Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

RIASSUNTO: PAESAGGIO COSTITUZIONE CEMENTO - SALVATORE SETTIS, Appunti di Geografia Del Turismo

Riassunto del libro "Paesaggio Costituzione Cemento" (esame 2020)

Tipologia: Appunti

2019/2020
In offerta
40 Punti
Discount

Offerta a tempo limitato


Caricato il 23/10/2020

valeria_gavinelli17
valeria_gavinelli17 🇮🇹

4.4

(70)

8 documenti

1 / 46

Toggle sidebar
Discount

In offerta

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica RIASSUNTO: PAESAGGIO COSTITUZIONE CEMENTO - SALVATORE SETTIS e più Appunti in PDF di Geografia Del Turismo solo su Docsity! lOMoAR cPSD|4363525 PAESAGGIO COSTITUZIONE CEMENTO LA BATTAGLIA PER L’AMBIENTE CONTRO IL DEGRADO CIVILE CAPITOLO 1: UNA BOMBA A OROLOGERIA I. Paesaggio, riserva di caccia Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Il Bel Paese è sommerso da colate di cemento. Spesso il paesaggio e le antiche città sono consegnato a speculatori senza scrupoli, sono riserve di caccia di chi calpesta il bene comune per il proprio beneficio. Es. cementificato il 17% del terreno agricolo = terreno improduttivo e spesso favorisce il dissesto idrogeologico creando una terra di nessuno disponibile ad affrettate urbanizzazioni. Non conta lo schieramento politico delle amministrazioni. Dal 1956 al 2001 la superficie urbanizzata è aumentata del 500%, il suolo è considerato potenzialmente edificabile: l'urbanizzazione ha conosciuto una grandissima accelerazione. L'edilizia residenziale ha una media di 106 milioni di metri cubi annui, ed è persino un dato sottostimato non contando le costruzioni abusive. Le superfici cementificate crescono specialmente al Nord Italia. Il legame tra crescita demografica e crescita urbana non è più lineare: l'urbanizzazione è autonoma rispetto agli andamenti demografici ed economici e suggerisce un'evoluzione in senso consumistico. In altre aree del Paese l'urbanizzazione si concentra in costruzioni di ogni genere nelle campagne: “rapallizzazione” (dagli scempi paesaggistici intorno a Rapallo) o “urban sprawl” (città sparpagliata) → nuova desolante forma del paesaggio italiano (Emilia Romagna, asse Roma-Napoli). Le conseguenze sono pesanti sulla qualità del territorio e sulla qualità di vita, ma nonostante ciò non c'è un freno al consumo indiscriminato del suolo. L'equilibrio storico tra popolazione e territorio è compromesso. La campagna romana, celebrata da generazioni di poeti e artisti, è in pasto ai palazzinari: hanno generato una cintura di favelas di palazzoni fatiscenti, fine piazze invase dalla spazzatura. Roma vanta una raffineria petrolchimica e la più grande discarica d'Europa: la campagna romana è diventata un paesaggio di squallore. La cementificazione di terreni agricoli comporta la copertura del suolo (soil sealing) con perdita spesso irreversibile delle funzioni ecologiche di sistema che esso aveva esercitato: aumenta la probabilità di frane e alluvioni; l'abbattimento dei boschi fa posto a villaggi turistici, infrastrutture e rende più fragile il terreno, creando ulteriori rischi. Particolarmente vulnerabili sono i litorali bassi e sabbiosi, già in continua erosione e a rischio allagamento e per di più devastati dalla distruzione delle dune costiere e dal moltiplicarsi di porti turistici con la concomitante invasione del cemento sulle spiagge. Secondo alcuni rapporti, un uso irrispettoso del territorio ha causato negli ultimi anni danni che ammontano a (5) miliardi di €. Questa devastazione cieca non avverrebbe se vi fosse una percezione del valore della risorsa. II. I labirinti dell'informazione Tutti i dati sul consumo del suolo sono approssimati per difetto, poiché non contano gli immobili fantasma e tutti gli abusi edilizi. Sul Web è possibile rintracciare moltissimi dati raccolti da pubbliche amministrazioni, associazioni, inchieste giornalistiche. Ma è un'esperienza ingannevole: la sovrabbondanza di dati scoraggia e disorienta gli esploratori del web che si smarriscono in quel labirinto. lOMoAR cPSD|4363525 Si scopre che per alcune zone di Italia ci sono studi più dettagli, per altre zone le informazioni sono estremamente lacunose, e ciò non consente di creare un confronto. Non si può avere una visione d'insieme per creare uno strumento di riflessione per il pubblico; la sovrabbondanza di informazioni ostacola la conoscenza. Ci sentiamo soffocati ma se vogliano difenderci non sappiamo da dove iniziare. Ogni giorno sotto gli occhi di tutti i cittadini, molti speculatori distruggono il paesaggio italiano: in alcune regioni si è andato radicando un diffuso abusivismo, che offende il paesaggio e la storia ignorando le norme ed eludendo i controlli; in altre regioni i delitti contro il paesaggio si consumano non ignorando le regole, ma modificandole o interpretandole. Pur essendo forme opposte, gli esiti sono drasticamente gli stessi. III. Tre paradossi Tre dati di fatto contrastanti in Italia: • L'Italia ha da anni il più basso tasso di crescita demografica d'Europa e ha il più alto tasso di consumo di territorio d'Europa. Meno italiani, più cemento sul suolo italiano. • L'Italia è tra i pochi paesi che abbiano un regime di tutela del paesaggio e del patrimonio culturale nella propria Costituzione, eppure continua la selvaggia aggressione al paesaggio, disprezzando o interpretando le norme per piegarle alla speculazione edilizia. • L'Italia ha una lunga tradizione civile di riflessione su queste tematiche e ha in merito una ricca bibliografia storia e giuridica a riguardo, ogni anno ci sono seminari e conferenze sul degrado del paesaggio e sulle ipotesi per ripristinarlo. Ma nella scuola italiana il paesaggio è quello dipinto dai pittori, non è mai quello in cui viviamo, che ogni giorno vediamo deturpato. Il Codice dei Beni Culturali e del paesaggio (2004-2008) prevede misure congiunte (art.135) Stato- Regioni per la pianificazione paesaggistica. Perché allora questo degrado? L'intrico normativo e la labirintica suddivisione delle competenze tra Stato, Regioni, Province e Comuni contribuiscono alla mancata tutela. Nascondendosi dietro la facile foglia di fico di una normativa più o meno ben fatta, amministratori e politici perpetrano manovre e accordi sottobanco trasformando il paesaggio e le città. IV. Il paesaggio distrutto dalle leggi Mentre le norme di tutela vengono aggirate, si installano anche norme che aiutano a devastare il paesaggio. La legge 'Tremonti-bis” per incentivare l'economia introdusse la devastazione del reddito d'impresa per chi lo reinveste, in particolare nella costruzione o nell'ampliamento di immobili funzionali all'attività aziendale → migliaia di capannoni inutilizzati. E' devastante anche l'impatto dei mutamenti normativi rispetto agli oneri di urbanizzazione (= contributi corrisposti al Comune da chi costruisce un nuovo edificio). La legge Bucalossi afferma che chi costruisca nuovi edifici deve partecipare alle spese che il Comune dovrà affrontare. Secondo tale legge, gli oneri di urbanizzazione vanno spesi per coprire le spese di urbanizzazione, per null'altro. Questo principio venne abrogato nel Testo unico per l'edilizia (2001) e tale abrogazione venne a convergere con le difficoltà finanziarie incontrare dai Comuni per una mancanza di liquidità. La crescente insufficienza di risorse ha spinto i Comuni a cercare nuovi fonti di introito, tra cui gli oneri di urbanizzazione e l'Ici, anche a costo di aumentare l'invasione del territorio, concedendo deroghe ed eccezioni. Imponendo ai Comuni la necessità di accrescere il flusso di introiti da oneri di urbanizzazione, il governo nazionale li ha obbligati ad accelerare la svendita del loro territorio: il deficit comunale si risana con la devastazione del paesaggio. lOMoAR cPSD|4363525 naio da cui attingere, conta anche l'invenduto, contano anche le case vuote o sfruttate una setti- mana l'anno. La stessa identica mentalità è condivisa non solo dalle famiglie, ma anche dalla crimi- nalità organizzata. ● La crisi economica mondiale che coinvolge anche l'Italia. “Il presente decreto – così la bozza del Piano Casa – prevede misure per il rilancio dell'economia mediante interventi straordinari sul patrimonio edilizio, al fine di agevolare la ripresa delle attività imprenditoriali di settore, nell'attuale fase di crisi congiunturale globale”. → destra e sinistra con- cordano sul piano casa che porti ad un rilancio delle imprese di costruzione, e sarebbe la prima mossa per salvare il paese dalla crisi economica. Non è vero. La crisi congiunturale glo- bale è stata innescata dalle banche americane per l'eccesso di mutui concessi per star dietro agli eccessi dell'offerta edilizia = housing bubble. Non sempre i prezzi riflettono i valori reali: le decisioni sugli investimenti venivano orientate più dalle aspettative che da verificabili valori di mercato = reflexivity. Le aspettative generano un processo che inizialmente si auto consolida, ma fatalmente finisce con l'autodistruggersi: è ciò che è successo con la housing bubble, la bolla immobiliare, un meccanismo di boom then bust (prima boom dopo il collasso). Dal 2001 i prezzi delle case negli USA continuarono a crescere, imponendo ai compratori la ricerca di nuovi finanziamenti mediante mutui; le banche continuarono a concedere prestiti in misura crescente, a condizioni sempre migliori, nell'aspettativa che il mercato continuasse a crescere e ad autoregolarsi. L'impennata dei mutui e dei crediti mantenne alta la domanda di case, la fece aumentare; la convinzione di una crescita indefinita del mercato immobiliare generò aspettative sempre maggiori da parte dei cittadini. La bolla immobiliare è esplosa quando è diventato evidente che un gran numero di persone che avevano sottoscritto mutui al di sopra delle proprie possibilità non era più in grado di pagarne le rate → La divaricazione tra valori percepiti (aspettative) e valori reali è stata in questo caso così grande che la bolla immobiliare ha causato uno tsunami globale, una crisi finanziaria generale (Superbubble). Anche in Italia un mercato immobiliare gonfiato dagli operatori del settore ha generato aspettative basate sull'ipotesi di una crescita indefinita dei valori immobiliari e di un'espansione illimitata dal credito → una continua crescita degli investimenti immobiliari e dei relativi meccanismi di finanziamento. Anche in Italia la fatale frenata del mercato immobiliare sta riducendo il valore delle case e aumentando il numero di quelle invendute. Al 1° gennaio 2009 la popolazione residente in Italia ha superato la soglia dei 60 milioni di abitanti, e tale incremento è interamente dovuto alla popolazione immigrata: è grazie agli immigrati che il saldo della bilancia demografica in Italia oggi è positivo, mentre gli italiani autoctoni sono in netta diminuzione. Dagli immigrati viene la crescita della domanda di nuove abitazione, tuttavia la consistente riduzione della popolazione che ha intenzione di formare famiglia e il parallelo incremento delle classi più anziane determinerà presto un forte rallentamento del ritmo di crescita del numero di famiglie (Nuove famiglie: 400 000 nel 2002, 220 000 nel 2006 = insufficienza per rispondere all'offerta di nuove abitazioni, ben superiori). La crisi congiunturale globale, anziché stimolare tentativi di trasformazione e di innovazione dell'economia, viene invocata per legittimare la stagnazione dei meccanismi produttivi e il trionfo della rendita fondiaria. Il piano casa del governo e i piani casa delle regioni hanno già una vittima sacrificale: il paesaggio. Il pae- saggio e l’ambiente non sono intesi da chi ci governa come preziosissimo capitale territoriale da non spre- care perché insostituibile, bensì come una sorta di zavorra, un peso morto di cui liberarsi mediante opera- zioni speculative. Il piano casa appartiene alla diffusa cultura dello stato di eccezione: tutti ammettono che le escrescenze incentivate dalle norme regionali sono contro le regole, ma tutti vogliono che l’efficacia delle regole venga temporaneamente sospesa. Per interrogarsi sulle cause e immaginare qualche rimedio, occorre ripartire dall’orizzonte dei diritti e dai tempi lunghi della storia. lOMoAR cPSD|4363525 CAPITOLO 2: L’ORIZZONTE DEI DIRITTI I. Conflitti di competenza, diritto di parola Chi può parlare di paesaggio, chi può proporre critiche? È giusto che le trasformazioni del paesaggio vengano sottoposte a regole? A chi spetta questo compito? Le risposte si muovono tra due estremi: la totale deregulation o un astratto richiamo alle regole, vanificato dai conflitti di competenza tra istituzioni e dagli incerti gerarchi delle normative. La totale deregulation è la conseguenza ultima dello slogan berlusconiano “padroni in casa propria”. L'unico limite all'arbitrio del singolo sarebbe in questo slogan l'arbitrio del vicino: la regolazione del paesaggio si sposterebbe su un piano negoziale, imperniato sulla proprietà privata. Sono le regole e i piani regolatori ad aver danneggiato il paesaggio. Siamo tutti di buon gusto, facciamo quello che ci pare, bando alle regole. La seconda risposta è fondata sul richiamo alle regole esistenti, spesso in conflitto tra loro. Abbiamo la Costituzione, il Codice dei beni culturali e del paesaggio, la Convenzione europea sul paesaggio, ci sono sequenze di leggi nazionali e regionali, di normative e pianificazioni a ogni livello. Tutte norme non coincidenti tra loro. E quando ci sono conflitti di definizione, chi vince? Ciascuna istituzione difende il proprio spazio, cerca anzi di allargarlo a spese dei concorrenti: ma questa conflittualità ha finito per oscurare le stesse esigenze di tutela del paesaggio. Regnano due forze alleate e convergenti: da un lato una moltitudine di strategie interpretative che piega la normativa a suo piacere; dall'altro, le manovre dilatorie di chi ha interesse che a una decisione certa e inappellabile non si arrivi mai, e in quell'aera grigia vede il più efficace surrogato di una deregulation difficile da imporre per legge, da qui l'abitudine alla violazione occasionale delle norme, anche allo stato d'eccezione sancito per legge. Il discorso sulla tutela del paesaggio è diventato un metadiscorso: si parla meno della tutela, e più invece di chi debba farlo, rimbalzandosi le responsabilità, paralizzando azioni e innovazione. Le due strade, deregulation o insistenza su regole depotenziate dai conflitti di competenza, finiscono col convergere, indebolendo il sistema normativo; il paesaggio intanto viene devastato. A cancellare le regole o ad accantonarle, dando per scontato che non funzionano. La normativa di tutela tende così ad occultare vergogne e delitti contro il paesaggio. Vi si oppongono svariati sofismi, che diluiscono variamente la nozione di paesaggio, la riducono a concetto o valore astratto senza alcun rapporto con lo spazio in cui viviamo: • Secondo alcuni, il paesaggio esiste solo in quanto viene esperito esteticamente, attraverso le forme della sua rappresentazione, in letteratura e in pittura: il paesaggio sarebbe quello dei colti, di natura necessariamente elitaria; • Secondo altri, il paesaggio estetizzato, concepito come immobile non meno di un dipinto, è un feticcio culturale arcaico; conservarlo è impossibile, e non è nemmeno desiderabile. Meglio assecondare le modificazioni, mettendo a fuoco nuove categorie estetiche per i paesaggi delle autostrade, dei suburbi. È necessario uscire da questo stato paralizzante con due mosse: • Ricordandosi che il paesaggio dei pittori non va protetto perché estetizzato, ma in quanto storicamente portatore di valori civili, filo conduttore delle esperienze di tutti. • Il paesaggio in quanto spazio storico, percepito nella sua tangibile concretezza innesca potenti meccanismi sociali ed economici, che hanno poco a vedere con scorci e vedute. Ha un prezzo e perciò suscita cupidigie; ha un valore etico e sociale e perciò stimola norme e movimenti per la sua conservazione, che impongono di articolarne il perimetro anche come nozione giuridica. lOMoAR cPSD|4363525 La sottrazione del paesaggio al monopolio del dominio estetico è necessaria se non vogliamo accontentarci di sottili dispute accademiche, bensì occuparci in concreto dello spazio in cui viviamo, se vogliamo leggerne le trasformazioni in rapporto con la vita, la memoria e la salute dei cittadini. La graduale introduzione di norme è stata, nella storia, direttamente proporzionale alla crescente densità delle presenze umane e alla complessità sempre più grande dell'organizzazione sociale. Rispetto a questa evoluzione millenaria, che in Italia raggiunge una forma elaborata con il diritto romano, la riduzione del discorso sul paesaggio all'interesse del singolo “padrone in casa propria” e a una mera dimensione negoziale col vicino è un vistoso arretramento. Non ci dovremmo chiedere “chi deve far cosa” quanto invece “che cosa deve essere fatto e per vantaggio di chi”, ripartendo dalle cose che contano: noi e il paesaggio. II. Lo spazio del discorso Dove comincia il paesaggio e finisce il territorio o l'ambiente? Se non proviamo a capirlo, non risolveremo il conflitto tra le competenze e la devastazione del paesaggio proseguirà. Lo spazio in cui viviamo non è mai neutro: fu spazio di natura fino a quando l'uomo prese a imprimervi i propri segni = spazio dell'uomo, che è riflesso e memoria della storia e della società. La modificazione dello spazio naturale ad opera dell'uomo è stata sempre più intensa nel tempo e cresce ancora, seguendo l'inarrestabile aumento della popolazione. Se guardiamo dall'alto a questa storia millenaria, possiamo parlare di produzione dello spazio. Lo spazio in cui viviamo è prodotto dall'uomo perché è spazio sociale. Risulta da processi economici, da decisioni politiche, da fattori culturali. I segni dell'uomo producono lo spazio in cui viviamo, creano il paesaggio. Lo spazio è il teatro della storia, è in esso che si consuma un processo di distruzione che colpisce le due fonti di ogni ricchezza, la terra e l'uomo che la lavora. La produzione dello spazio sociale limita e trasforma lo spazio naturale, senza tuttavia distruggerlo. Ne abbiamo bisogno per il nostro sostentamento. Ogni società produce il proprio spazio, teatro necessario della produzione economica, delle gerarchie sociali, del potere, del sapere e dei riti. Lo spazio sociale avvolge e determina l'individuo, vi genera percezioni e rappresentazioni, un ordine di valori, vi radica esperienze e speranze, percezioni e aspettative individuali si riflettono sullo spazio fisico e sociale, contribuiscono a modellarlo. Non c'è vissuto individuale senza uno spazio circostante, eppure l'individuo, anche se tutto della sua vita dipenda dalla sanità dello spazio (letterale e culturale, lo sviluppo di valori fondamentali) che lo circonda, ben di rado riesce a controllarlo. Lo spazio ordinato secondo un codice riconoscibile e condiviso era carico di senso: perciò offrì per secoli non solo coordinate fisiche del proprio vissuto, ma una viva immagine della propria appartenenza, l'identità collettiva in cui rispecchiarsi, da cui trarre forza e alimento. L'alluvione di condomini, villette, capannoni, palazzi, che è il grande e triste motto del Novecento, comporta la perdita irreversibile di quel codice e dei valori associati. Il nuovo paesaggio italiano che stiamo creando appartiene al dominio della statistica, non a quello dell'estetica. Questa nuova urbanizzazione tende ad annullare l'equilibrio città-campagna, infrange o nega ogni codice storico-culturale dello spazio perché è al servizio dell'industrializzazione, di cui adotta pratiche e strategie, ponendo il mercato al di sopra di ogni altro valore. La distruzione dei codici di organizzazione dello spazio, delle loro valenze storiche, memoriali in favore di un'indiscriminata cementificazione al solo servizio del mercato, comporta una perdita drammatica di significati. Lo spazio sociale viene travolto dal meccanismo consumistico e vale non quanto perché possiamo viverlo, ma perché possiamo occuparlo. lOMoAR cPSD|4363525 aspettative, prescrive comportamenti, sradica e reindirizza la fantasia e la memoria. Il passato diventa un'eredità di rovine, un peso di cui liberarsi in fretta. Nascono nuovi orizzonti, nuovi paesaggi: lo spazio industriale invade la città, mutandone spirito e forma → drammatiche mutazioni → PROGRESSO. Andava intanto dispiegandosi la nuova retorica del futurismo che inneggiava alla distruzione dei musei, delle città storiche e delle memorie del passato. Mentre il progresso impone le sue regole invadendo lo spazio e rimaneggiandolo come se non avesse memoria, entra in crisi il secolare rapporto uomo-paesaggio. In quegli stessi anni di crisi nascono in Italia le prime preoccupazioni sull'ambiente e sul paesaggio, e le prime leggi di tutela. Le norme di tutela del paesaggio fanno di tutto per arginare le ingiustificate devastazioni che si van consumando contro le caratteristiche più note e più amate del nostro suolo. La geografia interiore si adatta ai nuovi valori ognuno impara a ritagliare paesaggio ancora intatti, frammenti di un modello antico che viene ripensato, riscoperto e rilanciato anche da nuove modalità del viaggio e del turismo. Il paesaggio tende a sdoppiarsi: da un lato quello, idillico e a volte costruito, delle cartoline e del relax, di villaggi vacanza; dall'altro lo spazio degradato in cui si vive, e si torna a vivere, rassegnati, dopo il riposo. Rassegnati ormai alle devastazioni che ci feriscono ogni giorno, rifiutiamo di vedere quel che dovremmo: l'anomalia sta diventando regola, l'eccezione si va trasformando in modello unico di sviluppo, l'urban sprawl si sta mangiando città e campagna, intere generazioni di italiani non hanno più nella loro geografia interiore nessun paesaggio armonioso da ricordare, nulla su cui fantasticare. Le patologie psicofisiche innescate dal crescente degrado dell'ambiente e dalle brutali trasformazioni del paesaggio ricadono a pieno titolo tra quelle che la comunità di cui facciamo parte ha il dovere di riconoscere e di prevenire, come prescritto dall'art.32 della Costituzione. Le esigenze di tutela dell'ambiente sotto il profilo igienico-sanitario e di difesa della salute della popolazione vanno intese in senso estensivo, che includa la sofferenza e il disagio provocati dalle violenze al paesaggio in cui individui e gruppi sociali si identificano. La distruzione dei suoi valori produce disorientamento, frantuma antiche familiarità, innesca meccanismi di ansia, fa di ogni cittadino un disadattato. Le irresponsabili mutazioni dell'ambiente e del paesaggio non innescano solo un ampio arco di patologie psicofisiche, generano anche una diffusa patologia sociale: accentuano le diseguaglianze, perché colpiscono i cittadini meno abbienti, costretti ad abitare in case strette e infelice nelle periferie poco servite. Chi vive in un quartiere brutto, sporco, mal tenuto, nel quale non riconosce nulla dei propri orizzonti interiori, niente in cui identificarsi, tende a violare ogni norma e ogni legge. Il degrado del paesaggio urbano è importante fattore che innesca comportamenti criminosi o violenti; il miglioramento della situazione ambientale, cioè della qualità della vita, riduce o annulla l'incidenza dei comportamenti deviati. L'ambiente che abbiamo creato a sua volta ci condiziona (the power of the situation: più degradata è la situazione in cui viviamo, più quel degrado è destinato a crescere). Sarebbe più saggio puntare su strategie di prevenzione: la cura dell'ambiente, del paesaggio, delle città, della qualità della vita; quel che importa non sono tanto i diritti propri di animali o paesaggio, quanto il legame tra le persone dei cittadini come individui e come collettività organizzata e l'ambiente in cui essi necessariamente dispiegano la propria vita, e che pertanto condiziona le loro libertà. V. Cercare la bussola C'è un vasto conglomerato di leggi, decreti e circolari statali e regionali in contraddizione tra lOMoAR cPSD|4363525 loro per quanto riguarda la strage ambientale. In questa foresta vasta e intricata, troviamo sempre meno le cose che dovremmo cercare per prime: il paesaggio, i cittadini, il nostro comune vantaggio; ciò che tiene la scena non è la salute o la felicità dei cittadini, bensì il perpetuo conflitto di competenza tra Stato e Regioni. Se un paesaggio è in pericolo, perdiamo di vista il fine vero, che è di salvaguardarlo. Nascono sempre nuove norme, tra loro contraddittorie. Le leggi finiscono col modellarsi su sé stesse anziché sulla realtà che dovrebbero regolare, diventando un sistema chiuso. Le leggi che regolano lo spazio in cui viviamo, ma danno la priorità al gioco delle competenze tra enti anziché alla protezione del paesaggio e al benessere dei cittadini, sono di fatto azioni contro l'ambiente e contro i cittadini. In questo scenario in cui le formule verbali contano più delle cose, il tira e molla tra le istituzioni contribuisce alla distruzione del paesaggio. Ogni rimedio che si cerca sono nuove parole, nuove norme, nuove interpretazioni, altra polvere che si alza che ci avvolge. Due processi simultanei sono all'opera oggi sotto i nostri occhi: ➢ a livello della legge, la superfetazione normativa che continua senza il minimo contrasto a costruire mattone sopra mattone una muraglia di leggi incoerenti; ➢ a livello del paesaggio, il crescente, cieco consumo del suolo malgrado le norme, usando gli interstizi dell'interpretazione per innescare una delegificazione di fatto. Costruiamo devastando il paesaggio in nome del progresso ma in realtà lo blocchiamo. lOMoAR cPSD|4363525 CAPITOLO 3: CULTURA ED ETICA DELLA TUTELA: UNA STORIA ITALIANA I. 2010: quantità e qualità Ci sono dati sintomi di orgoglio nazionale e di consapevolezza della centralità del patrimonio cultu- rale italiano. Ma sono anche dimostrazioni desolanti di irresponsabile superficialità e approssimazione. Tutti citano a memoria, pochi sembrano accorgersi che la percentuale varia di bocca in bocca non nelle statistiche. Non c'è mai stata un'indagine svolta dall'Unesco che abbia quantificato il patrimonio culturale del pia- neta, assegnando ad ogni Paese la propria quota percentuale. Il primato italiano non è quello della quantità ma quello della qualità: ci distinguiamo per l'armoniosa integrazione città-campagna, patrimonio culturale-paesaggio, che ha forgiato le caratteristiche più pe- culiari dell'Italia, per la diffusione capillare del patrimonio culturale in ogni città, infine per il tasso medio di continuità d'uso in situ di statue, dipinti, monumenti che è per ogni visitatore una grande ragione di attrazione. La diffusione capillare è il carattere speciale del patrimonio culturale italiano, e non essendo ri- producibile ne assicura l'assoluta unicità. È modello di conservazione contestuale. Il totale è maggiore della somma delle sue parti: è proprio dalla forza della trama urbana che ogni sin- golo monumento prende significato e spessore. L'Italia è anche un modello nella cultura della conservazione. Molto prima dell'unità nazionale, gli Stati italiani hanno cominciato a darsi regole in questo campo precedendo in molto ogni altro Paese; la cultura giuridica italiana ha introdotto l'idea che la protezione del patrimonio culturale debba essere regolata da norme e istituzioni pubbliche. L'Italia è stata la prima a considerare tutela del paesaggio e tutela del patrimonio culturale un tutt'uno; è stato il primo Paese al mondo a porre questa duplice tutela fra i principi fondamentali della propria Costituzione. La diffusione capillare del patrimonio sul nostro territorio e la cultura italiana della tutela sono due aspetti della stessa storia: se il nostro patrimonio è abbondante e diffuso, è perché abbiamo saputo conservarlo. Nel secolo XX le leggi di tutela si sono moltiplicate in vari Paesi seguendo modelli europei, a loro volta ripresi dall'esempio italiano. Dovremmo essere fieri di questo, del nostro apparato di istituzioni per la tutela, non di statistiche inventate. II. 1725 – 1796: idea del patrimonio, nascita del museo Il concetto europeo di patrimonio culturale si è formato nel corso dell'800, a partire dall'idea di pa- trimoine, elaborata nella Francia tra Rivoluzione e Restaurazione; la stessa denominazione riflette sull'attribuzione di una personalità giuridica alla Nazione, cioè al popolo. L'idea di patrimonio si ispirava a due fonti complementari: • La consapevolezza della centralità del patrimonio per promuovere la cultura e per defi- nire il carattere nazionale; La discussione appassionata che si era svolta dopo che le armate francesi, invadendo l'Europa, avevano incamerato migliaia di opere d'arte da numerose città per concentrarle a Parigi. Questa depredazione da parte dei francesi venne giustificata con l'idea che le arti si sviluppino solo in regime di libertà: si pretese che la Francia fosse di diritto la patria dell'arte, e che perciò la sua capitale dovesse racchiuderne le vette come in uno scrigno prezioso, in un Museo centrale d'Europa. Nei paesi depredati, il grande spoglio venne vissuto come una violenza, ma la reazione più dura, lucida e coerente venne da una corrente della Francia stessa: Antoine Quatremere de Quincy nelle sue Let- tres a Miranda (anonime, 1796) sostenne con vigore che l'arte ha ovunque cittadinanza in Europa e che rimuovere le opere d'arte dal loro conteso originario non solo ne diminuisce il valore drasticamente, lOMoAR cPSD|4363525 Quel che importa sopra ogni altra cosa è il bene comune, la pubblica utilitas. Tanta concordia non nasceva da accordi interstatali e nemmeno solo da una superficiale moda o emulazione, ma aveva radici più profonde: una comune, secolare cultura urbana, un identico senso della funzione civile della bellezza e dell'ornato della città, una stessa tensione a trasmettere i valori di una generazione all'altra. Questa piena eredità di identità e di memoria trasse validità dal fatto di essere non esclusiva di un unico stato, ma di essere condivisa e rilanciata dall'una all'altra comunità di cittadini o dall'uno all'altro sovrano: tutti ne riconoscevano la radice comune nel diritto romano. Identità civica e pubblico controllo dello sviluppo urbano sono i due poli di questa viva esperienza di civiltà, che in nessun Paese d'Europa ebbe altrettanta intensità e consapevolezza. Questa culturale della conservazione è una sorta di linguaggio comune, che ogni parte d'Italia imparò a praticare, proprio come l'uso della lingua italiana. Nel patrimonio culturale convivono due distinte componenti patrimoniali, perché due sono le utilità che esso genera: una si riferisce alla proprietà del singolo bene, che può essere privata o pubblica; l'altra ai valori storici e culturali, sempre e comunque di pertinenza pubblica. In questa prospettiva, la stessa espressione patrimonio culturale assume un significato particolare, che è l'opposto di ogni individualismo proprietario, e si rifà invece a valori collettivi. Il principio della pubblica utilitas delle cose di interesse culturale è un forte elemento di continuità della storia nazionale e ha preso nuovo vigore e significato in Italia dalla nuova concezione della sovranità: la Nazione. La sovranità della Nazione si rispecchia sul patrimonio culturale e comporta la massima accessibilità a tutti, e la responsabilità di custodirlo e preservarlo per le generazioni future. I cittadini sono eredi e proprietari del patrimonio culturale, tanto del suo valore monetario che simbolico. Il patrimonio culturale ha assunto in Italia prima che altrove una notevole funzione civile. IV. 1859 – 1909: difficile unità La Giunta di Antichità e Belle Arti creata da re Carlo Alberto era in linea con i contemporanei provvedimenti presi nel resto d'Italia, tuttavia poneva all'azione di tutela un espresso limite: il diritto di proprietà. La distanza dalle norme degli Stati pontifici dove la pubblica utilità era chiaramente sovraordinata alla proprietà privata è notevole. Lo Statuto Albertino definiva che la proprietà come diritto di godere e disporre delle cose nella maniera più assoluta purché non se ne faccia un uso vietato dalla legge o dai regolamenti. Una parte significativa dell'alta burocrazia del Parlamento del governo era di estrazione piemontese e per questo restia a piegarsi alla priorità della pubblica utilitas. L'Italia avrebbe potuto lasciar sopravvivere le norme di ciascuno degli antichi Stati, ma puntò su un sistema unificato. Vi si arrivò attraverso un lungo processo che si concluse nel 1909: il punto dolente fu proprio la gerarchia tra pubblica utilitas e la proprietà privata. Il contrasto tra la tradizione piemontese che dava il primato ai diritti dei privati e quella romana che anteponeva il pubblico bene a ogni altro valore. Già durante il governo Cavour fu avvertita l'esigenza di una legge nazionale di tutela, ma fallì. Appena la capitale divenne Roma vennero aboliti dal Senato i vincoli fidecommissari, che nella Roma dei Papi avevano garantito per secoli la tenuta delle collezioni delle grandi famiglie, vietandone la frammentazione nonostante fossero di proprietà privata. In quelle accese discussioni si delineò il contrasto tra Camera e il Senato (composta da membri aristocratici interessati a mettere sul mercato le proprie collezioni). Il Senato non voleva ledere i diritti dei proprietari, mentre la Camera poneva argini alle dispersioni richiamando le leggi previgenti nei singoli Stati (debole difesa). lOMoAR cPSD|4363525 Tutti i tentativi falliti si sono infranti di fronte ai diritti di proprietà privata e la difficoltà di riconoscere il primato del pubblico bene sul libero commercio ed esportazione delle opere. In un contesto così difficile, la legge del 1902 provò a trovare la giusta misura, ma di fatto privilegiò i diritti dei privati proprietari di monumenti e oggetti d'arte, limitò il progetto di catalogo dei beni in mano privata e allo Stato lasciò il diritto di esproprio per pubblica utilità. L'emorragia di opere d'arte dall'Italia rischiava dunque di accentuarsi con la nuova legge (legge ad orologeria). Il ministero avrebbe dovuto compilare entro un anno i cataloghi delle opere di sommo pregio (quelle opere di cui era vietata l'esportazione): il primo “episodio” del catalogo di opere invendibili perché di sommo pregio uscì nel 1903, ma il catalogo non arrivava mai alla fine. Si ebbe una svolta con la successiva legge n.364 del 1909 → atto di nascita della disciplina nazionale italiana della tutela, dalla quale venne poi ogni altra disposizione, fino ad oggi. Nel 1907 nasce il sistema della Soprintendenza con speciali ripartizioni che ebbero competenza territoriale ma furono sottoposte al Ministero della Pubblica Istruzione. C'erano nella nuova legge molti riferimenti al diritto romano. I migliori parlamentari e intellettuali intesero il patrimonio culturale come un dato essenziale per definire e per promuovere l'identità nazionale. La legge del 1909 stabilì il principio della preminenza del pubblico interesse sulla proprietà privata per tutte le cose immobili e mobili che abbiano interesse storico, archeologico o artistico, vietandone l'alienazione; le cose di proprietà privata sono assoggettate a piena tutela solo quando risultino di importante interesse con apposito provvedimento di notifica e possono essere alienate solo previa denuncia al Ministero, che ha diritto di prelazione. L'esportazione di tali opere è severamente limitata. Ci furono altri principi nel disegno originale di legge, che però non passarono al Senato (perché opposti al principio della proprietà privata) tra cui: • L'inclusione tra le cose da tutelarsi di giardini, foreste, paesaggi, acque e quei luoghi naturali che abbiano interesse sopracitato. Questo primo tentativo di tutela del paesaggio avrebbe avuto esito più tardi con leggi ad hoc: ma già al legislatore del 1909 era ben presente lo stretto legame tra tutela del patrimonio culturale e tutela del paesaggio. • L'azione popolare: secondo tale principio, il singolo cittadino poteva agire giuridicamente in nome del popolo, promuovendo l'actio popularis in difesa di interessi pubblici e in particolare dei beni comuni. Rosadi, dopo aver argomentato in favore della pubblica utilitas, raccomandava di introdurre nella nuova legge questo principio che conferisce ai cittadini la facoltà di far valere i diritti che spettano allo Stato: lo scopo era di avere l'opinione pubblica forte, ben costituita e ben diretta ausiliatrice dello Stato nella conservazione del patrimonio artistico. La legge 364/1909 rappresenta un solido ponte fra la secolare cultura italiana della tutela e l'Italia unita, secondo una linea che continua fino ad oggi. Venne anteposta la pubblica utilità alla proprietà privata, ma restò controversa la linea di demarcazione fra i beni privati soggetti a tutela e quelli commerciabili. Si perpetua di generazione in generazione quello scontro tra il bene e il decoro pubblico e il profitto privato. L'azione popolare prevista dal disegno di legge del 1909 aveva un notevole spessore etico-politico: se introdotta nella legge, avrebbe innescato una maggior coscienza civica, un più alto senso di responsabilità, un fermo presidio del bene comune. La difficile gestazione delle norme di tutela dell'Italia unita non è che un aspetto della nostra ancora difficile unità nazionale. lOMoAR cPSD|4363525 C'è la lungimirante esaltazione della pubblica utilità e del bene comune, ma anche il miope egoismo proprietario. V. 1939 – 1948: patrimonio, paesaggio, costituzione Il paesaggio non ebbe posto nella legge del 1909, nonostante il disegno di legge: l'estensione della tutela al paesaggio venne bocciata dal Senato. Nel 1922 nasce la PRIMA LEGGE ORGANICA DI TUTELA DEL PAESAGGIO, e venne sottolineato il nesso tra tutela del patrimonio culturale e tutela del paesaggio. Questa linea, perdente nel 1909, continuò a circolare nelle discussioni parlamentari finché nel 1939 si giunse alle due leggi parallele del ministro Bottai: una per il patrimonio culturale e l'altra per il paesaggio (n. 1497). La gestazione al Ministero però fu molto lenta. La nuova legge tentava una mediazione fra interessi pubblici e privati, ma riprendendo in genere i principi della legge del 1909 e traducendoli in un sistema più organico. Un riferimento più diretto ai temi della tutela ebbe infine il Codice Civile (rinnovato nel 1942) e la legge urbanistica, che avrebbe comportato conseguenze importanti sulla tutela del paesaggio. Nata dalle vicende della guerra, la Costituzione consacrò la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio al più alto grado, ponendole fra i principi fondamentali dello Stato e lo fece partendo dalle due leggi Bottai. L'art.9 della Costituzione rappresenta un principio costitutivo della storia e dell'identità italiana, un forte elemento di continuità di un percorso lunghissimo, di un linguaggio comune a tutti gli italiani che parte da statuti e disposizioni comunali e sovrane del Medioevo e si snoda attraverso la legislazione dell'Italia unita. La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione in senso attivo, cioè in funzione della cultura dei cittadini: deve rendere il nostro patrimonio fruibili per tutti. Il principio di tutela è saldamente ancora alla sapiente architettura dei valori rappresentata nella Costituzione: al richiamo al pieno sviluppo della persona umana, con connessi valori di libertà e di eguaglianza dei cittadini, ai diritti inviolabili dell'uomo connessi alle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità e ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale. La convergenza fra tutela del paesaggio e diritto alla salute ha fondato la tutela dell'ambiente come valore costituzionale primario. La priorità dell'interesse pubblico non cancella ma limita i diritti della proprietà privata. È in nome del pubblico interesse che i diritti del privato vanno limitati qualora entrino in conflitto con quelli della cittadinanza nel suo insieme. L'Italia è stato il primo paese del mondo a collocare tutela del patrimonio culturale e del paesaggio fra i principi fondamentali dello Stato. Solo dopo altri Paesi hanno inserito principi di tutela nelle rispettive Costituzioni, preferendo tuttavia la proclamazione dei diritti individuali anziché sancire compiti specifici per lo Stato o altre articolazioni dei poteri pubblici. Per ragioni di funzionalità e di prestigio, il modello giuridico della tutela del patrimonio formatosi nella cultura italiana è stato trapiantato gradualmente in tutto il mondo. Grandioso processo di presa di coscienza del patrimonio culturale a livello mondiale: partito dagli antichi Stati italiani, si è esteso in tutta Europa e interessa oggi quasi tutti i paesi del mondo, anche se raramente è diventato norma costituzionale. Ancora più variegato è il quadro di tutela del paesaggio, che ha livelli assai diversi di Paese in Paese e che non sempre è coordinata con quella del patrimonio culturale. lOMoAR cPSD|4363525 Ma come incorporare lo spirito originario della selvaggia foresta? L'equilibrio tra natura e cultura fu cercato nei nuovi orizzonti dell'espressione poetica e della rap- presentazione pittorica, sempre più incentrata sui luoghi selvaggi, cieli minacciosi etc. Mediante la poesia e la pittura, la natura incontaminata veniva assorbita nello spazio identitario della cultura. Nei paesi di lingua tedesca si viene affermando tra Otto e Novecento una concezione della tutela che intorno alle parole chiave DENKMAL (monumento), coi connessi valori di memoria, raccoglieva arte, storia e natura. Fu proprio l'idea di unificare arte, storia e natura ad assumere una grande importanza durante lo svi- luppo della legislazione sulle cose d'arte in Germania all'inizio del Novecento. Lo stesso termine NATURDENKMAL conferisce un valore storico ad una creazione della natura e implica una parentela con i monumenti dell'arte e della storia. HEIMAT è lo spazio vitale di corpo e di anima, la patria in senso geografico e culturale. Nacquero di qui i fortunati movimenti di protezione dell'Heimat; essi facevano centro sulla protezione della natura e del paesaggio, e si intrecciavano strettamente con la tradizione della tutela dei monu- menti. Nel 1902 c'è la prima legge a protezione dei monumenti dell'arte e della natura; nel 1919 la Costi- tuzione della Repubblica di Weimar includeva la tutela dei monumenti storici e artistici e del pae- saggio in un articolo della costituzione. Movimenti paralleli si diffusero nelle altre aree di lingua tedesca (Svizzera e Austria). La marca originaria dei movimenti di protezione fu un Lokalpatriotismus di impronta civica che tracciò, a seconda della storia locale, il perimetro delle cose da tutelare. ➢ INGHILTERRA Il movimento protezionistico inglese reagiva ai danni arrecati al paesaggio naturale dalla veloce in- dustrializzazione e dal moltiplicarsi di quegli insediamenti. Nella seconda metà dell'Ottocento sorgono una ventina di associazioni impegnate nella difesa dell'ambiente, tra cui la NATIONAL TRUST: un'associazione di cittadini si assumeva i compiti che nel sistema italiano spettano allo Stato. Eloquente ed efficace nel contesto inglese fu John Ruskin: la sua visione utopistica assegnava all'arte un ruolo centrale nella società, quasi un antidoto all'industrializzazione galoppante che stava trasfor- mando l'Inghilterra. Per lui il paesaggio dipinto culmina e riassume la storia, l'essenza e le finalità spirituali della pit- tura; ma il paesaggio vissuto va inteso in piena continuità con quello esplorato da poeti e pittori. Il paesaggio vissuto è fonte di intense esperienze etiche ed estetiche per il singolo, e per la sua vastità implica un livello più alto, la collettività dei cittadini, e alla società il paesaggio impartisce una forte lezione morale. Perciò il paesaggio richiede di essere tutelato; la pratica dell'arte fonda la necessità di preservare la natura, arrestando la devastazione delle campagne. Anche altre associazioni britanniche nacquero sotto la diretta influenza degli scritti di Ruskin, che ebbe in Italia una fortuna tardiva, ma notevole. “Sanno godere del paesaggio solo le persone colte, educate dall'arte e dalla pratica di azioni significa- tive. Essi troveranno un piacere intenso nel paesaggio del loro paese per il suo valore di memoria, per- ché lo vedranno come sigillo e premio della persistenza di un'altra vita nazionale. Una nazione merita il suolo e gli scenari che ha ereditato solo se si preoccupa di renderli ancor più gradevoli per i propri figli”. ➢ FRANCIA Le riflessioni sul patrimonio hanno una storia importante e centrale. Nel 1887 ci fu la prima legge di tutela dei monumenti, che prese come esempio i precedenti dagli antichi Stati Italiani. lOMoAR cPSD|4363525 Strumento essenziale nella tutela francese era la classificazione, che sottopone a speciale regime di protezione monumenti e cose d'arte di interesse nazionale. Questa legge consentì nel 1898 la classificazione delle cascate di Gimel. Sorge nel 1901 la prima associazione per il paesaggio e l'estetica francese, che ebbe un ruolo im- portante nel promuovere la legge Beauquier del 1906 sulla protezione del paesaggio e dei siti sto- rici, che prevedeva una classificazione dei paesaggi a seconda del livello di interesse, e forme di prote- zione negoziate tra le amministrazioni pubbliche e i proprietari privati. La legge del 1913 sui monumenti storici si trovava in tal modo a operare in parallelo con una legge di tutela del paesaggio. La discussione francese in vista della legge sul paesaggio viene all'attenzione degli italiani in articoli di rivista e contribuisce a stabilire il nesso fra patrimonio monumentale e siti naturali. Quando poi la prima legge francese sul paesaggio entrò in vigore (1906), ne era ben informato Rosadi che stava lavorando alla nuova legge di tutela, quella che approderà alla l.364/1909 e che nella sua intenzione avrebbe dovuto includere anche la tutela del paesaggio. In queste e altre esperienze e discussioni sulla tutela del paesaggio, emerge che due sono i cuori del problema: • IL RAPPORTO TRA NATURA E CULTURALE: in Francia, Inghilterra e Italia intellettuali, giuristi e politici si chiedono in che cosa si distinguano i siti naturali meritevoli di protezione e quelli che lo sono perché plasmati dalla storia e arricchiti dall'arte. In tutta Europa i nomi e le classificazioni non sono che un aspetto del problema. La polarità tra spazio naturale e spazio antropizzato viene a volte risolta in termini di netta opposizione, a volte invece asserendone l'affinità all'insegna della bellezza, e assimilando i siti puramente naturali ad altrettante vedute pittoriche. • L’EQUILIBRIO TRA INTERESSE PUBBLICO E PROPRIETÀ PRIVATA: una delle ragioni di questa difficoltà nasce dall'arduo rapporto tra pubblico interesse e proprietà privata. I siti da proteggere diventano fuori mercato: è facile farlo per i suoli di proprietà pubblica, ma la tutela di ciò che è in mani private viene immediatamente vissuta come un danno economico. Le categorie invocate dai conservazionisti vengono messe in forse e contrapposte ai diritti fondamentali della proprietà privata, riconosciuti dalle leggi; e la cultura giuridica ricorre con difficoltà alla nozione di pubblico interesse, argomento principe per la tutela, e indugia piuttosto nella ricerca di adeguate compensazioni per i privati proprietari. Le varie tipologie di siti si distinguono male tra loro, eppure categorizzare è necessario perché introduceva una normativa più articolata, metteva in primo piano la tutela degli spazi di proprietà pubblica e rendeva più agevole la protezione degli interessi privati. Le discussioni sulla tutela del paesaggio furono sempre determinate dallo scontro tra pubblico interesse e proprietà privata. In ITALIA questa discussione assume un tono tutto speciale, a causa dell'altissima integrazione fra il paesaggio e i segni della storia e dell'arte, com'era evidente ai viaggiatori stranieri. “Una seconda natura intesa alla pubblica utilità: questa fu per loro l'architettura, e in tal guisa ci si presentano l'anfiteatro, il tempo e l'acquedotto” (Goethe). La produzione di uno spazio sociale che rispecchia secolari processi di civiltà agraria, artistica, letteraria, e in cui l'edificato e il paesaggio operano congiuntamente a fini civili. Il legante tra campagna e città, fra natura e culturale, fra paesaggio e antichità e belle arti, sono proprio i fini civili, la pubblica utilitas, un tessuto etico e civico sedimentato nei secoli, ed egualmente connaturato alle piazze di città e alle valli e colline coperte di vigneti e ulivi. Questo era il paesaggio che lOMoAR cPSD|4363525 la Nuova Italia del primo Novecento, una volta risolte con la l. 364/1909 le controversie sulla tutela del patrimonio, doveva ormai decidersi a tutelare. III. Un altissimo interesse morale e artistico Fu BENEDETTO CROCE nel 1910, divenuto Senatore, a varare la prima legge italiana per la tutela del paesaggio. La tutela del paesaggio in Italia fu più recente di quella del patrimonio artistico, ma si innestano sullo stesso tessuto etico, giuridico, civile e politico. La prima legge paesaggistica d'Italia (1905) riguarda la conservazione della Pineta di Ravenna, che fondava la necessità della tutela sulla storia del sito e sulle sue memorie. Secondo il ministro Rava il culto delle civili ricordanze merita di incarnarsi non sono nei monumenti, ma anche nel paesaggio. La Camera, dopo aver approvato tale legge, votò l'auspicio per un disegno di legge per la conservazione delle bellezze naturali che si connettono alla letteratura, all'arte e alla storia d'Italia. Il Senato soppresse la tutela del paesaggio della legge Rava del 1909. Sorgevano intanto in Italia associazioni variamente protezionistiche, coinvolgendo anche movimenti d'opinione suscitati da cittadini e intellettuali intorno a singoli temi. Rosadi non aveva rinunciato alla battaglia per la tutela del paesaggio e già nel maggio 1910, meno di un anno dall'approvazione della legge di tutela da cui il Senato aveva cancellato l'articolo relativo, presentò una nuova proposta di legge tesa a tutelare il paesaggio e tutti quei luoghi che hanno “notevole interesse” pubblico per la loro bellezza naturale o della loro particolare relazione con la storia e la letteratura e che perciò non possono essere distrutti. Rosadi connetteva paesaggio e ambiente. Il disegno della sua legge accentuò l'attenzione al tema di intellettuali e politici. Nelle discussioni di quegli anni vediamo all'opera anche in Italia gli stessi cuori del problema: da un lato il perimetro delle cose da tutelare, dall'altro il rapporto tra pubblico interesse e proprietà privata. Un altro problema era il rapporto tra tutela dei paesaggi e tutela delle cose e dei monumenti d'arte. Un intreccio necessario e naturale: necessario, perché il nesso tra i due versanti della tutela era già presente nella proposta di legge del 1909, e fu eliminato per l'opposizione del Senato; naturale, per quella intima integrazione di paesaggio e segni dell'uomo che è il più vistoso segnale della specificità italiana. Due personaggi guardarono alla proposta Rosadi con sguardo simpatetico ma critico: ➔ NICOLA FALCONE (giurista): le ragioni per salvaguardare le armonie viventi del paesaggio a beneficio delle generazioni future sono per lui estetiche e storiche, non solo etiche, però richiedono adeguati fondamenti e strumentazione giuridica. Perciò egli ricorda i movimenti e le norme di difesa del paesaggio nei vari Paesi additando a modello la l.1906 delle Francia. Affronta il tema della proprietà privata, principale ostacolo alla tutela del paesaggio: il di- ritto di proprietà privata venne modificato quando la consapevolezza dei diritti dell'uomo cambiò i termini del patto sociale: da allora, lo Stato mutò forma diventando l'esponente del pubblico interesse, l'interprete della volontà collettiva ed il prodotto della legge di sociale convivenza; in questo quadro, la proprietà privata incontra un necessario limite nel principio del pubblico bene e della cooperazione fra i cittadini. In questo limite e nel suo fondamento giuridico c'è il presupposto essenziale per la tutela del paesaggio. Ma la proposta Rosadi non pare a lui sufficiente, perché la formula “notevole interesse” è ambigua e restrittiva, e si presta a contestazioni d'ogni genere: assai meglio sarebbe stato parlare di “interesse pub- blico” o “interesse generale”. lOMoAR cPSD|4363525 • per l'imposizione di vincoli troppo stretti che impediscono anche la più piccola modifica • per la scarsa efficacia rispetto agli abusi • per la necessità di racconto con altre norme su acquedotti, aeroporti, parchi nazionali. Nella discussione che seguì si scontrano la posizione del Sindacato proprietari di fabbricati della provincia romana e quella dei partigiani della tutela. Tra questi Giovannoni, che aveva contribuito ai lavori della legge Crode, fu posto da Bottai a capo della commissione che doveva approntare la nuova legge; di questa commissione fecero parte anche costruttori e proprietari dei fabbricati. Durante i lavori preparatori, Giovannoni dovette difendere il disegno di legge contro un'assidua opera di sabotaggio, ma Bottai lo rassicurò sulla difesa contro qualsiasi cosa, garantendo che il testo elaborato dalla Commissione avrebbe subito soltanto minime modifiche. E così avvenne. Il ministro nella relazione introduttiva alla legge insiste sulle imperfezioni della legge Croce, tra cui la definizione dell'oggetto troppo sommaria, la mancanza di coordinamento in tema dei piani regolatori, e infine la mitezza delle sanzioni a chi viola la legge. Allargare il campo della protezione è lo scopo della sua nuova legge, che stabilendo norme più efficaci mostra maggior rispetto per gli interessi del privato, ma pone a proprio fondamento giuridico il concetto della funzione sociale della proprietà. Il direttore generale Lazzari propone una riflessione sulla correlazione tra i motivi ideali della tutela del patrimonio artistico e quelli della tutela delle bellezze naturali: non è la natura che funge da unità di misura dell'arte, ma viceversa → l'arte ha forgiato il paesaggio italiano, la cui bellezza nasce come dato antichissimo della nostra civiltà. Perciò il paesaggio da tutelare non è solo quello che ci offre la natura indomita ma è tutto il paesaggio italiano, con i segni del lavoro umano, con le sue reti di strade, con i suoi paesi, le sue opere di bonifica e di sfruttamento agricolo o industriale. Va individuata la legge interna di quel processo di modificazione, ricomposto il percorso di una tradizione di vita e di lavoro. → ogni intervento sul paesaggio va calibrato in modo che sia in armonia con la sua storia, con quel suo lento, armonioso mutare nei secoli sotto il segno dell'uomo. Il rapporto tra sistemazione urbanistica e il paesaggio è analogo al rapporto tra monumento e spazio paesistico circostante all'opera, e perciò deve essere sottoposto a tutela, con la quale si provvede alla conservazione e al giusto inquadramento storico del monumento → valore del contesto ambientale. È da questa concezione contestuale della tutela che nascono i piani regolatori paesistici della nuova legge, che devono essere posti all'insegna di una tutela che debba affiancare su uno stesso piano l'architettura urbana a quella rurale. La LEGGE BOTTAI innovò sia con nuove e più dettagliate articolazioni della materia e delle procedure, sia con qualche concessione ai proprietari privati (la dichiarazione del “notevole interesse pubblico” è più cauta e controllata attraverso commissioni provinciali presiedute dal soprintendente; la riduzione delle imposte sugli immobili vincolati), ma il punto più innovativo della legge è l'introduzione dei piani territoriali paesistici, che riguardano le vaste località soggette a vincolo; di simile spirito è la norma che prescrive il concerto col Ministero per l'approvazione dei piani regolatori urbani o d'ampliamento dell'abitato. Per far posto alle imperiose esigenze della vita bisogna ammettere che nell'area vasta di una bellezza d'insieme intervengano variazioni, purché siano ispirate ad un unico concetto direttivo, in armonio col piano preventivo concepito con un'unità di criteri razionale ed estetici e sottraggono le modificazioni al capriccio del singolo. Il Regolamento della legge Bottai integrava la legge su due aspetti cruciali: rispetto al difficile rapporto col Ministero dei Lavori pubblici, provava a mediare creando un incrocio di competenze (sui piani urbanistici); nel bilanciamento tra pubblico bene e interessi privati, introduceva le Commissioni Provinciali, che dovevano funzionare come una sorta di camera di compensazione. Nel quadro delle politiche culturali del fascismo, la legge si inseriva in un disegno assai complesso, e lOMoAR cPSD|4363525 per consolidare gli effetti Bottai convinse il duce a sottoscrivere pubblicamente le sue posizioni in un discorso ai soprintendenti. Mussolini dichiarò che il volto della patria dev'essere salvo dagli attentati di coloro che si preoccupano dei loro interessi affaristici e deve rimanere ad ogni costo integro nella sua bellezza. Per volto della patria si intende qualcosa di perennemente giovane e quindi da tutelare, e non un decrepito volto immobile. Ma i valori enunciati dal discorso venivano da lontano: avevano le proprie radici nella battaglia di Rava, di Rosadi e di Croce → linea di continuità. A quel successo contribuirono in modo determinante le personalità e la cultura di Bottai, e le persone di cui seppe circondarsi. L'Italia portò a termine nel 1939 un lungo processo che era iniziato nell'Italia liberale. lOMoAR cPSD|4363525 CAPITOLO 5: COSTITUZIONE, DEVOLUZIONI I. Laboratorio costituente La Repubblica italiana fu il primo stato al mondo a porre la tutela del patrimonio culturale e del paesaggio non solo nella propria costituzione, ma fra i principi fondamentali dello Stato → ART. 9. L'incarico di elaborare un progetto di Costituzione da discutere in aula fu subito dato alla Commissione dei 75, presieduta da Ruini (presidente del Consiglio). La Commissione si suddivise in tre Sottocommissioni: a. il primo che elabora gli articoli relativi ai 'diritti e doveri dei cittadini'; b. il secondo che elabora gli articoli relativi all’ 'organizzazione costituzionale dello Stato'; c. il terzo che elabora gli articoli relativi ai 'lineamenti economici e sociali'. Un comitato di redazione (di 18 membri) cominciò dal dicembre 1946 a coordinare i testi proposti dalle Sottocommissioni. All'inizio del 1947 il testo del progetto venne presentato all'Assemblea che lo discusse e lo approvò a dicembre e venne promulgato. I temi del futuro art.9 spettarono alla Prima Sottocommissione, presieduta da Tupini. Moro e Marchesi furono designati come relatori sui principi dei rapporti sociali e fu in questo ambito che per la prima volta s'introdusse il tema della tutela del patrimonio artistico. Il testo odierno dell'art.9 fu più volte modificato, e cambiò la sua collocazione nel contesto della Costituzione. Nella sua continua trasformazione, si sviluppa la congiunzione delle tutele con la promozione della cultura e della ricerca: il trinomio scienza, tecnica, industria e il concetto che lo Stato debba intervenire in questo campo per generare incremento di ricchezza e contribuire alla nostra rinascita economica sono gli argomenti che convinsero i Costituenti contro il testo più generico. Il dibattito tra i Costituenti nelle varie istanze (I ^ Sottocommissione; Commissione dei 75; Assemblea) mostra significative oscillazioni in tre ambiti: a. sulla definizione dell'oggetto della tutela: l'intento di mettere insieme la tutela del paesag- gio e quella del patrimonio artistico fu chiaro sin dalla prima formulazione che però parlava di 'tesoro nazionale' (sostituita poi con 'patrimonio') e di 'monumenti artistici, storici e naturali' (rimase nelle versioni successive, ma con qualche dubbio sulla formula 'monumenti naturali'; perciò ad essi il progetto dei 75 volle aggiungere espressamente 'tutela del paesaggio'). b. sulla sua estensione territoriale e con riferimento ai regimi di proprietà: si esitò se e come fosse necessario definire l'estensione territoriale della tutela e perimetrarne l'esercizio in relazione ai regimi di proprietà (pubblica o privata). La nuova efficacissima formulazione era incardinata su un sistema di valori che si riferiva all'intero territorio e che doveva riguar- dare tanto il patrimonio artistico e storico quanto il paesaggio, a prescindere dalla proprietà pubblica o privata. Infine una decisiva oscillazione linguistica fu quella tra i termini che dove- vano definire l'azione pubblica: 'vigilanza' > 'protezione' > 'tutela'. c. sulla specifica funzione dello Stato, rispetto alle Regioni. I Costituenti tennero presenti come modello le principali costituzioni europee. Tale linguaggio, pur facendo riferimento a un'esperienza costituzionale europea più antica, non corrispondeva alla tradizione culturale e giuridica italiana: si spiega così l'immediato affermarsi della terminologia che ancora innerva l'art.9 della Costituzione vigente. Il nuovo lessico della Costituzione copre le identiche materie delle leggi allora vigenti, ma le ridefinisce con energica innovazione. L'endiadi 'tutela del patrimonio storico e artistico/tutela del paesaggio' rispecchia fedelmente il dittico delle leggi del 1939 → Costituzionalizzazione delle leggi Bottai. lOMoAR cPSD|4363525 Si ritenne che i Lavori Pubblici avessero maggiore strumentazione e peso tecnico per affrontare il nodo più difficile, quello della rendita fondiaria nelle aree urbane e dei conseguenti rischi di speculazione. La legge urbanistica fu uno strumento adatto a garantire una permanente supremazia dello Stato sull'interesse privato. Non sapremo mai e se questo sarebbe avvenuto realmente: la guerra impedì infatti ogni sperimentazione della legge, di cui non venne nemmeno emanato il regolamento di attuazione. I Costituenti si trovarono di fronte due leggi ordinarie, sul paesaggio e sull'urbanistica, che fissavano principi e distribuivano competenze, ma non erano coordinate tra loro. Erano sbilanciate tra loro anche perché quella sull'urbanistica includeva sì un catenaccio più congegnato per frenare la speculazione fondiaria, ma quella sul paesaggio conteneva un più forte richiamo al pubblico interesse e ai valori storico-culturali, connettendo la tutela del paesaggio a quella del patrimonio artistico. Perciò quando le due leggi vennero entrambe proiettate nella Costituzione del 1948, la gerarchia fu invertita: la tutela del paesaggio e del patrimonio nazionale divenne più garantita, prendendo posto tra i principi fondamentali e rimase a livello statale, mentre il controllo sugli sviluppi urbani venne decentralizzato, passando dai Lavori Pubblici alle Regioni, a cui fu assegnata l'urbanistica con le relative funzioni amministrative, delegabili a Province e Comuni quando siano di interesse locale. La possibilità di un raccordo a livello statale veniva indebolita. La legge urbanistica del '42 era stata pensata entro un contesto sociale di esperienza in cui le campagne erano ancora il luogo di una diffusa civiltà contadina e pastorale, un paesaggio che dava ancora vita e lavoro. Nata per frenare le tendenze all'urbanesimo, essa finì per accompagnare l'accelerata urbanizzazione e l'abbandono delle campagne. L'inadeguatezza delle norme del 1942 fu evidente a partire dagli anni '60 e innescò una serie di tentativi falliti di riforma organica: ogni tentativo si infranse contro gli interessi della rendita fondiaria. La biforcazione tra paesaggio e urbanistica aveva intanto avuto conseguenze ulteriori: prima del passaggio delle competenze urbanistiche alle Regioni, la normativa di ciascuno dei due ambiti si era andata evolvendo nel tempo in modo tutt'altro che coordinato. Anche il tema del controllo delle aree fabbricabili per frenare la speculazione seguiva un percorso inefficace. Nel 1967 la l. Bucalossi optò per la separazione del diritto di edificare dal diritto di proprietà, ma la Corte Costituzionale dichiarò infondata la separazione della proprietà dallo ius aedificandi. La Corte chiedeva al legislatore di chiarire quali dovessero essere i limiti del diritto di proprietà allo scopo di assicurarne la funzione sociale, quali i casi preveduti dalla legge in cui si potesse procedere all'esproprio per motivi di interesse generale salvo giusto indennizzo → giusto indennizzo come risarcimento pieno dei diritti di proprietà lesi dai provvedimenti di tutela, corrispondente al presso di mercato come suolo edificabile o calcolato a partire dall'originario uso agricolo? Una chiara e univoca risposta del legislatore non venne mai, e nel 1980 la Consulta stabiliva che il giusto indennizzo deve far riferimento al prezzo di mercato delle aree edificabili. La spinta dall'industrializzazione e i nuovi livelli del benessere contribuirono al crescere del valore delle aree edificabili, radicalizzando di conseguenza la difesa del diritto di proprietà contro ogni controllo pubblico dei prezzi. Mentre questi interessi trovavano alleati potenti nei partiti e nei governi, la segmentazione delle competenze tra i poteri pubblici indeboliva o vanificava ogni reazione della pubblica amministrazione, finché l'entrata in vigore dell'ordinamento regionale trasformò la già difficile convivenza 'paesaggio' e 'urbanistica' in un divorzio di fatto. La gerarchia tra urbanistica e paesaggio si tradusse in opposizione tra i centri decisionali diversi: lo Stato e le Regioni. Da tale opposizione nacque una annessione del paesaggio all'urbanistica. lOMoAR cPSD|4363525 Decisioni e autorizzazioni edilizie e urbanistiche, con forti conseguenze sul paesaggio, furono sempre più poste nei fatti in capo a istanze locali prive di competenze professionali e di tradizioni culturali, giuridiche o amministrative. Con grande contrasto, mentre il principio della tutela aveva guadagnato il massimo rango costituzionale con l'art.9, le debolezze della politica spingevano nella direzione opposta, né si trovò chi volesse intenderlo o porvi rimedio. IV. Decentramenti Anche le competenze in materia paesaggistica presero a migrare verso le Regioni. Quelle a statuto speciale fecero da battistrada: la SICILIA prevedeva autonomia legislativa in materia di beni culturali, musei, urbanistica, paesaggio. Solo con il decreto n.637/1975 si decise che l'amministrazione regionale esercita nel territorio della regione tutte le attribuzioni amministrative centrali e periferiche dello Stato in materia di antichità, opere artistiche, musei e di tutela del paesaggio, e la materia da allora fu regolata da leggi regionali → oggi in Sicilia il personale delle Soprintendenze dipende dalla Regione. Regioni a statuto speciale: non ebbero mai altrettanta autonomia. Hanno competenze urbanistiche, ma ad esse in VALLE D’AOSTA si aggiunse la tutela del paesaggio, nel TRENTINO la stessa competenza fu assegnata alle Province di Trento e Bolzano, che hanno competenze su tutela e conservazione del patrimonio artistico. Regioni ordinarie: l'art.117 Cost. prevedeva competenze legislative solo in materia di urbanistica e di musei e biblioteche di enti locali. • Primo decentramento: la LEGGE del 1970 delegò il governo a emanare decreti sul passaggio alle Regioni delle funzioni ad esse attribuite all'art.117 e del relativo personale dipendente dallo Stato, riservando tuttavia allo Stato la funzione di indirizzo e di coordinamento delle attività delle Regioni. Ma i decreti delegati trasferirono alle Regioni anche le Soprintendenze ai Beni Librari fin allora in capo allo Stato. Alle Regioni vennero allora assegnate tutte le funzioni amministrative in materia di urbanistica, compresa l'approvazione dei piani territoriali, intercomunali e comunali previsti dalla legge urbanistica del 1942: ma il trasferimento di competenze fu esteso anche alla redazione e approvazione dei piani territoriale paesistici, cioè della legge Bottai. Tale estensione oltrepassò i limiti della delega al governo ignorando la ratio della Costituzione, che fu di porre in capo allo Stato le competenze paesaggistiche della legge Bottai (art.9), dunque anche i piani paesistici; si operava così per tutte le Regioni l'annessione del paesaggio alla materia urbanistici. Lo stesso decreto delegato inoltre assegnò in blocco ai Lavori Pubblici tutto quello che riguarda la tutela paesistica, ambientale ed ecologica del territorio e la difesa e conservazione del suolo. Insomma, il contrasto fra i piani territoriali di coordinamento della legge Bottai e i piani territoriali di coordinamento della legge urbanistica venne risolto in favore della norma urbanistica, a sfavore della tutela del paesaggio. • Secondo decentramento: nel 1975 una nuova LEGGE (382) delegò il governo a completare il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni per modo che il trasferimento dovrà risultare completo e assicurare una disciplina ed una gestione sistematica e programmata delle attribuzioni costituzionalmente spettanti alle Regioni. Per le Regioni fu riservata la facoltà di sub-delegare a Province e Comuni le funzioni delegate dallo Stato, mentre allo Stato fu riservata la funzione di indirizzo e coordinamento tra le Regioni. Il governo dette attuazione alla delega con il DECRETO 616/1977. Questo secondo decentramento fu più incisivo sul piano della mancata tutela del paesaggio. Il d. 616 si incentrò infatti sulla materia urbanistica ma la definì come disciplina dell'uso del territorio comprensiva di tutti gli aspetti conoscitivi, normativi e gestionali riguardanti le operazioni di salvaguardia e di trasformazione del suolo nonché la protezione del0'ambiente. In lOMoAR cPSD|4363525 merito, lo Stato si riservò funzioni di indirizzo e coordinamento ma delegò alle Regioni la protezione delle bellezze naturali, la loro individuazione e tutela. → progressivo spostamento dell'asse della tutela, dallo Stato alle Regioni. Nacque l'istituzione del MINISTERO PER I BENI CULTURALI E AMBIENTALI, che assunse la competenza di tutela dal Ministero della Pubblica Istruzione e che aveva pochi e limitati poteri. É in questo quadro che si colloca la LEGGE GALASSO (431/1985), nata con l'intento di limitare i danni di quello che fu il primo di una lunga serie di condoni edilizi. La legge Galasso innestò le nuove disposizioni nel tessuto della normativa sulle competenze regionali: il vincolo paesaggistico fu opportunamente esteso a nuove e più vaste categorie. Fu imposta alle Regioni l’immediata redazione di piani paesistici o di piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici ed ambientali. Si dette alle Soprintendenze il controllo sulle aree vincolate, mediante il potere di annullare le autorizzazioni paesaggistiche rilasciare da Regioni o enti locali. Per la redazione di questi piani, la legge dette alle Regioni il termine perentorio del 31 Dicembre 1986; in caso di inadempienza era previsto che i piani fossero redatti per cura del Ministero. Scopo evidente della legge fu di elevare il livello della tutela e gestione del paesaggio e di farlo sia chiamando le Regioni ad alte e precise responsabilità, sia riaffermando e rilanciando il ruolo di vigilanza e coordinamento dello Stato. Ma quello scopo non fu raggiunto: nessuna delle Regioni rispettò il termine e anche il controllo di legittimità del Ministero sulle autorizzazioni rilasciate dalle Regioni nelle aree vincolate per il loro interesse paesistico fu fallimentare. Il tentativo della legge Galasso di riportare ad un più rigoroso esercizio della tutela del paesaggio investendone sia le Regioni che il Ministero statale si infranse contro la volontà politica diffusa di lasciare mano libera sul paesaggio a Regioni e Comuni. Il Testo unico dei beni culturali e ambientali (D.Lgs. 490 del 1999), che provò a riordinare le materie fondendo le disposizioni legislative dalla legge Bottai alla legge Galasso, si limitò a confermare alle regioni il compito di redigere piani territoriali paesistici o piani urbanistico-territoriali con finalità di salvaguardare dei valori paesistici e ambientali, ma vanificò del tutto tale disposizione, nonché l'eventuale potere sostitutivo del Ministero tacendo su qualsiasi termine di scadenza. • Terzo decentramento: la LEGGE BASSANINI introdusse la distinzione tra 'tutela', 'gestione' e 'valorizzazione' dei beni culturali, ipotizzando il trasferimento a Regioni, Province o Comuni di musei e monumenti statali scelti da una commissione paritetica Stato-Regioni e dando rilievo alla 'valorizzazione' in capo alle Regioni. Assegna alle Regioni e agli enti locali funzioni e compiti in tema di territorio, di urbanistica e di tutela dell'ambiente. Attribuì allo Stato vaghe linee fondamentali dell'assetto del territorio nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali. Sotto l'ambigua etichetta di 'semplificazione amministrativa', queste norme radicarono e aggravarono le sovrapposizioni tra approccio paesaggistico e approccio urbanistico e i relativi conflitti di competenza. Negli anni successivi i Comuni avevano ingoiato senza fiatare l'enorme crescita dell'abusivismo edilizio. V. Fuoco amico La raffica regionalistica temuta da Marchesi si è abbattuta sul nostro paesaggio tramite le tre ondate di Decentramenti. Il raccordo mancato tra la legge sul paesaggio e quella urbanistica non è stato corretto o attenuato, ma si è anzi radicato profondamente nel sistema. Una nuova occasione di ripensamento avrebbe potuto essere la RIFORMA COSTITUZIONALE DEL 2001, che rinnovò il Titolo V della Costituzione (le regioni, le province, i comuni): fu varata dopo un referendum a bassa partecipazione. lOMoAR cPSD|4363525 CAPITOLO 6: L’ITALIA SI FA IN TRE: PAESAGGIO, TERRITORIO, AMBIENTE I. Entra in scena l’‘ambiente’ Sul PAESAGGIO è in corso un duro conflitto tra Stato e Regioni che indebolisce i poteri pubblici, defunzionalizzando le amministrazioni e deresponsabilizzandole. A ciò si aggiungono altri due fattori: • il progressivo emergere della nozione 'ambiente' • il rapporto tra la normativa italiana e la Convenzione europea sul paesaggio La nozione di ambiente non era presente nella Costituzione, ma venne imponendosi più tardi con la diffusione della cultura ambientalistica e dei relativi linguaggi. Il tema entrò nella discussione pubblica grazie alla Commissione Franceschini, secondo, negli atti, i beni culturali ambientali erano una categoria a sé ed erano raggruppati in due grandi classi: quelli di tipo paesaggistico e quelli di tipo urbanistico→ ricomposizione tra paesaggio e urbanistica. Consapevole del dissidio tra materia paesaggistica e materia urbanistica, la Commissione Franceschini dichiarò che la trasformazione degli insediamenti urbani deve essere considerata come bene culturale che esige tutele e interventi, e non in funzione di condizioni economiche o sociali. L'efficacia di questo principio doveva essere garantita dal nesso tra i piani regolatori comunali e le dichiarazioni di bene culturale ambientale da parte delle Soprintendenze. Era prevista l'istituzione di una Amministrazione autonoma dei beni culturali con un Consiglio Nazionale composto da esperti con competenze specifiche nel settore e presieduto dal ministro della Pubblica Istruzione. Tali proposte caddero tute nel vuoto. Nella Relazione Franceschini, che mirava a ricomporre la dicotomia tra urbanistica e paesaggio, la nozione di ambiente era di fatto solo un'estensione di quella di paesaggio dell'art.9 e non conteneva ancora connotazioni essenziali che intanto prendevano piede in Italia come in tutta Europa. La nozione di ambiente spesso verrà allargare fino a includervi anche quella qualitativa di paesaggio. Si diffondeva intanto in tutto il mondo la cultura ambientalista: in Italia (anni '70) vi furono iniziative promettenti mirate all'esplorazione delle tematiche ecologiste e a una nuova definizione di ambiente. Emerge tra queste la Prima relazione sulla situazione ambientale del Paese, prodotta dalla Tecneco, una società fondata dall'Eni. L'Eni intendeva allora impegnarsi fortemente per l'ecologia e volle controbilanciare le accuse di inquinamento di cui era bersaglio con una ricerca sistematica sull'ambiente italiano; ma dopo le grandi difficoltà politiche di quegli anni, il percorso ecologico dell'Eni si interruppe. La Relazione Tecneco lamentava l'immobilità del quadro legislativo e istituzionale. La Relazione fu respinta dalla sinistra che la vide come una mistificazione tecnocratica al servizio dell'industria: eppure essa aveva in comune con il regionalismo di sinistra la determinazione a far leva sulla nozione di ambiente per estendere l'ambito di competenze delle Regioni. I tecnocrati dell'Eni e la sinistra ritennero che la nuova nozione di ambiente, in quanto indeterminata e priva di contenuto giuridico, potesse annettersi di fatto le materie dell'art.9. Gli anni in cui si diffondeva in tutto il mondo la cultura ambientalista furono gli stessi anni in cui in Italia alcuni poteri essenziali dello Stato venivano trasferiti alle Regioni a statuto ordinario. Le leggi nazionali di trasferimento delle competenze e i singoli Statuti regionali parvero l'occasione per ridurre a unità paesaggio e urbanistica, fattori disgreganti che si sperò che potessero essere raccolti sotto la nuova etichetta di ambiente. Mancò ogni consapevolezza che, se realmente si voleva ricomporre una superiore unità che racchiudesse urbanistica, paesaggio e beni culturali, chiamandola ambiente, era indispensabile partire dall'art.9, armonizzandolo con le competenze regionali previste all'art.117. lOMoAR cPSD|4363525 La tendenza politica del momento fu l'opposto: forzare l'art.117, che attribuisce alle Regioni la materia urbanistica, per appropriarsi dell'ambiente inserendolo tra le materie di competenza regionale. Secondo la Relazione, i decreti delegati del primo decentramento hanno dato alle Regioni troppo poco, meglio sarebbe riconoscere alle Regioni l'unificato potere di pianificazione, meglio sarebbe unificare le competenze di tutta Italia e attribuirle in blocco alle Regioni. La nozione giuridica di ambiente venne intesa come chiave per unificare 'territorio' e 'urbanistica' e per far ingoiare il 'paesaggio', senza nemmeno esplicitarlo. Le Regioni a statuto ordinario si auto attribuirono poteri più ampi e in mancanza di direttive governative e di coordinamento tra loro, lo fecero confusamente e in ordine sparso: negli elaborati regionali poi approvati dallo Stato, quest'ultimo non è menzionato, la competenza regionale è definita come tutela o con sinonimi come difesa, salvaguardia, e non è mai ripresa la dizione di beni culturali ambientali lanciata da Franceschini. Nella Relazione Tecneco come negli Statuti regionali è evidente lo scontro tra la giusta esigenza di ricomporre la normativa su paesaggio, territorio e ambiente e la tendenza a farlo ponendo tutto in capo alle Regioni, nonostante l'art.9. II. Nome, negoziati, conflitti Situazione paradossale: da un lato, un governo che forza la Costituzione per allargare le competenze regionali includendovi i piani paesistici; dall'altro, le Regioni che la forzano per ottenere di più, mentre il governo difende le competenze residue degli organi statali → un braccio di ferro tra poteri diversi che negoziano i rispettivi terreni di competenza, senza trovare un tavolo d'intesa, ma giocando pericolosamente con concetti giuridici e plasmandoli a proprio piacimento. Avvenne il contrasto tra diverse interpretazioni della Costituzione alla Corte Costituzionale. Nel 1972, la Liguria presentò alla Corte Costituzionale un ricorso contro la residua competenza delle Soprintendenze per le autorizzazioni paesaggistiche: le regioni avevano la competenza sui piani paesistici di cui alla legge Bottai, di fatto lo Stato aveva riconosciuto che la materia urbanistica riguarda tutta l'attività diretta a regolamentare il territorio, anche in relazione alla conservazione e difesa dell'ambiente, anzi che le autorizzazioni paesaggistiche nelle aree vincolate riguardano la tutela del paesaggio sotto il profilo urbanistico. Perché dovrebbero esserci sul paesaggio competenze residue in capo al Ministero e alle sue Soprintendenze? Secondo la Liguria, la tutela del paesaggio non può essere confusa con la protezione delle bellezze naturali, e la nozione di urbanistica in realtà riguarda l'assetto dell'intero territorio. Non si può far rientrare l'ambiente nella generica e incerta nozione di bene culturale, e occorre ricondurre la tutela del paesaggio nel suo naturale alveo dell'urbanistica. La Consulta giudicò infondate queste denunce di illegittimità costituzionale. Pur riconoscendo alle Regioni la competenza in materia urbanistica, ribadì che il suo ambito non è stato ampliato in tal segno che in esso possa rientrare l'assetto dell'intero territorio e quindi dell'ambiente in generale e che va tenuta distinta la disciplina relativa alla tutela del paesaggio. Ribadì la competenza dello Stato anche su temi che esigono interventi di difesa dell'ambiente sorpassanti i singoli ambiti territoriali di ciascuna Regione. Alle Regioni restano trasferite solo le funzioni in materia agricola, forestale e urbanistica, nonché i piani paesistici della legge Bottai e la tutela di quella parte dell'ambiente connesso agli interessi dell'agricoltura. In questo duello due sono i punti degni di nota: • i contendenti utilizzano entrambi, piegandola a proprio favore, la nozione di 'ambiente' (ancora mal definita giuridicamente) lOMoAR cPSD|4363525 • la Consulta non riesce a risolvere la contraddizione insanabile rilevata e sulla quale i ricordi delle Regioni avevano insistito: se il trasferimento ad esse dei piani paesistici di cui alla legge Bottai è davvero giustificabile in nome dell'inscindibilità esistete tra attività urbanistica e tutela delle bellezze naturali, come è mai possibile scindere la materia urbanistica dalla tutela del paesaggio, attribuendo funzioni e competenze a soggetti pubblici diversi? La ripartizione delle competenze avveniva su base negoziale. N Non è solo la Relazione Tecneco, ma la stessa Corte Costituzionale che nel 1972 dimentica l'art.9 della Costituzione. III. Ambiente, paesaggio, bene comune La Corte Costituzionale, chiamata a derimere i conflitti fra Stato e Regioni, seppe oltrepassarne le strettoie e giunse ad elaborare una concezione giuridica di ambiente coerente col sistema di valori della Costituzione repubblicana, ma anche in linea con le più avanzate riflessioni sul tema a livello mondiale. La Corte doveva affrontare simultaneamente due problemi: • Precisare la gerarchia tra artt. 9 e 117 della Costituzione. • l richiamo alla nozione di ambiente, ancora mal definita e utilizzata da entrambe i fronti, richiedeva di precisarla: compito arduo poiché nemmeno era menzionata nella Costituzione. Entrambi i fini furono raggiunti con un intenso lavoro interpretativo imperniato sull'art.9 della Costituzione e in particolare sulla nozione di paesaggio come oggetto di tutela giuridica; ma anche sull'art. 32 della Costituzione (Diritto alla Salute). La Corte ricordava che la tutela di bellezze naturali formanti paesaggio è dall'art.9 inclusa tra i principi fondamentali della Costituzione, unitamente alla tutela del patrimonio storico ed artistico, quale appartenente all'intera comunità nazionale e pertanto non è trasferibile alle Regioni. In alcuni casi però, avviene che una legge urbanistica regionale tutelava le nostre coste meglio delle norme e strutture statali di tutela del paesaggio; un pretore si richiamava all'art.9 per giustificare e difendere chi aveva edificato abusivamente in questo tratto di costa: la Corte ammetteva a denti stretti che un tratto di costa può essere urbanistica e non paesaggio, ma lo faceva per proteggere la costa dal cemento. Nel 1985, la sentenza n.94 tracciò una concezione fortemente unitaria delle nozioni di territorio e di ambiente aggregandole a quella di paesaggio, a cui corrisponde un valore costituzionale è primario. La Corte accostò all'art.9 un altro valore costituzionale primario, il diritto alla salute di cui all'art.32; ribadì che, parlando di paesaggio, l'art.9 erige il valore estetico-culturale riferito anche alla forma del territorio a valore primario dell'ordinamento e che pertanto le Regioni sono obbligate a collaborare con l'amministrazione statale nell'attività di tutela; in nessun caso si può ritenere la disciplina paesaggistica primaria subordinata all'urbanistica o addirittura inclusa in essa. In quello stesso 1985, la legge Galasso, estendendo ampiamente le zone soggette a vincolo paesaggistico, aggravò il conflitto tra Stato e Regioni. Secondo alcune Regioni, con quella legge lo Stato stava invadendo la sfera regionale riassorbendo competenze specifiche in materia ambientale, in particolare sull'agricoltura e sull'urbanistica, già trasferite alle Regioni con il secondo decentramento; altre Regioni impugnarono la legge Galasso che dava al Ministero potere sostitutivo per i piani paesistici, in caso di inadempienza delle amministrazioni regionali. La Consulta respinse questi ricorsi. La nozione giuridica di ambiente si ebbe in 3 sentenze: I. n.167: la Corte adottò la formula di 'tutela ambientale del paesaggio' affermando che il patrimonio paesaggistico e ambientale costituisce eminente valore cui la Costituzione ha lOMoAR cPSD|4363525 V. Italia, Europa C'è la speranza che ciò che noi non sappiamo fare da soli ci venga in dono dall'Europa. Di fronte al labirinto di parole che impedisce ogni efficace tutela del paesaggio, molti invocano la Convenzione europea del paesaggio, sperando che da essa possa venire la soluzione dei nostri problemi. Si può affermare che la Convenzione europea sul paesaggio: a) non è un atto dell'Unione Europea, ma del Consiglio europeo; b) non è e non può essere sovraordinata alle leggi nazionali italiane in materia (Costituzione); c) non è comunque in grado di proteggere il paesaggio italiano meglio di quanto facciano le normative nazionali e regionali. La Convenzione europea sul paesaggio è stata un'iniziativa del Consiglio d'Europa, organismo più ampio dell'Unione Europea ma politicamente più leggero. L'Italia fu il teatro del lancio della Convenzione, avvenuta a Firenze nel 2000. L'enorme estensione territoriale coperta dalla Convenzione ne mostra al tempo stesso le ambizioni e limiti. La Convenzione definisce il paesaggio come una determinata parte di territorio così come è percepita dalle popolazioni, il cui carattere deriva dall'azione di fattori naturali e umani e dalle loro interrelazioni, e impegna i paesi membri a riconoscere giuridicamente il paesaggio in quanto componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità. La Convenzione si applica a tutto il territorio delle parti e riguarda gli spazi naturali, rurali e urbani e concerne sia i paesaggi che possono essere considerati eccezionali, sia i paesaggi della vita quotidiana, sia i paesaggi degradati, facendo coincidere il paesaggio con l'insieme del territorio, senza gerarchizzare le porzioni che meritano più attenta cura. Il testo della Convenzione si presta a interpretazioni secondo cui, poiché tutto è paesaggio, di fatto nulla lo è. Lungi dall'arrestare il fuoco amico tra Stato e Regioni, essa ha anzi accentuato le contese durante la redazione del Codice dei beni culturali e del paesaggio, quando qualcuno ha tentato di usare la Convezione come un'arma impropria contro l'art.9. La Convenzione non è una norma dell'UE, e non comporta in alcun modo un adattamento automatico da parte dell'ordinamento italiano. Si tratta di un trattato tra i Paesi membri del Consiglio d'Europa, che non pensarono mai di introdurre uno strumento normativo sovraordinato alle leggi nazionali, ma tentarono solo di promuovere in Europa la cultura della tutela, specialmente nei Paesi dove non ve n'era alcuna tracia. Lo stesso testo della Convenzione presenta contraddizioni assai marcate: siccome 'ciascuno finisce per avere il paesaggio che si merita', le responsabilità devono essere 'attribuite agli enti territoriali più vicini ai cittadini' → favore alle Regioni. E l'art.9? Fino a oggi interpretato secondo la legislazione italiana, ora dovrebbe essere riletto alla luce della legge italiana di ratifica della Convenzione europea. Opinioni che va capovolta: è la legge a dover essere interpretata secondo la Costituzione e non viceversa, poiché non può essere sovraordinata alla Costituzione. Mentre la legislazione ordinaria italiana ha creato un intricato sovrapporsi di competenze tra loro conflittuali, generando dissennati divorzi tra paesaggio, ambiente e territorio, nella prospettiva della Convenzione si è data per scontata l'equivalenza di paesaggio e territorio. lOMoAR cPSD|4363525 Il tortuoso sistema italiano è il prodotto del mancato raccordo tra legge paesaggistica (1939) e legge urbanistica (1942), che si è riflesso nel contrasto art. 9 e 117. e si è aggravato con le autonomie regionali e la modellazione del titolo V della Costituzione nel 2001. La Convenzione rappresenta un'istanza di ricomposizione VI. “Codice” 1, 2, 3 Il Codice dei beni culturali e del paesaggio è oggi la legge fondamentale di tutela. Il suo iter comincia con la legge 137 del 2002. Il Codice fu approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta del ministro Urbani e poi integrato e corretto del successivo governo Berlusconi e dal secondo governo Prodi. Il Codice prosegue la tradizione legislativa italiana in materia, inglobandone i tratti essenziali: è per molti aspetti una nuova formulazione delle due leggi Bottai (1939); ma ha dovuto naturalmente far perno sull'art.9 nonché includere altre norme, come quelle della legge Galasso (1985). Il Codice è dunque la prima legge organica in cui patrimonio e paesaggio vengano inclusi entro una cornice unica in sintonia con la Costituzione. Beni culturali e beni paesaggistici costituiscono nel Codice un insieme denominato 'patrimonio culturale', con espresso riferimento all'art.9: ad esso si riferiscono le definizioni di tutela e valorizzazione, due aspetti che concorrono a preservare la memoria della comunità nazionale e del suo territorio e a promuovere lo sviluppo della cultura. Nella seconda versione, venne specificato che la valorizzazione non deve essere mirata a far cassa, bensì a promuovere lo sviluppo della cultura. Il nucleo ispiratore dell'antico spirito di Rosadi è sopravvissuto; ma il Codice non ha potuto né affrontare né risolvere il nodo inestricabile creato dal mancato coordinamento tra legge sul paesaggio (1939) e quella sull'urbanistica (1942), un nodo che si è poi radicato nella Costituzione (1948) impantanandosi nelle contraddizioni del nuovo Titolo V. Intorno al tavolo di scrittura del codice ci fu un difficile dialogo tra il Ministero, i rappresentanti di Regioni Province e Comuni e l'opinione pubblica. Per un'efficace azione di tutela era necessario regolare due meccanismi diversi: da un lato il vincolo paesaggistico puntiforme, dall'altro la politica dei piani paesistici di larga estensione e respiro. Quella del vincolo consisteva nel ritagliare porzioni di territorio assoggettandole a vincoli particolari in nome del loro importante interesse pubblico, vietandone dunque l'edificabilità. Il regime dei vincoli sorresse anche l'impalcatura della legge Bottai del 1939, che tuttavia introduce in altra disciplina: quella dei piani territoriali paesistici. Ma lo strumento della pianificazione non entrò mai veramente in funzione perché non si provvide mai a definirne ruolo e competenze rispetto al sistema di piani territoriali previsto dalla legge urbanistica del 1942; anzi queste due anime della pianificazione ebbero entrambe la loro proiezione costituzionale del 1948 (art.9 e 117). Quando decollarono le autonomie regionali (1972), i decreti delegati assegnarono alle Regioni sia i piani territoriali di coordinamento della legge urbanistica, sia i piani territoriali paesistici della legge Bottai. Pareva un'occasione per ricomporre in uno le due anime della pianificazione ma non fu così. Il trasferimento alle Regioni dei piani paesistici bypassava tacitamente l'articolo 9 ma questa forzatura non fu portata fino in fondo. Il regime dei vincoli restò infatti in mano alle Soprintendenze e i piani territoriali paesistici entrarono in una sorta di limbo in una terra di nessuno: non vi provvedeva lo Stato perché erano state trasferite lOMoAR cPSD|4363525 alle Regioni e non vi provvedevano alle regioni perché non avevano sufficienti competenze sulle aree vincolate. La tutela del paesaggio in modo uniforme su tutto il territorio nazionale prescritta dall'art.9 non è mai stata totalmente efficace. Il sistema dei vincoli aveva trovato lenta e graduale applicazione, e le zone da vincolarsi venivano di volta in volta individuate e aggiunte alla lista per cura delle Soprintendenze e del Ministero; ma ogni tentativo di imporre nuovi vincoli nelle aree via via segnalate come di pubblico interesse veniva a scontrarsi con le volontà di regioni di mantenere pieno controllo sul territorio. Dilagavano intanto le costruzioni abusive e nel 1985 il governo Craxi approvò il primo condono edilizio. Le legge Galasso su una forte reazione a questa situazione ormai fuori controllo, estese grandemente le aree vincolate e rese obbligatori per le Regioni i piani paesistici o urbanistico- territoriali: in tal modo si agiva simultaneamente sulle due leve già presenti nella legge Bottai, il vincolo e il piano, e si tentava di ricomporre urbanistica e paesaggio. Nessuna Regione rispettò davvero l'obbligo di pianificazione rilanciato vanamente nel 1999 dal Testo unico, senza porre scadenze, cioè rituale meramente declamatorio. Inoltre né legge Galasso né il Testo Unico abolirono o limitarono il potere di subdelega dalle regioni ai comuni; la tutela delle Soprintendenze poteva dunque esercitarsi solo mediante il potere di annullare le autorizzazioni edilizie dei Comuni. Lo Stato con le sue soprintendenze aggrappato all'unico strumento residuo, il vincolo, e intento a difenderlo arroccandosi su qualche annullamento postumo delle autorizzazioni comunali. Gli strumenti di pianificazione in mano alle Regioni che intanto subdelegano ai Comuni il potere di autorizzazione paesaggistica. Lo strumento straordinario del condono che periodicamente garantisce l'impunità a distruttori del paesaggio. Questo il quadro entro il quale il codice ha dovuto agire. Partendo dalla coesistenza dei due strumenti, piano e vincolo, esso ha cercato di risolverne il potenziale contrasto uscendo dal vicolo cieco dello scontro frontale tra lo Stato titolare del vincolo e le Regioni titolari dei piani. Ha riconosciuto la priorità del piano come strumento per la tutela, ma non ne ha demandato ad esso l'intera responsabilità, e perciò ha rilanciato anche la gestione dei vincoli. Per il piano come per il vincolo, il Codice ha regolamentato una gestione condivisa, in cui tutte le istanze pubbliche possano lealmente cooperare tra loro. Nella sua prima redazione (2004) il codice dice che le soprintendenze in luogo del potere di annullamento a valle delle autorizzazioni comunali, furono chiamate a partecipare a monte alla redazione dei piani paesaggistici regionali. Ipotesi di azione concertata → una buona soluzione? no: infatti secondo questa versione del codice, la partecipazione delle Soprintendenze non era per nulla vincolante ma solo un'opzione vagamente raccomandata; le Regioni possono (e non 'devono') stipulare accordi col Ministero per l'elaborazione d'intesa dei piani paesaggistici. Né era vincolante il parere di merito su singoli progetti, espresso dalle Soprintendenze su richiesta di Regioni o enti locali, per quanto reso entro il termine perentorio di 60 giorni. Ma un parere opzionale e non vincolante delle Soprintendenze destinato a cadere nel vuoto aveva poco senso. Nella versione finale (2008) il Codice punta sulla cooperazione tra amministrazioni pubbliche per la conservazione e la valorizzazione del paesaggio. 'Le Regioni sottopongono a specifica normativa d'uso il territorio mediante piani paesaggistici, da elaborare in ogni caso congiuntamente tra Ministero e Regioni', coordinando strettamente fra loro la pianificazione paesaggistica e quello urbanistica. lOMoAR cPSD|4363525 CAPITOLO 7: NOI, I CITTADINI La gestione ambientale e paesaggistica in Italia è senza dubbio resa complessa da un problema di natura politica → La paralisi delle soprintendenze dopo che è stato emanato il codice dei beni culturali e ambientali. Nell'estate 2010 sono stati vietati o contingentati persino i viaggi d'ispezione dei funzionari nel territorio che dovrebbero controllare Questa paralisi si collega ad un altro fenomeno negativo, cioè la complessiva dei beni demaniali (bene pubblico in possesso dello stato). Sono demaniali i beni immobili dello Stato e delle altre amministrazioni pubbliche territoriali. I beni demaniali appartengono per definizione a tutti i cittadini, sono inalienabili e comportano il pieno, indiviso e gratuito uso pubblico. Essi vanno distinti dai beni patrimoniali pubblici, che possono essere non alienabili quando sono di inte- resse storico e artistico, oppure disponibili, ossia alienabili senza limiti. Lo statuto dei beni pubblici è complesso perché sono dispersi in mille rivoli. Sui beni demaniali si è attivato un dibattito in sede politica che avrebbe dovuto produrre uno statuto dei beni pubblici sul quale si è messa al lavoro un’apposita commissione. La Commissione Rodotà ha individuato alcune categorie fondamentali per organizzare la materia dei beni comuni: ● Beni sovrani ad appartenenza pubblica necessaria: ossia essenziali alla sovranità dello Stato (spiagge, strade, stazioni ferroviarie) ● Beni pubblici sociali, finalizzati attraverso un vincolo di scopo agli effetti misti sociali del disegno co- stituzionale come ospedali e scuole. ● Beni pubblici fruttiferi non vincolati necessariamente all'uso pubblico e perciò disponibili. La Commissione Rodotà ha lavorato dal 2007 al 2008. Tutto è caduto finora nel vuoto. Si è avviato un processo diametralmente opposto, che sotto l'etichetta di federalismo demaniale (recla- mizzato come restituzione ai legittimi proprietari) borseggia il portafoglio proprietario della cittadinanza e lo ridistribuisce a Regioni e enti locali utilizzandolo come una sorta di salvadanaio (legge Calderoli). lOMoAR cPSD|4363525
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved