggior parte degli eventi si ripetono senza cambiamenti di rilievo. Da questo emerge che è possibile che anche il momento storicizzato si apra ad una temporalità transtemporale, in cui lo storico allarga lo sguardo oltre l’evidente sequenza degli eventi immediatamente conoscibili. Ogni storia può essere coerente con uno schema di motivi mitici ricorrenti e protestare che un’estensione di questo tipo non è storica significa non cogliere il punto; una nozione forte “di fatto”, può trovare facilmente spazio in una mappa di sequenze temporali intrecciate, infatti si può dire che la storia emerge dalla dissonanza e disparità tra due autonome sequenze di ritmi e pulsazioni, infatti ciò che distingue lo storico da un cronista di eventi collocati in un elenco cumulativo sono i vortici e i turbini indipendenti, l’interazione tra scarsità e abbondanza. La mancanza di congruenza è fondamentale per il lavoro dello storico. L’autore si rifiuta di negare qualsiasi distinzione tra letteratura e storia; White identifica diverse tipologie di intreccio negli scritti storici come nei romanzi, ed elabora un’intera poetica della storia, basata sulla raffigurazione e costruzione del plot. Il risultato finale è la perdita di una grande letteratura storica risalente all’India pre-coloniale; è importante identificare e definire i registri di scrittura storica dell’India pre-coloniale, in quanto si trovano espressi in una vasta gamma di testi differenti. Lettere vergate su carta Nelle lingue del sud (sanscrito e persiano) sono state composti dal 500 in poi testi che riflettono un mutamento nella consapevolezza storica in un particolare momento; appartengono ad un nuovo gruppo di comunità di letterati di media condizione, che usavano la scrittura come mezzo di conservazione, registrazione e soprattutto comunicazione. La loro letteratura storiografica riflette la transizione dalle iscrizioni su pietra verso un uso sempre più diffuso di carta, foglie di palma e lastre di rame per scopi pubblici. L’indagine sull’identità di questi letterati ci porta ad analizzare un mondo che non appartiene ai proprietari fondiari, né agli artigiani ma a membri di una piccola aristocrazia di servizio, che incarnava specifici valori politici e che seppe accogliere nuovi membri tra 600 e 700, che appartenevano a nuove formazioni politiche che favorivano l’integrazione L’unica eccezione a questa regola è la biografia di un uomo ignoto che conosciamo grazie a Charles Boxer: Francisco Viera de Figueiredo. Questo mercante-avventuriero passò gran parte della sua vita nell’Asia sud-orientale, aveva origini umili ed è un uomo che si è creato da solo, un diplomatico autodidatta che diventò attivo negli affari internazionali per conto del viceré portoghese. Boxer tramite questo individuo riesce a trasmette il contesto del commercio asiatico portoghese alla metà del XVII secolo, della diplomazia internazionale e ci apre uno spaccato sui caratteri della mobilità sociale nell’Asia portoghese di quegli anni. Ha quindi caratteristiche diverse dalla classica biografia, in quanto il lettore non conosce Viera a priori e in questo modo la biografia si avvicina alla storia sociale perché i lettori sono attirati dal ruolo sociale che il personaggio rivestiva. Altri esempi di “biografia sociale” si possono rintracciare in pubblicazioni degli ultimi decenni, in qui l’individuo presentato serve come via per penetrare più ampie questioni di storia sociale. Un esempio è lo studio dedicato da Jean Aubin a Cristovao Leitao; nella sua analisi attraverso la vita di Leitao, Aubin ripercorre i tentativi di riformare il sistema militare portoghese e di capire la mentalità della classe militare professionale. Leitao è una figura minore ma quello che rappresentava era più importante di quello che fu e come molti altri restava preso a metà tra la volontà accentratrice della corona e la resistenza della nobiltà terriera. La sua vita ci ricorda come il Portogallo fosse una società profondamente divisa e come queste tensioni si fossero manifestate a più livelli, anche nell’Asia portoghese. Un altro lavoro importante di Aubin riguarda Duarte Galvao; è una categoria diversa in quanto i suoi scritti e la sua vita erano già stati affrontati precedentemente. La novità di quest’opera è nella reinterpretazione proposta da Aubin sul ruolo politico ed ideologico di Galvao in rapporto all’espansione portoghese in Asia. Galvao trascorse alcuni anni in Asia e l’autore della biografia sostiene che il personaggio non fosse preparato per l’ambiente ostile dell’Asia portoghese, soprattutto del governatore de Albergaria, il quale tentò di mettere in ridicolo Galvao. Galvao viene considerato come il “vestigio di un altro secolo” in quanto non capì che ormai coloro coinvolti nell’impresa dell’Asia portoghese erano molto più interessati al commercio privato con l’Asia che al piano di una crociata contro i mamelucchi e La Mecca. Quindi la vita di Galvao rivela il passaggio dai divulgatori e sostenitori dell’idea imperiale ai suoi oppositori che poi trionfarono. Un terzo studio di Aubin ci porta a considerare a fondo i traffici asiatici e le comunità mercantili. Il protagonista è Francisco del Albuquerque, un ebreo castigliano che si è convertito e servì Afonso de Albuquerque come interprete. Ci viene offerto lo sguardo di un uomo che cambiò religione, fu usato dai portoghesi e a sua volta li usò e può essere messo a confronto con un altro ebreo castigliano catturato nello stesso periodo, Alexandre d’Ataide, che resistette più a lungo alla conversione. Per la maggior parte di queste figure si possono reperire elementi essenziali per una biografia attraverso le cronache coeve; i cronisti del 500 non assegnavano un ruolo agli individui su base arbitraria, ma sottesa ai loro scritti si trovava una specifica visione dell’agency storica: in cima alla lista degli individui di cui si danno notizie vi sono viceré e governatori, quindi i cronisti sapevano di star trasmettendo una sorta di mito dei loro protagonisti. Oltre a questi, i cronisti si occupano di registrare le gesta di nobili o fidalgos: il cronista Diogo do Couto narrò infatti in dettaglio le imprese dei discendenti di Vasco da Gama. Furono poi costruiti i contorni anche di figure ecclesiastiche associate all’espansione portoghese, come il gesuita Francesco Saverio, su cui si ha una ricca documentazione basata anche sulle lettere scritte da lui stesso. Fra le altre importanti figure di missionari su cui abbiamo biografie vi sono Alessandro Valignano, Matteo Ricci e Roberto Nobili. La vita di Ricci è stata oggetto di studio del sinologo Spence, che opera un lavoro di interpretazione poggiandosi su fonti edite. Evita il classico ordine cronologico, portandoci avanti e indietro nel tempo ma collocando Ricci nel suo contesto sociale e i suoi atteggiamenti verso i cinesi sono chiariti alla luce di ciò. L’esistenza poi di un ricco corpus di lettere scritte di pugno dai personaggi delle biografie aiuta il biografo e ci conduce ad un altro aspetto importante da tenere in considerazione: il rapporto fra autorappresentazione e biografia. Un documento di grande rilievo è la lettera. Resta comunque un certo grado di selezione visto che appunto le lettere (di qualsiasi tipo) non erano scritte da persone di ogni ceto ed è per questo che di asiatici che parteciparono alla storia dell’Asia ne emergono pochi, mentre i chierici e i mercanti che non presero parte alle attività statali sono assenti. Anche questi mercanti privati comunque scrissero lunghe memorie sia in forma di racconto di viaggio sia per difendersi di fronte ad accuse giudiziarie, come avvenne per Ferdinand Cron e Jacques de Coutre. Questi due personaggi infatti caddero in disgrazia e giunti in Europa scelsero come tattica di riabilitazione la stesura di un racconto delle loro azioni in Asia. Escludendo gli asiatici comunque non si prenderebbero in considerazione le influenze che questi hanno avuto sia nel collaborare e commerciare con i portoghesi, sia nell’opporsi ad essi. Nel primo caso abbiamo uomini come il corsaro Timmayya, che informò Albuquerque dell’importanza di Goa come località portuale; per questi uomini però disponiamo solo di fonti portoghesi. Per quanto riguarda il secondo caso si ha una discreta lista di nomi e dargli un ritratto è un modo per aprire un varco fra gli stereotipi che derivano da una lettura casuale delle fonti portoghesi, dove un “moro” è indistinguibile da un altro. Secondo Burckhardt con il Rinascimento emerse un forte senso dell’individuo, che avrebbe trovato espressione in una proliferazione di scritti autobiografici e in una nozione di individualità del tutto dissociata da qualsiasi gruppo (tesi di cui ultimamente si è dubitato); è comunque certo che l’incontro portoghese con l’Asia produsse diverse forme di narrazione in prima persona, che possono essere utilizzate a loro volta dagli storici per costruire biografie che rafforzano il significato di determinate categorie sociali come gli uomini di religione, la borghesia urbana, i soldati e gli ufficiali civili. Vi erano quindi distinzioni di classe e separazioni razziali, la ripartizione fra “interni” ed “esterni”, che ci danno l’immagine di una società complessa dove la stessa nozione di identità era un fenomeno complesso. La transizione della biografia alla storia si potrà dire realizzata se si darà il senso non tanto di chi erano i nostri personaggi, ma di quello che furono e rappresentarono nella storia delle relazioni fra portoghesi e Asia nel 500 e 600. Capitolo 7: una vita tortuosa, l’enigma di Nicolò Manuzzi Visitando il semisconosciuto cimitero cristiano di Agra si trovano diverse tombe di diversi mercenari inglesi, di visitatori e di personaggi italiani giunti in India nella fase culminante del potere mughal nel secolo XVII, per poi rimanervi per molti decenni. Gli italiani esercitano un fascino particolare, non solo per la loro consonanza con la politica indiana del tempo, ma anche perché non erano parte di una presenza imperiale diretta. Spesso erano liberi, senza legami e flessibili negli orientamenti politici. Rappresentano quindi l’ideale del mediatore; questo figure negli ultimi anni hanno trovato spazio e gli è stata dedicata una rinnovata attenzione. Il mondo della prima età moderna presenta solo raramente racconti edificanti, in quanto le culture si trovavano in una sorta di conflitto “contenuto”. Nel 500 e 600 gli Europei non dettavano legge in India, ma erano legati ad una serie di enclaves costiere, fortificate o meno. Questo saggio intende esaminare casi di personalità che “si fecero nativi” e adottarono costumi e modi degli indiani, cercando di mediare tra un ambito culturale e l’altro. Uno di questi è Nicolò Manuzzi, un personaggio dell’India del 600 e 700. Di recente si è fatto ricorso alla sua opera per analizzare la posizione di un narratore europeo in un harem orientale. Manuzzi è ritratto come una figura versatile, un ingannatore, un uomo che ha viaggiato da un cultura all’altra. Pare sia nato nel 1638, poi all’età di 13/14 anni è passato da Corfù, dove lavorava suo zio che chiese ai genitori il permesso di portarlo con sé in India sempre per il suo lavoro nei traffici. Così imparò il persiano e si diede alla medicina. Pare quindi che abbia lasciato Venezia intorno al 1651. Si può dividere la sua vita in 7 periodi in cui viaggiò attraverso il continente indiano, prima al servizio dei mughal, poi in alcuni insediamenti portoghesi, poi tornando dai mughal e cercò di operare come mediatore tra i portoghesi e i mughal. L’opera fondamentale che abbiamo di quest’uomo è la “Storia del Mogol”, scritto in 5 parti con le prime te che hanno una certa coerenza e le ultime due in qualche modo se ne allontanano. Annuncia lo schema iniziale del suo libro dicendo che lo voleva dividere in 3 parti inizialmente: nella prima avrebbe scritto della sua partenza da Venezia per Delhi, poi aveva intenzione di presentare una breve cronaca dei sovrani mughal fino ad Aurangzeb e infine nella terza parte voleva parlare della politica dei mughal in generale. L’opera è pensata per avere sé stesso al centro della narrazione, come se fosse un eroe e come antieroe vi è l’imperatore mughal Aurangzeb. Un altro aspetto da considerare è la figura di Francois Bernier, un medico francese che al suo ritorno in Francia dopo un soggiorno nell’India mughal si era imposto come autorità in materia. Aveva importanti legami in Francia ed era riuscito a far pubblicare una sua opera proprio riguardo questo argomento, che Manuzzi aveva letto e commentò dicendo che secondo lui Bernier non conosceva l’impero mughal se non di passaggio. Siamo portati quindi naturalmente a mettere in contrasto Bernier e Manuzzi, uno portatore di una conoscenza superficiale e l’altro visto come possessore di una conoscenza molto approfondita. Manuzzi rivendica di poter ricostruire la storia dei mughal da Tamerlano fino a Shahjahan. Il racconto di Manuzzi è stato inseguito considerato una fonte e la storia della sua vita scomparve per essere assorbita in una storia generale dei mughal dal tempo di Tamerlano. Iniziò la sua opera scrivendo in italiano ma cambiò scrivani molte volte e fu costretto ad abbandonarlo nella terza parte a favore del francese e del portoghese. Nella quarta parte dell’opera Manuzzi inizia dalla condizione dell’impero mughal nel 1700, dando sfogo al suo spirito aneddotico, facendo considerazioni sui portoghesi per terminare in modo sconnesso con le vicende di Madras e Sao Tomè. Manuzzi non si preoccupava del destino dei suoi scritti perché sa che sono in mano ai gesuiti ed è ansioso di vedere apparire la quarta parte il prima possibile prima ancora di iniziare la quinta. Fece eseguire inoltre il cosiddetto “Libro rosso”, un insieme di ritratti di re e principi che molti storici dell’arte hanno sottolineato non essere miniature mughal di prima qualità, ma ci sono caratteristiche che spiccano come il fatto che i ritratti degli imperatori mughal abbiano una certa somiglianza con quelli noti e inoltre mancano ritratti di Shahjahan, anche se egli occupa un posto rilevante nella storia. Manuzzi pensava a questi ritratti come accompagnamenti del testo. Il destino della storia Manuzzi scrisse la prefazione in italiano nel 1705 e la lettera latina al Senato di Venezia. Era disgustato dai gesuiti per via di Catrou, così decise di far ricorso alla rivalità tra i differenti ordini missionari cattolici e affidò come suo “messaggero” il cappuccino Eusebe de Bourges, a cui affidò la responsabilità morale, un pacco sostanzioso e la lettera per il Senato di Venezia. Qui si presenta come un patriota veneziano e un figlio fedele della Repubblica da cui è rimasto separato per molto tempo. La reputazione di Manuzzi e della sua opera crebbero in pochi anni. Eusebe de Bourges arrivò nel porto di Lorient nel 1705 e proseguì fino a Parigi, dove entrò in contatto con Catrou per recuperare il Libro rosso. Nel 1706 mostrò il contenuto del pacco a Lorenzo Tiepolo, ambasciatore veneziano in quella città. Così Tiepolo informò il senato e a quanto pare il padre Eusebe ha tessuto le lodi di Manuzzi, dicendo che sarebbe opportuno che il Senato scrivesse una lettera ufficiale a Manuzzi per ringraziarlo di aver fatto altrettanto e aggiunge che pur non avendo letto la Storia con attenzione, gli pare che il racconto sia veritiero. L’opera successivamente arrivò a Venezia, dove venne fatta esaminare dal consiglio universitario dei riformatori dello Studio di Padova, e verso marzo del 1707 fu presentata una relazione al Senato che confermava il grande valore dell’opera, rilevando la necessità di tradurla tutta in un’unica lingua. Si rivelò comunque impossibile trovare un editore per l’opera, soprattutto per i costi di realizzazione che essa richiedeva. L’opera fu importante anche per la famiglia di Manuzzi, in quanto i due nipoti di Nicolò avevano problemi con la legge per reati di blasfemia: il primo, che si chiamava Nicolò come lo zio, era stato condannato a 5 anni di galera in quanto non aveva adempiuto al castigo che gli era stato dato essendo bandito da Venezia. Per lui riuscirono a concedergli di partire per raggiungere lo zio in India e per il secondo nipote, Antonio, fu richiesta la stessa cosa. Antonio partì ma morì pochi mesi dopo l’arrivo. Il problema della pubblicazione dell’opera si faceva sempre più consistente man mano che l’opera cresceva, infatti più aggiungeva parti e più la storia diventava incoerente. Intorno al 1706 Manuzzi visse due decessi che affievolirono il suo desiderio di scrivere oltre la quinta parte: il primo fu quello della moglie e il secondo quello di Francois Martin, che pare gli avesse consigliato di sposarsi proprio con la moglie. Definire una gerarchia
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