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Riassunto per capitoli e sottocapitoli de "La Grande Guerra 1914 - 1918", Sintesi del corso di Storia Contemporanea

Riassunto efficace del manuale di Isnenghi e Rochat per capitoli e sottocapitoli, ideale per ripassare i concetti chiave senza dover leggere tutto il manuale.

Tipologia: Sintesi del corso

2019/2020
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Caricato il 27/06/2020

Shogunwiz
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Scarica Riassunto per capitoli e sottocapitoli de "La Grande Guerra 1914 - 1918" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Contemporanea solo su Docsity! LA GRANDE GUERRA- Mario Isnenghi, Giorgio Rochat Capitolo primo – Dalla pace alla guerra 1. La Grande Guerra come apogeo e crisi della società liberale 1.1 Mezzo secolo di progresso Il periodo della belle époque portò un incredibile sviluppo economico e culturale, un benessere sempre più diffuso, aspettative crescenti di agi per tutti. La divinità laica del progresso univa tutti gli europei che si rispecchiavano nel mito di se stessi come frutto di secoli di incivilimento umano. Si trattava di illusioni. Certo, nei decenni a cavallo tra i due secoli il positivismo e la scienza alimentarono la ricerca e le scoperte in ogni campo del sapere, la medicina, la chimica, le scienze naturali, sociali e i metodi d’analisi della psiche, del comportamento sia individuale che collettivo. Tutto in Europa appare in crescita e dinamizzato; l’uomo e il mondo sono conoscibili, trasformabili e dominabili con criteri razionali e benefici. Anche il lungo periodo di pace risalente alle guerre napoleoniche supportava questo pensiero, la regolazione dei contrasti con la violenza era vista come una pratica primitiva, indegna di popoli civili ed evoluti. In realtà le guerre erano state temporaneamente esportate ai confini dell’impero dell’uomo bianco (guerra dei boxer, guerra anglo-boera) ed è vero che una manciata di paesi europei avevano raggiunto un grado di benessere, sicurezza e stabilità politica mai conosciuto prima. All’interno delle grandi potenze i cittadini (o sudditi) divisi tra classi superiori e inferiori erano fiduciosi in un futuro sempre migliore, in particolare coloro che nelle classi inferiori erano organizzati e incoraggiati dai movimenti sindacali e politici della sinistra. Sono i socialisti della Seconda Internazionale, ben presenti in tutti i paesi europei. La socialdemocrazia, impiantata ormai nel mondo operaio, frutto necessario e temibile del capitalismo crescente, non è un animale parassitario, condivide anzi con i suoi antagonisti sociali e politici la fiducia nell’illimitatezza dello sviluppo, al termine del quale si intravede quel vago salto di qualità che il movimento proletario chiama “rivoluzione”. L’ottimismo storico è quindi condiviso da tutti, non solamente dalle classi più abbienti. Il liberalismo però non soddisfa più parte delle destre e la rivoluzione procastinata a tempi imperscrutabili non convincono più i giovani. Non per questo dobbiamo pensare che la guerra fosse voluta, ma questi segni di malumore sono indice dei limiti e delle contraddizioni dell’ottimismo su cui galleggia l’Europa d’anteguerra. 1.2 La disfatta dell’internazionalismo socialista La monarchia è l’unica classe che sembra non credere negli schieramenti e nelle passioni che gonfiano d’ira e commozione le folle patriottiche. Essendo quasi tutti imparentati tra loro, i sovrani sono estranei ai sentimenti di piazza, tanto che nel 1882 viene partorita dai diplomatici tedeschi, italiani e austriaci la Triplice, un’alleanza che non poggia certo su un’amicizia fra le nazioni e i popoli. Le persistenze dell’Ancien Régime fino alla prima guerra mondiale sono evidenti, sia nei vertici militari sia nella diplomazia, dove la classe aristocratica costituisce un contrappeso di spiriti sovranazionali rispetto agli spiriti nazionali cha accompagnano la crescita della borghesia come nuova classe dirigente. Ci sono quindi due internazionali, una capitalista che rimanda alla modernità e alla forza del presente, una aristocratica del sangue, che rimanda alla forza del passato e l’unica che si fa riconoscere con questo nome: l’Internazionale socialista. Quest’ultima dal 1864 punta a superare le frontiere nazionali, in contrasto con i movimenti nazionalisti e patriottici. La Seconda Internazionale, in vista della guerra europea, supera la prima in quanto trova nei marxisti della seconda e terza generazione l’ancoraggio teorico e nei sindacati e partiti socialdemocratici l’ancoraggio pratico organizzato, di cui le punte di lancia sono gli operai (o i braccianti, come nel caso italiano). È un processo di alfabetizzazione politica delle masse popolari che paradossalmente segue l’idea liberista e liberale secondo la quale l’individuo, operando per il proprio bene innesca benessere e sviluppo per tutti. La molla dell’interesse individuale e di classe fa progredire tutti. Il proletariato socialista impara cosi a pensare come un insieme, esattamente come le chiese sono un insieme di fedeli e gli stati-patria reclamano immedesimazione. Da questo insieme di gruppi ne escono incroci assai vari; teoricamente ognuno potrebbe assemblare e variegare se stesso ma in pratica sono gli stimoli e le obbligazioni esterne a plasmare l’individuo. Il partito politico intrecciato all’organizzazione sindacale è il più importante soggetto politico per l’operaio, il quale può imparare a sentirsi un “proletario” e informarsi nella lega, la camera del lavoro o nella sezione di partito. Infatti saranno molto più efficaci i partiti e i sindacati radicati nei diversi territori nazionali rispetto all’organo che pretende di coordinarli tutti su un piano sovranazionale ma che finirà per fare una cornice ideologica più che un’arma di lotta. Alla fine anche i partiti socialdemocratici finirono per assecondare la politica del governo del loro paese oppure a dichiararsi neutrali e non intervenire, come nel caso italiano (“né sabotare né aderire”). Questo sancisce la fine dell’internazionalismo. Il trionfo delle patrie delegittima il pacifismo, tutte le popolazioni partecipano alla volontà di guerra indipendentemente dalla classe sociale presa in esame. Le classi, anzi, si ricompongono nell’universo interclassista della nazione e l’autonomia di classe del soggetto sociale viene risucchiata da una volontà politica più vasta; in questo senso il soldato socialista veste l’uniforme del proprio paese e va al fronte come tutti gli altri cittadini. Se il partito socialista italiano rimane tutto sommato neutrale di fronte alla situazione altri partiti, come quello socialista francese, arrivano a supportare pienamente il governo centrale (union sacrée). In Italia solo Leonida Bissolati fa il ministro nei governi di guerra, ed è espulso nel 1912 dal partito come filogovernativo. Ovviamente possiamo spiegare questo fallimento anche con il drammatico sopraggiungere delle priorità, che chiama in campo intelletto, sentimenti, libertà e necessità. Vicende come quella di Mussolini e di tanti socialisti passati ai regimi contro cui avevano speso anni di militanza potrebbero essere lette nel segno del dramma storico più che in quello della farsa opportunistica. Ricordiamo poi che in Germania l’andamento del conflitto spacca la socialdemocrazia, nasce la corrente di opposizione chiamata Lega di Spartaco che insorge nel gennaio del ’19 e i suoi capi Liebknecht e Luxemburg vengono eliminati. Anche l’insurrezione di ottobre del ’17 in Russia rilancia l’internazionalismo in versione russa e sovietica, incarnando i sogni politici dei popoli europei. 1.3 Le Chiese dinanzi alla guerra La guerra sarà sorretta dalle Chiese nazionali. Soltanto in Francia e in Italia Chiesa e Stato sono separati, nel resto dei paesi cristiani i due soggetti dialogano e collaborano. Le persecuzioni religiose sono finite anche se un certo antisemitismo permane (in Francia con l’affaire Dreyfus, in Russia continuano i pogrom) ma le minoranze religiose sono in genere rispettate. Le Chiese sono combattute da tutti gli schieramenti politici nella loro partecipazione alla vita privata, si diffonde l’anticlericalismo e la decristianizzazione portati avanti dalla rivoluzione industriale ma il loro appoggio è ancora fondamentale grazie al loro pieno inserimento nelle realtà nazionali. Le Chiese luterane e anglicane erano tradizionalmente ben salde con lo Stato liberal-democratico, quelle protestanti erano ugualmente identificate con la patria e lo Stato, tanto che all’inizio del conflitto accetteranno la guerra “difensiva” proclamata dai loro governi. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica il Vaticano continuava a condannare l’evoluzione politico-sociale della rivoluzione francese che aveva fatto nascere i governi liberali (Sillabo, 1864) e aveva sviluppato un conflitto con lo Stato italiano, che cercava di destabilizzare con il non expedit, e col governo francese, contro il quale appoggiava le destre conservatrici. Il modello per il Vaticano era l’alleanza Trono-Altare mondiale vedrà contrapporsi regimi politici ed economici profondamente differenti. Durante la prima guerra mondiale la patria viene esasperata fino a diventare elemento di sopraffazione delle altre patrie e la demonizzazione del nemico porta all’esasperazione delle diversità e alla negazione degli elementi comuni col nemico. Poiché il conflitto sul campo non ha la risoluzione rapida che tutti si attendevano è richiesta la mobilitazione totale delle forze militari, economiche, sociali, culturali, assumendo l’aspetto di una brutale verifica della capacità di sacrificio e di durata di tutti i livelli dei belligeranti. 2.2 La rivoluzione industriale Dalla fine del Settecento in Inghilterra e dalla metà dell’Ottocento nel continente europeo e negli Stati Uniti prende piede la rivoluzione industriale. L’invenzione e la diffusione della macchina (la prima fu la macchina a vapore nel 1769) diedero origine al processo di accentramento della produzione in grandi stabilimenti, con un rapido aumento dei manufatti tessili, poi metalmeccanici, fino alla nascita di nuovi settori come la chimica e l’elettromeccanica. Aumentarono le possibilità di sfruttamento delle miniere, mettendo a disposizione dell’industria le materie prime necessarie e le ferrovie e la navigazione permisero il trasporto di uomini e mezzi a costi ridotti. Tutto ciò fu possibile grazie al parallelo sviluppo della finanza, tramite il sistema bancario, la società per azioni e le grandi concentrazioni capitalistiche capaci di influenzare il potere politico. Le condizioni disastrose in cui si trovavano i lavoratori portò molti di loro ad emigrare negli Stati Uniti o in Sudamerica, solo al prezzo di molte dure lotte i sindacati e i partiti operai ottennero salari e condizioni di lavoro decenti. Misuriamo il miglioramento delle condizioni di vita in base a due elementi: uno è il raddoppio della popolazione europea dall’800 al ‘900, l’altro è la forte adesione che registrarono i partiti socialisti alla guerra nel 1914, che dimostra come essi fossero bene integrati negli stati nazionali. Dal 1815 gli equilibri dell’Europa non erano cambiati, fatta eccezione per un ridimensionamento del potere francese a seguito della guerra franco-prussiana del 1870-71. L’Inghilterra, decisamente più ricca e influente rispetto alle potenze del continente, non perseguiva un’egemonia su quest’ultimo e si limitava a non far emergere alcuno Stato come potenza dominante. Quando la Germania divenne nel ‘900 la prima potenza continentale per sviluppo economico, per il suo esercito e con ambizioni di espansione politico-economica a livello europeo e oltre, la situazione cambiò. Gli Stati Uniti, nonostante fossero la prima potenza mondiale per la produzione industriale ed esportassero enormi quantità di cereali, non avevano un ruolo internazionale importante dato che il mercato interno aveva assorbito la crescita eccezionale e l’imperialismo statunitense si andava sviluppando verso l’America centrale e il Pacifico, senza entrare in contrasto con quello delle potenze europee (ad eccezione della Spagna, 1898 guerra che toglie Cuba e le Filippine alla Spagna). L’atteggiamento europeo era di considerare l’America come un paese di scarso interesse e gli americani un “popolo di banchieri e bottegai”, privo di capacità guerriere. 2.3 Gli imperi coloniali Il ruolo dominante dell’Europa era dimostrato dagli imperi coloniali dei suoi stati, che ricoprivano buona parte del mondo. Il primo impero coloniale fu quello spagnolo nelle Americhe, basato sullo sfruttamento delle genti locali e delle risorse fino al suo collasso; quello olandese e portoghese, concentrato sul commercio di beni di lusso con le regioni asiatiche e quello inglese, sicuramente il più grande e il più potente dato che inglobava paesi come l’India e l’Australia, ai quali venne concesso uno sviluppo limitato in funzione degli interessi industriali britannici. La superiorità tecnologica ed economica inglese era il collante di questo enorme impero. L’Irlanda era una colonia inglese dal Seicento, sfruttata e svuotata dall’emigrazione verso gli Stati Uniti, percorsa da movimenti di rivolta che nel 1916 porteranno alla rivolta di Dublino, il successivo riconoscimento di stato indipendente ad eccezione della parte settentrionale. I possedimenti olandesi (attuale Indonesia), spagnoli e portoghesi (Africa) erano minori. La Francia aveva iniziato a conquistare nel 1830 l’Algeria, dove oltre un milione di francesi si era trasferito. Fino al 1870-80 l’unico impero coloniale importante era quello britannico, poi gli altri stati europei iniziarono una corsa frenetica per occupare più territori possibile. La Francia conquistò l’Indocina e vaste regioni africane, il Belgio si assicurò il Congo, la Germania ottenne qualche possedimento in Africa e posizioni strategiche nel Pacifico, inferiori a quelle francesi. L’Austria-Ungheria aveva ambizioni nei Balcani e la Russia era assorbita dalla valorizzazione della Siberia e dallo scontro col Giappone, che nel 1904-5 sconfisse la Russia. L’Italia ottenne dei piccoli territori in Eritrea e in Somalia, ma la sconfitta di Auda 1896 arrestò le ambizioni italiane. Nel 1911 iniziò l’occupazione della Libia, conclusa nel 1931. Le colonie erano ormai uno status symbol e la corsa alla conquista dei territori liberi ebbe motivazioni prima politiche e poi economiche, infatti non erano molte le regioni ad essere ricche di risorse naturali come il Congo o l’Indocina. Anche se può essere letto come un modo per contrastare l’Impero britannico, la corsa alle colonie ebbe un carattere di sopraffazione e di razzismo proprio di tutto il colonialismo e destabilizzò società e sistemi economici africani e asiatici. 2.4 Un’Europa nuova e pronta per la guerra Gli avanzamenti della civiltà liberale e della rivoluzione industriale resero possibile una guerra cosi lunga e cruenta, anche se non dobbiamo pensare che tutto marciasse necessariamente verso la guerra dato che gli avanzamenti della civiltà liberale e della rivoluzione industriale esprimevano vitalità e una ricchezza di aperture e conquiste. L’importanza dell’industria nei vari paesi è imprescindibile, lo si vede dal modo in cui cambiano e si ingrandiscono le città e il peso crescente che l’industria ha per la prosperità della nazione. La sua concentrazione nelle mani di un ristretto numero di imprenditori e di banchieri danno a questi ultimi un’influenza sulle decisioni politiche che controbilancia le conquiste delle democrazie parlamentari e dei partiti di massa. L’industria era poi divisa dall’utilità di una politica protezionistica e la necessità di vendere e comprare su mercati mondiali, soprattutto per procurarsi quelle materie di cui il proprio paese non disponeva (zinco, rame, nichel…), che sarà un problema chiave per la Germania durante il conflitto. La difficoltà di cogliere la profondità delle trasformazioni in corso è attestata dal fatto che nessuno aveva previsto il ruolo determinante che l’industria avrebbe avuto durante il conflitto, tutti credevano sarebbe durato poco e sarebbero state usate armi e munizioni immagazzinati nei tempi di pace. In realtà è proprio la capacità industriale che superò ogni aspettativa (conversione delle fabbriche per l’economia di guerra) e grazie al superamento dei problemi di costo e concorrenza, perché lo Stato diventava l’unico acquirente, la rapidità e la quantità delle forniture fu tale da poter mandare avanti il conflitto per 4 anni. Un’altra conseguenza della rivoluzione industriale fu la trasformazione dell’agricoltura. Grazie ai mezzi di trasporto poco costosi fu possibile importare cereali, carne e foraggi dalle grandi pianure russe, argentine e nordamericane, incrementando la popolazione grazie al miglioramento delle condizioni di vita. Grande impulso anche al settore dei trasporti grazie a ferrovie (comunicazioni interne) e alle navi con scafo metallico e motore a vapore che ridussero la distanza tra i continenti. Gli eserciti pianificarono l’uso delle ferrovie per la mobilitazione e il trasporto alla frontiera delle truppe. Una delle cause della staticità dei fronti fu proprio il volume di approvvigionamenti quotidiani necessari che solo le ferrovie potevano garantire. Anche lo Stato dovette innovarsi per sfruttare al massimo il suo potenziale. Per la coscrizione obbligatoria, nata con la Rivoluzione francese, fu necessario creare un’anagrafe pubblica, una burocrazia militare e corpi di polizia capaci di un controllo capillare dei cittadini e della ricerca di renitenti e disertori. Occorse poi un’evoluzione culturale che facesse percepire il servizio di leva come un dovere verso lo Stato più che un’imposizione, rendendolo socialmente accettato nonostante la gravosità. Altri interventi dello Stato furono le vaccinazioni di massa, normative igieniche, la legislazione sociale, controlli sull’industria, la diffusione della scuola elementare e tecnica. Crebbe la partecipazione dello Stato e degli enti locali all’economia e alla vita dei paesi con la creazione delle infrastrutture necessarie allo sviluppo, l’introduzione di un sistema fiscale articolato, la regolamentazione del commercio, dell’urbanistica, dell’istruzione universitaria. Insieme cresceva la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica attraverso partiti e sindacati, parlamenti e amministrazioni locali, associazioni politiche, culturali e assistenziali. La necessità degli Stati di intervenire in modo cosi capillare in una situazione di emergenza concesse ai governi poteri quasi dittatoriali, con parlamenti largamente esautorati e i diritti politici dei cittadini sospesi di fatto. Le classi dirigenti si identificavano con gli Stati che avevano voluto e creato e facevano del patriottismo la loro bandiera, per questo inizia il cosiddetto processo di “nazionalizzazione delle masse”. Lo Stato era però estraneo ai contadini e il proletariato organizzato si opponeva. Qui le differenze nazionali sono rilevanti, in Italia ad esempio nel meridione e in pianura padana i contadini erano riottosi, in confronto ad altri paesi dove questi erano inquadrati e obbedienti. L’esito è però l’obbedienza e la capacità di sacrificio di cui diedero prova i soldati di tutti gli eserciti. I contadini avevano una radicata educazione all’obbedienza e al dovere, rafforzata dall’opera delle Chiese che si traduceva in un senso di rassegnazione e di fedeltà allo Stato più o meno convinta. I valori nazionali penetravano nel mondo contadino tramite la scuola elementare e il servizio militare obbligatorio, anche qui, con le dovute osservazioni del caso. La campagna francese è patriottica, quella tedesca è inquadrata e subordinata, quella italiana è disomogenea e il movimento socialista contesta la cultura dominante contrapponendo l’internazionalismo proletario agli eserciti e al loro ruolo di classe. Alla fine però, sempre con le dovute osservazioni del caso, il risultato è che il socialismo si integra con la visione patriottica e la guerra nazionale “difensiva” è accettata anche dai maggiori partiti socialisti europei. La nazionalizzazione delle masse operaie e contadine troverà compimento durante il conflitto, in circostanze eccezionali. 2.5 La guerra come frattura nella storia europea Nonostante nel 1919 alla firma del trattato di Versailles i vincitori obbligarono la Germania a riconoscere di aver voluto e provocato la guerra, il dibattito su questo tema ha un’importanza relativa perché la colpa non può essere addossata ad un solo Stato (nonostante sia vero che Germania e Austria-Ungheria aggredirono nell’estate 1914, ma la corsa verso la guerra fu comune). Tutte le potenze piegarono i valori della civiltà liberale ai loro interessi personali, la responsabilità maggiore si può al massimo attribuire alle nazioni più ricche e potenti che erano in grado di scatenare un conflitto cosi grande ovvero Germania e Inghilterra. È anche vero che la rivalità anglo- difensiva ma anche alla discontinuità dei progressi tecnologici; la guerra di movimento sarà possibile con la motorizzazione su larga scala nel 1939. 3.4 Le flotte Intorno alla metà dell’Ottocento cambiò anche la guerra navale. Vennero sostituiti gli scafi di legno con quelli di ferro e la portata dei cannoni poteva ormai raggiungere anche 20 chilometri, rendendo impossibile il combattimento ravvicinato. Le navi maggiori venivano ricoperte di corazze mentre quelle minori vennero rilanciate con le torpediniere e i cacciatorpediniere. Per ultimo apparve il sommergibile. L’Inghilterra aveva ancora la flotta più potente, favorita dalla distruzione della flotta spagnola a opera degli americani e di quella russa nella guerra contro il Giappone, con il quale nel 1902 fu stretta un’alleanza. Nel 1904 strinse un accordo con la Francia, unica potenza che aveva tentato di concorrere con la forza navale inglese. Durante la guerra la marina statunitense pareggiò quella britannica ma era concentrata sul dominio dell’America centrale e del Pacifico. Per quanto riguarda la Germania venne deciso di costruire una flotta che permettesse al paese di condurre una politica di potenza adeguata. Gli stanziamenti furono resi possibili grazie agli interessi della grande industria per la quale i cantieri navali erano un affare. La comparsa di un nuovo tipo di corazzata, la dreadnaught, costrinse le flotte di ogni paese a modernizzarsi. Allo scoppio della guerra l’Inghilterra deteneva comunque il primato navale anche se la Germania poteva schierare 16 corazzate. La costruzione della flotta tedesca non aveva messo in crisi il primato inglese ma aveva sicuramente contribuito a scatenare tensioni e passioni che portarono al conflitto mondiale. Tutte le altre flotte ebbero ruoli secondari, quella francese rinforzava la superiorità inglese e quella italiana avrebbe potuto solo subire in caso di guerra con l’Intesa, senza poter impedire il blocco del traffico mercantile, fatto che pesò nelle decisioni del 1914-15. 3.5 L’illusione della guerra breve Che la guerra europea sarebbe stata breve era una certezza generale di ambienti militari, economici, politici, stati maggiori e governi, studiosi di guerra e scienziati, furono poche personalità isolate e sostenere che la guerra sarebbe stata lunga, con perdite e costi immensi e senza una vittoria decisiva ma furono considerati eccentrici visionari. Si credeva, infatti, che gli stati nazionali non sarebbe riusciti a mobilitare milioni di uomini per lunghi periodi di tempo, privando l’industria e l’agricoltura della forza lavoro, infatti nessun governo aveva preparato la mobilitazione civile ed economica per sostenere una guerra più lunga di qualche mese. Un’altra falsa convinzione era che la guerra sarebbe stata di movimento e che l’offensiva sarebbe penetrata in profondità. Il modello preso in considerazione era quello della guerra franco-prussiana del 1870-71, dove il conflitto si era risolto in poche settimane con la distruzione dell’esercito francese. In realtà si sarebbe potuto prevedere la bassa garanzia di vittoria, si tratterebbe quindi di un autoinganno o forse dell’incapacità culturale di cogliere appieno le trasformazioni in corso della società e degli stati, armamenti e industria. Riconoscere la portata di queste trasformazioni voleva dire ammettere che il progresso non era solo benefico e quindi mettere in discussioni i valori della civiltà liberale. Questa civiltà liberale era messa in discussione dai movimenti irrazionalisti, che opponevano alla fiducia nel progresso l’esaltazione di valori assoluti come il nazionalismo aggressivo, la guerra come dimensione etica e risolutrice e in campo militare l’offensiva a oltranza. 3.6 Mobilitazioni e piani di guerra Visto che l’idea era quella di un conflitto rapido e decisivo schierarsi in ritardo poteva significare la sconfitta. La mobilitazione, cioè il completamento dei reparti per metterli in grado di affrontare la guerra, era solo il primo passo per portare le unità alla frontiera. La programmazione di migliaia di treni per lo spostamento di uomini, mezzi e rifornimenti era necessario e richiedeva un calcolo fin nei minimi particolari. Dal momento che la mobilitazione era iniziata era impossibile per i governi cambiare idea in corso d’opera. Una volta dichiarata la mobilitazione era impossibile fermarla ed equivaleva alla dichiarazione di guerra. I governi avevano piani diversi di mobilitazione a seconda delle diverse ipotesi di conflitto ma era impossibile cambiare il piano, il governo si limitava a sceglierlo. La rigidità dei piani di mobilitazione fu uno degli elementi che facilitarono lo scoppio del conflitto, radicalizzando e accelerando le scelte dei governi. Secondo la cultura dell’epoca politici e militari avevano ruoli ben separati, in tempo di pace i secondi erano subordinati ai primi ma dal momento in cui scattavano le dichiarazioni di guerra la direzione delle operazioni spettava soltanto agli stati maggiori. Questo sistema era adatto alle guerre di breve durata e causerà dei contrasti. Gli stati maggiori erano ovviamente influenzati dalla situazione politica anche se erano autonomi. In Francia si adottò il piano XVII, un’unica, grande offensiva sulla fascia fortificata di confine con la Germania e si risolse in un fallimento. L’Austria, in base agli accordi con l’alleato tedesco, avrebbe dovuto avere un ruolo difensivo contro il nemico russo, invece lo stato maggiore austriaco preparò un’offensiva contro l’esercito serbo, per raggiungere le aspirate conquiste nei Balcani. I russi avevano bisogno di tempi lunghi per la mobilitazione, quindi decisero prima di attaccare la Germania per venire in soccorso all’alleato francese e aspettare la piena mobilitazione per schiacciare austriaci e tedeschi con le loro grandi masse. Per quanto riguarda la Germania, l’esercito tedesco era sicuramente il migliore per addestramento, materiali, disciplina ed era secondo solo alla Russia per il numero. L’obiettivo era quello di liquidare la Francia in poco tempo e di rivolgersi poi alla Russia. Il generale Alfred von Schlieffen, capo di stato maggiore dell’esercito tedesco nell’anteguerra, giunse nel 1905 a concludere che invadendo Belgio e Lussemburgo con la maggior parte delle forze avrebbe potuto aggirare i francesi e sconfiggerli rapidamente. La neutralità del Belgio fu violata nonostante fosse riconosciuta dalla Germania proprio per la libertà degli stati maggiori e il loro disinteresse riguardo alle conseguenze politiche. C’è da dire che in altri paesi non si arrivò a violare la neutralità di uno stato ma in Germania il prestigio dei generali e l’appoggio assicurato loro dall’imperatore, unito alla larga approvazione dell’opinione pubblica, fecero si che si procedette. Questo ebbe importanti conseguenze politiche soprattutto per la propaganda inglese antitedesca, alla quale fu facile dipingere l’avversario come il barbaro invasore di un popolo neutrale. Il piano Schlieffen fallì perché si sottovalutò la possibilità di una contromanovra francese e i generali tedeschi sopravvalutarono il loro controllo sulle enormi masse costrette a muoversi a piedi, ma fu il capolavoro della cultura militare prebellica per l’audacia strategica, la preparazione, la tenuta delle truppe e anche nella dimostrazione del suo fallimento, perché le gambe degli uomini e dei cavalli non potevano contrapporsi allo sviluppo tecnologico in molti settori decisivi. 4. L’estate del 1914 4.1 Le dichiarazioni di guerra Il 28 giugno 1914 a Sarajevo l’irredentista serbo Gavrilo Princip compie l’attentato contro l’erede di Francesco Giuseppe, l’arciduca Francesco Ferdinando. Nei giorni successivi sembra che l’entrata in campo di ogni paese sia la scelta obbligata e le mediazioni diplomatiche vengono bruciate. L’Italia fa eccezione, dopo aver deciso di non seguire i suoi vecchi alleati nella spirale delle dichiarazioni di guerra passa i successivi dieci mesi a scegliere con chi, quando e perché entrare in guerra. Negli altri paesi non avviene nulla di simile, l’Austria lancia un ultimatum alla Serbia il 23 luglio, non esistono margini di trattativa e il 28 la minaccia diventa dichiarazione di guerra. Il 29 e il 30 la Russia risponde con la mobilitazione e la contromobilitazione dell’Austria contro la Russia il 31 luglio. Il primo agosto è pronta la dichiarazione di guerra tedesca nei confronti dello zar mentre avanza a occidente e invade il Lussemburgo il 2 agosto. Mentre i due Imperi centrali attuano la manovra aggressiva, il terzo alleato si dissocia e si sgancia con la dichiarazione di neutralità del governo italiano. Il 3 agosto il Belgio viene invaso e la Germania dichiara guerra alla Francia e il 4 la Gran Bretagna risponde. Il 6 l’Austria dichiara guerra alla Russia; il 9 e il 13 Francia e Inghilterra sono in guerra anche con l’Impero austro-ungarico e gli schieramenti sono fissati. Dal 7 agosto i tedeschi occupano Liegi, il 20 Bruxelles e il 3 settembre Reims e ad arrivare a 35 chilometri da Parigi. 4.2 La “comunità di agosto” Allo scoppio del conflitto tutti i paesi che entrarono in guerra dovettero controllare l’opinione pubblica in modo che mantenesse l’ordine e convincesse che appoggiare la guerra era la cosa giusta. Oltretutto bisognava legittimare l’uccidere e l’essere uccisi in uniforme e farlo apparire come un sacro dovere. Ognuno giustifica la propria guerra come difensiva. Da quel che sappiamo dai memorialisti successivi e dagli osservatori dell’epoca le reazioni nei vari paesi furono all’incirca le solite, è la “comunità di agosto”, dalla quale resta fuori l’Italia, ma che nel maggio del 1915 viene vissuta nel solito modo. Il racconto di un’entrata in guerra radiosa è sicuramente accompagnato da un velo di favola ma è altrettanto vero che nessun paese sembra spaccato cosi profondamente tra interventisti e neutralisti. L’inesistenza o la rarità di voci alternative favoriscono l’unificazione e le semplificazioni sentimentali. In Francia dopo l’uccisione da parte di un nazionalista del capo socialista Jean Jaurès, apertamente contro la guerra, il movimento operaio non si rivolta e nemmeno si dissocia, ma la sua voce semplicemente scompare e l’union sacrée va avanti comunque. L’atmosfera di unione verso il comune nemico di ogni cittadino fa si che vengano appiattite le differenze di cultura, di partito, di condizione e anche di età. È analoga la cessione del passo dai civili ai militari, il cui luogo simbolico è la stazione ferroviaria. 4.3 La neutralità dell’Italia L’entrata in guerra dell’Italia a fianco dell’Intesa non fu una decisione scontata e nei mesi ci furono dubbi e ripensamenti, anche all’interno della parte che per pregiudizio era contraria ad entrare in guerra. Vittorio Emanuele Orlando, membro in posizione autorevole nei tre governi di guerra e, insieme a Sidney Sonnino, rappresentante della sua continuità, si distacca da ciò che nella rappresentazione di Antonio Salandra gli appare come frutto di programmazione consapevole e finalismo. 1.3 La guerra sui mari La guerra sui mari fu una questione anglo-tedesca dato che la flotta francese e quella italiana erano bloccate nel Mediterraneo e quella Russa non poteva uscire dal Baltico e dal Mar Nero. La flotta inglese aveva l’obiettivo di dominare la Manica e di distruggere la flotta tedesca da battaglia. L’Inghilterra attuò un blocco navale a distanza a causa delle forti difese dei porti tedeschi del mare del Nord. Non cercarono mai una grande battaglia decisiva, si limitarono a tenere le navi tedesche bloccate nei porti, con azioni minori da entrambe le parti e incursioni nei porti con bombardamenti di dirigibili; l’unica battaglia maggiore senza peraltro effetti risolutivi fu quella dello Jutland, combattuta tra 31 maggio e primo giugno del 1916. Gli inglesi mantennero il controllo del traffico mercantile, indispensabile per l’alimentazione della guerra, mentre i tedeschi persero rapidamente le navi stazionate nei porti lontani e persero le colonie in Africa e nel Pacifico mentre la colonia in Tanzania fu difesa con una guerriglia fino al 1917. I tedeschi rinforzarono inoltre la flotta turca. Il dominio inglese sui mari permise di assicurarsi con una serie di accordi il limitare del commercio dei paesi neutrali con la Germania, il cui traffico mercantile era stato eliminato, facendo pesare sul nemico la carenza di prodotti agricoli e necessari per l’industria bellica. Alcuni paesi confinanti con la Germania come la Svezia continuarono a vendere materie prime. Nel 1915-16 la Germania aveva problemi di approvvigionamento alimentare e materiale e si dovette insistere con le operazioni militari nei Balcani per assicurarsi territori importanti per i rifornimenti. L’arma più efficace in mano alla Germania per rispondere sui mari era il sommergibile. Inizialmente venne usato rispettando le regole dei trattati internazionali, silurando senza preavviso le navi da guerra ma assicurandosi di colpire i rifornimenti nemici e salvando l’equipaggio nel caso di mercantili. Questo provocò vari incidenti con i paesi neutrali, dei quali il più famoso è l’affondamento del transatlantico statunitense Lusitania. La Germania si giustificò con lo strangolamento da parte inglese delle sue importazioni ma l’opinione pubblica si commuoveva di più per dei la morte di civili che per i sequestri delle navi mercantili. Il tonnellaggio affondato fino al 1915 rimase comunque basso date le prestazioni limitate e lo scarso numero di sommergibili tedeschi. Dopo una interruzione fino al febbraio del 1916 degli attacchi senza preavviso la marina tedesca riprese ma dovette di nuovo rinunciarvi in maggio, di fatto aumentando il tonnellaggio affondato ma senza mettere in crisi il traffico britannico. 1.4 Le operazioni del 1915 La stabilizzazione del fronte occidentale poneva il problema di come continuare la guerra. Joffre e John French (comandante britannico in Francia poi sostituito da Douglas Haig) non avevano dubbi: reclamare tutte le risorse disponibili in uomini e mezzi e sferrare continui attacchi per consumare il nemico. In realtà gli attacchi si svolgevano tutti con i soliti risultati, pochi chilometri di trincea guadagnati e perdite sempre maggiori. Agli attacchi maggiori i comandanti incoraggiavano anche offensive secondarie e colpi di mano e nonostante la fiducia incrollabile di Joffre le perdite francesi erano spaventosamente più alte di quelle tedesche: nel 1915 i francesi persero circa la metà dei 2.600.000 uomini al fronte tra morti, feriti e ammalati. La condotta tedesca è invece più attenta, Falkenhayn ordina una difesa rigida e aggressiva per mantenere le posizioni, cura armamento e munizioni, fa costruire trincee resistenti e tiene i suoi uomini ben riforniti, in modo da poter spostare rinforzare il fronte orientale e liquidare i russi. I russi premevano infatti su un fronte lunghissimo. Tra gennaio e aprile del 1915 attaccarono sui Carpazi e furono respinti a stento da austriaci e tedeschi, a nord furono invece respinti da una controffensiva di Ludendorff. Il 2 maggio del 1915 gli austro-tedeschi lanciarono una grande offensiva con mezzi potenti tra Gorlice e Tarnow, in Polonia meridionale, spingendo al crollo l’esercito russo e conquistando entro metà agosto tutta la Polonia. Ludendorff tornò all’offensiva a nord, dove respinse i russi su una linea che andava da Riga al confine romeno. Anche se Ludendorff chiedeva altre truppe per costringere i russi alla resa, Falkenhayn gliele negò per paura di sguarnire troppo il fronte occidentale ma la Russia fu comunque relegata ad un ruolo secondario a causa delle perdite di equipaggiamento non rimpiazzabile. A questo punto con un attacco congiunto di austro- tedeschi e bulgari venne liquidata la Serbia e gli anglo-francesi stabilirono una testa di ponte permanente a Salonicco, di scarsa importanza strategica. Falkenhayn aveva raggiunto i suoi obiettivi, il controllo di gran parte dei Balcani e la riapertura della via più diretta verso la Turchia, ritirò quindi parte delle sue truppe e preparò l’offensiva di Verdun. 2. L’Italia dalla neutralità all’intervento 2.1 Le forze in campo Al centro e a destra i liberali e i cristiani costituiscono un blocco moderato che copre uno spazio sociale e politico larghissimo e che alle elezioni del 1913 ha dato prova del fatto che non si può fare molto contro o senza di loro. All’interno abbiamo uomini che guardano a sinistra come Giolitti e uomini che guardando a destra come Sonnino e Salandra. Nel paese incontriamo piccola e media borghesia radicale, uomini delle professioni abbastanza fluttuanti come collocazioni e orbitanti nell’area di influenza giolittiana. Seguono i repubblicani, non più numerosi dei radicali ma con una storia alle spalle e un’identità pronunciata, poi i riformisti ormai fuori dal Partito socialista, che si è ormai affermato come il partito della sinistra, sia nelle istituzioni parlamentari e locali, sia per i suoi collegamenti con il mondo sindacale e con le masse. Più a sinistra del Partito socialista in parlamento non c’è nessuno, ma in certi settori del paese si: gruppi di estrema sinistra spesso fuoriusciti dal Partito socialista come i sindacalisti rivoluzionari e i gruppi anarchici. In realtà questi gruppi politici mancano tutti di omogeneità nazionale. Nemmeno i socialisti o i cattolici sono cosi coesi e mancano di rappresentatività e penetrazione sociale. I luoghi delle dove si forma la decisione di entrare in guerra siano stati la corte, il governo e in particolare il ministero degli Esteri. I primi a schierarsi sono i repubblicani da una parte e i nazionalisti dall’altra, questi ultimi trasformano in scelta netta a favore della guerra gli iniziali riflessi d’ordine filogermanici e triplicisti. I repubblicani che hanno predicato per mezzo secolo l’irredentismo, Trento e Trieste italiane, hanno finalmente modo di rinverdire il loro ruolo storico e attuale. Anticipano i tempi di una guerra di volontariato che già in Francia aveva fatto raccogliere nel 1914 da Peppino Garibaldi qualche migliaio di volontari, ma il paese, come del resto l’Italia, era poco disposto ad accettare le inflessioni politiche eversive delle loro Camicie rosse. Gli irredentisti cercano di provocare casus belli con sconfinamenti e scontri di frontiera, tentando di forzare la mano al governo Salandra. Quest’animo neogaribaldinista dei repubblicani incontra la diaspora dell’estrema sinistra: ex comunardi, anarchici e i leader sindacalisti rivoluzionari come Filippo Corridoni, alla testa di gruppi di proletariato organizzato. Questi polemici rispetto alla Cgl e al partito frantumano lo scenario politico in definizione a sinistra e in ottobre e novembre si aggiungerà a tutto questo il carisma di Mussolini. I neutralisti sono inizialmente di più degli interventisti, soprattutto guardando ai loro referenti politici. Se inizialmente sono quattro, nel 1915 si riducono a due (socialisti e liberali giolittiani, mentre dei cattolici è più difficile dire) e infine rimangono i socialisti. Il quarto referente politico sono i conservatori, il primo gruppo a diluirsi in un atteggiamento d’ordine, di cui fa parte il notabilato, la destra liberale, gli agrari e gli uomini d’ordine, coloro che non avrebbero visto male il rispetto della Triplice, tra cui Salandra stesso. Questi non sono mossi da ideali o dalla retorica ma stanno a guardare e ragionano in termini di calcolo e di convenienze. L’immagine che viene fuori dell’Italia è quella opportunista, come confessa Giolitti al direttore del quotidiano romano Olindo Malagodi, “Bisogna trovare modo di intervenire quando l’Austria sia caduta; intervenire pel testamento”. Anche il ministro degli esteri Sonnino aveva confessato a Malagodi cose simili, in particolare l’entrata in guerra il più tardi possibile ma non troppo tardi. Questo pragmatismo potrebbe essere definito geopolitica. Papa Pio X muore il 20 agosto 1914. Il 5 settembre gli succede Benedetto XV, l’arcivescovo di Bologna Giacomo Della Chiesa che si esprime a favore della pace sia per spirito umanitario sia per la tradizionale simpatia con l’Austria. Difatti il 24 settembre a Milano le organizzazioni cattoliche si dichiarano per la neutralità, il che indica l’indisponibilità a fare la guerra contro i vecchi alleati e a farla accanto a repubblicani, massoni, anticlericali e protestanti di Francia e Inghilterra. Il neutralismo cattolico assume varie forme: Guido Miglioli, organizzatore di punta dei contadini nel Cremonese, perpetrerà una neutralità dettata da un pacifismo assoluto a sfondo sociale e politico. Un’altra espressione del mondo cattolico è Alcide De Gasperi, deputatao cattolico del Trentino a Vienna come lo è Battisti per i socialisti. Nel marzo del 1915, quando è chiaro che l’Italia non potrà rimanere fuori dalla guerra, De Gasperi tornerà in Austria dove rimarrà fino alla fine del conflitto. La posizione dei cattolici rimane comunque poco definibile dai personaggi di spicco, De Gasperi era poi un uomo di frontiera. In realtà questi potranno dire di aver auspicato la pace ma di aver considerato la neutralità relativa, condizionata dalle decisioni del governo verso il quale erano i cittadini più ubbidienti. Finita l’epoca dell’astensione dal voto, i cattolici si sentono ormai italiani e hanno interessi e uomini nel sistema bancario, nei giornali, nei centri di potere, la guerra in Libia ha rilevato un nazionalismo cattolico. La terza componente dei renitenti alla guerra è quella dei socialisti, di partito e del sindacato. Inizialmente viene dichiarata la contrarietà alla guerra sia dalla piccola formazione riformista sia dal gruppo parlamentare del Partito socialista. Il 2 agosto , giorno della dichiarazione di neutralità, Bissolati scrive a Bonomi che “bisognerà preparare l’anima del proletariato alla guerra”. L’”Avanti” dichiara la neutralità mentre la direzione del partito, riunita con i dirigenti della Cgl e dell’Unione sindacale italiana, prospetta lo sciopero generale in caso di fallimento dell’opzione neutralista. Con la spaccatura interna dell’Usi, con l’ammorbidimento della Cgl e col passaggio da una sponda all’altra di Mussolini quest’arma verrà spuntata. Da qui alla dichiarazione dell’”Avanti!” della neutralità attiva il 18 ottobre vari esponenti dei socialisti prima austriaci e poi tedeschi incontrano i compagni italiani. L’incontro non ha però esito perché le sinistre italiane si dividono tra neutralità e simpatia per la Francia. Il 21 settembre Mussolini firma con Turati e Prampolini un manifesto che ribadisce l’ostilità di principio alla guerra e le classiche linee dell’internazionale. In questo il Partito socialista italiano è più duraturo rispetto ai fratelli maggiori degli altri paesi, ma già il 3 ottobre viene fuori che Mussolini ha dei ripensamenti. La stampa ci si butta e Mussolini, pur non essendo il rappresentante della maggior parte dei militanti, rappresenta la crisi di principi e orientamenti nel discorso pubblico sulla guerra. Il 20 ottobre Mussolini si dimette dalla direzione del quotidiano che torna nelle mani del partito. Mussolini fonda con i suoi sostenitori un nuovo giornale, il “Popolo d’Italia” e il 15 novembre esce il primo numero, con un pezzo di Mussolini, Audacia, che chiude con un inneggiamento alla guerra in quei tempi anormali. La retorica della nuova destra sul “dovere nazionale” si inserisce bene nella società italiana e lo vediamo dai contenuti e la forma di “Idea nazionale”, il quotidiano nazionalista romano che nel 1915 da, con i suoi toni antineutralisti, spazio al patriottismo sovversivo di D’Annunzio nel “maggio radioso”. 2.4 Forme di mobilitazione Negli anni precedenti il conflitto, in Italia, la politica si trasforma e infrange le regole notabilari, chiamando di continuo in causa il popolo e l’Italia, forzando o surrogando le istituzioni, le figure e i luoghi canonici della rappresentanza, anche se al governo stavano gli uomini che appaiono meno predisposti a questo mutamento, ma questo fa parte delle contraddizioni dell’ora. In questo crogiolo interventista 1914-15 sono ravvisabili i primi sintomi dello squadrismo e dell’autoritarismo fascista. In realtà le folle interventiste riunivano un po’ tutte quelle personalità che avranno a che fare col fascismo in misure differenti nel futuro (Amendola, De Ambris, i futuri dirigenti di giustizia e libertà e del Partito d’azione Carlo Rosselli, Lusso, Ferruccio Parri ma anche Gramsci e Togliatti non erano estranei a quel clima di rifondazione della politica). Persino un giornale espressivo della borghesia del costume e delle imprese come il “Corriere della Sera”, diretto dal liberal-conservatore Albertini, accompagna l’opinione del partito liberale dal neutralismo all’interventismo. La corrispondenza fitta tra Albertini e D’Annunzio, Luigi Barzini eccetera è simbolo della decadenza dell’informazione neutra e di quanto il senso di responsabilità nazionale orienti il rapporto con le notizie da parte di un giornale che vuole essere direttore di coscienza collettivo della classe dirigente borghese. Nasce “Il Popolo d’Italia”, con la pattuglia di fuoriusciti dal Psi chiamati a raccolta da Mussolini. Il peso della stampa come luogo di dibattito pubblico si nota anche dalla tribuna offerta da questa a uomini di cultura, solitamente relegati a sedi più riservate e pubblici più selettivi; persino Croce porta il dibattito sulla “Critica” e su “Italia nostra”, rivista sospetta di propensioni tripliciste, e concede diverse interviste ai quotidiani. La piazza passa da rosssa a tricolore, questo passaggio avviene nei mesi con una progressione di cortei, dimostrazioni, scritte, inni e canzoni, scontri con la polizia e con i socialisti, che alla fine portano al rovesciamento delle parti, alla espropriazione politica dei luoghi pubblici di riunione, alla riduzione in periferia dei neutralisti ancora disposti a rischiare la manifestazione pubblica. Questa alfabetizzazione politica accelerata è condizionata dalla componente generazionale e geografica dei luoghi. La piazza è sentita ancora per tanti versi contro e non sempre e solo per. Le sue pressioni promettono l’obbedienza ma non escludono le minacce e tengono il ricatto di riserva, d’altronde appena a giugno molti di quelli che componevano quelle folle avevano proclamato le microrepubbliche della Settimana rossa. Un altro capitolo della messa in scena della politica e del mutamento di referenti e fini, in questo caso della sinistra, è l’attività di Battisti. Percorre la penisola facendo comizi pubblici nei quali cerca di convincere che l’”ora di Trento” è suonata e che un socialismo bene inteso non può ignorare le radici nazionali e le ragioni dell’appartenenza. Battisti annuncia che l’Italia va ridefinita secondo paramentri territoriali più estesi e che vadano ridefiniti i rapporti interni, sociali, politici fra classe e nazione, popolo e patria, pace e guerra. Tratto comune a tutte le nuove modalità di espressione della politica è il fatto che gli attori principali sono giovani e giovanissimi, che rappresentano la primavera della politica. Dalle medie all’università le scuole fanno da cassa di risonanza e da luogo di gestazione e agitazione della prassi e della retorica del mutamento. La nuova e nuovissima generazione, ancora alla ricerca di se stessa, sente i bisogni di distacco dalla routine familiare e scolastica e sente il bisogno di autoaffermarsi. Corridoni, Battisti, Mussolini, D’Annunzio sono i leader di questo movimento che tende a far coincidere il pubblico e il privato, l’impeto della giovinezza con quello attribuito alla nazione. Molti di coloro che negli anni Venti e Trenta saranno uomini fatti ricorderanno nelle biografie quegli esordi indimenticabili. 2.5 Trentini e triestini L’annessione di Trento e Trieste è sempre stato l’argomento per la legittimazione del conflitto più di punta, nonostante sia il risultato di forzature ideologiche. Basti pensare che oltre 60.000 triestini vestono la divisa austro-ungarica. Negli ultimi anni si è cercati di uscire dalla retorica unanimista di un irredentismo stampato dall’esterno addosso ai territori-simbolo dell’idea nazionale italiana, anche grazie alla dettagliata storiografia locale. Gli Stati che si contendono la fedeltà di quei sudditi di frontiera rimangono sullo sfondo rispetto alla storia sociale, ovvero della psicologia collettiva e la vita della gente comune in tempo di guerra. Le valli del Trentino rurale esprimono voti di cattolici, conservatori e moderati e vivono in una relativa autonomia all’interno dell’Impero. Il deputato socialista di Trento ha deposto ogni speranza di mediazione e punta tutto sulla guerra e l’annessione al Regno d’Italia. Molte resistenze si oppongono a questo, gli austriacanti e coloro che si riconoscono come trentini veri e propri e affidano alla Chiesa cattolica la tutela di valori e orizzonti più vasti. I fenomeni di irredentismo, fuoriuscitismo e volontarismo non sono da sottovalutare, né si può sostenere che i 60.000 che sono arruolati nell’esercito giallo-nero siano tutti di sentimenti austriaci. Difatti la diserzione fu un fenomeno esteso su tutti i fronti, sul fronte italiano i militari che fuggono dall’esercito austriaco e si consegnano al nemico sono slavi e soprattutto boemi, sul fronte orientale, nella Russia polietnica, dove le identità e le gerarchie fra popoli e nazioni appaiono in ebollizione e dove la rivoluzione instaura nuove variabili di classe e di partito, disertano molti italiani di Trieste e del Litorale. Seconda una recente inchiesta I prigionieri dello Zar le identità nazionali hanno subito un processo di accelerazione nei campi di prigionia del fronte orientale, ricchi di etnie diverse e dove si vale, si mangia, si lavora e si sopravvive anche grazie alla nazionalità in cui si viene incardinati a gerarchie non scritte. Tra gli emigrati italiani magari partiti per l’Impero a seguito della delusione del “tradimento” italiano molti scopriranno la loro italianità lontani dalla patria. Gli italiani nell’esercito austriaco catturati dai russi vengono, se dimostrano di voler combattere per la patria, rispediti in Italia con viaggi lunghi dei mesi. Una volta in patria però essi sono guardati con sospetto e l’esercito cerca di tenerli a distanza perché è sospettoso, come nel caso di Bresciani. C’è anche da dire che tenere gli uomini di frontiera lontani dai pericoli del fronte era anche un modo per salvargli la vita dato che, se venissero catturati, sarebbero condannati a morte come traditori, come nel caso di Battisti o dei tre giovani intellettuali volontari della “Voce”, Slataper, Carlo Stuparich che sceglie il suicidio e suo fratello Giani, il quale viene catturato e passa due anni nei campi di prigionia con il terrore di essere riconosciuto. Sappiamo che sinceri volontari irredentisti e italiani vi fossero non solo tra gli intellettuali e gli studenti di buona famiglia, ma anche nella modesta microborghesia di barbieri e cartolai. La questione che invece sollevano le fonti di scrittura popolare è l’opinione dei contadini, i fuori storia, violati dalla storia altrui. Grazie ad una maggiore alfabetizzazione dei contadini italiani dell’Impero abbiamo più fonti della zona trentina e giuliana. Dalle lettere scritte dai soldati semplici al fronte non evinciamo preoccupazioni politiche e irredenti ma principalmente la nuova condizione di vita quotidiana sotto le armi e la preoccupazione per la famiglia. L’italiano d’Austria ha le solite preoccupazioni degli altri contadini-soldati di altri fronti. 3. L’intervento 3.1. La rottura della classe liberale La guerra rompe la classe dirigente, rende opinabile il significato della parola rivoluzione, sconvolge i confini fra culture, classi sociali, partiti politici e, all’interno di questi, tra correnti e tendenze. La prima vittima dello stato di guerra è l’Internazionale e, all’interno di ogni paese, l’opposizione e la classe dirigente cresciuta nel senso di un ricambio sostitutivo di quella di governo. Il fatto che Giolitti, dominatore assoluto della scena politica italiana per oltre un decennio, sia fuori dal governo nel momento decisionale critico contribuisce a squilibrare la situazione. Durante il periodo delle elezioni politiche del 1913 Salandra, già ministro dai tempi della sua partecipazione al governo Pelloux, prende le distanze da Sonnino e si avvicina a Giolitti. Grazie a questo riposizionamento viene indicato come capo dell’esecutivo il 21 marzo 1914 e viene percepito come successione interinale a Giolitti. Giolitti conserva le sue posizioni di potere in parlamento e nella burocrazia ministeriale degli apparati centrali e periferici dello Stato mentre Salandra mantiene alcuni ministri del precedente esecutivo Giolitti, tra cui il ministro degli Esteri di San Giuliano. A Salandra e San Giuliano tocca gestire la situazione drammatica di giugno e luglio 1914 e resistere alle pretese austriache e sollecitazioni tedesche, le loro decisioni andavano misurate con scelte da statisti, le loro scelte avrebbero coinvolto i destini di un paese. Salandra si rende conto di non essere più un semplice sostituto di Giolitti e la sua ambizione sarebbe quella di spostare a destra l’asse che Giolitti ha sempre tenuto a sinistra, anche se la dichiarazione di neutralità dell’Italia non implica che l’intero sistema di potere costruito da Giolitti si riorienti cosi rapidamente. Non si può dire che al conclamato neutralismo giolittiano si contrapponga l’interventismo di Salandra, in quei mesi si tratta prima attraverso San Giuliano e poi, alla sua morte, tramite il nuovo ministro degli Esteri Sonnino che, grazie al suo carattere forte e alle circostanze del momento, rende il ministero degli Esteri in tutti e tre i governi di guerra (Salandra, Boselli e Orlando) dotato di larga autonomia all’interno del governo. Quando nel 1916 cade il governo Salandra Sonnino gli sopravvive politicamente e rimane ministro degli Esteri in tutti e tre i governi, imprimendo alla classe dirigente liberale la sua impronta autoritaria. 3.2. Il governo e la piazza I rapporti tra piazze e classe dirigente liberale erano sempre stati nulli o di diffidenza reciproca. Gli esponenti della vecchia politica sono increduli di fronte al montare delle emozioni collettive e alla loro pubblica messa in scena. Una parte delle destre confida ancora di poter governare senza e contro la piazza e questo è dimostrato dal fatto che nel 1922 durante la marcia su Roma, un Salandra non molto diverso da quello del 1914-1915 rimane in lizza fino all’ultimo, sia come possibile partner sia come alternativa a Mussolini. La destra tradizionale che prescinde dalle masse e quella nuova, risoluta a servirsene, convivono in una coesistenza non sempre capace di comunicare né pacifica. Il fronte neutralista è parallelo e privo di zone di contatto (socialisti, cattolici e liberali giolittiani) mentre quello interventista ha dei parallelismi tra le motivazioni dei fautori della guerra, ma questo parallelismo viene in parte superato nel momento in cui si accettano luoghi e forme di ricomposizione. Quanto ai rapporti tra interventisti e neutralisti, sono la miriade di scontri locali a portare alla conquista della piazza da parte interventista, alla nascita di una piazza tricolore e all’emarginazione o all’autoesclusione degli altri. I neutralisti si ritirano senza aver provato ad agire in maniera unificata; a questo punto c’è il momento di chiarimento tra interventisti e governo. Tra marzo e maggio del 1915 il fronte interventista deve unirsi dato che non si è mai riconosciuto nel governo calcolatore e prudente. Quando Giolitti minaccia di richiamare in campo il parlamento e la macinato. Fu adottato quindi il reclutamento nazionale, ogni reggimento era formato da reclute di 6 o più province diverse, formalmente per accrescere la coesione fra gli italiani che parlavano solo il loro dialetto, in pratica per favorire l’obbedienza e l’identificazione con l’istituzione militare. Ne derivano una minore coesione dei reparti e una maggiore burocrazia. Il risultato di anni di trasferimenti di reparti dal nord al sud del paese e viceversa fu che si formò un corpo di ufficiali intercambiabili e senza legami col territorio, nazionali., questo fu fatto per contrastare il regionalismo e delle tradizioni preunitarie. L’unica eccezione fu per gli alpini e l’artiglieria da montagna, a reclutamento rigorosamente territoriale per ragioni militari e politiche. La scelta della nazionalizzazione forzata fu obbligata. Nonostante l’enorme spesa dell’Italia per l’apparato militare anche negli anni di governo liberale, la tendenza era quella di avere un esercito più grande di quanto permettessero le spese. Dire che l’esercito italiano del 1914 era meno efficiente di quello tedesco è sicuramente corretto, ma non basta, l’efficienza di un esercito si misura in relazione al ruolo che la politica nazionale e internazionale e nel confronto con gli avversari. La preparazione dell’esercito prebellico può essere valutata in rapporto a due elementi: il ruolo decisivo che governi, comandi e opinione pubblica gli affidano nelle scelte del 1914-15 e la sua capacità di condurre la guerra di trincea. L’esercito italiano mobilitava per la guerra in Libia 240.000 uomini (di cui 30.000 carabinieri) e 15.000 ufficiali effettivi. Con la mobilitazione e la costruzione di 10 nuove divisioni l’esercito sarebbe sceso in campo con circa 900.000 uomini più una milizia territoriale di 350.000 uomini. Una forza pari a circa la metà di quella francese. La costosa cavalleria era poco sviluppata (ma non avrebbe avuto importanza nel conflitto) e anche l’artiglieria. Rare le mitragliatrici (2 per reggimento nel 1914-15) che però furono sottovalutate da tutti. Dal 1907 l’aumento degli stanziamenti permise di affrontare alcune delle lacune maggiori, adottando il cannone da 75 francese e sviluppando fortificazioni al confine austriaco. La campagna di Libia rilanciò grazie alla propaganda la popolarità dell’esercito, nascondendone la brutalità e gli insuccessi del 1914-15 e sconvolgendone le strutture. L’invio nel 1911-12 oltremare di 100.000 uomini fu uno sforzo enorme. Per quanto riguarda la marina quella italiana era secondaria nei confronti di quella inglese, tedesca o americana, ma era al pari di quella francese e superiore a quella austriaca. 4.2. Le scelte dell’estate 1914 Dal 1888 esisteva una convenzione italo-tedesca secondo la quale, in caso di guerra contro la Francia, l’Italia avrebbe mandato 5 divisioni sul Reno, in Alsazia. Era una convenzione tecnica firmata dagli stati maggiori e non dai governi, quindi la sua attuazione era subordinata alle scelte politiche, ma costituiva un rafforzamento della Triplice Alleanza. Nel 1912 questa convenzione fu sospesa ma nel giugno 1913 ne fu firmata una riguardo alle marine austriaca, tedesca e italiana. Nell’inverno 1913-14 Pollio, capo di stato maggiore, torna a promettere l’invio di truppe sul Reno se l’Italia fosse entrata in guerra al fianco dell’Austria-Ungheria e della Germania. Nel 1914 l’esercito italiano disponeva di due piani di mobilitazione da adottare a seconda delle decisioni politiche; il primo all’eventualità di una guerra contro la Francia con l’invio di truppe sul Reno, il secondo per fronteggiare un’invasione dell’alleato austriaco con il grosso dell’esercito schierato sul Piave e forze avanzate nella pianura veneta. Questi piani non erano reversibili una volta avviati a causa della loro enorme complessità logistica. La decisione della neutralità fu presa dal governo il 2 agosto 1914 senza tener conto dell’esercito (Cadorna, appena nominato capo di stato maggiore, non fu consultato) e non prevedeva la mobilitazione perché avrebbe significato guerra. Un esercito non mobilitato in mezzo ad un’Europa in guerra era estremamente fragile, ma l’Austria era pienamente impegnata a combattere Russia e Serbia. Cadorna voleva la mobilitazione immediata ma Salandra ne concesse una parziale, per dare l’idea di fermezza ma senza correre rischi, attendendo che una delle due parti prevalesse prima di impegnarsi nel conflitto. Il fallimento della guerra breve rinviò le decisioni alla primavera del 1915. Salandra dice nelle sue memorie di aver atteso a causa dell’impreparazione dell’esercito nel 1914 ma in realtà i tempi erano troppo stretti e non sarebbe stato possibile dichiarare guerra dopo poche settimane dall’aver dichiarato la neutralità, inoltre Salandra aveva una base parlamentare troppo debole e mancavano i movimenti a favore dell’intervento. 4.3. La preparazione dell’esercito nell’inverno 1914-1915 Nella cultura europea del tempo c’era una netta separazione tra il tempo di pace, dove il governo aveva potere e responsabilità e tempo di guerra, dove gli stati maggiori avevano un ruolo dominante; questa separazione era resa credibile dalla fiducia che la guerra avesse breve durata. In tempo di pace il ministro della Guerra, di solito un generale autorevole ma non in cima alla gerarchia, controllava il bilancio, gli uomini e gli armamenti mentre in tempo di guerra il capo di stato maggiore prendeva i poteri ed era il comandante in capo designato per la guerra. La responsabilità della difesa era divisa tra il sovrano (Vittorio Emanuele interveniva poco direttamente), il presidente del Consiglio, il ministro della Guerra e il capo di stato maggiore, con un’evoluzione graduale che rafforzava i poteri di quest’ultimo. Con la guerra sempre più vicina e probabile si creò una sovrapposizione di responsabilità che, se poteva essere appiattita da riunioni e frequente dialogo tra le parti, fu invece lasciata maturare dato che si ebbero rari contatti bilaterali in cui emergevano incompatibilità. Salandra non consultò mai Cadorna per l’ossessione della segretezza e per tenersi ogni possibile opzione aperta, inoltre non diede mai direttive precise ma preparò la guerra offensiva contro l’Austria sulla base di un accordo implicito (era l’unica ipotesi di guerra rimasta sul tappeto) e senza l’indicazione di tempi meno generici della primavera del 1915, né di obiettivi politico-strategici. Da ottobre ottenne gli stanziamenti e il potere che chiedeva per la preparazione dell’esercito ma senza sapere se la guerra ci sarebbe stata effettivamente. In sostanza Salandra e Cadorna agivano su linee parallele senza comunicazione, il ministro Grandi provò ad avvicinare azione politica e militare ma fu sostituito dal generale Zuppelli, relegato a subordinato di Cadorna e scollegato da Salandra. Cadorna stese il piano di guerra contro l’Austria senza consultare il governo ma soltanto il re. Il Patto di Londra preparato da Salandra e Sonnino fu fatto senza consultare esercito e marina, Cadorna sapeva dell’impegno assunto per l’intervento ma non poté visionare il testo del trattato. Tra i territori assicurati all’Italia dal trattato c’era la Dalmazia, che l’esercito, al quale nessuno aveva chiesto un parere, e in particolare Cadorna ritenevano costosissima da difendere in un promemoria del febbraio 1915 che non sappiamo se Salandra abbia mai visionato. Il governo impostava la politica balcanica dell’Italia senza assicurarsi che fosse militarmente sostenibile. In tempo di pace Cadorna si occupò di portare l’esercito all’efficienza contemplata dai piani prebellici. Furono formate 10 nuove divisioni e creati nuovi reparti in sostituzione di quelli in Libia. Cadorna rivolse la sua attenzione agli ufficiali e grazie a corsi accelerati e promozioni straordinarie a metà luglio 1915 erano disponibili 17.000 ufficiali di carriera e 22.000 di complemento, sui quali sarebbe ricaduto il peso dei combattimenti. Cadorna dette poi il via a una larga serie di promozioni destinata a continuare tutta la guerra secondo il principio che gli ufficiali dovessero avere il grado corrispondente all’incarico ricoperto, mentre negli altri eserciti le promozioni erano più rare o temporanee. Questo aumentava il morale degli ufficiali ma provocava un’eccessiva rotazione di ufficiali ai reparti. Fu migliorata l’organizzazione dell’artiglieria con nuovi pezzi da 75 e da 149 ma le batterie di artiglieria leggera furono ridotte di numero per guadagnare mobilità (utile nella guerra di movimento) si aumentò il numero di fucili e munizioni anche con commesse all’industria privata, ma non si fece lo stesso con l’artiglieria. Mitragliatrici e bombe a mano rimasero insufficienti, cosi come l’artiglieria media e pesante, dato che col materiale disponibile si poteva fare poco. Va inoltre ricordato il completo fallimento dei tentativi di accelerare i tempi dell’offensiva. Data l’esigenza di spostare l’adunata prevista sul Piave si decise di mobilitare le unità sul posto e cominciare i trasporti per la frontiera anche a unità incomplete, nella speranza che potessero operare in anticipo. Il risultato fu la confusione totale dei trasporti e che l’esercito fu pronto nella prima metà di luglio, un mese e mezzo dopo la dichiarazione di guerra e molto più dall’inizio dei movimenti. Secondo gli studiosi il rafforzamento condotto da Cadorna era insufficiente per quantità e qualità, l’esercito del 1915 era composto dalle forze previste nel 1914 ma meglio organizzate ma mancavano progressi per l’artiglieria e per il munizionamento. L’esercito austriaco, che nel primo anno di guerra aveva perso 1.250.000 uomini tra morti feriti, dispersi e ammalati, riuscì comunque a rimpiazzare questi uomini e nel 1915 ne schieravano altrettanti, addestrati alla guerra di trincea e meglio equipaggiati. Sotto la minaccia del crollo dell’Impero erano state mobilitate tutte le energie nazionali. Durante la neutralità tutti ragionavano con il metro del tempo di pace, soltanto l’esperienza poteva produrre le accelerazioni nella mobilitazione bellica e far capire a governo e stato maggiore di dover produrre di più. 4.4. Il piano di guerra di Cadorna Il teatro della guerra italiana si può dividere in tre parti: il saliente trentino, Cadore e Carnia e la valle dell’Isonzo. Il Trentino, allora austriaco, si incuneava tra Lombardia e Veneto e costituiva una minaccia per un’offensiva italiana in direzione di Trieste. Eliminare questa minaccia era un’impresa difficile e poco redditizia sul piano militare, inoltre era una regione periferica dell’Impero. Anche in Cadore e in Carnia il fronte era ben protetto e per mancanza di artiglierie adeguate e per le fortificazioni austriache era un obiettivo altrettanto difficile. La geografia del territorio indirizzava l’attacco italiano sul fronte dell’Isonzo, che avrebbe aperto la strada in direzione di Trieste, della pianura di Lubiana e, idealmente, Vienna. Il terreno era aspro e mosso ma privo di rilievi importanti, permetteva quindi attacchi in forze anche se era altrettanto ben difendibile. Cadorna intuì quindi bene l’obiettivo più importante per il suo esercito. Il suo piano aveva altri difetti. La I armata ebbe compiti difensivi, per difendere le spalle dello schieramento salvaguardando il saliente trentino. La IV e le truppe della Carnia avevano invece compiti offensivi importanti, con obiettivi da conquistare per penetrare nelle valli austriache ma l’assenza di artiglieria adeguata e le posizioni austriache ben difese rendevano impossibile la conquista di queste posizioni. Inoltre la strategia propagandata da Cadorna era quella adottata anche dalla Francia: l’attacco frontale come unica via possibile. Per Cadorna infatti gli attacchi sui fianchi si sarebbero trasformati in frontali non appena il nemico avesse rischierato le sue truppe di conseguenza, la sua dottrina era quella di dimostrare che l’aumento della potenza di fuoco non aveva cambiato le regole della guerra e che gli attacchi frontali erano ancora possibili. Anche dopo 6 mesi di conflitto senza risultati Cadorna non cambiò dottrina, questo a causa della difficoltà di cogliere le trasformazioni del conflitto. La “libretta rossa” di Cadorna divenne oggetto di odio e simbolo dell’incapacità di Cadorna. Tuttavia non era la libretta rossa a decretare il fallimento degli attacchi, né Cadorna diceva cose differenti da Joffre, quelle tattiche erano di gran lunga superate. Il punto è che ribadiva che erano l’energia degli ufficiali e la loro fiducia a determinare il successo e quindi giustificava la ripetizione di attacchi uguali e falliti, lo stesso avveniva negli altri eserciti, dove l’energia spietata nel comando e la fiducia assoluta erano dogmi vissuti e incrollabili. L’esercitò italiano si trovò necessariamente in posizione d’attacco durante tutto il conflitto, compito difficile data la posizione migliore degli San Michele alla III armata. Il 7 luglio l’offensiva fu sospesa, il 20 luglio iniziò la seconda battaglia, durata fino al 3 agosto. I guadagni territoriali furono minimi, le perdite altissime, 67.000 soldati italiani e pochi meno austraici, che rispondevano con contrattacchi che li esponevano all’artiglieria italiana. Nei due mesi seguenti gli attacchi proseguirono su scala ridotta e furono portati tutti i pezzi medi e pesanti disponibili in linea. La terza battaglia iniziò il 18 ottobre e interrotta il 4 novembre, ripresa il 10 come quarta battaglia e interrotta il 2 dicembre per l’esaurimento delle truppe. Gli obiettivi e i risultati erano i medesimi, con la differenza che i soldati soffrivano il freddo, il fango e la pioggia invece del caldo e la sete. Le perdite italiane furono 67.000 nella terza battaglia e 49.000 nella quarta, quelle austriache 42.000 e 25.000. Il fatto che le perdite austriache fossero inferiori ma comunque elevate era l’unico elemento positivo nella guerra di logoramento, dato che possedevano meno riserve. 1.6. Assalti e perdite Raccontare la battaglia è impossibile anche se le linee generali sono sempre uguali e i particolari sempre diversi. L’attacco è preceduto dall’artiglieria, soprattutto i pezzi da 75 che infliggono pochi danni ai reticolati austriaci, la fanteria va all’attacco in formazioni compatte e subisce il fuoco delle mitragliatrici e dei cannoni, si ferma ai reticolati, rifluisce indietro e torna all’attacco. A volte riesce a superare il reticolato e raggiungere la trincea austriaca, dove deve resistere ai contrattacchi, a volte si aggrappa al terreno costituendo una linea precaria da usare come base per i nuovi attacchi. L’azione prosegue fino all’esaurimento delle forze dei reparti, ripresa con nuove truppe e continuata con la rimozione dei comandanti che non mostrano sufficiente durezza. Le brigate sono sottoposte a enorme stress, devono attaccare in modo “metodico”, ovvero senza mai lasciare tregua al nemico. Gli attacchi sono sanguinosi, ripetitivi e ostinati dagli alti comandi, mentre i comandanti di reggimento fanno spesso presente l’impossibilità di continuare l’attacco. I periodi di riposo sono quasi inesistenti e le epidemie di colera e l’assideramento lasciano le brigate in condizioni pessime. Una vicenda particolare è quella della brigata Sassari, originariamente composta da una maggioranza di sardi a causa dell’organizzazione complessa dei trasporti, questa brigata arriva al fronte per la seconda battaglia ,è impegnata sul San Michele con forti perdite. Affronta poi l’attacco “metodico” con determinazione e in tutto agosto subisce più di mille e cento perdite. Deve essere mandata in riposo per essere costituita, torna sul San Michele dove ottiene una serie di successi. La sua aggressività ottiene un riconoscimento, sarà composta soltanto da sardi, unica brigata a reclutamento regionale e la sua fama le garantirà un trattamento di riguardo. Differenza tra vita della brigata di fanteria e dell’artiglieria, statica e con molte meno perdite. Offensive del 1916-17 ebbero anch’esse perdite elevatissime ma secondo molti protagonisti la guerra del 1915 fu la peggiore per le terribili condizioni di vita anche nei momenti di pausa, il vitto insufficiente, le epidemie di colera e tifo e un’impreparazione generale alla guerra di trincea che aumentava a dismisura le perdite. Il morale era bassissimo perché le truppe si convincevano di essere carne da cannone. Dopo lo sforzo dell’ottobre-novembre del 1915 l’esercito italiano era in una situazione di collasso anche se il paese e gli austriaci non se ne resero conto. La situazione preoccupante era anche quella delle trincee al fronte da sistemare per l’inverno, mentre gli uomini che avevano fatto tre mesi al fronte ottenevano una breve licenza gli austriaci conducevano degli attacchi locali ben condotti che furono respinti a fatica nella zona tra San Floriano e Oslavia. È impossibile avere cifre precise per le perdite di uomini, armi, munizioni durante una battaglia perché se è vero che il numero di uomini reclutati e assegnati alle varie brigate è preciso, è vero anche che durante le battaglie le azioni susseguite non possono essere precisamente inquadrate nell’apparato burocratico, nonostante ogni giorno venisse fatto il conto di morti, feriti e ammalati. Basti pensare ai morti sfigurati e quindi irriconoscibili, i prigionieri, gli sbandati, i dispersi che tornavano dopo giorni, i feriti trasferiti negli ospedali e dei quali era difficile sapere se erano morti o guariti, perché il sistema medico aveva una sua burocrazia. Anche i numeri che riguardano le armi sono imprecisi perché si deve considerare quelle disponibili all’inizio della battaglia ma la guerra non è una scienza esatta traducibile in tabelle e statistiche, ci affidiamo ai numeri disponibili per indicare le dimensioni dello sforzo straordinario e dei grandi sacrifici richiesti dal conflitto. 2. Le operazioni del 1916. La “Strafexpedition” e Gorizia 2.1. La guerra sugli altri fronti nel 1916: Verdun e la Somme La Germania tornò nel 1916 ad attaccare sul fronte francese. Falkenhayn non credeva ad uno sfondamento decisivo ma voleva infliggere perdite gravissime ai francesi attaccando posizioni simbolicamente importanti e che favorivano i tedeschi per il terreno: la città di Verdun. L’offensiva iniziò il 21 febbraio ma la tenacia dell’attacco tedesco non riuscì a schiacciare le forze francesi che, sotto il comando del generale Philippe Pétain, riorganizzavano la difesa, assicuravano la rotazione delle truppe in trincea e garantivano i rifornimenti con migliaia di automezzi. La fine dell’offensiva fu imposta ai tedeschi dalla necessità di difendere il fronte russo, dove era stata lanciata un’offensiva in giugno. Verdun fu la più grande battaglia della guerra, con 270.000 morti francesi e 240.000 tedeschi e divenne il simbolo della resistenza e della vittoria della Francia cosi come dei suoi sacrifici. L’esercito inglese aveva conosciuto una crescita enorme e nel 1916 contava 36 divisioni ben armate e altre in corso di costituzione (istituzione della leva obbligatoria). Nell’estate 1916 fu condotta la prima grande offensiva sul fiume Somme e si rivelò un disastro. Si arrivò a 20.000 morti in un solo giorno e il generale Haig, al quale non mancavano forze e fiducia, proseguì gli attacchi fino a novembre, quando si trovò ad aver conquistato pochi chilometri di trincee e fango. Gli inglesi avevano adoperato durante questa battaglia il carro armato ma in modo sconsiderato, risultando in un pieno insuccesso. Sul fronte orientale i russi disponevano di 160 divisioni mal armate e mal addestrate. L’alto comando zarista preparava un’offensiva per l’estate, ma in marzo cedette alla richesta di aiuto francese e lanciò a nord un’offensiva presto arrestata. Poi gli italiani chiesero di fare pressione che richiamasse le divisioni impegnate nella Strafexpedition e il generale Brusilov, comandante del fronte sud-ovest, lanciò il 4 giugno un’offensiva che ottenne successi inaspettati, due divisioni austriache crollarono lasciando 200.000 prigionieri in tre giorni e i russi arrivarono in Bucovina e in Galizia e poi ai Carpazi. Nei mesi successivi i tedeshci riorganizzarono la difesa e il contrattacco e in autunno la situazione era ristabilita, i russi erano a corto di rifornimenti e avevano perso un milione di uomini. Non poterono aiutare la Romania, entrata in guerra il 27 agosto e che aveva invaso Transilvania e l’Ungheria e che poche forze tedesche, aiutate da austriaci e bulgari, distrussero le armate romene e occuparono il paese. In Medio Oriente gli inglesi occuparono Bassora nel novembre 1914 per proteggere i pozzi petroliferi del Golfo del Persico, avanzarono poi in Mesopotamia (iraq), nell’inverno 1915-1916 mossero su Baghdad ma furono ricacciati dai turchi; ritentarono a fine 1916 e arrivarono a Baghdad nel marzo 1917. L’altro punto nevralgico era il canale di Suez, dopo aver respinto un attacco turco gli inglesi tentarono di invadere la palestina e fallirono. Nel 1917 tornarono ad agire con azioni non influenti sull’esito del conflitto ma che puntavano a stabilire un predominio britannico in Medio Oriente. 2.2. L’ampliamento dell’esercito italiano I ripetuti insuccessi del 1915 peggiorarono i rapporti tra governo e Cadorna. Quest’ultimo era accusato dagli ambienti di governo di non aver ottenuto successi importanti e lui continuava a chiedere uomini e materiali senza rivelare i suoi piani o ammettere ingerenze nella sua opera di comando. Problemi analoghi negli altri paesi, in Germania fu affidata ai militari la mobilitazione economica, in Gran Bretagna il governo aveva mantenuto la direzione dello sforzo bellico nazionale. I generali chiedevano più uomini e mezzi di fronte al prolungarsi del conflitto, i governi sapevano che per procurarseli avevano bisogno di tempo per riorganizzare l’economia e la vita nazionale e questa causava accuse reciproche. Il ministro della Guerra Zuppelli, imposto da Cadorna come mediatore tra lui e il governo, venne sostituito nel marzo del 1916 dal generale Morrone, venne quindi riaffermata la divisione dei poteri: Cadorna avrebbe gestito le operazioni senza l’ingerenza del governo, che si sarebbe invece occupato della mobilitazione dell’industria del paese. Gli uomini al fronte salirono da un milione nel 1915 a un milione e mezzo nel 1916 e poi a due milioni nel 1917. Furono costituiti nuovi reggimenti e nuove artiglierie medie e pesanti. Trovare gli uomini non fu un problema dato che venne chiamata la classe 1896 mentre procedeva il richiamo di aliquote delle classi anziane fino ai quarantenni. L’addestramento delle reclute era breve e non molto curato: ordine chiuso, marce, qualche caricatore sparato al poligono, poi al fronte. Questo attesta i limiti professionali degli alti comandi. Per quanto riguarda gli ufficiali le necessità erano superiori alle previsioni, divenne quindi indispensabile creare un gran numero di ufficiali di complemento e di milizia territoriale, non solo per il fronte ma anche per le retrovie. Nel 1917 furono rese obbligatorie le spalline da sottotenente per chi aveva finito le scuole superiori. Gli ufficiali ricevevano un addestramento sommario di 3 mesi, portato a 4 nel 1917. Al fronte i subalterni erano di complemento, poi anche i capitani e nel 1918 una parte dei maggiori e i comandanti dei battaglioni. Gli ufficiali di complemento destinati alla fanteria subivano perdite più alte rispetto ai loro uomini, non tutti avevano le doti di supplire ai limiti dell’addestramento, specialmente quando venivano promossi. Gli ufficiali effettivi, con una preparazione più completa, furono assegnati a comandi di maggiore responsabilità. 2.3. La “Strafexpedition” La situazione dell’Impero austro-ungarico nel 1915 era migliore rispetto all’anno precedente: l’esercito serbo era annientato, il fronte russo era stato ripotato profondamente in territorio russo e l’esercito italiano era stato contenuto senza arretrare troppo. Le enormi perdite erano state ripianate e le fabbriche producevano più dell’anno precedente, anche se il logoramento era stato notevole e le risorse alimentari cominciavano a scarseggiare. Data la situazione il capo di stato maggiore austriaco Conrad von Hoetzendorff pensò di passare all’attacco e visto che attaccare la Russia avrebbe richiesto di attraversare centinaia di chilometri scelse l’Italia, anche per la sensazione di tradimento che gli aveva lasciato il cambio di alleanze. Inoltre avrebbe richiesto meno forze e, aggredendo gli italiani dal Trentino avrebbe potuto portare ad una “Caporetto anticipata”. Conrad era però a corto di divisioni, chiese quindi a Falkenhayn 8 divisioni tedesche da impiegare nell’offensiva sul fronte russo in sostituzione di 8 divisioni austriache. Falkenhayn rifiutò visto che stava preparando l’attacco a Verdun e Conrad decise di attaccare con 14 divisioni prelevate dal fronte russo, dall’Isonzo e utilizzando le forze mobili disponibili in Trentino, con l’appoggio di 1200 pezzi di artiglieria. L’attacco era previsto per il 20 marzo ma fu rimandato fino al 15 maggio 1916. Il generale Brusati, che comandava la I armata, invece di attenersi agli ordini di Cadorna e concentrarsi su posizioni difensive, aveva portato i suoi uomini in posizioni di attacco costose da mantenere, trascurando la preparazione di posizioni di resistenza arretrate e la costituzione di riserve. Si aggiungeva il cattivo funzionamento del Comando supremo, denominazione voluta da Cadorna per sottolineare il suo potere su tutte le armate. Cadorna non si accorse che Brusati aveva per forza di cose nessuna esperienza di guerra diretta combattuta. La mancanza di autocritica e l’incapacità di accettare un contraddittorio erano aggravate dall’età, un uomo di 65 anni, già rigido di suo, non poteva comprendere le esigenze straordinarie di una guerra cosi complessa e diversa da quelle che aveva studiato. Durante il tempo di pace si avanzava di grado per anzianità, infatti era comune a tutti gli eserciti che i comandanti avessero oltre i 50 anni. L’esonero fatto da Cadorna di centinaia di generali e colonnelli, anche se racchiuse ingiustizie inevitabili, ebbe il merito di portare ai vertici uomini sui 50 anni che avevano appreso dall’esperienza come gestire un esercito di massa. Le scelte strategiche di Cadorna erano quelle più ovvie, di fronte al fallimento della guerra breve si dovevano radunare più uomini, più cannoni, più munizioni, bisognava attaccare perché lo chiedevano tutti (politica, opinione pubblica, gli alleati) e si attaccò sul Carso e sull’Isonzo perché erano gli unici due punti dove si potesse attaccare in forze. Si possono criticare gli attacchi piccoli e medi sugli altri fronti, evitabili e molto dispendiosi, ma il fronte alpino non poteva rimanere del tutto passivo. Rimane l’impressione che i comandi non riuscissero a gestire bene la guerra offensiva in montagna, anche se di questo Cadorna non aveva colpe dirette. Le spallate sul Carso non sono cosi differenti in termini di esiti dalle offensive inglesi o francesi, semmai si può addebitare al carattere accentratore e sospettoso del generale il cattivo funzionamento del Comando supremo: il servizio di informazioni mediocre e non ascoltato, l’Ufficio operazioni ridotto all’osso, un’assenza di collegamenti e controllo con le armate portava Cadorna a incidere poco e a dipendere dai suoi comandanti in subordine, preoccupati solo del loro settore e decisi a continuare gli attacchi. Nelle grandi battaglie l’alto comando si limitava a gestire le riserve, ma generali come Ludendorff e Pétain dedicarono molta attenzione all’addestramento delle truppe e delle unità mentre Cadorna lo trascurò anche più di Diaz. Cadorna è stato criticato per la sua strategia e poco per i suoi limiti “tecnici”. Sicuramente Cadorna aveva un’idea della disciplina che non rispecchiava quella della realtà dei fatti, dato che non si informò mai sulla vita e la guerra di trincea, considerava le diserzioni, le proteste e le fughe come azioni che meritavano punizioni esemplari (fucilazioni e galera) e completamente dovute alla codardia dei soldati, invece di apprezzare il loro spirito di sacrificio e la capacità di obbedienza. L’idea che il disfattismo del paese inquinasse le truppe era un modo per evitare di mettere in discussione la sua posizione al comando e di mettere in discussione le reali condizioni dei combattenti (vitto, alloggiamenti, turni di riposo, licenze, cose che non riguardavano l’azione del generale ma di cui ad esempio Pétain si era occupato con successo). Fece reintrodurre i cappellani ma è possibile che vi vedesse soltanto uno strumento di controllo. Dal 1915 al 1917 Cadorna non uscì mai dalla sua logica di repressione e non capì mai i sacrifici dei soldati e la realtà della guerra, si aggravò solo la sua indignazione e le disposizioni repressive. Anche negli atteggiamenti col governo Cadorna agiva come gli altri generali, esigendo molto e lamentandosi della lentezza con cui veniva rifornito, ma fu particolarmente polemico con la politica. Non successe come in Germania, dove il potere militare si imponeva su quello politico, ma Cadorna otteneva un ruolo politico crescente mentre vietava l’accesso alla sfera militare a chiunque. Vietò l’accesso alla zona di guerra al ministro Bissolati mentre chiese con diverse lettere a Boselli nell’estate 1917 di usare misure repressive, stringendo i rapporti con gli oppositori del ministro dell’interno Orlando e usando i carabinieri per spiare i ministri. In questo Cadorna aveva torto marcio e il confronto con Diaz è a suo sfavore. In conclusione non ha senso addebitare al generalissimo la strategia offensiva e gli esiti deludenti delle battaglie, gli si deve riconoscere la fermezza nella condotta della guerra e nello sviluppo dell’esercito ma non ne afferrò mai la complessità. La fiducia in sé divenne chiusura e disprezzo verso l’esterno, comportamento facilitato dalla debolezza dei governi Salandra e Boselli, l’aspetto più negativo fu la sua incapacità di comprendere i soldati e di rispettarli. 3.2. La decima battaglia dell’Isonzo Ampliamento dell’esercito tra 1916 e 1917, chiamata alle armi delle classi 1897, 98 e 99 nell’estate. Richiamate anche le classi anziane fino al 1873 e rivisti gli esoneri concessi in tempo di pace. Aumento delle mitragliatrici, dell’artiglieria, delle munizioni per entrambi, enorme sviluppo dei reparti di appoggio (zappatori, telegrafisti, pontieri, ferrovieri, lanciafiamme). Due milioni di uomini al fronte. L’Austria-Ungheria aveva fronteggiato le perdite enormi del 1916 mobilitando ogni uomo, non c’erano più riserve, ma il disfacimento dell’impero zarista avrebbe permesso di spostare truppe sul fronte italiano. Tre grandi offensive nel 1917: la decima e l’undicesima sull’Isonzo e l’Ortigara, poi Caporetto. Offensiva ripresa in maggio con la decima battaglia dell’Isonzo che doveva combinare la battaglia di materiale con un tentativo di manovra. Manovra in due tempi: la “zona Gorizia” doveva attaccare verso l’altopiano della Bainsizza, poi cedere parte dei suoi cannoni alla III armata per un’offensiva sul Carso, forzando le posizioni dell’Ermada in direzione di Trieste. Il piano falliì per due motivi: uno era il potenziamento delle difese austriache parallelo al potenziamento dell’artiglieria italiana, la fanteria attaccava le difese brecciate austriache ma era arrestata dal fuoco di artiglieria e dai contrattacchi. Non erano stati fatti progressi nell’addestramento della fanteria che attaccava ancora in formazioni compatte come nel 1915. Gli austriaci addestravano più accuratamente le Sturmtruppen, utilizzate nei contrattacchi. L’altro elemento fu l’insufficiente controllo della battaglia da parte di Cadorna. La zona Gorizia era affidata al generale Capello, in contrasto con Cadorna per la sua popolarità e i suoi buoni rapporti con la stampa e gli ambienti interventisti. Il 14 maggio le truppe di Capello attaccarono il margine della Bainsizza con risultati inferiori alle aspettative, due giorni dopo Cadorna avrebbe voluto interrompere l’attacco ma Capello ottenne di continuarlo, tenendosi le artiglierie destinate al Carso, intaccò le posizioni austriache conquistando le alture del Kuk e del Vodice, ma senza sfondarle. L’offensiva della III armata sul Carso, scattata il 23 senza i cannoni, ebbe un andamento simile. La decima battaglia terminò il 31 maggio. Era una nuova battaglia di logoramento con più perdite del 1915 e del 1916, l’idea di Cadorna di arrestare l’offensiva quando diventava troppo costosa non resse l’ostinazione di Capello e del duca d’Aosta, comandante della III armata. Le perdite furono pesanti: 112.000 tra morti, feriti e dispersi, contro 76.000 austriaci, che resistettero fino all’arrivo dei rinforzi dal fronte russo. Lanciarono poi delle controffensive efficaci e Cadorna scaricò la colpa sulle truppe. 3.3. La battaglia dell’Ortigara La battaglia dell’Ortigara aveva dietro un’intenzione buona, dato che prendere il monte avrebbe significato aggirare l’apparato austriaco sull’Asiago. Fu sospesa a fine 1916 e ripresa in primavera 1917. Un successo avrebbe significato la presa di una posizione importante e Cadorna mise a disposizione un enorme numero di uomini e mezzi. Le posizioni austriache rinforzate avrebbero dovuto essere prese di mira con un tiro preciso d’artiglieria e l’attacco era comunque molto difficile da portare a termine, dato che l’artiglieria austriaca sparava su posizioni prestabilite e poteva quindi operare di notte e di giorno e in qualunque situazione atmosferica. L’attacco iniziò il 10 giugno e fu un fallimento, solo dei reparti alpini arrivarono sulla cresta dell’Ortigara e la tennero sanguinosamente seguendo gli ordini dei comandi, mentre la fanteria non riuscì ad arrivare a contatto con le trincee per via dell’inefficace fuoco di sbarramento iniziale. Gli alti comandi non furono all’altezza della situazione, Cadorna concesse truppe e cannoni a Mambretti ma non ne controllò l’operato, lo silurò dopo la battaglia e trasse l’impressione che “la principale causa dell’insuccesso” fosse “il diminuito spirito combattivo di una parte delle truppe per effetto ella propaganda sovversiva”. 3.4. L’undicesima battaglia: la Bainsizza L’undicesima battaglia fu impostata subito dopo la fine della decima, il problema era sempre lo stesso: non c’erano posizioni di rilievo da conquistare e tutti si riduceva a infliggere gradi perdite agli austriaci contenendo le proprie. Per questo era necessario attaccare di sorpresa dove gli austriaci meno se l’aspettavano e dato che una sorpresa non era possibile sul Carso Cadorna si concentrò a nord di Gorizia, in particolare sull’altopiano della Bainsizza. L’altopiano di 600-700 metri si estende sulla riva sinistra dell’Isonzo con un terreno ondulato senza strade né acqua; a nord ha l’altopiano dei Lom, alle spalle di Tolmino, a sud l’altopiano di Tarnova, alle spalle di Gorizia. La Bainsizza non era un obiettivo degno di interesse, ma avrebbe aperto la strada per proseguire l’offensiva a nord e far cadere la testa di ponte di Tolmino o aggirando gli austriaci sul Carso. Per questa offensiva vennero messi a disposizioni quanti più uomini e mezzi possibili. L’offensiva confermò l’incapacità di Cadorna di tenere in pugno le operazioni e l’insufficiente organizzazione della battaglia offensiva. Cadorna avrebbe voluto aggirare verso sud ma Capello, alla testa della II armata, riteneva più importante conquistare Tolmino e, approfittando della difficoltà di Cadorna a controllarlo, modificò gli ordini ricevuto concentrando l’attacco verso nord, verso Tolmino. Enrico Caviglia, a capo del XXIV corpo, ottenne ottimi successi verso sud ma Capello continuò per giorni ad attaccare Tolmino, lasciando l’alleato senza supporto. Gli austriaci ristabilirono una linea di difesa sul margine meridionale della Bainsizza e fermarono il XXIV corpo, il tutto mentre Capello continuava inutilmente e sanguinosamente ad attaccare Tolmino. Quando vi rinunciò gli austriaci avevano posizioni già rafforzate e fino al 12 settembre si susseguirono attacchi inutili. Cadorna fu incapace dal farsi ascoltare dai suoi generali e coprì Capello per paura della sua popolarità e il governo non lo sostituì. Gli altri eserciti cercavano alternative alla guerra di logoramento, anche minime, l’esercito italiano era ancora indietro, i soldati erano poco addestrati, i comandi privilegiavano gli attacchi in massa, anche se nell’undicesima battaglia fecero la loro comparsa i reparti d’assalto. Le perdite furono comunque spaventose da entrambe le parti. 3.5. I gas asfissianti Il 22 aprile 1915 i tedeschi lanciarono a Ypres, nelle Fiandre, il primo attacco a gas, che fece fuggire due divisioni francesi dalle trincee, lasciando migliaia di agonizzanti. In misura minore i gas vennero usati sul fronte italiano e quello orientale. I gas asfissianti (il nome tecnico è aggressivi chimici, dato che alcuni erano liquidi e non gas) erano sottoprodotti dell’industria chimica, quindi facili da reperire in gran quantità. Ve ne erano di due tipi. Quelli asfissianti, che bruciano i polmoni, come i lacrimogeni in uso alle forze di polizia (che ne contengono una quantità bassa) e quelli vescicanti, che producono lesioni sul corpo (come l’iprite, un liquido oleoso che l’esplosione della granata trasformava in una nube di goccioline letali se respirate, contro la quale la maschera antigas non bastava). Era anche un problema utilizzare i gas sia per il vento, sia per la quantità relativamente piccola che poteva essere inserita in una granata. I gas fecero vittime soprattutto sul fronte orientale perché i russi non avevano le maschere adeguate e verso la fine della guerra venivano usate soprattutto contro i comandi nemici per seminare il panico, dato che le maschere erano ormai fornite ad ogni soldato. La fama di arma atroce e sleale è ingrandita dal loro effetto terrificante e tiene meno di conto dell’effettività reale, tanto che durante la seconda guerra mondiale non vennero usati. La reazione emotiva portò a vietarli nelle convenzioni dopo la grande guerra, anche se non sono più sleali o atroci di altre armi. In molti musei della guerra italiana erano conservate le mazze usate dagli austriaci come prova della loro barbarie, ma è difficile considerarle nazionale rimase superiore a quella ideologica sovranazionale, lo si può vedere dal trattato di Versailles e le vicende successive. Un aspetto concreto della dimensione internazionale fu il dominio dei mari, che permise di bloccare il commercio tedesco e alimentare quello dei paesi dell’intesa. Le importazioni dei paesi rimasero quelle prebelliche, con vertiginosi aumenti delle importazioni, rese possibili da un sistema complesso di prestiti internaizonali. A fine guerra l’Italia doveva quasi 3 mld di dollari, per due terzi alla Gran Bretagna e per un terzo agli Stati Uniti. Un altro aspetto fondamentale è la ricerca di teatri di guerra alternativi a quelli europei. I generali degli eserciti impegnati sui tre grandi fronti (occidentale, italo-austriaco e orientale) chiedevano tutte le risorse per il loro fronte, che era il più importante da gestire, i generali austriaci e tedeschi dovettero distogliere parte delle forze per la Serbia, poi la Romania, poi contro le teste di ponte di Salonicco. La situazione dell’Intesa era più complessa, rimase un’alleanza in stile ottocentesco, senza consultazioni tra i governi frequenti e pianificazioni strategiche congiunte. Erano una coalizione che conduceva guerre parallele, neanche gli anglo-francesi crearono mai un comando comune se non nel 1918 e con poteri definiti. L’Intesa non era in grado di condurre una guerra comune sugli altri teatri minori, solo la Gran Bretagna fronteggiò gli sporadici attacchi tedeschi ala traffico mercantile e si impegnò in Africa contro le colonie tedesche e in Medio Oriente con operazioni che miravano a subentrare ai turchi nel controllo di zone ricche di petrolio. Queste operazioni avrebbero pesato nel dopoguerra ma non nell’immediato del conflitto. Alcuni generali inglesi sostenevano la necessità di aprire un fronte per indebolire gli austro-tedeschi e rifornire la Russia, ma lo sbarco nei Dardanelli nel 1915 fu un insuccesso e i generali che invece chiedevano i massimi sforzi sui fronti già aperti ebbero la meglio. Il secondo tentativo fu la testa di ponte di Salonicco costruita nell’ottobre 1915. Il fronte non fu mai alimentato abbastanza e l’offensiva lanciata in settembre giungeva troppo tardi per incidere sulle sorti del conflitto. 5.2. I teatri minori della guerra italiana Anche la guerra italiana ottenne risultati deludenti sui fronti minori. Cadorna su fece rappresentare dal generale Porro nelle prime conferenze militari a Chantilly, ma le parti si limitavano a illustrare le loro forze, i problemi, le deficienze e le offensive in preparazione. Quando un esercito era in difficoltà e chiedeva agli alleati di attaccare la richiesta veniva accolta nella misura in cui pareva possibile ai comandanti nazionali. Il primo ministro inglese David Lloyd George suggerì, nel gennaio 1917, l’invio di ingenti forze in Italia per eliminare l’Austria, ma i suoi stessi generali non presero in considerazione la proposta e anche gli italiani non avrebbero accettato un aiuto cosi massiccio. Ci volle Caporetto perché arrivasse in italia un’armata anglo-francese, non cosi forte da intaccare l’autonomia della guerra italiana. Alcuni distaccamenti di forze italiane vennero impiegate in Libia, Albania, Salonicco, contro il volere di Cadorna ma seguendo la politica estera di Sonnino. Nel 1911 fu condotta con successo l’invasione italiana della Libia (termine che indicava l’Africa settentrionale non egiziana, mantenuto al momento dell’indipendenza del nuovo Stato), condotta senza conoscenza del terreno, sottovalutando la resistenza dei locali e quindi con un enorme impiego di uomini. Dopo un contrattacco delle tribù seminomadi, che limitò il controllo ai porti. Le offensive furono riprese dal 1921 e solo nel 1931 fu schiacciata la resistenza. C’è poi l’imperialismo italiano verso l’Albania, vicina alle coste pugliesi e poco appetibile alle altre potenze. Fu occupato il porto di Valona dai bersaglieri a fine dicembre 1914 e l’occasione per penetrare più a fondo fu quando nell’autunno 1915 i resti dell’esercito serbo cercarono scampo nell’Albania settentrionale. Furono aumentate, contro le proteste di Cadorna, le truppe di stanza in Albania, occupando Durazzo e portando in salvo 270.000 serbi e 23.000 prigionieri austriaci, ma l’ostilità della popolazione e l’arrivo di truppe austriache nel febbraio 1916 provocarono il ripiegamento italiano e lo sgombero di Durazzo. Nel 1916 ci furono scontri locali con truppe austriache nell’Albania centro- settentrionale. L’occupazione italiana rimaneva precaria e nel 1919, col rilancio della politica italiana di espansione adriatica, l’occupazione fu estesa a quasi tutto il paese, senza trovare un sostegno efficace tra le diverse forze albanesi. Le continue proteste e le terribili condizioni, oltre che l’ostilità locale e la guerriglia, costrinsero il governo Giolitti nel 1920 a rinunciare all’Albania. La presenza italiana sul fronte di Salonicco fu dignitosa ma non sconvolse il fronte in alcun modo. In definitiva, i teatri minori della guerra italiana assorbirono cospicue forze difficili da calcolare e sono una riprova della debolezza dell’imperialismo italiano, costretto a puntare su regioni marginali senza la possibilità di competere per altri più ricchi bottini. La forza dell’esercito Impossibile calcolare quanti italiani fossero emigrati nei 20 anni prima del conflitto e quanti emigrarono alla chiamata della leva, quanti di loro erano emigrati temporanei e quanti invece erano definitivi. Nel 1914 si calcolano circa sei milioni di italiani all’estero, ne rientrarono 304.000 allo scoppio della guerra. Non c’è dubbio che la maggior parte degli uomini disponibili fu chiamata alle armi, molti di loro erano fisicamente inadatti per mancanza di cibo (molti nelle caserme mangiavano meglio che a casa) e riformati, abbiamo cifre dettagliate sugli uomini mobilitati per il conflitto ma non possiamo rapportarle alla popolazione effettiva. Dal volume La forza dell’esercito. Statistica dello sforzo militare italiano nella Guerra Mondiale, del col. Fulvio Zugaro, abbiamo le cifre della forza mobilitata, che però lasciano molti problemi. Non abbiamo dati sugli uomini rimasti in paese. Per chiamare alle armi circa sei mln di uomini non bastò chiamare le classi dalla 1874 compresa alla 1900, fu abbassata la statura massima da 154 a 150 cm, furono arruolati molti tra i riformati delle classi anziane. La renitenza era piuttosto bassa a inizio conflitto e si alzò per via dell’emigrazione. Su 5.903.000 uomini chiamati alle armi vestirono l’uniforme 5.039.000, di cui il 48,7% provenienti dal nord, il 23,2% dal centro, il 17,4% dal sud, il 10,7% dalle isole. Il 32,5% apparteneva alle classi 1874-1885, il 40,7% alle classi 1886-1895 e il 26,7% alle classi 1896-1900. Il dato più sicuro per le perdite degli uomini al fronte (4.200.000) è di 650.000 morti. Capitolo quarto – GLI UOMINI IN GUERRA 1. La trincea 1.1. Miti e interpretazioni del tempo La passività, la disciplina cieca, i benefici automatismi di caserma e di trincea plauditi come codice comportamentale nei Discorsi militari di Boine e di Prezzolini o nei Saggi di psicologia militare raccolti da Gemelli nel volume del 1917 intitolato Il nostro soldato stanno su itinerari che deprecano qualunque forma di attivizzazione delle masse. Il fatto che il “proletariato delle trincee” accenni a volontà, reazioni, comportamenti attivi e propri è sgradito a quegli autori, mentre attrae il giovane Malaparte che fra il 1917 e il 1921 ha delle ambivalenze che possiamo definire potenzialmente sia fasciste sia potenzialmente comuniste, comunque sovversive rispetto agli elogi della passività e della rassegnazione sociale. Nel 1915-18 il concetto che va per la maggiore è la rassegnazione, si sviluppa l’immagine di un esercito contadino reso capace di tollerare le fatiche della guerra senza sapere e senza chiedere perché. Nessuno più dei cattolici agli occhi delle autorità militari è capace di rassegnazione e passività. Anche gli interventisti democratici si piegano all’etica della rassegnazione e alle forme minimali e apatiche di consenso. La guerra di massa, rivelando l’incomunicabilità e la distanza fra lo stato liberale e le masse contadine, riconferma il mandato sociale della Chiesa e apre la strada alla supplenza cattolica. Se questo concetto d’ordine di gregaria passività ha aderenti a sinistra tra coloro che considerano giusta la guerra e visi adeguano per realismo, ci sono dimostrazioni di malumore a destra, fra uomini d’ordine ai quali sarebbe piaciuto un patriottismo più franco e agguerrito e una disciplina meno parassitaria. Tra questi vi è Carlo Emilio Gadda. 1.2. La quotidianità La monotona vita di trincea era dipinta nei disegni di Achille Beltrame e nelle pagine del giornale di trincea “La Tradotta” come un microcosmo gioioso, dove ogni soldato era intento a compiti e mestieri della vita quotidiana e la violenza non era mai rappresentata. Secondo gli studi che sono stati condotti sulle forme di comunicazione di massa dell’epoca l’esclusione della violenza era un modo per far svagare e divertire di più i soldati o per trasmettere ai civili un senso di tranquillità, mentre era controproducente dare al soldato in mano un’immagine del genere, dato che può facilmente misurarne il divario con la realtà. La condizione delle trincee era determinata da molti fattori: quando erano state costruite, da chi (gli austriaci prima della dichiarazione di guerra italiana e nelle settimane successive utilizzano civili e militari che a orari forzati devono scavare le trincee) e in che condizioni (in tempo di pace o col pericolo del fuoco nemico). Generalmente quelle austriache erano migliori perché di natura difensiva e perché favorite dalla barriera naturale, quelle italiane, adibite soprattutto per l’assalto, erano meno profonde e meno complesse, anche se una volta abbandonate le speranze di una guerra breve iniziarono a somigliarsi. Di cosa è fatta la vita quotidiana del fante fuori dal combattimento? Anzitutto la costruzione o manutenzione della trincea che il maltempo e il fuoco nemico non permettono di considerare finita. Poi si prova a rendere l’ambiente dove si vive più familiare e sicuro, una nicchia per rendere meno estranei i luoghi e per dormire più comodi, poi il favorire il regolare arrivo del rancio e della posta, due momenti fondamentali della vita del soldato, sempre a metà tra la routine e la sua interruzione. Le lettere sono un elemento fondamentale, negli “eventi separatori”, come appunto la guerra o l’emigrazione, anche gli illetterati dovevano ingegnarsi per scrivere e leggere, in modo da avere un contatto con la vita normale. L’atrofizzazione dell’io, il non senso, l’ansia costante sono elementi onnipresenti nella vita in trincea. 1.3. L’assalto È l’altro momento centrale nella vita del soldato, che vive in mezzo ai cadaveri di quelli di cui ha preso il posto e dal cui destino si può salvare solo con il cambio. Secondo le testimonianze che abbiamo di questi momenti, la maggior parte che vengono da ufficiali di complemento, mettono in luce la natura spietata della tattica offensiva di Cadorna. I contrasti tra gli uomini e gli ordini dei comandi che non si rendono conto dell’inutilità degli ordini stessi è spesso sottolineata nelle memorie. Gli ufficiali di complemento scrivono del rancore tra combattenti e comandi, alti e intermedi, che arrivano ad esplodere in varie forme. Il divario tra combattenti e non e l’incomunicabilità danno vita a scritti dove si dipinge l’assalto come un momento di gioia. 1.4. Disciplina e tribunali militari Mentre l’ammodernamento tecnologico era rapido, per quanto riguarda il settore giudiziario non ne avvenne alcuno, anzi, Cadorna inasprì le condanne. Il Codice militare con cui l’Italia entrò in guerra era quello del 1859 e i Codici degli altri eserciti erano poco più moderni. Si fece largo uso di misure sommarie, repressive, che spargevano il terrore, fino ad arrivare al metodo della decimazione. Questi metodi sottolineano l’idea diffusa in ambito militare che non vada punito chi ha commesso il suddetto crimine o infrazione, ma che si punisca il crimine per mantenere l’organismo. L’esempio più lampante è l’atteggiamento di Cadorna nei confronti dei prigionieri di guerra, si sospetta caduti volontariamente o senza aver opposto sufficiente resistenza. Il Codice di guerra infittito poi da parte di parlamentari come Luigi Gasparotto, Giulio Alessio, Nino Tamassia ecc… Un’altra iniziativa è quella del Teatro al fronte, finanziato privatamente e appoggiato anche dal critico del Corriere della Sera Simoni. Vengono inaugurati teatri al fronte che vedono soprattutto commedie; c’è poi il dramma patriottico di Girolamo Rovetta Romanticismo, che dotava di uno sfondo risorgimentale il conflitto con l’Austria. 2.3. Feriti e medici Nel giugno del 1915 l’esercito disponeva di 24.000 posti letto al fronte e circa 100.000 nelle retrovie. Negli anni successivi incrementarono a dismisura, già nel 1916 i posti letto al fronte erano 100.000. Vennero mobilitate varie migliaia di ufficiali medici, riuniti in un battaglione, ai quali si aggiungevano migliaia di infermiere volontarie della Croce Rossa, medici civili, farmacisti e anche gli ecclesiastici reclutati come soldati. Il trasporto di feriti e ammalati era assicurato da 59 treni ospedale, 24 della Croce Rossa e 4 dell’Ordine di Malta. Il problema vero era però al fronte, dove i feriti dovevano aspettare la notte per strisciare verso le proprie linee oppure attendere una di quelle tregue formali che permettevano di recuperare i feriti. Questi venivano poi trasportati in posti di medicazione in trincea, poi a spalla o in barella nell’ospedaletto avanzato, dove i medici stravolti dovevano scegliere tra i feriti da trasportare in ospedali più attrezzati, quelli più urgenti da operare sul posto, quelli che potevano attendere e quelli per cui non c’era speranza, lasciati morire con un cappellano e una fiala di morfina se c’era. Questi erano i posti più caotici e tremendi perché in spazi angusti si accumulavano feriti di ogni genere e i medici divenivano insensibili per il troppo lavoro. Contrariamente al pensiero prebellico la maggior parte delle ferite non era da arma bianca e da proiettile ma da artiglieria, quindi ricche di schegge e con vaste lacerazioni, oltretutto sporche per i detriti del campo di battaglia e questo portava alla gangrena gassosa, non curabile e che portava inevitabilmente all’amputazione. Potenziare gli ospedali più avanzati non era possibile per via della troppa vicinanza al fronte e velocizzare i trasporti non era efficace perché le strade erano intasate dai rifornimenti che avevano la precedenza sulle autoambulanze e i carri di feriti. L’assistenza immediata ai feriti fece importanti progressi ma era comunque insufficiente durante le grandi offensive ma non si deve sottovalutare l’avanzamento in campo medico e le specializzazioni che ne derivarono. 2.4. L’incidenza delle malattie La guerra del 1915-18 fu la prima guerra in cui le morti per ferita superarono quelle per malattia. Su tutti i fronti dilagavano epidemie a causa del logorio psicofisico dei soldati in trincea. La situazione migliorò con le vaccinazioni di massa e col miglioramento dell’approvvigionamento alimentare. Sul fronte italiano si hanno più ricoverati per malattia in rapporto agli altri eserciti, questo può essere spiegato con il ritardo dello sviluppo italiano, che manteneva l’aspettativa di vita media ancora piuttosto bassa (43 anni nel 1901). Questo portava all’arruolamento di uomini minati da tubercolosi, tracoma, malaria e altre malattie molto frequenti in un paese sottosviluppato. La scarsa attenzione alla qualità della vita sul fronte italiano influì indubbiamente sul numero di malati e sul loro esaurimento psicofisico, questo è anche dimostrato dal modo in cui la spagnola, malattia di cui sappiamo ben poco ma che dilagò nel 1918 uccidendo milioni in Europa, riuscì a diffondersi in paesi portati allo stremo dal conflitto. 3. Gli studi sui soldati 3.1. Cosa sappiamo dei soldati Cosa sappiamo degli oltre 4 milioni di soldati italiani che hanno partecipato al conflitto? Sui circa 200.000 ufficiali abbiamo più materiale grazie agli epistolari dei caduti curati dalle famiglie e alle lettere in generale. Tra ufficiali e soldati c’è una netta distinzione di classe, era infatti richiesto prima il diploma e poi l’iscrizione al penultimo anno delle superiori per essere ufficiale e in Italia questo restringeva il campo di reclutamento ufficiali alla classe dirigente. Il fatto che questo fosse il metodo di selezione è indice della necessità di arruolare decine di migliaia di nuovi ufficiali senza una preparazione accurata e senza una selezione autentica. Questa distanza socioculturale ci aiuta a spiegare perché nelle memorie degli ufficiali questi non si chiedano chi siano i loro sottoposti ma si limitino a comandarli, rendendo difficile il lavoro a chi vuole conoscerli. Secondo padre Gemelli, consulente del Comando supremo per la psicologia delle masse, durante la vita di trincea il soldato riesce a pensare sempre in un campo meno ampio, riducendo la sua vita mentale, passo necessario per sopravvivere alla brutalità degli eventi. In questo senso il contadino soldato è avvantaggiato rispetto al cittadino perché gli è più facile adattarsi all’abbruttimento della vita. Questa è l’interpretazione dominante negli alti comandi. Le interpretazioni dei soldati sono sempre le stesse: c’è il “soldatino” che combatte per obbedienza e senso del dovere al quale è contrapposto l’alpino, che maledice la guerra e Cadorna ma è un combattente devoto; c’è poi l’eroe che cerca una morte eroica, l’ardito che ama la guerra e la fa con una ferocia che desta brividi e qualche sospetto e il vile che può diventare disertore. Stereotipi presenti nella memoria e nella propaganda ma che ci aiutano per un’analisi seria. Nelle fonti acquisite recentemente si documenta la presenza di sentimenti di protesta e di rifiuto che le fonti tradizionali avevano cancellato. Resta difficile misurare in che misura fossero diffusi. Non è un caso solo italiano ma presente in egual misura nelle storiografie straniere. 3.2. Il consenso Se negli eserciti francese e tedesco la retorica nazionalista aveva più presa sui soldati (la difesa della nazione da un’aggressione ingiusta e pericolosa), sul soldato italiano questi discorsi non avevano presa, bisognava spiegargli che doveva combattere per l’onore, il dovere, l’acquisizione di territori che ignorava ecc… Avevano motivazioni più semplici e comprensibili gli austro-ungarici, molti dei quali si battevano per fermare l’espansionismo italiano. Le motivazioni non dovevano essere reali ma credute dalle truppe. I soldati italiani dovevano sopportare uno sforzo maggiore a causa della mancanza di una causa patriottica, la classe dirigente si occupò a malapena della propaganda fino a Caporetto. Cadorna si occupava di mantenere la disciplina tramite la repressione più che di fornire motivazioni valide ai soldati e il modo di governare le masse da parte dell’autorità militare rifletteva la gestione della politica da parte della destra di Salandra e Sonnino. I soldati quindi non capivano le ragioni della guerra di Cadorna ma la repressione non era l’unico motivo per cui si abituavano alla vita al fronte. Grazie alla società italiana contadino-cattolica le reclute erano predisposte all’obbedienza, all’accettazione di una gerarchia, della fatica, del sacrificio e del destino. Il comportamento contraddittorio degli alpini rispetto alla politica di disciplina cadorniana non mina la loro capacità di combattimento dato che sono considerati tra le truppe più efficienti. La complessità e contraddittorietà dei loro comportamenti non sarà stata una prerogativa solo degli alpini. A causa della mancanza di iniziative politiche la responsabilità del consenso dei soldati fu scaricata solo sull’esercito, che oltre alla repressione aveva altri modi per coinvolgere. L’inquadramento in un battaglione, l’azzeramento delle qualifiche e condizioni civili e il ripartire da un grado unico per tutti, con la stessa uniforme e con le stesse regole e ritmi rigidi serve a sostituire le regole di vita che si sono perse con l’entrata nell’esercito. L’identificazione col reparto ed il legame con i compagni sono elementi cruciali. La coesione col reparto fornisce la motivazione al soldato per affrontare i pericoli, per solidarietà verso i compagni, i piccoli reparti garantiscono la coesione su un livello orizzontale, mentre il livello verticale dell’inquadramento gerarchico garantisce una guida. Considerare i soldati in trincea come schiavi uniti dal terrore è sbagliato e irrealistico, perché un esercito cosi numeroso combatta serve intelligenza e dedizione a tutti i livelli a cominciare dagli alti comandi. 3.3. Il rifiuto Il rifiuto è più significativo del consenso in quanto è testimone di una condizione di scontento e rivolta. Contrariamente a ciò che credeva Cadorna le indagini dei carabinieri non trovarono mai infiltrazioni socialiste, comuniste o anarchiche nell’esercito, i socialisti applicavano alla lettera lo slogan “né aderire né sabotare”, erano quindi indifferenti al conflitto mentre i cattolici erano per la maggior parte contrarie alla condanna del conflitto espressa da Benedetto XV. Il rifiuto è di vari tipi, le fughe individuali si contano a migliaia e sono inquantificabili per la maggior parte. Il rifiuto provocato dalle nevrosi di guerra sono tendenzialmente viste dal comando come atti di autolesionismo o di finzione ma sono difficilmente classificabili. Delle oltre 100.000 condanne di diserzione quelle definitive una percentuale molto piccola riguarda diserzioni definitive come il passaggio al nemico o l’autolesionismo, la stragrande maggioranza sono soldati che si rifugiavano nelle retrovie, quelli che prendevano arbitrariamente una licenza e quelli che prolungavano di propria iniziativa una licenza legittima, probabilmente sarebbero state evitate se si fosse data maggiore attenzione al regime di licenze. Per quanto riguarda i rifiuti collettivi, per quanto siano difficili da classificare come reati di insubordinazione o ritirate per il soverchiante numero di nemici, abbiamo numeri più alti nei primi due anni di guerra con un rapido calo nel 1917, indice di come fossero il risultato di una politica di repressione dei comandi. Abbiamo poi una documentazione incompleta ma interessante sulle manifestazioni di protesta delle truppe che avvenivano quando un reparto a riposo riceveva l’ordine di tornare in prima linea e iniziava a sparare in aria; a parte uno in tutti i casi la protesta si fermava qui. Sono documentati undici casi, si presume i più gravi, anche perché puniti con fucilazioni sommarie. Solo in un caso, il 16-17 luglio 1917 nell’accampamento della brigata Catanzaro ci furono varie sparatorie e propositi di resistenza. Successive indagini portarono all’arresto di 123 soldati e 4 fucilazioni, senza indizi di organizzazione o premeditazione della protesta. Queste proteste hanno il solito risultato, a parte il caso della Catanzaro non si hanno feriti, gli ufficiali non sono presi di mira e il giorno dopo il reparto torna in trincea e si comporta come gli altri, a significare che i soldati conoscevano il limite tra protesta e rivolta. Possiamo fare un confronto con le proteste francesi del 1917, che si svolsero nei limiti delle proteste collettive italiane ma ebbero ripercussioni più gravi. I comandi francesi non accusarono i soldati di tradimento o viltà, conclusero che le rivolte erano dovute alla stanchezza, alle perdite enormi e agli assalti mal condotti e accettarono di modificare la condotta della guerra. Cadorna invece scaricò la responsabilità delle sue ben minori proteste sul disfattismo socialista o cattolico e non mise in discussione la sua strategia offensiva o le condizioni di vita dei soldati, fece quindi il possibile per alimentare lo scontento delle truppe. Capitolo quinto – IL FRONTE INTERNO 1. L’economia di guerra 1.1. Caratteristiche generali rimproverati agli industriali, che vennero anzi mostrati come patrioti mentre si rimproverava agli operai i loro salari e i loro esoneri. 1.5. Il costo della guerra La guerra impoverì la stragrande maggioranza degli italiani, l’agricoltura fu colpita pesantemente sia nel rendimento della terra sia nella diminuzione delle aree seminate. La fame era diffusa, le razioni militari superavano abbondantemente quelle civili sia in carne sia in pane, grazie all’apporto di grano statunitense pagato con i prestiti di guerra. Nonostante questo la guerra sottomarina tedesca mise in difficoltà l’arrivo di rifornimenti, nell’estate 1917 portò le grandi città sull’orlo della rivolta (Torino). Le privazioni provocarono mezzo milione di morti in più del normale, un ritorno della malaria, della tubercolosi e di altre malattie endemiche oltre che di problemi nati nelle fabbriche di armi e esplosivi, nelle quali la prevenzione igienico-sanitaria venne messa da parte. Le spese spaventose del periodo bellico dimostrano la capacità della classe dirigente liberale di spremere dal paese i sacrifici di risorse e sangue per condurre con efficacia la guerra, cosa che l’Italia fascista fallirà tremendamente. 2. Il regime di guerra 2.1. L’opera dei governi Il governo Salandra è caratterizzato dalla destra liberale, il pdc Sonnino, uomo guida dei conservatori, è agli Esteri, abbiamo poi il vecchio patriota Martini alle Colonie e un tocco di liberalismo più moderno con Orlando alla Giustizia. L’ingresso di Orlando in sostituzione di San Giuliano (deceduto) segna il passaggio dal primo al secondo governo Salandra nel novembre del 1914, che durerà fino alla Strafexpedition (18 giugno 1916). Col governo Boselli la composizione copre uno spazio politico più largo e variegato: ci sono i cattolici con Filippo Meda alle Finanze, i socialriformisti radiati nel 1912 dal Partito socialista: Ivanoe Bonomi ai Lavori pubblici e Leonida Bissolati, figura prestigiosa. Orlando subentra allo strategico ministero degli Interni al posto di Salandra e il nuovo pdc ha ruolo di mediatore a differenza del più politicamente caratterizzato Salandra, questo bilancia Sonnino che, rimanendo agli Esteri da inizio a fine guerra, si dimostra l’uomo forte e l’elemento di continuità de tre governi. 1917 istituzione del ministero delle Armi e Munizioni. In piena crisi di Caporetto (30 ottobre 1917) diventa pdc Orlando e mantiene gli Interni. Entra un riformista nelle Finanze, Nitti (nel 1919 succederà Orlando e più avanti sarà un esule antifascista). Uno dei primi atti del governo è la sostituzione di Cadorna con Diaz, scelta militare ma anche politica e che chiude due anni di competizione tra le due sfere. Il governo Salandra, pur non essendo espressivo della maggioranza parlamentare rimasta fedele a Giolitti, compie però due grandi scelte: quella della neutralità nel luglio 1914 e l’intervento dieci mesi dopo dalla parte opposta. La figura di Boselli è una figura di mediazione richiamata dalla memoria risorgimentale meno spigolosa di Giolitti, Salandra o Cadorna. Nel suo governo ci sono uomini esterni al partito liberale tra cui Orlando, esponente dell’area giolittiana e a capo degli Interni e che diventerà pdc o Leonida Bissolati, ministro dell’Assistenza militare e Pensioni di Guerra.. Il fatto che sia considerato debole e accomodante con il “nemico interno” e che proprio lui, raccolta l’eredità di Boselli, sostituirà Cadorna dimostra il gioco di pesi e contrappesi da cui verrà la vittoria. In questa fase finisce il conflitto tra Roma e Udine (e oramai tra Roma e Padova) e viene privilegiata una scelta “morbida” che porterà ad un equilibrio che funzionerà. 2.2. La propaganda Prezzolini, coinvolto nella fase finale della guerra nella proapganda organizzata, nel dopoguerra fissò una periodizzazione del morale delle truppe. Caporetto segna lo spartiacque dell’organizzazione propagandistica. Per aggirare le prevenzioni che l’idea tradizionale cadorniana che gli intellettuali siano di troppo nell’esercito imponevano a quanti volevano impegnarsi per il morale delle truppe si profilarono tre modi: l’opera di Minozzi che, in quanto sacerdote, può realizzare un’azione di supplenza riparata rispetto a politici e militari in sedi finalizzate alla messa, quindi in luoghi non riconducibili a palchi per la propaganda (la quale non mancava); la seconda via è la presenza di onorevoli al fronte, alcuni più tollerati di altri dai comandi e dai soldati, tra cui si distinguono gli interventisti senza obblighi militari che partono volontari, i quali non sono figure fatte per essere apprezzate da tutti i soldati ma le cui parole sono piuttosto credibili. Tra questi ci sono Bissolati, D’Annunzio, Gasparotto… Bissolati, figura della redenzione politica, richiama molto Mussolini, due personaggi della sinistra, uno sergente e uno caporale, leader dell’estrema destra socialista e dell’estrema sinistra, con ipotesi diverse sul futuro ma la morte precoce di Bissolati nel 1920 libererà l’astro nascente del fascismo dalla concorrente dell’Italia “trincerista”. La terza via per aggirare il cadornismo è proposta dai militari più aperti al nuovo e disposti a sperimentare forme di disciplina più complesse, tra questi il generale Capello, comandante della II armata, aspirante successore di Cadorna, borghese e non aristocratico, circondato da intellettuali e non da preti, sensibile ai problemi del morale e impegnato nella costruzione di una rete di addetti alla propaganda. La rotta di Caporetto che lo travolse lo fece cadere dalla sua posizione e alla metà del 1918 scrisse una testimonianza difensiva in vista della commissione di inchiesta su Caporetto. Da quanto leggiamo dal tenente colonnello Alessandro Casati in un suo promemoria Capello gli affida il compito di istruire una quarantina di ufficiali alla propaganda, i temi non sembrano sconcertanti (Ragioni morali ella guerra europea, necessità della nostra guerra, la disciplina è fattore di vittoria, cameratismo e fiducia reciproca sono coesione, il passaggio al nemico è il delitto più ignominioso di cui si possa macchiare un uomo, spirito aggressivo…). Ciò che infastidiva i conformisti doveva essere il coinvolgimento del soldato semplice. In una conferenza di Capello a Vipulzano in aprile del 1917 si annuncia ai comandanti delle varie armi e reparti della zona di Gorizia la messa a punto ella rete di divulgatori delle sue “idee parlate”. 2.3. La mobilitazione degli spiriti In una lettera del 3 novembre 1915 del meridionalista Fortunato ad un altro pubblico critico dei trasporti bellicisti e intesofili evinciamo una totale sfiducia nella classe intellettuale (“Che magnifica cosa il contadiname e che sporcizia gli “intellettuali”!”). Da questo capiamo il perché della sfiducia nell’opera di propaganda che dovrebbe essere portata avanti proprio da intellettuali. In altre lettere al suo giovane corrispondente al fronte il pessimistico Fortunato esprime un fatalismo della razza italiana, visto come risorsa sociale dell’Italia in guerra, il che ci riconduce agli apprezzamenti di Croce per la saggezza popolare. Lui, che possiamo definire un rappresentante del “paese reale”, cioè del mondo contadino e in particolare quello meridionale, tornerà all’umore nero con la Strafexpedition e quando nell’agosto del 1917 don Giustino verrà ferito a coltellate da un contadino verrà visto da tutti i contadini come un altro “signore” che ha voluto la guerra per liberarsi dei contadini, proprio lui che era sempre stato neutralista, loro ex rappresentante e patrono. Durante le fasi della mobilitazione degli spiriti a favore della guerra mancò quindi un disegno complessivo, sia durante la campagna interventista sia durante l’ultimo anno di guerra. La tenuta del fronte e del paese si appoggiano a meccanismi che non poggiano su un sentire comune. L’unica mobilitazione effettivamente messa in atto è quella militare, la cui disciplina, inalveandosi su quella preesistente, prescinde da interventi e comportamenti più consapevoli e attivi. In molti anche prima del 1917 si mobilitano autonomamente, tra questi riconosciamo le forme di volontariato civile molto partecipate (crocerossine, madrine di guerra, maestri e professori…). 2.4. L’altro esercito In Italia è impossibile portare socialisti al potere. In Francia è il socialista Albert Thomas a capo del sottosegretariato degli Armamenti e Fabbricazione di guerra, in Italia è il generale Dallolio. Entrambi sono uomini energici e capaci, il primo però sottomette i capitalisti privati e il mercato a agli interessi generali e alle regole di un piano economico statale mentre l’altro lavora con un altro spirito. Elementi di dirigismo economico vengono però introdotti anche in Italia nei rapporti tra pubblico e privato, necessari per incrementare la produzione e che raggiungono l’obiettivo. Allo stesso tempo anche le aziende accrescono enormemente il loro capitale e il numero di dipendenti. La militarizzazione delle fabbriche con l’ingresso di ufficiali accanto ai proprietari per gestire il lavoro secondo regole rigide e unificanti sottoposte al controllo dei comitati di mobilitazione industriale fanno emergere un percorso simile a quello degli uomini al fronte, con bisogni e urgenze che non vengono ascoltati né repressi. L’apparato in mano a Dallolio non si riduce però alla sola repressione (ben presente anche grazie all’esistenza degli esoneri per i migliori operai e la minaccia di revocarli), è infatti presente una componente sindacalista rivoluzionaria. Vengono alzate le paghe più basse con aumenti mirati. Col proseguire della guerra i focolai “disfattisti” e i corto circuito tra fronte e retrovie aumentano sempre di più, sempre più spesso si grida “pane!” e sempre più spesso si sottintende “pace!”. Ma il centro industriale che in tempo di guerra esplode veramente è quello russo. A Torino fra il 22 e il 26 agosto scoppiano disordini a seguito di una visita dirigenti russi (non bolscevichi) i quali sono accolti al grido di “Viva Lenin” e “Viva la rivoluzione!”. Per sedare i disordini sono chiamati gli alpini che sparano sui civili uccidendone diverse decine. La repressione ha avuto successo a Torino e nel resto dell’Italia le notizie non arrivano a causa della censura; è indubbio che le autorità sappiamo che il livello di sopportazione della guerra da parte degli strati popolari è al limite. 2.5. Il controllo dei cittadini Le proteste di Torino non si estendono agli altri importanti centri operai come Milano o Bologna, nei quali l’amministrazione locale è affidata ai socialisti, cosi come Caporetto non si estende dalla seconda alle altre armate. Questo è indice del fatto che per innescare una rivoluzione non è sufficiente che vi siano le precondizioni in forma generalizzata, anche se accentuata dalla durata del conflitto, ci vogliono occasioni e circostanze precise altrimenti la rete delle obbligazioni e degli ammortizzatori sociali tiene. L’anno 1917 è quello in cui il rischio si fa più concreto. Il 5 gennaio il ministro degli Interni, bersaglio degli interventisti, si sfoga col direttore della “Tribuna” lamentando che non si scambino quattro donnette che, a Napoli o altrove, protestano per il pane. Anche Bissolati difende Orlando dalle accuse di fiacchezza verso i disfattisti. Corradini, capo di gabinetto del ministero degli Interni, spiega poche settimane prima che scoppino i disordini che i capi socialisti di Torino lavorano per impedire scoppi. Corradini esprime la preoccupazione che il transpartitico partito della guerra diventi il difensore estremo dell’interventismo e eccedendo si metta in pericolo, esprime la preoccupazione che scoppi una rivoluzione come in Russia. Dopo Caporetto, nel dicembre del 1917, considerata l’esito logico di una spirale di proteste ispirata dal nemico interno, Giolitti si esprimerà a favore dell’interazione col movimento operaio al quale Già dal 1914 l’imprevisto afflusso di prigionieri mise in crisi questo sistema, costringendo gli stati a trasferire, nutrire, custodire molti prigionieri per anni; vennero create grandi baracche di legno, circondate da reticolati e decentrate in campi su tutto il territorio nazionale o coloniale. La propaganda nazionale ovviamente insisteva sui trattamenti tremendi dei prigionieri riservati dal nemico, tentando di far apparire la prigionia peggiore della trincea. Le nazioni si impegnarono a rispettare le convenzioni internazionali ma Germania e austria-Ungheria già dal 1915 si trovarono in condizione di non poter nutrire adeguatamente i prigionieri nemici. Francia e Inghilterra stabilirono dei patti con la Germania per inviare razioni dalle famiglie e dal governo anche tramite associazioni umanitarie. La prigionia dei francesi è dunque accettabile secondo i criteri di valutazione del tempo, ovviamente la vita del prigioniero è sottoposta ad un durissimo regime dove è isolato dalla famiglia e dalla patria ad eccezione di sporadiche lettere sottoposte a censura. Si vive in ambienti ristretti e si perdono le differenze di origine e condizione in attesa della liberazione. L’aspetto più penoso della condizione del prigioniero è il sospetto diffuso in patria che la sua resa fosse dovuta a una diserzione mascherata o a ridotta volontà di lotta. Per gli italiani questo fu professato molto dal comando Cadorna, in Francia ci vollero 10 anni di lotte della Fédération nationale des anciens prisonniers de guerre per far loro riconoscere la maggior parte dei diritti degli ex combattenti. 4.2. I prigionieri italiani, una storia cancellata 4.3. Centomila morti per scoraggiare le diserzioni 4.4. La sorte dei prigionieri 4.5. I prigionieri austriaci CAPITOLO SESTO 1917. La svolta della guerra 1. Un anno di crisi 1.1. La stanchezza degli stati in guerra L’anno 1917 segna un punto di svolta, è il quarto anno di conflitto per l’Europa e il terzo per l’Italia. Una serie di crisi drammatiche, tra cui la più importante è quella che avviene in Russia, che crolla sotto la rivoluzione bolscevica che si impadronisce del potere centrale e conclude la pace a caro prezzo, cambiano il quadro complessivo. Germania e Austria-Ungheria si liberano dell’incubo di dover combattere tra due fronti. Una crisi di dimensioni minori si verificò all’interno dell’esercito francese dove nel maggio-giugno del 1917 molti reggimenti rifiutarono di tornare in trincea. La crisi fu limitata ad una parte dell’esercito e poté essere riassorbita al prezzo di cedere il ruolo maggiore sul fronte occidentale all’esercito inglese ingrandito. In Italia un attacco austro-tedesco a fine ottobre costrinse Cadorna a ordinare la ritirata, che per la II armata si tramutò in rotta. L’esercito quasi dimezzato riuscì a resistere sul Grappa e sul Piave. Gli Imperi centrali non seppero e non poterono approfittarsi della crisi dell’Intesa; l’Austria-Ungheria stava attraversando una crisi interna, le perdite spaventose, la mancanza di rifornimenti alimentari, il rilancio dei nazionalismi, tanto che dovette chiedere aiuto alla Germania per l’offensiva di Caporetto, dopo la quale trovò respiro ma fu inutile tentare di aprire le trattative di pace per chiudere una guerra ormai insostenibile. Nel gennaio 1917 la Germania, pur scossa da rivolte interne, riuscì a rinsaldare il controllo dello Stato e a lanciare una guerra sottomarina che mise in crisi gli inglesi ma che riuscirono a resistere. Il tempo giocava contro i tedeschi, la loro ultima carta saranno le offensive della primavera del 1918. A fine 1917 si era persa la fiducia nella vittoria assoluta, gli stati non sapevano però come portarla a conclusione. 1.2. La fine della Russia zarista Il crollo della Russia nel 1917 non fu cosi inaspettato se consideriamo le condizioni del paese. L’Impero zarista aveva conosciuto una forte crescita industriale (industria pesante militare), cinquant’anni prima era stata abolita la servitù della gleba per permettere il servizio militare obbligatorio ma la nobiltà latifondista era ancora potente e non si era formata una borghesia moderna. L’esercito russo era enorme ma mancava di artiglieria media e munizioni, i suoi uomini erano valorosi e anche i suoi ufficiali, ma erano poco preparati e rispondevano ad un alto comando mediocre. Mancò un aumento della produzione industriale, questo fu causato in parte dal blocco dei rifornimenti (gli aiuti alleati potevano arrivare solo dall’Oceano glaciale artico) che fece rimanere l’industria militare indietro rispetto a quelle degli altri paesi belligeranti, la debolezza delle autorità dinnanzi agli industriali che non avevano bisogno di aumentare la produzione per arricchirsi e la corruzione e l’inefficienza della burocrazia. A questo va aggiunta la crisi della distribuzione interna e delle ferrovie che affamava le città e l’esercito e la repressione poliziesca come unico strumento di coesione sociale. L’importanza dei sacrifici dei russi sul fronte orientale non è però da sottovalutare, per tutto il 1915 combatterono sull’offensiva senza preoccuparsi delle perdite e mettendo una crescente pressione su Germania e Austria. In maggio non avevano più riserve per fronteggiare l’offensiva tedesca e nei mesi seguenti mancavano di fucili, cannoni, granate, alcuni reparti combattevano disarmati e dovevano recuperare i fucili dai caduti. Quando in autunno i tedeschi si fermarono per preparare Verdun i russi avevano perso la Polonia, la Lituania, la Galizia, due milioni e mezzo tra morti e feriti e un milione di prigionieri; si registrarono i primi casi di crollo. Nei mesi seguenti gli austro-tedeschi concentrarono le loro truppe ad ovest e i russi tornarono all’attaco sotto richiesta dei francesi e degli italiani. Sul fronte tedesco l’offensiva russa del marzo del 1916 verso il lago Naroc fu catastrofica, sul quello austriaco nel giugno il generale Brusilov ottenne successi inaspettati, entrando in profondità in territorio austriaco nonostante la scarsezza di mezzi dell’esercito. I tedeschi tapparono la falla e ritornarono sull’offensiva, costringendo i russi a ripiegare con perdite spaventose. In autunno dovettero correre in aiuto alla Romania. A fine operazioni avevano perso altri 2.700.000 uomini e gli unici successi che ottennero furono sul fronte del Caucaso contro i turchi, respinti nonostante la superiorità numerica. Nonostante l’estrema ubbidienza di queste truppe si resero conto di essere usati in maniera offensiva senza che ci fossero i mezzi. Fino all’estate del 1917 le truppe al fronte restarono comunque disciplinate, a luglio condussero un’offensiva fallimentare, erano le truppe nelle retrovie a rivoltarsi contro gli ufficiali e ad appoggiare le forze rivoluzionarie. Il primo marzo “l’ordine numero uno” del soviet di Pietrogrado istituiva i consiglie dei soldati in tute le unità della guarnigione e affidava oro il controllo dei reparti e degli ufficiali, dando inizio ad un movimento inarrestabile. Nei primi di settembre si ebbe il crollo, il tentativo controrivoluzionario del generale Kornilov provocò un’ondata di violenze verso gli ufficiali, uccisi a migliaia. L’esercito poi si sciolse, i soldati tornarono verso casa dove si impadronirono delle terre massacrandone i proprietari. Soltanto il primo settembre i tedeschi presero Riga sperimentando tecniche d’assalto che saranno usata poi a Caporetto e in Francia. In dicembre concessero un armistizio provvisorio al governo bolscevico, con condizioni durissime che pure Lenin fece fatica ad accettare: la pace di Brest-Litovsk implicava la perdita della Finlandia, dei paesi baltici, dei territori polacchi, dell’Ucraina, dell’Armenia e pesanti riparazioni economiche. Anche la Romania dovette arrendersi e cedere territori e petrolio. La chiusura del fronte orientale permise agli austro-tedeschi di spostare notevoli forze contro i franco-britannici e gli italiani. 1.3. Gli ammutinamenti francesi del 1917 In dicembre il governo francese liquidò Joffre, sostituendolo con Nivelle, generale che si era dimostrato valoroso durante degli obiettivi nella battaglia di Verdun. Nivelle lanciò una serie di offensive in aprile sull’Aisne, contro lo Chemin des dames, che si risolsero in sanguinose disfatte che furono accolte con grande delusione. Nivelle venne sostituito l’11 maggio con Pétain, generale prudente e tenace. In questo periodo cominciarono gli ammutinamenti della fanteria francese, secondo Pedroncini 250 casi in 65 divisioni, verificatisi tra maggio e giugno nella zona dell’offensiva di Nivelle. Erano reparti in seconda linea che si rifiutavano di tornare in trincea per attaccare, sparavano in aria, non attaccarono gli ufficiali e in 12-24 ore tornavano in ordine. Non ci sono tracce di organizzazione sovversiva né di propaganda pacifista, sono ammutinamenti spontanei nati dalla paura e dall’odio verso i sanguinosi attacchi. I soldati non si rifiutavano infatti di tornare in trincea per difendersi dagli attacchi tedeschi ma di attaccare a loro volta. Nonostante molti generali additino agitatori esterni o socialisti come causa, Pétain e il governo erano convinti che ci fosse bisogno di una repressione moderata senza interventi drastici, accompagnata da un’opera di ricostruzione del morale e dell’obbedienza dell’esercito. Nell’esercito francese la maggior parte delle condanne a morte era seguita dalla grazia. Pétain si impegnò a fondo per migliroare le condizioni di vita dei soldati, curando il vitto, l’equipaggiamento, i turni in trincea, l’organizzazione elle posizioni, anche con frequenti ispezioni personali al fonte, valorizzate dalla propaganda. Fino a fine anno i francesi attaccarono solo con azioni limitate preparate con grandi concentramenti di artiglieria, il 20 agosto a Verdun e il 23 ottobre sullo Chemin des dames. Di conseguenza furono gli inglesi a impegnare il nemico nei mesi restanti del 1917. Haig, comandante delle forze britanniche in Francia, avevano finalmente un esercito di 64 divisioni (tra cui canadesi, neozelandesi, australiani) con molta artiglieria, con cui affermare il peso inglese nella guerra. Condusse un’offensiva nel settore di Harras e poi nelle Fiandre, lanciando molte ondate senza curarsi della tenace difesa dei tedeschi, portata avanti anche con nuovi metodi (difesa flessibile e immediati contrattacchi). Poi gli inglesi attaccarono a Cambrai il 20 novembre con 380 carri armati con un grosso successo iniziale, chiuso da un forte contrattacco tedesco. Riguardo agli ammutinamenti del 1917 le cause sono chiare: le truppe erano state spremute in tre anni di guerra senza risultati, con enormi sofferenze e oltre un milioni i morti, era comprensibile una protesta che metteva in discussione esclusivamente i sacrifici e la gestione del conflitto. La risposta di Pétain accettava la richiesta ma, non potendo finire la guerra, metteva fine agli attacchi e in questo modo si rinunciava al ruolo dominante della Francia del conflitto e ridimensionava le sue ambizioni, risparmiando il collasso dell’esercito mentre gli inglesi prendevano l’iniziativa e gli Stati Uniti continuavano a prepararsi per dare il colpo di grazia all’esausta Germania. Paragoniamo gli ammutinamenti francesi a quelli italiani: le proteste collettive hanno lo stesso andamento di quelle italiane quindi verosimilmente anche le stesse cause interne ma l’esercito italiano ebbe più rifiuti individuali e molte meno proteste collettive. A parità di situazioni il governo italiano non seppe imporsi su Cadorna, che scaricava le colpe sui nemici interni e sui soldati, attuando una repressione durissima come conseguenza per salvaguardare la propria figura mentre il governo francese si affido a un generale che capiva i bisogni dei suoi soldati, fece fronte alla situazione tenendo celata la gravità della crisi e non incolpando i soldati. 1.4. La guerra sottomarina Il problema su come risolvere la guerra tormentava anche gli Imperi centrali malgrado le vittorie sul fronte orientale. Hindenburg e Ludendorff, che avevano il coando dell’esercito tedesco dalla fine di agosto del 1916, riorganizzarono le loro truppe profondamente, ma appoggiarono la richiesta della enormi e battaglie con esiti deludenti. I generali e comandanti italiani erano rimasti fossilizzati sull’attacco, infatti un comandante d’ingegno come Capello aveva trascurato la difesa non solo per la rivalità con Cadorna ma anche perché non riusciva a immaginare una battaglia diversa da quelle che aveva gestito quindi dava per scontato che l’offeniva nemica sarebbe staa condotta con metodi simili. L’addestramento poi non era curato in modo sistematico, ci vorrà il trauma della sconfitta per superare le chiusure dell’offensivismo e affrontare una guerra più articolata. La fossilizzazione offensiva era un problema che toccò anche gli inglesi. 2.3. Lo sfondamento del fronte italiano Il corso ell’Isonzo era in mano agli italiani fino alla conca di Plezzo, dove il fiume sbuca dalle montagne, fino al mare, salvo la testa di ponte di Tolmino, che aveva resistito a tutti gli attacchi. La prima parte del fronte era presidiata da Cavaciocchi col IV corpo d’armata, davanti a Tolmino c’era Badoglio, le unità erano al fronte e dietro non c’erano altre posizioni stabilmente presidiate, le unità dislocate in profondità earno accampate senza predisposizioni difensive. Seguendo la bassa dorsale montuosa che corre lungo la sponda destra dell’Isonzo da Tolmino all’alto bacino del Natisone (cartina) si poteva attraversare oltre il fronte e sbucare a 20 km. Per Cividale. La XIV armata doveva conquistare il triangolo formato dall’Isonzo che piega a sud ovest e a sud est e il fronte ma si spinse ben oltre. Il 24 ottobre attaccò i suoi obiettivi e in due giorni erano raggiunti. L’attacco dalla conca di Plezzo fu facilitato dall’uso dei gas, gli attaccanti raggiunsero cosi Saga, ma l’attacco principale avvenne davanti Tolmino, dove la linea italiana era più forte. Non sappiamo se e quanto i pezzi di Badoglio abbiano fatto fuoco ma è certo che a causa dell’interruzione delle comunicazioni l’azione dell’artiglieria fu priva di efficacia. La sera del 25 ottobre la XIV armata aveva il controllo del triangolo e della catena che dominava la pianura e dalla stretta di Saga minacciava l’alto Tagliamento. Sul comportamento degli italiani abbiamo poche informazioni, sicuramente c’è stato disorientamento e sorpresa, la resistenza è stata a tratti violenta e a tratti debole, non ci sono testimonianze di reparti che abbiano tradito o si siano rifiutati di combattere. Le facilitazioni offerte all’avanzata nemica sono dovute a errori dei comandi o di singoli generali che persero la testa. 2.4. La decisione del ripiegamento Il successo della XIV armata fu agevolato dalla geografia e dalla mancanza di riserve italiane. Le truppe raggiunsero rapidamente la catena montuosa che dominava la pianura friulana, una posizione straordinaria che incombeva sulle retrovie e il grosso dell’esercito italiano a est dell’isonzo. Cadorna non disponeva di riserve per fronteggiare la minaccia e questo è forse il suo errore maggiore, l’aver sottovalutato il nemico. Le riserve disponibili non erano equipaggiate per l’attacco e non avevano pezzi in dotazione. Non potendo fare niente ordinò la ritirata il 25 sera. Cadorna non aveva dubbi sulle cause della sconfitta che era da attribuire ai soldati che avevano ceduto posizioni importantissime senza combattere, lo scrive in un telegramma il 25, poi la sera e il 27 emana il famoso telegramma che il governo riuscì a non fare diffondere nel paese ma non all’estero in cui denunciava la mancata resistenza di reparti della II armata vilmente ritiratisi senza combattere e ignominiosamente arresisi al nemico. Cadorna non aveva un quadro preciso della battaglia in corso, tantomeno notizie sul comportamento della II armata, la sua era una valutazione politica in difesa del suo ruolo della guerra. Nella notte del 26 emanò l’ordine di ritirata fino al Tagliamento della II e III armata, lo sgombero della Carnia e del Cadore. Erano ordini realistici, ma Cadorna credeva di aver completamente perso la II armata, decise quindi, senza sentire i comandanti, che le 20 divisioni non toccate dall’attacco erano minate dalla rivolta e quindi andavano sacrificate per proteggere la ritirata della III armata. Una nuova dimostrazione di come il generale avesse perso il contatto con la situazione. Il 27 stesso Cadorna abbandonò Udine e si trasferì a Treviso, a oltre 100 km. dal fronte, senza lasciare un comando provvisorio sul posto per la raccolta di informazioni e il collegamento con le truppe in movimento, lasciate senza una guida. 2.5. La rotta L’immagine più evocativa di Caporetto è senz’altro la rotta, che coinvolse centinaia di migliaia di soldati e civili con i loro averi, furono abbandonati migliaia di pezzi, armi, viveri e mezzi. Una parte dell’esercito si ritirò però in ordine, 300.000 uomini della III armata dal Carso al Piave, 230.000 della IV dal Cadore al Grappa, le due armate avevano a disposizione strade sufficienti e dovettero sostenere soltanto combattimenti di retroguardia. I 90.000 uomini della Carnia furono condannati alla prigionia dal ritardo con cui gli alti comandi ordinarono la loro ritirata. Il disastro dall’Isonzo al Piave coinvolse la II armata con 670.000 uomini e il milione di uomini nelle retrovie che facevano parte dei reparti non combattenti. I giorni peggiori si ebbero tra l’Isonzo e il Tagliamento, dove si ebbero quasi tutte le prdite, poi le truppe che erano riuscite a passare i ponti prima che fossero fatti saltare e la fiumana di sbandati poterono raggiungere il Piave con minore affanno. Parte delle brigate della II armata poteva ancora combattere alla prima difesa del fiume. L’attacco austro tedesco si arenò lentamente per la divisione sugli obiettivi e per la lontananza delle artiglierie. Non riuscirono ad arrivare al Tagliamento e al Piave prima degli italiani, riuscirono a bloccare le retroguardie e parte degli sbandati malgrado la confusione degli ordini in cui si ritiravano gli italiani. Non sono riportati episodi di violenza anche se sicuramente ci sono stati, i comandi avevano capito l’impossibilità di una repressione, le notizie di fucilazioni sommarie sono dubbie. 2.6. L’esonero di Cadorna Secondo lo studioso Lucio Ceva “non sarebbe esagerato affermare che Caporetto si tramutò in un costosissimo successo italiano” perché l’italia non fu costretta alla resa. È un’affermazione provocatoria in risposta alla strumentalizzazione del fascismo e della sinistra di Caporetto, l’uno per giustificare la dittatura mussoliniana e i limiti dell’italia liberale e l’altra perché la additava come rivoluzione mancata. Nei fatti, la battaglia fu un enorme successo per gli austro-tedeschi, che dimostrarono di saper innovare l’attacco efficacemente e fu una dimostrazione dei limiti dell’esercito italiano, della sua organizzazione prima che dei suoi soldati. I tedeschi avevano come obiettivo la ritirata italiana dalla Bainsizza, fu il caos logistico a trasformare il successo nemico in uan ritirata disastrosa fino al Piave. L’esercitò seppe però riprendersi e proseguire la guerra fino alla vittoria. Cadorna fu esonerato ma la decisione era già stata presa a fine ottobre, al momento della costituzione del governo Orlando, che pose al re come condizione per la sua accettazione la testa di Cadorna e scelse come ministro della Guerra il generale Vittorio Alfieri, a lui ostile. Questo perché era impossibile collaborare col generalissimo, ma fu lasciato in carica durante la ritirata. Il generale Foch, giunto in Italia per studiare l’invio di truppe alleate, ebbe un’impressione disastrosa del comando di Cadorna e il primo ministro inglese Lloyd George pose la sostituzione del generale come condizione per l’invio di aiuti. L’8 novembre Vittorio Emanuele annunciò l’esonero di Cadorna e lo stesso giorno emanò il proclama di Peschiera (“Italiani, cittadini, soldati”). Il nuovo capo di stato maggiore dell’esercito fu un generale poco conosciuto, Armando Diaz, perché non ve n’erano con requisiti necessari. Gli fu affiancato un uomo di Cadorna, Gaetano Giardino, che aveva garantito alla Camera lo stroncamento dell’offensiva austro-tedesca, e Pietro Badoglio, con un passato poco esaltante; il nuovo Comando avrebbe fatto ottima prova. 3. Caporetto, l’immaginario e le valutazione storiche 3.1. Una realtà virtuale Nonostante questa battaglia non rappresenti né l’esito né la chiave di lettura della guerra apparve tale a molti. Il fatto che questa sconfitta, seppur grande, abbia lasciato un segno così forte è indice della spaccatura tra mentalità, classi e partiti, la prova che la “patria” non esiste per moltissimi e un esempio della spaccatura tra governanti e governati, stranieri gli uni agli altri. Fu come una rivelazione di un sospetto preesistente per Cadorna, che subito addita i soldati, ma voci simili vengono un po’ da tutto il fronte interventista, che affibbia agli ex neutralisti la causa di aver coltivato l’ammutinamento militare e sociale, questi però rifiutano di essere etichettati come i disfattisti. Bissolati lo definisce uno sciopero militare, anarchia, rivolta, ribellione, “fare come la Russia”, cerca, come tutti, di dare forma all’ignoto, dato che nessuno nei primi giorni seppe cosa stava accaendo. Il Partito socialista si dissocia immediatamente da quell’immagine eversiva, c’è un ritorno del socialismo alla patria dopo il periodo neutralista 14-15. I giorni tra la sconfitta, la rotta e la ritirata ssono quelli in cui prospera una realtà virtuale, perché il bisogno di sapere si alimenta di sospetti e supposizioni. Questa sconfitta fu diversa perché fu vissuta in modo diverso e cosi si è radicata nella memoria, dato che è impossibile ricostruire con certezza ciò che veramente è accaduto. Sicuramente non ci furono trame politiche e si tratta di una “normale” sconfitta militare, ciò che la rende incomparabile è proprio l’alone immaginario che vi si è creato attorno. Quel periodo è ricco di irruzioni di dose massicce di virtuale come affioramento di strati profondi, di postulati e immaginni sociali che regolano i rapporti di coppie oppositive (ufficiali-soldati, destre e sinistre, città e campagna ecc…). Chi si sente membro della classe dirigente interpreta la rotta della II armata come l’esito naturale della storia dell’Italia unitaria: i contadini mai integrati presentano il conto alla nazione, l’Italia reale si sottrae al controllo dell’Italia legale; il pugno di ferro non è stato abbastanza di ferro. Cerchiamo di dar forma alle testimonianze. Secondo i più drammatici le cause se non sono politiche sono viscerali del paese. Forse l’Italia non esiste, la guerra è una forzatura e Caporetto è la risposta. Ojetti è un giornalista opinionista tra i più ascoltati, scrive sul Corriere della Sera, ha il favore di Cadorna, D’Annunzio, Albertini, sarà un promotore della propaganda. Scrive una lettera alla moglie estremamente negativa verso gli italiani, si chiede se siamo un popolo di fannulloni, di disonesti, di incoscienti e di servitori, dov’è c’è solo una minoranza di uomini e dove molti sono degli “sbandati”. Caporetto è letta secondo un criterio di “autobiografia della nazione” che non c’è e che esiste solo nelle illusioni e negli autorispecchiamenti delle élites, che leggono l’evento in chiave di rivolta servile. Per avere un’idea più precisa degli accadimenti di quei giorni avremmo bisogno di testimonianze scritte nelle immediate circostanze, perché la verità di Caporetto sta nella visceralità dell’impatto , in quel non sapere che si riempie di ombre e visioni. Invece sono stati pubblicate centinaia di libri anche nei decenni successivi, torturati da manipolazioni editoriali e autointerpretazioni interessate. Il Diario di un imboscato di Frescura (1919) e Viva Caporetto! Di Suckert-Malaparte (1921) ci restituiscono il senso e ci fanno entrare nel presente dell’incubo attraversato. La rappresentazione di Frescura è quella di un moderato, mentre quella di Malaparte, ovvero i un giovane interventista e volontario repubblicano, amplifica le inquietudini interpretative che avevano circondato l’evento Caporetto. Da voce a tutti i terrori borghesi. Suckert, repubblicano, cioè patriota e sovversivo, concepisce Viva Caporetto! in un ambiente in cui il dibattito su Caporetto è ancora aperto, quando la guerra si è conclusa ma il dopoguerra no. È cinico nei confronti del punto di vista borghese, definisce i soldati vigliacchi e traditori, una massa di rifiuti che saccheggiano il veneto al grido di “Viva la guerra!” “Viva la patria!”. Trieste nella responsabilità di un “noi” più vasto ed europeo che coincide con i popoli dell’Intesa, concordante con i quattordici punti di Wilson. Vediamo anche che i giornali cambiano linguaggio e significato a seconda del destinatario, in un giornale per ufficiali che riflette quindi le idee generazionali della classe dirigente al fronte coe “Fatti e commenti”, organo dell’VIII armata di Caviglia, il duo di autori Volpe-Radice scrive di idee totalmente differenti rispetto a quelle de “l’Astico”: in un numero del 1918 si nega la guerra ideologica dell’Intesa. 1.4. Gli stereotipi della guerra La comunicazione degli intellettuali tramite i giornali di guerra è spesso politicizzata e tende via via a dimenticarsi dei fanti e a concentrarsi su quel pubblico di ufficiali più letterato. È quasi impossibile per un intellettuale o comunque un letterato parlare ad un pubblico semi analfabeta, quasi nessuno ne ha i mezzi. In realtà nei decenni precedenti alla guerra una parte del pubblico si era alfabetizzata grazie alla religione, alla scuola, alla politica o alla letteratura, ad esempio i manuali tecnici, le conferenze delle università popolari, il giornalismo popolare cattolico e quello socialista, tutto questo rispondeva a bisogni e abitudini di lettura anche fra gli illetterati dei piccoli centri e persino della campagna. Il giornalismo popolare di Stato del 1918 si impianta in qualche modo su una rete di microgiornalismo popolare e ne sfrutta la crisi di autonomia dovuta alla censura del tempo di guerra. Tra i redattori dei giornali non troviamo preti ad eccezione per la redazione specifica de “Il Prete del campo” o lo “Svegliarino mensile per i chierici padovani soldati” del Seminario di Padova. Troviamo invece molti socialisti compatibili con la guerra, infatti “La Tradotta” è considerato il giornale più comunicativo ed efficace, infatti fanno più presa sui soldati i fogli scritti alla buona da giornalisti che quelli pensati e severi dei professori, e più di tutti i fogli illustrati dai disegnatori che quelli scritti da giornalisti. Questo ha come causa ed effetto un’infantilizzazione del popolo, l’esclusione del dramma, la mimetizzazione del sangue e della morte. Per parlare ai soldati si usano le figure classiche: l’uomo che difende la propria terra dal barbaro austriaco, le lettere di soldati alle proprie madri, mogli o madrine, si fa insomma riferimento a un sentimento di identificazione proprietaria semiprivato e di protezione allargata dei bene e della roba. L’altra strategia è metterla in ridere, far gruppo e preservare lo spirito di corpo dentro orizzonti d’arma o di reparto, stretti e riconoscibili. 2. Le terre invase Nelle terre occupate al di là del Piave si riversano circa 800.000 militari di tutti i popoli dell’Impero. Altrettanti civili sopravvivono in una zoa destinata a diventare territorio di guerra, altri 600.000 si sono ritirati insieme all’esercito in rotta, soprattutto gli abitanti dei centri urbani. 2.1. Le memorie e la storia Le sorti di questo milione e mezzo di civili investiti dalla guerra sono state dimenticate dalla storiografia e l’immaginario e il virtuale si sono sovrapposti in quel territorio, i civili non sono ben inquadrabili, sono patrioti? Austriacanti collaborazionisti? In merito a questo una fonte da analizzare è la Commissione reale di inchiesta sulle violazioni del diritto elle genti commesse dal nemico, istituita il 15 novembre 1918. Interrogando sindaci, parroci e civili la commissione pubblica sei volumi e venne soprattutto usata dai vertici militari e dai diplomatici che trattavano a Parigi per l’Italia sul pagamento dei danni di guerra. In realtà il nodo è politico, la Chiesa locale ha giocato un ruolo di sostituzione delle istituzioni dello Stato e gioca adesso la carta dell’autonomia e della restituzione dell’autorità territoriale di vescovi e parroci come classe dirigente di fatto. In effetti è trascorso appena mezzo ecolo da quando gli austriaci se ne sono andati e l’invasione fa scattare spiriti risorgimentali; per i territori irredenti il dualismo e la contesa sono ancora più forti. I maggiori esponenti cattolici nelle terre occupate rivendicano un ruolo importante in quanto sono l’unica classe dirigente dei ceti popolari abbandonati a sé stessi dopo l’allontanamento delle autorità ufficiali. 2.2. Occupanti, occupati e profughi Ciò che nell’occupazione austro-tedesca viene rotto è il tessuto comunitario tradizionale di cui i vescovi veneti si fanno garanti nelle lettere che mandano al papa. I vescovi di Padova e delle zone conquistate che scrivono centinaia di lettere al papa si autorappresentano come esponenti di una potenza distinta dallo Stato, titolare di carismi di interprete effettiva del bene del popolo. 2.3. Vita quotidiana L’armata austriaca occupante di 800.000 uomini ha l’ordine di non pesare sull’Austria per quanto riguarda il cibo, ma di che vivono gli abitanti dei centri urbani che non sono fuggiti e adesso convivono con l’invasore? Innanzitutto gli austriaci garantiscono la sussistenza delle loro truppe a carico delle terre occupate; basta mantenere l’ordine e la sottomissione sarà assicurata. Di contro quel che rimane di classe dirigente civile ed ecclesiastica deve ingegnarsi per strappare ai militari le derrate per la sopravvivenza dei civili. In questa situazione nasce il mercato nero e la campagna è favorita per la sopravvivenza mentre in città si soffre di più, con ovviamente le varie differenze di classe: i padroni si mettono al sicuro mentre i contadini rimangono esposti al pericolo a lavorargli le terre. La memoria delle terre invase è un terreno generalmente difficile su cui avere a che fare. 3. L’esercito di Diaz 3.1. La battaglia d’arresto sul Piave e sul Grappa Diaz assume il comando dell’esercito il 9 novembre e si trova davanti una situazione incerta. Le truppe tornarono subito a battersi ma erano poche, il fronte nord dallo Stelvio all’altopiano di Asiago non poteva essere sguarnito perché sotto imminente attacco da parte dell’XI armata austriaca. Le posizioni sul Grappa e sul Piave su cui doveva arrestarsi la ritirata erano difese da parte della IV armata di Di Robilant, parte della III armatadel duca d’Aosta, efficienti ma sguarnite di artiglierie. Nella pianura veneta si stava riordinando la II armata e più indietro la V doveva raccogliere e riorganizzare le centinaia di migliaia di sbandati. Le 6 divisioni francesi e 5 britanniche, sotto il comando del generale Foch, avrebbero giocato il ruolo di riserve, impedendo un nuovo sfondamento del fronte, ma non sarebbero state impegnate subito in combattimento. Dato che non ci fu lo sfondamento alcune divisioni francesi e inglesi entrarono in linea. Durante la battaglia d’arresto gli alleati non furono quindi d’aiuto se non indirettamente, dato che Diaz poté mandare in linea tutte le unità italiane resesi disponibili. La battaglia d’arresto si combatté sul Piave, sul Grappa e sull’altopiano di Asiago. Sul Piave gli austriaci erano in netta superiorità numerica e sul Montello erano concentrate la I e II armata austriache, provenienti dall’Isonzo. Nonostante i durissimi combattimenti e grazie all’ostacolo che costituiva il fiume in piena autunnale la sponda destra del fiume rimase in mano italiana. Sul Grappa attaccava la XIV armata, il massiccio non era fortificato ed era affidato alla IV armata. Per un mese e mezzo infuriò la battaglia con attacchi e contrattacchi e gravi perdite da entrambe le parti e le truppe italiane ressero contro le divisioni vittoriose a Caporetto. A fine dicembre l’offensiva si arrestò per l’esaurimento delle truppe e la partenza delle divisioni tedesche per il fronte occidentale; il 30 fu riconquistata la dorsale Tomba-Monfenera grazie a un attacco francese condotto con un’accuratissima preparazione d’artiglieria. L’offensiva del maresciallo Conrad si fermò sull’altopiano, la linea italiana rimase a meridione dell’altopiano e con le posizioni del Grappa e al di là del Brenta. 3.2. Il nuovo Comando supremo Diaz, nonostante fosse considerato un comandante di minore personalità rispetto a Cadorna, aveva già dimostrato di aver una personalità differente, più aperta verso gli esponenti politici. Durante la guerra i comandi di tutta Europa del 1917-18 erano più efficaci di quelli degli anni precedenti, erano in mano a generali più giovani che avevano conosciuto direttamente la guerra di trincea. Cadorna aveva 65 anni all’entrata in guerra, aveva capito le dimensioni del conflitto ma aveva un’idea astratta del soldato. Diaz aveva 11 anni in meno e esperienza diretta del fronte del Carso. Ci fu quindi un drastico ringiovanimento dei generali e dei colonnelli. Il nuovo comando supremo, trasferitosi in gennaio da Padova ad Abano, fu più efficiente per l’evoluzione della guerra ma anche per merito di Diaz, costui era ugualmente autorevole anche di fronte al governo ma aveva uno stile di comando differente, invece di essere un “napoleonico” nel senso dell’accentramento del comando, si fidava dei suoi sottoposti e collaboratori. Diaz riorganizzò gli uffici del Comando supremo, attribuì a ognuno le sue responsabilità definite favorendo lo sviluppo di uno spirito di squadra, potenziò l’Ufficio informazioni che divenne decisivo nella pianificazione delle operazioni. La collaborazione tra Diaz e il sottocapo Badoglio fu particolarmente felice, quest’ultimo gli assicurava il buon funzionamento del Comando supremo e Diaz lo ricompensò facendo eliminare le pagine sulle sue responsabilità della sconfitta. Diaz si occupò dei rapporti col re, il governo e gli ambienti politici. Col re rimase in ottimi rapporti, andandolo a trovare più volte ogni settimana per aggiornarlo, mentre Cadorna lo aveva tenuto a distanza; con Orlando si incontrava 3 o 4 volte al mese. Nonostante Diaz sapesse dell’importanza di avere buoni rapporti col governo, anche per dare più lustro all’immagine del Comando supremo, non accettava ingerenze da parte della politica e mantenne buoni rapporti anche con gli alleati, ma difese l’autonomia del fronte italiano dalle ingerenze francesi. 3.3. La ristrutturazione dell’esercito Nei primi mesi del 1918 l’esercito venne riorganizzato con i lrecupero degli sbandati di Caporetto e l’arrivo di cannoni e materiali che l’industrai produceva a pieno ritmo. Scarseggiavano gli uomini perché esaurite le generazioni da reclutare, la classe 1899 era stata chiamata alle armi alla fine del 1917, le uniche riserve erano i giovani della classe 1900, reclutati ma non inviati al fronte prima della fine delle ostilità. Dopo la battaglia del giugno 1918 non fu possibile ripianare tutte le perdite. Furono poi fatte riforme qualitative: sul piano organizzativo la divisione era inscindibile, se prima le artiglierie erano divise dalle divisioni di fanteria sull’Isonzo e sul Carso (e questo dava problemi di comunicazione, di affiatamento e di coordinamento) da questo momento furono accorpate e ogni divisione aveva la propria artiglieria. Diaz e Badoglio migliorarono l’addestramento della fanteria, i reggimenti del 1918 avevano 3 compagnie mitragliatrici, 12 sezioni di pistole mitragliatrici, 3 sezioni di lanciabombe Stokes da 76, una sezione di 12 lanciafiamme, un reparto cannoncini da 37 mm, un plotone d’assalto e più bombe a mano e da fucile. Vennero sperimentati i primi moschetti automatici e iniziava la produzione di carri armati. Furono distribuite maschere antigas inglesi e costituiti reparti d’assalto, l’aviazione fu potenziata fino ad ottenere il dominio del cielo, l’artiglieria contava meno pezzi del 1917 ma era migliorala la qualità dei soldati ed il loro addestramento. Diaz e Badoglio migliorarono poi la qualità di vita del soldato, con turni più brevi in prima linea, perdite contenute nei periodi tranquilli, distribuzione di un rancio più curato, riposo effettivo alle unità che scendevano dal fronte con Case del soldato, spacci cooperativi, spettacoli e manifestazioni sportive e case chiuse. Fu poi disposto che malati e feriti recuperati dagli ospedali dovessero tornare al loro reparto di origine e non dove capitava. Cadorna concedeva una sola licenza invernale di 15 giorni, Diaz ne concesse una seconda di 10, fece garantire licenze agricole ed esoneri parziali per le classi più anziane e Nitti concesse una polizza gratuita di assicurazione di 500 lire per i soldati, di 1000 per i graduati. C’era poi la propaganda, portata avanti autonomamente dalle armate prima che dal
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