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riassunto per esame comunicazione del rischio, Sintesi del corso di Sociologia Della Comunicazione

comunicazione del rischio e d'emergenza

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 29/08/2023

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Scarica riassunto per esame comunicazione del rischio e più Sintesi del corso in PDF di Sociologia Della Comunicazione solo su Docsity! RIASSUNTO MANUALE “Rischio e comunicazione. Teorie, modelli, problemi” di Andrea Cerase Rischio e comunicazione: appunti per un’introduzione al dibattito La pertinenza e la centralità dei risk studies Il dibattito sul rischio nelle scienze sociali inizialmente era limitato al ristretto mondo accademico e riguardava prettamente rischi di tipo tecnologico (ad es. nucleare), ambientale o della salute. Oggi esso è entrato anche nel dibattito pubblico e ha espanso il proprio campo d’indagine. Il concetto di rischio tocca diversi punti focali per comprendere le società contemporanee, in particolare: 1. il ruolo e l’organizzazione della conoscenza (non solo scientifica); 2. i processi decisionali e le scelte politiche; 3. la previsione degli effetti collaterali e/o indesiderati delle scelte; 4. l’attualizzazione delle sopradette scelte nel futuro. “La società del rischio”: l’idea del rischio come pervasiva e caratterizzante delle culture tardo moderne, le conseguenze dell’industrializzazione e la loro portata sia locale che globale. Fenomeni molto diversi fra loro possono essere categorizzati nel “rischio” e di questo se ne studiano le strategie individuali e collettive per valutarlo, comunicarlo e gestirne i processi fondamentali. I rischi non sono politicamente ed eticamente neutrali. Il concetto di rischio non corrisponde a un’unità inscindibile di pericolo e opportunità, pro e contro. Le dimensioni culturali di una società permettono di comprendere una particolare avversione per un particolare tipo di rischio. La nascita di questo campo di studi è negli anni ’70 del secolo scorso, inizialmente nell’ubicazione di siti nucleari e altre tecnologie pericolose, in Svezia e Germania. Le prime ricerche indagavano le basi cognitive e motivazionali del diverso modo di valutare il rischio da parte di esperti e profani. Perché i risk studies: i motivi di un approccio interdisciplinare Risk studies: un campo di studi e ricerche che si consolida come ambito multidisciplinare e autonomo, nel tentativo di dare risposte ampie e pertinenti ai diversi problemi sociali, politici, economici e giuridici creati dall’emergere dei rischi. Si fa carico non solo di aspetti tecnico scientifici ma anche le dimensioni percettive, cognitive, sociologiche e culturali. Una serie di eventi storici ha contribuito a far sviluppare questa disciplina: - 1957: incidente nucleare a Sellafield, Inghilterra; - le malformazioni neonatali dovute al Talidomide (farmaco prescritto in gravidanza) (1961); - le intossicazioni da metilmercurio nella baia di Minamata, Giappone, dovute alla presenza di un’industria chimica (1972); - la scoperta di rifiuti tossici a Love Canal, New York, (1976-1978); - la fusa di isocianato di metile a Bhopal, India, 1984; - Chernobyl (1986); - la Sindrome della Mucca Pazza (1986-96); - le epidemie di H1N1 (2003-04) e aviaria (2009-10). Questi eventi hanno determinato una generale sfiducia nella scienza e tecnica oltre a diffondere l’idea di essere costantemente a rischio a causa di decisioni prese da altri  aumento di conflitto sociale legato ai rischi tecnologici e ambientali. A questi disastri generati direttamente dall’azione umana si aggiungono anche lo tsunami nell’Oceano Indiano (2004), il terremoto di Haiti (2010) e del Giappone (2011), le cui conseguenze vengono imputate a scelte umane come mancanza di sistemi efficaci di allerta, superficiale pianificazione urbanistica o sottovalutazione del rischio sismico. Per quanto riguarda l’Italia, abbiamo notevoli fenomeni di terremoti con effetti disastrosi: Umbria-Marche (1997), Molise (2002), L’Aquila (2009), Pianura Padana (2012) e Amatrice (2016) ad es. Pluralizzazione delle forme di razionalità sottese ai processi di percezione, valutazione e gestione del rischio da parte di esperti e profani. La razionalità umana è limitata: è impossibile per il decisore avere una conoscenza completa del mondo, stabilire quali conoscenze siano rilevanti, prevedere le conseguenze delle proprie azioni, fare congetture sui possibili corsi d’azione, misurarsi con l’incertezza e pronunciarsi scegliendo fra le diverse esigenze in competizione fra loro. Centri di ricerca rilevanti: a. Disaster Research Center dell’Università del Delaware; b. Natural Hazard Research and Application Information Center dell’Università del Colorado; c. Decision Research group dell’Università dell’Oregon; d. un gruppo nella Clark University di Worcester, Massachusetts; e. un gruppo nella Carnegie Mellon University; f. in Italia, presso l’Università di Udine si crea un primo nucleo di “sociologi del disastro”; g. in Europa, la Commissione Europea crea nel 2015 il Disaster Risk Management Knowledge Centre. Nel 1981 viene fondata la più importante rivista del settore, la Risk Analysis, an International Journal. E successivamente anche la Society for Risk analysis, autorevole associazione di accademici e professionisti nel campo del rischio. Gli approcci al rischio: concetti e definizioni Tre elementi comuni per classificare il tipo di pericoli: 1. gli effetti indesiderati o imprevisti; 2. la possibilità che essi occorrano; 3. una particolare idea di realtà cui fare riferimento. Approcciare ai rischi esclusivamente con tecnici, scienziati ed esperti decisori politici si fonda su un’idea di rischio come realtà ontologica, un aspetto reale e misurabile della natura, esterno all’uomo e accessibile tramite la ragione, ovvero con il calcolo dell’utilità marginale, l’analisi costi benefici e il calcolo delle probabilità  Paradigma dell’Attore Razionale (RAP). Paradigma psicometrico  con approccio sperimentale e tecniche prevalentemente quantitative, si concentra sulle strategie mentali e i processi cognitivi attraverso cui gli individui valutano soggettivamente la pericolosità di eventi, pratiche e tecnologie rischiose e prende decisioni. Con il contributo delle scienze sociali e in particolare dell’antropologia si è pervenuti alla considerazione che manchino parametri universalmente condivisi per selezionare e definire i rischi. I modi di definire il rischio possono inoltre dar luogo a conflitti non solo interni a una cultura, ma anche tra diversi attori presenti nella stessa struttura sociale (scienziati, tecnici, politici ecc.) Quindi la risk analysis si caratterizza per la compresenza di paradigmi diversi, con assunti di fondo e orientamenti epistemologici differenti e talvolta anche incompatibili fra loro. Autori che hanno contribuito all’integrazione teorica della disciplina: Judith Bradbury, Sheila Jasanoff, Silvio Functowitz, Jerome Ravetz, Ortwin Renn, Andreas Klinke, Bernd Rohrmann, Terje Aven, Ragnar Losfted, Eugene A. Rosa. La distinzione epistemologica più importante è quella che oppone le concezioni che considerano il rischio come una realtà oggettiva che esiste nell’ambiente fisico indipendentemente da chi e da come viene percepito e rappresentato e quelle che assumono il rischio come costrutto socioculturale, ovvero realtà esperienziale mediata dalla cultura, dalla conoscenza e dagli orientamenti valoriali. Approcci realisti v. Approcci costruzionisti/fenomenologici. La centralità del rischio nella cultura contemporanea Gli studiosi evidenziano come il concetto di rischio oggi sia utilizzato come cornice interpretativa unificante, in grado di dare forma a qualsiasi manifestazione dell’incertezza strutturale che caratterizza il nostro tempo. Esso è una dimensione chiave nell’interpretazione delle culture della tarda modernità. L’incertezza è convertita in rischio e a sua volta in paura. Van Loon suggerisce che il rischio sia un oggetto virtuale che trascende la sua ipoteticità producendo la realtà stessa: è immateriale e tuttavia ugualmente riconosciuto come principio causale in grado di spiegare una varietà di fenomeni, incorporati nei discorsi e nelle pratiche sociali. Nel momento in cui si verifica effettivamente, inoltre, ogni rischio genera nuovi rischi, senza alcuna soluzione di continuità. Luhmann: il rischio è la possibilità che determinati eventi o azioni, con potenziale di pericolosità riconosciuto, possano influenzare negativamente le capacità individuali di perseguire i propri obiettivi, e che ciò non sia imputabile all’incertezza contingente dell’ambiente ma a una decisione dell’uomo. (Centralità della decisione). Ciò che sappiamo del rischio è in larga parte edificato nel dominio della comunicazione, e che questa non riguarda soltanto l’insieme dei messaggi veicolati attraverso i media e i soggetti istituzionali, ma tutto ciò che viene diffuso, negoziato, codificato e significato entro una pluralità di processi comunicativi che coinvolgono continuamente gli individui, i gruppi sociali e le élite dei decisori pubblici. La comunicazione del rischio: pratiche in cerca di una teoria? La comunicazione del rischio non avviene nel vuoto e non si sviluppa in un contesto astorico e depoliticizzato. Essa chiama in causa il modo di pensare la relazione tra emittente e destinatario; il tipo di contenuti che possono/devono essere diffusi; gli effetti desiderabili e quelli indesiderati. Un possibile estremo da un lato vede la comunicazione del rischio come un processo unidirezionale, gerarchico e deterministico, dall’altro quella di uno scambio interattivo di messaggi che rende perfino difficile distinguere fonti e destinatari. L’idea della molteplicità di messaggi non deve soltanto ricondursi al rapporto tra pubblico e fonte istituzionale, ma anche la comunicazione fra accademici, esperti, gruppi di interesse, istituzioni, considerando anche la pluralità di canali e contesti in cui la comunicazione si manifesta. 1. Il rischio oltre le teorie della società del rischio 1.1 L’avvento della società del rischio di vincoli definiti sia dalle conoscenze stesse sia dalle loro reti di relazioni. Ciò consente forme di governo consensuale, in cui la conflittualità è limitata poiché si realizzano attraverso l’individuo e non contro di esso. I discorsi sul rischio non vengono quindi solo veicolati dalle campagne di comunicazione (ad es. contro l’alcol “bevi responsabilmente), ma sono disseminati ovunque nella società e a ogni livello, ottenendo un continuo e onnipresente monitoraggio finalizzato a evitare i rischi e/o mitigarne le conseguenze. Teoria fortemente costruzionista: niente è di per sé un rischio, non esiste alcun rischio nella realtà. Ma d’altro canto tutto può essere un rischio, tutto dipende da come si analizza il pericolo, da come si considera l’evento. Essa presenta punti di contatto con le teorie di Beck e Giddens, in particolare nel considerare il rischio come dimensione chiave della modernizzazione. 1.7 Niklas Luhmann. Rischio e sistema sociale: decisione e comunicazione Pur avendo prospettiva macrosociologica, Luhmann si discosta dalle teorie di Beck, Giddens e Foucault e allievi per l’adozione di un approccio che privilegia l’integrazione sociale rispetto al conflitto. L’intera opera di Luhmann si fonda sull’idea di società come un sistema sociale ipercomplesso, autopoietico, interconnesso e capace di autoriprodursi attraverso e per mezzo della comunicazione. Anche Luhmann riconosce il rischio come centrale e caratteristica strutturale dei sistemi sociali complessi. Le società industriali fondate su scienza e tecnologia posseggono una rischiosità intrinseca. Ha un approccio costruzionista e si sofferma come i foucaultiani sull’analisi del processo storico con cui il rischio si impone come forma di razionalità. Presupposto teorico: la società è un insieme di sistemi complessi, relativamente autonomi, che si distinguono dall’ambiente e concorrono a realizzare selettivamente le possibilità offerte da quest’ultimo. Il reale è infinitamente complesso e mai del tutto conoscibile; perciò, questi sistemi operano una riduzione di complessità per rendere il reale (ambiente) governabile. Luhmann osserva il dilagare dell’incertezza conseguentemente all’aumento della complessità nei sistemi sociali e alla tendenza di quest’ultima a tradursi in rischio, dando luogo a una devianza della norma che minaccia costantemente la capacità del sistema di autodeterminarsi. Concetto di contingenza: riguarda la possibilità che l’azione, e in particolare quel tipo specifico di azione che è la decisione, produca effetti diversi da quelli attesi, sia dal punto di vista del soggetto che la produce sia da quello del soggetto cui è indirizzata. Questo concetto è quello che maggiormente lega la teoria dei sistemi alla questione del rischio. Il rischio secondo Luhmann produce uno smisurato aumento del fabbisogno decisionale, con questioni pratiche che producono conseguenze di natura politica, economica, giuridica. Il rischio si distingue dal pericolo configurandosi come esito di decisioni umane piuttosto che di eventi dovuti a fattori ambientali non direttamente controllabili. Il rischio è dunque definito innanzitutto dalla consapevolezza di una minaccia come esito di una decisione presa direttamente o da altri. Tuttavia, nei sistemi complessi non è mai totalmente possibile controllare e governare interamente le contingenze e conseguenze delle decisioni, le quali stesse sono sempre più difficili da imputare con precisione a qualsivoglia soggetto. Inoltre, all’aumento della capacità dei sistemi sociali di controllare l’ambiente e decidere del proprio futuro, i pericoli sono sempre più frequentemente convertiti in rischi. Ricorsività del rischio: dipende dal fatto che l’osservatore valuta le conseguenze di una sua decisione su un ambiente esterno di cui egli stesso fa parte. Egli è contemporaneamente dentro e fuori dal sistema. Ogni decisione presa in funzione di un particolare rischio può moltiplicare le contingenze all’interno del sistema. Accettabilità del rischio in base alla volontà dell’individuo: un doppio standard in forza del quale la stessa persona può rifiutare l’imposizione di un rischio da altri, decidendo al tempo stesso di correre rischi maggiori se scelti liberamente. Per quanto riguarda la comunicazione, Luhmann la considera un’antecedente logico della società stessa, e inoltre adotta una visione costruzionista per cui la comunicazione è esclusivamente in forma dialogica e mai semplice trasferimento di informazioni. La comunicazione dei rischi non comporta necessariamente accettazione da parte del destinatario: è sempre possibile un rifiuto. 2. Gli approcci tecnico-scientifici al rischio: il paradigma dell’attore razionale 2.1 Quisque faber: rischio, natura, scienza e razionalità Il concetto di rischio, dunque, è un’idea radicalmente moderna in quanto tenta di porre sotto il dominio del razionale quanto in precedenza appariva incerto e imprevedibile. Ciò si lega all’idea di conoscibilità e misurabilità della natura. Il rischio è un’entità osservabile, connessa a probabilità, perdite e costi quantificabili, il che consentirebbe di prendere la decisione migliore sulla base di valutazioni oggettive. Questo approccio razionalistico si fonda sull’idea dell’esistenza di una realtà naturale ontologicamente data e conoscibile dalla ragione umana attraverso il calcolo della probabilità. Quest’idea nasce storicamente in seguito alla rivoluzione industriale. La stima delle probabilità di un danno risponde all’esigenza di tutele economiche soprattutto nel settore dei trasporti marittimi e dell’industria. Nasce quindi nel XVII secolo con le prime banche e assicurazioni. La ripartizione del rischio consentiva di distribuire il danno eventuale fra più soggetti: Green definisce quest’approccio “prudential insurance” ed evidenzia come lo sviluppo delle assicurazioni abbia esercitato una forte influenza sul progresso degli approcci probabilistici e sulle stesse nozioni di calcolo della probabilità. Dunque la calcolabilità del rischio è una necessità pratica imposta dai processi di industrializzazione che poi anche un imperativo culturale. Le teorie del rischio nel paradigma dell’attore razionale presuppongono l’idea dell’essere umano come agente dotato d’intenzionalità, orientato al raggiungimento dei propri obiettivi e in grado di scegliere e determinare i propri corsi di azione finalizzandoli al raggiungimento dei propri obiettivi. La base sono le teorie utilitariste di Jeremy Bentham: egli adotta una visione atomizzata della razionalità, in cui tutto può essere ridotto alle scelte dei singoli individui; nella sua teoria c’è la separazione dei fini e dei mezzi per raggiungere i propri obiettivi e la massimizzazione dell’utilità marginale come principio guida delle scelte e dei corsi d’azione. Quest’idea di razionalità che valuta il rischio seguendo le regole del metodo scientifico e utilizza standard di valutazione fondati sul razionalismo economico e la logica formale, appare fortemente normativa. Il principale fondamento epistemologico è l’assunzione del rischio come fenomeno fisico oggettivo, ovvero come proprietà dell’ambiente fisico indipendente dall’osservatore, una realtà ontologica. Rischio: prodotto della probabilità di un evento avverso moltiplicata per il danno conseguente. 2.2 Il fascino dei numeri: gli approcci ingegneristici Questo approccio che Mary Douglas ha definito ingegneristico fa riferimento a una serie di discipline accomunate dalla credenza che il pubblico sia un insieme di individui che valutano, decidono e agiscono razionalmente. Questo approccio è stato il più a lungo dominante e ancora oggi influenza molte strategie di Risk Governance. L’approccio tecnico-scientifico quindi ritiene che ogni rischio vada valutato sulla base di fatti oggettivi controllati dalla scienze e da cui siano esclusi ogni giudizio soggettivo e/o riferimento valoriale. Tre assunti fondamentali: 1. il pubblico è formato da individui che possono e dovrebbero comportarsi come ingegneri nel valutare i rischi cui sono esposti; 2. il rischio è un costrutto concettuale di tipo probabilistico, misurabile in funzione della frequenza attesa e della gravità degli eventi indesiderati che ne conseguirebbero; 3. la valutazione del rischio consiste nel calcolo costi-benefici, soprattutto in termini monetari. La gestione del rischio dovrebbe quindi essere ambito di stretta competenza degli esperti, cioè quindi un prodotto “neutrale” della scienza, fondato su una netta distinzione fra fatti e valori. Introduce quindi una fondamentale distinzione fra esperti e profani  approccio tecnocratico che introduce una gerarchia sociale e un’asimmetria del potere decisionale. Tra i numerosi corollari dell’approccio ingegneristico c’è l’idea knightiana che ogni danno possa essere quantificato in termini monetari, perciò gruppi di persone o comunità esposte a rischi potenzialmente gravi ma con probabilità marginale possano avere forme di compensazione economica “eque”. Tuttavia, innanzitutto non è sempre quantificabile in termini monetari la conseguenza di un rischio, e inoltre questa modalità può assolvere i responsabili del rischio, non più tenuti a rimuoverne le cause. Appare sempre più chiaro come le decisioni riguardanti il rischio costituiscano un importante banco di prova per la tenuta dei principi di diritto e il funzionamento della democrazia. Paradossalmente la tendenza riduzionistica di questo approccio, che spinge a considerare i fenomeni in termini di statistiche di probabilità e indicatori sintetici, può essere usata per produrre categorizzazioni e classificazioni del mondo sociale che sono tutt’altro che neutrali dal punto di vista etico e morale. Da questo punto di vista è particolarmente indicativa l’analisi sul concetto di gruppi a rischio e delle pratiche di esclusione e controllo sociale legittimate da queste definizioni. 2.3 Frank Knight: il rischio come incertezza calcolabile L’opera più famosa di Frank Knight è “Risk, Uncertainty and Profit”. Egli è considerato il fondatore della risk management e uno degli iniziatori dell’approccio oggettivista che concepisce il rischio come osservabile, misurabile e calcolabile. Knight distingue fra rischio e incertezza, nel secondo caso quando mancano le informazioni sufficienti e dunque la stima di probabilità viene fatta soggettivamente. Attraverso le equazioni di von Neumann-Morgenstern e Bernoulli perfino la propensione e l’avversione al rischio diventano elementi calcolabili entro il modello proposto. Sebbene resti non predeterminato il futuro, secondo Knight attraverso l’analisi del passato è possibile distinguere ciò che è assicurabile da ciò che non lo è, come ad esempio la compensazione economica dei lavoratori esposti a rischi professionali. L’idea del rischio come incertezza calcolabile ha marginalizzato altre forme di razionalità non assimilabili al razionalismo economico di Knight. Non dovrebbe essere utilizzato il suo modello per prendere decisioni sull’ambiente, sulle tecnologie pericolose e sulla sopravvivenza delle persone, universalizzando questo positivismo indifferente al contesto sociale e all’equilibrio ambientale. La tendenza a depoliticizzare le scelte sui rischi è condivisa da altri autori, come Keynes. 2.4 Il tramonto delle certezze L’avvento della società del rischio ha messo in crisi il paradigma dell’attore razionale. Il pubblico ha ridimensionato la sua fiducia nei confronti degli approcci strettamente quantitativi al rischio. L’idea che il rischio sia in gran parte calcolabile è entrata in crisi di fronte a una pluralità ed eterogeneità di concetti e tecniche di analisi e valutazione, in cui i due opposti sono il “rischio come calcolo” vs. “globalizzazione dei rischi incalcolabili”  post risk calculation society. 2.5 I modelli lineari della comunicazione del rischio La concezione del rischio come realtà ontologica presuppone quasi inesorabilmente una comunicazione lineare da un emittente esperto a un pubblico di destinatari profani. Si stabilisce un flusso di informazioni gerarchicamente orientato versa una massa di riceventi passivi, non qualificati, i cui valori, categorie interpretative, contesto socio- culturale di riferimento eccetera non influiscono sul rischio in sé. Questa comunicazione ha una valenza prevalentemente persuasiva se non manipolativa e ha lo scopo di incoraggiare i profani ad accettare le decisioni politiche e le tecnologie che implicano certi rischi. Modello stimolo-risposta: il significato di una data informazione è definito da priori dall’emittente e se il messaggio non è compreso o accettato dai destinatari ciò dipende dal fatto che essi non hanno le competenze necessarie o adottano un atteggiamento irrazionale. (Krippendorf lo definisce containermodell poiché considera esclusivamente l’emittente.) Questa visione lineare della comunicazione (fonte – messaggio – destinatario) si fonda su una concezione novecentesca in base alla quale i messaggi sono degli stimoli in grado di generare nel destinatario le risposte desiderate dal mittente. Modello matematico dell’informazione, proposto da Shannon e Weaver negli anni ’40: la ripetizione delle informazioni sarebbe sufficiente a garantire che il destinatario comprenda correttamente i suggerimenti dell’emittente facendoli propri. Questa visione implica implicitamente e talvolta anche esplicitamente un’asimmetria nella comunicazione e nella distribuzione del potere, poiché il pubblico deve soltanto adeguarsi alle indicazioni degli esperti, i quali sanno quali sono le effettive conoscenze dei destinatari, ciò che devono sapere ed imparare, cosa desiderano e il modo in cui interpreteranno i messaggi preparati per loro. In questo quadro generale si distinguono due modelli: - modello deficitario: contraddistinto da conoscenza scientifica e sapere esperto; - modello DAD (decidi – annuncia – difendi): giustificato dall’autorità. 2.5.1 Il deficit model Parte dal presupposto che lo scetticismo nei confronti di scienziati ed esperti sia la conseguenza di scarsa competenza scientifica. La pretesa disinformazione dei cittadini e il sensazionalismo dei media, nonché il fatto che sia cittadini che policy makers siano ostaggio di paure irrazionali rendono in alcuni casi problematica la loro partecipazione ai processi decisionali. Lo scarto di conoscenze tra esperti e profani può essere almeno in parte corretto con una maggiore dose di informazioni scientifiche. Visione tecnocratica dei rapporti fra scienza e società, i cui pilastri sono: 1. pregiudiziale ostilità dei cittadini nei confronti di scienza e ricerca; 2. disinformazione dei cittadini dovuta alla scarsa alfabetizzazione scientifica; 3. distorsioni della scienza operate dai media. Si evidenzia quindi la possibilità di degradazione e banalizzazione dei messaggi come conseguenza degli stili narrativi dei giornalisti. La mediazione giornalistica viene quindi vista come lente deformante, in grado di alterare la corretta percezione del rischio da parte del pubblico. Tuttavia questo modello trascura il fatto che la valutazione dei rischi e l’opinione su di essi non sono uguali per tutti: su di esse hanno rilevanti influenze cultura, etica e valori politici, non riducibili a soli aspetti cognitivi del deficit di informazioni. 2.5.2 Il modello Decidi – annuncia – difendi (DAD) L’obiettivo di questo modello è quello di far digerire anche coercitivamente le valutazioni e iniziative degli esperti alle popolazioni esposte a un certo tipo di rischio. Si basa sulla forte asimmetria di potere tra decisori e pubblico. Questo modello assume come requisito principale la passività normativa del destinatario nella ricezione dei messaggi (esso “non deve essere messo nella condizione di avere dubbi, avere un’opinione personale o decidere in autonomia”). Trattasi quindi di un semplice trasferimento di informazioni/comandi dall’emittente al ricevente. L’emittente deve solo preoccuparsi di difendere le decisioni prese, ma il destinatario non può negoziare né mediare, deve solo adeguarsi. Quindi le decisioni sono prese a porte chiuse e il compito del comunicatore è limitato all’annuncio e all’eventuale difesa in caso di contestazioni. Gli approcci razionalistici al rischio così come i modelli lineari della comunicazione del rischio devono considerarsi come superati, essendoci un’evidenza storica del loro fallimento, tenendo conto fra le altre cose anche del fatto che non hanno impedito la paura e sfiducia nei confronti dei saperi esperti. 4.2 Norme, valori e conflitti sociali La Douglas si inserisce nell’ambito delle teorie neo-durkheimiane, strutturaliste e funzionaliste: la conoscenza, il linguaggio, i valori non sono date una volta per tutte ma sono un’invenzione collettiva, un insieme diversificato di rappresentazioni sociali in grado di imporsi sull’individuo in forza di una desiderabile coercitività. I modi in cui i pericoli naturali e sociali sono costruiti non sono altro che strumenti che garantiscono la riproduzione del sistema sociale e la sottomissione dei suoi membri, poiché A) la cultura non è altro che un prodotto collettivo e B) il problema del rischio è un problema di mediazione politica, di esercizio del potere. 4.3 Il modello grid/group La teoria di Douglas implica l’esistenza di diverse forme di razionalità in conflitto fra loro. Il modello grid/group (griglia – gruppo) si fonda sull’assunto secondo il quale il modo in cui il rischio viene percepito, interpretato e controllato dipende principalmente da due fattori, ovvero 1) appartenenza a un certo gruppo sociale e 2) coercitività delle norme di gruppo sull’individuo. La coesione del gruppo è interpretata in funzione del controllo sociale che le norme dello stesso esercitano sui singoli, in un continuum che va dalla situazione in cui non esistono alternative comportamentali appropriate o sono limitate a quella in cui tutti sono liberi di scegliere e negoziare le proprie relazioni sociali. L’idea di griglia serve quindi ad analizzare il livello della forza che le istituzioni esercitano nella regolazione dei rapporti sociali. Quindi abbiamo: - la griglia, cioè l’atteggiamento degli individui in termini di impegno verso la comunità, deferenza nei confronti delle gerarchie oppure orientamento verso valori individualistici; - il gruppo, che valuta la forza dei confini del gruppo stesso rispetto all’esterno. Combinando queste due dimensioni ricaviamo quattro idealtipi di gruppo con diverso orientamento rispetto alle logiche del rischio: 1) Isolati: griglia alta/gruppo basso: legami di debole intensità, forte fatalismo e passività di fronte agli eventi rischiosi; 2) Gerarchici: griglia alta/gruppo alto: forte rispetto verso autorità e istituzioni, idea che la valutazione e gestione de rischi debbano essere di competenza delle élites sociali; 3) Individualisti: griglia bassa/gruppo basso: scarso attaccamento alle norme di gruppo e forte orientamento ai bisogni personali e del mercato, tendono a considerare la natura come capace di rigenerarsi e le rivendicazioni ambientaliste come tentativi di limitare la libertà dell’individuo; 4) Egualitari: griglia bassa/gruppo alto: qua Douglas colloca i gruppi ambientalisti, con forte coesione interna e dall’idea che il rischio sia conseguenza della fragilità della natura rispetto all’azione umana. Questo modello può essere criticato perché troppo schematico e rigido. Gli autori lo definiscono come uno strumento euristico, esercizio impressionistico, per mettere in relazione la struttura sociale con i valori e sistemi di credenze. 4.4 La colpa dei rischi: le strategie di blaming La teoria culturale pone una particolare enfasi al rapporto fra rischi e conflitti. Il rischio è un’inesauribile fonte di conflitto sociale. Il suo vero scopo, secondo Douglas, è quello di garantire la tenuta delle istituzioni sociali rispetto alle “cospirazioni” provenienti dall’esterno della comunità. La paura del pericolo tende a rafforzare le linee di divisione in una comunità, incoraggiando l’imputazione di responsabilità a carico di Altri, definiti come soggetti/gruppi a rischio (quali ad es. gli omosessuali, gruppo a rischio per l’AIDS), per giustificare discriminazioni e addirittura persecuzioni. Riflettendo sulla relazione tra rischio e colpa Douglas ne identifica delle analogie con i concetti di tabù e peccato e del loro uso come spiegazione causale di qualcosa andato storto, e un modo per colpevolizzare le vittime per l’irresponsabilità dimostrata. 4.5 L’allargamento dei campi d’indagine della Cultural Theory La Cultural Theory ha il merito di aver relativizzato il punto di vista degli esperti, nonché di aver ampliato il campo d’indagine del rischio non più solo ai rischi ambientali e tecnologici, ma anche alla costruzione di problemi sociali come l’abuso di alcool, terrorismo e immigrazione. Questi tre esempi, per capirci, vengono trattati sempre più frequentemente in termini di rischio, poiché le conseguenze indesiderate non definite come esiti di scelte o mancate scelte di responsabilità dei decisori pubblici. La trasformazione dei problemi sociali in rischi ha indotto una depoliticizzazione delle scelte, rimuovendo fittiziamente i valori sottesi a determinate scelte di gestione di tali fenomeni. 4.6 La comunicazione del rischio come scambio simbolico La prospettiva antropologica di Douglas considera la comunicazione e il linguaggio come dimensioni particolari di un più ampio “scambio simbolico”. Innanzitutto, c’è l’idea che la cultura debba essere considerata come una sorta di codice condiviso che istruisce la codifica e decodifica dei messaggi. In mancanza di ciò si ha un dialogo fra sordi. La comunicazione, quindi, non è un semplice trasferimento di messaggi, bensì un fondamentale strumento per strutturare le relazioni sociali attraverso la condivisione di significati. L’approccio della CT alla comunicazione del rischio si può sintetizzare in tre punti: a) l’idea del rischio come costruzione sociale e l’enfasi posta sulla cultura come elemento di mediazione; b) il fatto che ogni gruppo tenda a sviluppare autonomamente le proprie concezioni del rischio; c) che a ciascun gruppo sociale può corrispondere una particolare cultura del rischio e che queste non solo sono diverse ma anche potenzialmente e apertamente in conflitto tra loro. 4.7 I limiti della Cultural Theory: il problema della validazione empirica Secondo alcuni la CT sarebbe eccessivamente rigida e quindi difficilmente utilizzabile. Il fenomeno del cultural bias non si manifesta sempre, né in modo uniforme e prevedibile. Inoltre gli individui possono far riferimento a una pluralità di norme, valori e credenze di diversi gruppi e organizzazioni sociali. Inoltre Miriam Krapow rimprovera il conservatorismo di Douglas di fronte agli ambientalisti e sottolinea che esiste un rischio fisico e reale che non è soltanto un mezzo di rafforzamento della solidarietà sociale. 5. La Social Amplification of Risk (SARF) 5.1 L’amplificazione sociale del rischio: origini di una metateoria Questo modello è stato elaborato negli anni ’80 alla Clark University di Worcester (Massachusetts) attorno alle figure di Kasperson e Jeannette. Successivamente si aggiunge anche Slovic. L’approccio è multidisciplinare. 5.1.1 Un ombrello concettuale e metateorico Si tratta di un tentativo di ricongiungere gli approcci tecnico-scientifici, quelli psicologici e le teorie socio-culturali. La social amplification of risk postula che il singolo evento fisico rischioso e l’individuazione di un possibile effetto avverso vadano considerati come segnali che possono essere amplificati o attenuati in base al modo in cui essi sono percepiti e interpretati da individui, gruppi e istituzioni. Questa teoria individua i media come elemento centrale e li identifica come stazioni di amplificazione che allo stesso tempo spargono notizie, definiscono metafore, simboli e discorsi e contribuiscono a modella le risposte sociali. 5.1.2 I fondamenti epistemologici Secondo gli autori il rischio ha una dimensione prevalentemente epistemologica, che dipende dalla relatività delle forme di conoscenza ed è pertanto condizionata da numerosi fattori culturali e sociali. La sua natura è ambivalente poiché in parte reale e in parte costruito socialmente. Secondo questi teorici è necessario considerare entrambe le dimensioni come complementari tra loro, ragionando poi sul fatto che a prescindere che il rischio sia reale lo sono comunque certamente le conseguenze della percezione di esso. 5.1.3 Un approccio integrativo e multidisciplinare La SARF si propone esplicitamente lo scopo di integrare gli approcci teorici precedenti, implicando la necessità di imparare a leggere le relazioni tra uomo e ambiente in modo interdisciplinare. 5.2 Gli stadi del processo di amplificazione e i ripple effects Amplificazione sociale del rischio: il fenomeno per il quale i processi di informazione, le strutture istituzionali, il comportamento dei gruppi sociali e le risposte individuali plasmano l’esperienza sociale del rischio, contribuendo in tal modo alle sue conseguenze. Le risposte sociali e i ripple effects sono determinati dalle interazioni tra le varie stazioni di amplificazione e dagli effetti a catena che diventano osservabili entro la griglia proposta dall’amplificazione sociale. Il processo si articola in due macro-fasi fondamentali: 1. il trasferimento delle informazioni (in questa fase si selezionano i segnali di rischio fra una mole di altri irrilevanti); 2. l’organizzazione della risposta sociale (in questa fase si analizza il ruolo dei diversi contesti sociali e organizzazioni nella costruzione del significato sociale dei rischi). In ciascuna fase (ulteriormente suddivisa in microfasi) il rischio può essere amplificato o attenuato. In questo modello non ci si focalizza solo sull’aspetto psicologico dell’individuo e i vari aspetti socio-culturali, ma anche si considera il modo in cui interagiscono fra loro attraverso i vari canali comunicativi, ovvero le stazioni di amplificazione (reti personali, istituzioni, media), generando una serie di effetti a catena  ripple effects, che a loro volta possono aumentare o diminuire la percezione del rischio. Riassumendo: il modo in cui gli individui percepiscono un certo rischio può aumentare o diminuire in base ai modi in cui certi segnali sono convertiti, elaborati e decodificati dalle diverse stazioni di amplificazione individuali, in cui agiscono congiuntamente filtri di natura affettiva e cognitiva (euristiche) e culturali (sistemi di credenze, valori e norme). 5.3 Comunicazione e amplificazione dei rischi La SARF attribuisce quindi grande importanza ai processi comunicativi. I primi lavori di Shannon e Weaver introducono una distinzione fra messaggio e rumore in base alla intenzione dell’emittente. 5.3.1 Il ruolo centrale della comunicazione Quest’approccio considera l’insieme dei flussi comunicativi che connettono le diverse stazioni di amplificazione e le iterazioni tra queste ultime, in tutte le direzioni possibili. Ciò implica anche la molteplicità dei messaggi e dei significati concernenti il rischio: concezione polisemica del rischio. 5.3.2 L’importanza dei media Qualsiasi fonte di incertezza rappresenta per definizione un tema di forte interesse dei media mainstream (televisioni, radio e giornali). Ciò rende semplice capire come alcuni tipi di eventi potenzialmente rischiosi possono dar luogo a un repentino e temporaneo aumento dell’attenzione dei media e innescare imprevedibili catene di eventi, con rilevanti conseguenze non solo sulle organizzazioni e attori istituzionali ma anche su altri sistemi sociali. 5.3.3 I rapporti con la communication research Per molti aspetti della vita la nostra conoscenza della realtà non deriva da esperienza diretta quanto da conoscenze di seconda mano per gran parte veicolate e filtrate dai mass media. 5.3.4 La rilevanza della fiducia La fiducia è particolarmente rilevante all’interno della SARF soprattutto nei confronti delle istituzioni. Essa è individuata come l’obiettivo primario della comunicazione del rischio. La fiducia, come in Luhmann, è individuata come strumento per la riduzione sistemica della complessità. Essa è considerata come una risorsa scarsa per la quale gli attori decisionali sono in competizione tra loro. Un altro importante fattore di amplificazione è lo stigma. Es. il nucleare e gli OGM. 5.4 La costruzione del significato dei rischi I teorici della SARF rifiutano quindi che la comunicazione sia un semplice trasferimento di messaggio da un emittente a un ricevente. L’idea di amplificazione sociale fa riferimento proprio al modo in cui il contesto dato da fattori psicologici, sociali e culturali agisce sull’elaborazione di significati. Il rischio viene concepito come un costrutto sociale che si definisce in base alla rappresentazione data dagli esperti e che è costantemente influenzata dall’esperienza degli individui. 5.5 Le critiche alla teoria Secondo Steve Rayner la metafora dell’amplificazione rischia di suggerire l’idea di attori sociali che si muovono passivamente, senza alcuno spazio per scelte individuali. Inoltre non appare sufficientemente spiegata la teoria sulla comunicazione della SARF come alternativa al modello lineare. Arie Rip sottolinea il fatto che manchi nella teoria un effetto contrario a quello dell’amplificazione, e che in generale essa proponga un modello vago e contraddittorio. 5.6 Dalla teoria alla ricerca: suggestioni empiriche e applicative Dal 1998 a oggi i contributi teorici ed empirici riferibili alla Social Amplification of Risk Framework si sono accumulati e stratificati. Essa individua una serie di punti chiave per delineare i futuri sviluppi della comunicazione del rischio: 1) il fatto che essa sia specializzata e debba essere considerata a parte dalle altre forme di comunicazione; 2) l’attenzione ai contesti sociali e culturali e il loro ruolo nella determinazione degli effetti di amplificazione; 3) lo sguardo sistemico e aperto alla complessità di interazioni fra le varie stazioni di amplificazione. Questo sul piano applicativo comporta che innanzitutto non sia possibile stabilire una procedura unica e standardizzata a prova di errore, perché il rischio implica un processo comunicativo ogni volta socialmente, culturalmente e geograficamente situato. 6. Tra teoria e pratiche: chiavi di lettura per la comunicazione del rischio 6.1 Obiettivi e funzioni della comunicazione del rischio Ogni teoria nel campo della comunicazione deve misurarsi con valutazioni di carattere normativo (ciò che dovrebbe essere fatto), epistemologico (ciò che sia reale e rilevante per l’analisi) e metodologico (come rilevare, misurare e interpretare i dati). Ogni teoria inoltre configura particolari tipi di emittente e destinatario, con ruoli, messaggi e composizione dei messaggi, effetti creati e contribuiti a creare, canali utilizzati e altri fattori, ogni volta diversi. La finalità generale della comunicazione del rischio è contribuire a mitigare gli effetti del rischio sulle persone e sui beni, attraverso la condivisione di informazioni vere e scientificamente fondate. Il livello di analisi si è gradualmente spostato dall’individuo (livello micro) alle comunità, organizzazioni e movimenti (livello meso) all’intera società (livello macro). Secondo Fischhoff il primo obiettivo della comunicazione del rischio è quello di produrre decisioni informate, conciliando la consapevolezza dei limiti cognitivi e temporali e l’esigenza di rappresentare adeguatamente l’incertezza. 6.2 La mediazione interpersonale: dall’opinion leader ai social media Il ridimensionamento del ruolo e prestigio della scienza, così come l’arrivo e il consolidamento di Internet e dei social media hanno posto ulteriori sfide ai comunicatori del rischio. Nel corso di questi ultimi anni la rappresentazione di eventi come l’attacco alle Torri Gemelle o le stragi di Madrid e Londra, lo tsunami in Sumatra, l’uragano Katrina, le pandemie di aviaria e suina eccetera sono state costruite utilizzando estensivamente le testimonianze digitali dei sopravvissuti. Con internet il pubblico non è più atomizzato e
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