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Riassunto per Procedura Penale I: Compendio di Procedura Penale - Conso, Grevi, Bargis P, Dispense di Diritto Processuale Penale

Riassunto del libro Conso Grevi Bargis, sostituivo del libro, programma di procedura penale I

Tipologia: Dispense

2019/2020

In vendita dal 08/04/2020

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Scarica Riassunto per Procedura Penale I: Compendio di Procedura Penale - Conso, Grevi, Bargis P e più Dispense in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! 1 COMPENDIO DI PROCEDURA PENALE 2 Indice Sommario • Capitolo Primo – I Soggetti …………………………………………………...............pag. 3 • Capitolo Secondo – Atti ………………………………………………………………pag. 41 • Capitolo Terzo – Le Prove …...……………………………………………………….pag. 70 • Capitolo Quarto – Misure Cautelari …………………………….…………………….pag. 92 • Capitolo Quinto – Indagini Preliminari e Udienza Preliminare ................. pag. 115 • Capitolo Sesto – Procedimenti Speciali……………………..……………………….pag. 143 • Capitolo Settimo Giudizio………………………………………………………………….pag. 166 • Capitolo Ottavo – Procedimento in Composizione Monocratica………….pag. 183 • Capitolo Nono – Impugnazioni………………………………………………………….pag. 190 • Capitolo Decimo – Esecuzione……………………………………………….…………..pag. 233 • SCHEMI DI RIEPILOGO………………………………………………………………..pag. 250 5 Da un lato, si collocano quelle disposizioni che, in caso di controversia sulla proprietà delle cose sequestrate (artt. 263 comma 3° e 324 comma 8°) o confiscate (art. 676 comma 2°), si limitano a devolvere la relativa risoluzione al giudice civile. Quanto appena osservato vale in particolar modo per le questioni pregiudiziali relative allo «stato di famiglia o di cittadinanza» (art. 3). In presenza di una controversia rientrante in una ditali categorie, il giudice penale «può sospendere» il processo – si presuppone, quindi, superato lo stadio procedimentale, in seguito all'avvenuta formulazione dell'imputazione – allorché ricorrano le tre seguenti condizioni: a) deve effettivamente sussistere un rapporto di pregiudizialità tra la risoluzione della controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza e la decisione della regiudicanda penale. Ciò non implica necessariamente un condizionamento sulla decisione circa l'esistenza del reato, essendo da riconnettere l'effetto devolutivo anche a quelle controversie la cui risoluzione influisce sull'esistenza di una condizione di punibilità odi una circostanza aggravante; b) è necessario che la questione pregiudiziale sia seria, vale a dire non mani-lestamente infondata o artificiosa; c) dev'essere già stata proposta l'azione «a norma delle leggi civili». Sarà il giudice a stabilire, di volta in volta, se, nonostante la ricorrenza dei presupposti stabiliti dall'art. 3 comma 1°, non sia preferibile risolvere autonomamente la questione pregiudiziale. Nel caso di sospensione (e di conseguente devoluzione della controversia al giudice «naturale») è prevista la pronuncia di un'ordinanza, che può essere impugnata – senza che si produca l'effetto sospensivo di cui all'art. 588 – in Cassazione (art. 3 comma 2°): nel silenzio della legge si deve ritenere ehe, in conformità con quanto stabilito nel secondo periodo dell'art. 568 comma 3°, siano legittimate al ricorso tutte le parti in quel momento presenti nel processo. Finché dura la sospensione, è ammesso soltanto il compimento degli atti urgenti (art. 3 comma 3) In tema di status, alla sentenza irrevocabile intervenuta in sede extrapenale viene riconosciuta efficacia di giudicato (art. 3 comma 4°). A questo proposito vale anzi la pena di aggiungere che il giudicato civile o amministrativo ha un'identica efficacia vincolante sia se si è formato anteriormente all'inizio del processo penale, sia se, risolta incidenter tantum la questione pregiudiziale nell'ambito del processo penale, è sopraggiunto mentre il medesimo è ancora in corso. Per quanto concerne, infine, l'ulteriore eventualità della decisione extrapenale divenuta irrevocabile dopo la definitiva conclusione del processo penale, soccorre la previsione di cui all'art. 630 lett. c ove la sentenza di condanna dipenda da un accertamento incidentale sconfessato dal giudice civile o amministrativo, potrà essere percorsa la strada della revisione (infra, cap. IX, § 47). La seconda ipotesi di sospensione del processo penale a causa di una questione pregiudiziale è quella prevista dall'art. 479. Qui la controversia da risolvere in via prioritaria non verte su uno status ma su una qualsiasi altra questione di competenza del giudice civile o amministrativo. La sospensione ex art. 479 può essere disposta solo nel corso del dibattimento. L'impronta restrittiva si può cogliere anche nella determinazione dei requisiti inerenti alla questione pregiudiziale: a) la risoluzione della controversia deve condizionare la decisione sull'esistenza del reato; b) l’attributo della serietà non è sufficiente, dal momento che la controversia deve risultare di particolare complessità; c) dev'essere già in corso il relative procedimento presso il giudice civile o amministrativo. Ulteriore condizione stabilita dall'art. 193 è che la legge civile o amministrativa non ponga limitazioni alla prova della situazione soggettiva. Limitazioni che il giudice penale non incontra, con migliori prospettive per la pienezza del suo accertamento, se risolve la controversia in via incidentale. Le divergenze rispetto alla normativa dettata per le questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia e di cittadinanza risultano nuovamente marcate. Si consente al giudice di revocare, anche di ufficio, l'ordinanza di sospensione qualora il giudizio civile o amministrativo non si sia concluso nel termine di un anno. Dall'altro, non avendo il legislatore ribadito la prescrizione contenuta nel comma dell'art. 3, risulta precluso il riconoscimento di un'efficacia vincolante della sentenza extrapenale. Quest'ultima viene a far parte del materiale probatorio destinato a costituire la base per la formazione del convincimento del giudice, il quale, in ipotesi, la può anche disattendere, Con l'unico limite di dover esporre in motivazione le ragioni della divergenza. 5. La competenza: per materia, per territorio e per connessione. Il capo II del titolo relativo al giudice è dedicato al tema della «competenza»: vale a dire all'insieme di regole giuridiche che consentono di attuare una distribuzione, in senso orizzontale e verticale, delle regiudicande penali, 6 in modo che risulti predeterminato il giudice legittimato a conoscere di ogni 1)1 alimento, come impone il 1° comma dell'art. 25 Cost. Prima di esaminare la normativa sulla competenza, va detto che alle due tradizionali figure (competenza per materia e per territorio) il codice ne ha aggiunta una terza (competenza per connessione). A proposito della competenza per materia, è anzitutto opportuno precisare che il codice, uniformandosi alle indicazioni contenute nella legge delega (art. 2 n. 12), ha tracciato la suddivisione tenendo conto sia del tipo di reato (criterio qualitativo, orientabile su vari parametri quali, ad esempio, la natura o, talora, addirittura la frequenza statistica dell'illecito o la maggiore professionalità del giudice), sia del livello della pena edittale (criterio quantitativo), per il cui calcolo lo stesso legislatore delegante ha fornito taluni criteri puntualmente recepiti dall'art. 4. Quest'articolo dispone che bisogna tenere conto della pena – o, meglio, del massimo della pena – stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato, per cui, nella seconda ipotesi, la pena edittale deve essere diminuita di un terzo (art. 56 comma 2° c.p.). Viene contestualmente esclusa l'incidenza della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, salvo che si tratti delle aggravanti per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa (come quando, per esempio, si passa dalla reclusione all'ergastolo) o di quelle ad effetto special. Più specificamente risultano affidati alla corte d'assise (art. 5): a) i delitti puniti con l'ergastolo o con la reclusione non inferiore nel massimo a ventiquattro anni, fatta eccezione per i delitti di tentato omicidio, di rapina e di estorsione, comunque aggravati, non-ché per i delitti di sequestro di persona a scopo di estorsione (sempre che non ne sia conseguita la morte della persona offesa, nel qual caso si rientra nell'ipotesi sub c) , e per quelli previsti dal d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 in materia di sostanze stupefacenti; b) i delitti consumati - esclusi, dunque, quelli rimasti allo stadio del tentativo- di omicidio del consenziente (art. 579 c.p.), istigazione o aiuto al suicidio (art. 580 c.p.), omicidio preterintenzionale (art. 584 c.p.); c) ogni delitto doloso, qualora dal fatto sia derivata la morte di una o più persone, escluse le ipotesi di morte come conseguenza non voluta di altro reato (art. 586 c.p.), di morte avvenuta in seguito a rissa (art. 588 c.p.) e di morte derivante da omissione di soccorso (art. 593 c.p.); d) i delitti di riorganizzazione del partito fascista, i delitti di genocidio e i delitti contro la personalità dello Stato puniti con pena edittale non inferiore nel massimo a dieci anni. Quanto al tribunale, la sua competenza si ricava per sottrazione, come risulta dall'art. 6 che, dopo l'aggiornamento operato dall'art. 47 d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274, lo investe dei reali non appartenenti alla competenza della corte di assise o del giudice di pace. Per quanto riguarda la competenza per territorio, la regola fondamentale è quella del luogo in cui il reato è stato consumato (art. 8 comma 1°). Ad essa il legislatore fa seguire: a) altre regole di carattere generale che derogano al criterio del locus commissi delictii in ragione della particolare configurazione della fattispecie delittuosa; b)talune regole «suppletive», che consentono l'individuazione del giudice territorialmente competente quando non è possibile applicare le regole generali. Le ipotesi che giustificano una deviazione dalla regola base sono quelle del fatto che abbia cagionato la morte di una o più persone, del reato permanente e del delitto tentato (art. 8 commi 2°, 3° e 4°). Nel primo caso, è parso preferibile radicare la competenza nel luogo in cui è avvenuta l'azione o l'omissione: in tale luogo, infatti, si è creato l'allarme sociale ed è più agevole la ricerca delle prove. Nelle altre due ipotesi si è optato, rispettivamente, per il criterio del luogo in cui ha avuto inizio la consumazione, anche se dal fatto è derivata la morte di una o più persone (essendo ne della permanenza), e per il criterio del luogo in cui è stato compiuto l'ultimo atto diretto a commettere il delitto. Quanto alle regole suppletive, occorre rispettare la gerarchia interna risultante dall'art. 9. Con la conseguenza che è prioritario il criterio del luogo o dell'ultimo, se i luoghi sono più di uno – in cui è avvenuta una parte dell'azione o dell'omissione; seguono, in successione, il criterio della residenza, della dimora, del domicilio dell'imputato; ed, infine, quello «del luogo in cui ha sede l'ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall'art.. 335» (art. 9 comma 3°). La normativa esaminata si applica anche quando il reato è stato commesso in parte all'estero (art. 10 comma 3°), mentre in caso di reato commesso interamente all'estero risultano indispensabili taluni adeguamenti. La competenza viene pertanto ad essere consecutivamente determinata dal luogo della residenza, della dimora, del domicilio, dell'arresto o della consegna dell'imputato, con prevalenza – se più sono gli imputati - del giudice competente per il maggior numero di essi (art. 10 comma 1°). Vale anche qui, come ultima regola, quella che privilegia il giudice del luogo in cui è avvenuta la prima iscrizione nel registro contemplato dall'art. 335 (art. 10 comma 2°). 7 Numerose deroghe alla regola del locus commissi delicti traggono la loro legittimazione dall'art. 210 disp. att., il quale stabilisce che continuano ad osservarsi le disposizioni di leggi o decreti disciplinanti la competenza per territorio sulla base di criteri non coincidenti con quello fissato dall'art. 8 comma 1°. Altre deroghe sono, inoltre, riconducibili a leggi successive alla pubblicazione del codice. Tra le varie ipotesi si possono menzionare: i reati commessi dal presidente del Consiglio dei ministri o dai ministri nell'esercizio delle loro funzioni, rispetto ai quali è competente il tribunale ubicato nel capoluogo del distretto di corte d'appello (art. 11 1. cost. 16 gennaio 1989, n. 1); la diffamazione commessa attraverso trasmissioni radiofoniche o televisive, che implica la competenza del giudice del luogo in cui ha la residenza la persona offesa (art. 30 comma 5°1. 6 agosto 1990, n. 223). In due situazioni, è lo stesso codice che crea regole ad hoc. Una prima deroga è quella risultante dall'art. 328 commi 1-bis e 1-ter, che riguardano, rispettivamente, i procedimenti relativi ai delitti elencati nell'art. 51 comma 3-bis e a quelli, caratterizzati da finalità di terrorismo, di cui all'art. 51 comma 3-quater. In tal caso le funzioni di giudice per le indagini preliminari nonché quelle di giudice dell'udienza preliminare – come precisato dall'art. 4-bis d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito con 1. 5 giugno 2000, n. 144) – sono esercitate da un magistrato appartenente al tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice. Del tutto particolare è poi la seconda situazione, che riposa su un duplice presupposto (art. 11): a) l'esistenza di un procedimento penale in cui un magistrato (giudice o pubblico ministero, anche se, come precisato il cui incarico sia caratterizzato dalla stabilità) assuma la qualità di imputato ovvero quella di persona offesa o danneggiata dal reato; b) la competenza, in relazione al fatto per il quale si procede, di un ufficio giudiziario ricompreso nel distretto di corte di appello in cui lo stesso magistrato esercita le proprie funzioni, ovvero le esercitava al momento del fatto. La competenza per i procedimenti previsti dall'art. 11 spetta ora al giudice, ugualmente competente per materia, che ha sede «nel capoluogo del distretto di corte di appello determinato dalla legge», sulla scorta di una tabella – allegata alle disposizioni di attuazione — incentrata sul criterio della circolarità La connessione è criterio autonomo di attribuzione di competenza. Una scelta che comporta l'automatico confluire davanti ad un unito giudice di procedimenti, riservati in base alle regole sulla competenza per materia e per territorio, a giudici diversi. Attualmente, dopo i vari interventi a cui si è accennato, l'art. 12 dispone che si ha connessione di procedimenti: a) se il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o — trattandosi di reato colposo in cooperazione tra loro, ovvero se più persone, con condotte indipendenti, hanno determinato l'evento; b) se una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale) ovvero con più azioni od omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso (reato continuato); c) se dei reati per cui si procede taluni sono stati commessi per eseguire o per occultare gli altri. Anche i criteri dettati per la determinazione del giudice competente nel caso di procedimenti connessi riflettono l'esigenza di non concedere spazio a scelte discrezionali. È prioritario il criterio del giudice superiore, dal quale discende che i procedimenti di competenza del tribunale risulta-no automaticamente attribuiti alla corte d'assise (art. 15); quando invece ci si muove esclusivamente sul versante della competenza territoriale — coinvolgendo i procedimenti connessi più giudici ugualmente competenti per materia — prevale il giudice competente per il reato più grave (alla stregua dei parametri forniti dall'art. 16 comma 3°) o, in caso di pari gravità, quello_ competente per il primo reato (art. 16 comma 1°). Nel caso di concorso di persone o di condotte indipendenti, le azioni o le omissioni sono state commesse in luoghi diversi e dal fatto è derivata la morte di una persona: in deroga al criterio generale stabilito dall'art. 8 comma 2°, si attribuisce la competenza al giudice del luogo in cui si è verificato l'evento (art. 16 comma 2°). Criteri particolari sono, inoltre, dettati per la connessione di procedi-menti di competenza di giudici ordinari e speciali. Nell'ipotesi di competenza concorrente tra Corte costituzionale e giudice ordinario, prevale la prima (art. 13 comma 1°), mentre nel rapporto tra giudice militare e giudice ordinario vale la regola opposta, fermo restando, tuttavia, che la connessione opera solo quando il reato comune è più grave di quello militare (art 13 comma 2°). Per i procedimenti relativi ad imputati che, al momento del fatto, erano minorenni, e procedimenti relativi ad imputati maggiorenni, la connessione non opera. 10 Se il difetto di giurisdizione è rilevato nel corso delle indagini preliminari, il giudice provvede con ordinanza e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero. Dopo la chiusura delle indagini preliminari e in ogni stato e grado del processo, il giudice pronuncia, invece sentenza e ordina, eccettuata l'ipotesi di un difetto assoluto di giurisdizione, che gli atti vengano trasmessi all'autorità competente (art. 20 comma 2°). L'incompetenza per materia, può essere rilevata anche d'ufficio in ogni stato e grado del «processo» (non prima, quindi, che sia stata esercitata l'azione penale). L'incompetenza per territorio e per connessione, invece, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare o, se questa man-chi, ovvero se l'eccezione venga respinta in sede di udienza preliminare, entro, il termine previsto dall'art. 491 comma 1° per la trattazione delle questioni preliminari (art. 21 commi 2° e 3°). Si è accennato a due situazioni che comportano una deroga all'ordinario regime dell'incompetenza per materia: la prima ricorre quando il giudice conosce di un reato che appartiene alla cognizione di un giudice di competenza inferiore. L'incompetenza deve essere rilevata d'ufficio o eccepita, a pena di decadenza, entro il termine stabilito dall'art. 491 comma 1° (art. 23 comma 2°). La seconda deroga concerne l'ipotesi dell'incompetenza per materia derivante da connessione, che, in base all'art. 21 comma 3°, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, entro gli stessi termini stabiliti per l'incompetenza per territorio. Più precisamente: al nel corso delle indagini preliminari, il giudice che riconosca la propria incompetenza pronuncia ordinanza (con effetti circoscritti al provvedimento richiesto) e dispone la restituzione degli atti al pubblico ministero (art. 22 commi 1° e 2°); b) dopo la chiusura delle indagini preliminari e in sede di dibattimento di primo grado, il giudice dichiara con sentenza la propria incompetenza e ordini la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice competente; c) in grado di appello si pronuncia la sentenza di annullamento si ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado (art. 24 comma 1°). Nel giudizio davanti alla corte di cassazione, quest'ultima è tenuta a dichiarare, anche d'ufficio, l'incompetenza per materia derivante dall'avere il tribunale giudicato un reato di competenza della corte d'assise; può essere eventualmente dichiarata anche l'incompetenza per territorio o per connessione, purché la relativa eccezione, tempestivamente proposta in primo grado e riproposta nei motivi di appello, sia stata ulteriormente riproposta nei motivi del ricorso per cassazione. Da notare che la decisione della corte di cassazione sulla giurisdizione o sulla competenza è vincolante nel corso del processo: può essere superata nella sola ipotesi in cui risultino nuovi fatti. Il mancato rispetto delle norme sulla competenza non determina l'inefficacia delle prove acquisite, con la sola parziale eccezione delle dichiarazioni rese al giudice incompetente per materia che, se ripetibili, possono essere utilizzate soltanto in sede di udienza preliminare e per le contestazioni regolate dagli artt. 500 e 503. La seconda prevede che le misure cautelari (personali e reali), disposte da un giudice dichiaratosi incompetente contestualmente o successivamente alla loro pronuncia, cessino di avere efficacia qualora entro venti giorni dall'ordinanza di trasmissione degli atti al giudice competente non siano confermate da quest'ultimo ai sensi degli artt. 292, 317 e 321. Gli artt. 28-32, che si occupano dei conflitti tra giudici. Il conflitto è una situazione che si determina quando, in qualsiasi stato e grado del processo, due o più giudici contemporaneamente prendono (conflitto positivo) o rifiutano di prendere (conflitto negativo) cognizione del medesimo fatto – quale che sia la sua qualificazione giuridica – attribuito alla stessa persona. Ad originare il procedimento di conflitto è una «denuncia» di parte, privata o pubblica, o una «rilevazione» d'ufficio del giudice. L'elevazione del conflitto non ha effetti sospensivi sul processo in corso. Lo sviluppo del procedimento incidentale è scandito dagli artt. 30, 31 e 32, i quali, oltre ad indicare l'organo cui spettala risoluzione del conflitto - la corte di cassazione -- delineano un meccanismo di comunicazione, notificazione e trasmissione di copie di atti tale da garantire la partecipazione al procedi-mento di tutti i soggetti interessati ai processi coinvolti nel conflitto. La corte di cassazione decide con sentenza in camera di consiglio, secondo a procedura stabilita dall'art. 127 (art. 32 comma 1°). Il conflitto cessa anzitutto per effetto dell'iniziativa di uno dei giudici che dichiari, anche di ufficio, la propria competenza, m caso di conflitto negativo, o la propria incompetenza, in caso di conflitto positivo (art. 29). Se ciò non si verifica, bisogna attendere la sentenza della corte di cassazione , che produce gli effetti previsti dall'art. 25: è vincolante, tranne che nell'ipotesi delle modificazioni ivi contemplate, derivanti da fatti nuovi. Quanto agli atti compiuti dal giudice risultato incompetente, bisogna rifarsi al disposto degli artt. 26 e 27, con un unico 11 adeguamento: relativamente ai provvedimenti cautelari, il termine diventi giorni di cui all'art. 27 decorre, in questo caso, dalla comunicazione della sentenza della corte al giudice che ha disposto la misura cautelare. 10. Il controllo sul corretto riparto di «attribuzioni» fra tribunale "monocratico" e tribunale "collegiale". L'inosservanza delle disposizioni concernenti l'attribuzione di un reato ad una determinata composizione del tribunale e delle disposizioni processuali collegate alla suddetta attribuzione, deve essere rilevata o eccepita, a pena di decadenza, prima della conclusione dell'udienza preliminare ovvero, nei processi in cui si prescinde da tale udienza, entro il termine previsto per la trattazione delle questioni preliminari dall'art. 491 comma 1°. In sede di udienza preliminare, il giudice dell'udienza preliminare dispone con ordinanza che gli atti vengano trasmessi al pubblico ministero, affinché il medesimo provveda ad emettere il decreto di citazione a giudizio contemplato dall'art. 552 (art. 33-sexies comma 1°). Qualora, invece, l'inosservanza delle regole sull'attribuzione del reato venga rilevata nel corso del dibattimento di primo grado, il giudice procede diversamente a seconda che il dibattimento sia stato instaurato in seguito ad udienza preliminare oppure a decreto di citazione diretta a giudizio. Nel primo caso, tanto se emerge che il reato rientra fra le attribuzioni del giudice collegiale, anziché fra quelle del giudice monocratico, quanto nell'ipotesi opposta, è sufficiente trasmettere gli atti, con ordinanza, al giudice competente a decidere sul reato contestato (circa l'eventualità di un conflitto «analogo», retro, § 9). Nel secondo, essendo stato l'imputato indebitamente privato dell'udienza preliminare, l'error in procedendo può essere invece corretto solo mediante una regressione del processo. La questione relativa alla violazione delle regole sulle attribuzioni può essere affrontata anche nel giudizio di appello e in quello di cassazione. Dall'art. 33-octies si desume che: a) quanto al giudice di appello, qualora lo stesso ritenga che dovesse giudicare il tribunale in composizione collegiale, pronuncia sentenza di annullamento e ordina la trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice di primo grado; b) quanto alla corte di cassazione è opportuno distinguere tra attribuzione viziata per difetto o per eccesso: nel primo caso, la corte procede come il giudice di appello – sentenza di annullamento e trasmissione degli atti al pubblico ministero; nel secondo vale la stessa regola, purché il ricorso riguardi una sentenza inappellabile o si tratti di un ricorso ai sensi dell'art. 569 comma 1°. Al di fuori di queste ipotesi, l'errore di attribuzione risulta irrilevante. L'art. 26, l'art. 33-nonies stabilisce che in tal caso sono pienamente utilizzabili le prove acquisite. Il medesimo articolo, caratterizzandosi sotto questo profilo rispetto all'art. 26, precisa altresì che non è neppure inficiata la validità degli atti compiuti. Oltre alle disposizioni relative al riparto di attribuzioni fra le due composizioni del tribunale, può essere violata la normativa di ordinamento giudiziario (artt. 48-quater ord. giud.) che consente di ripartire tra sede principale e sezioni distaccate o tra diverse sezioni distaccate i procedimenti nei quali il tribunale giudica in composizione monocratica (retro, § 7). Tale violazione può essere rilevata fino alla dichiarazione di apertura del dibattimento di primo grado (art. 163-bis comma 1° disp. att.). Il giudice che la ritenga sussistente, o che ritenga anche solo non manifestamente infondata la relativa questione, rimette gli atti al presidente del tribunale, affinché quest'ultimo si pronunci in proposito con un decreto non motivato e non soggetto ad impugnazione (art. 163-bis comma 2° disp. att.). 11. Le cause personali di estromissione del giudice: incompatibilità, astensione e ricusazione. Nel capo VII del libro I sono regolate le ipotesi in cui il giudice ha l'obbligo di non esercitare la sua funzione giurisdizionale (astensione) e le parti hanno diritto di chiederne l'estromissione (ricusazione). Per quanto riguarda, in particolare, le cause d'incompatibilità, esse sono previste autonomamente negli artt. 34 e 35, nonché negli artt. 18 e 19 ord. giud.; ma, nonostante la configurazione autonoma, risultano ricomprese, in forza di esplicito richiamo, nella stessa disciplina delle ipotesi di astensione e di ricusazione (art. 36 comma 1° lett. g). Per la giurisprudenza l'esistenza di una situazione di incompatibilità costituisce esclusivamente un motivo di ricusazione, che la parte interessata deve far valere tempestivamente (art. 38) qualora il giudice sospetto non abbia ottemperato all'obbligo di astenersi. Come si è anticipato, le cause d'incompatibilità sono stabilite, in parte, dalle leggi di ordinamento giudiziario (in particolare, dagli artt. 18 e 19 ord. giud.) e, in parte, dal codice di rito (artt. 34 e 35). Le prime attengono 12 esclusivamente alla costituzione dell'organo giudicante e prefigurano alcune condizioni dirette ad assicurare che la persona chiamata ad esercitare la funzione giurisdizionale non solo sia, ma anche appaia imparziale. Bisogna preliminarmente distinguere tra l'incompatibilità per ragioni di parentela, affinità o coniugio, regolata dall'art. 35 («nello stesso procedimento non possono esercitare funzioni, anche separate o diverse, giudici che sono tra loro coniugi, parenti o affini fino al secondo grado») e l'incompatibilità determinata da atti compiuti nel procedimento. Quest'ultima species di incompatibilità è disciplinata dall'art. 34, il quale, dopo l'ampliamento operato dall'art. 171 del decreto attuativo della legge delega in tema di giudice unico (d. lgs. n. 51 del 1998), contempla quattro diversi gruppi di situazioni: a) il giudice che ha pronunciato o ha concorso a pronunciare sentenza in un grado del procedimento non può esercitare funzioni di giudice negli altri gradi, né partecipare al giudizio di rinvio dopo l'annullamento; non può partecipare al giudizio il giudice che ha pronunciato il provvedimento conclusivo dell'udienza preliminare o ha disposto il giudizio immediato o ha emesso decreto penale di condanna, né quello che ha deciso sull'impugnazione avverso la sentenza di non luogo a procedure. Chi aveva funzioni di giudice per le indagini preliminari non può in quello stesso procedimento emettere il decreto penale di condanna, né partecipare al giudizio; inoltre, è incompatibile alla funzione di giudice dell'udienza preliminare (art. 34comma 2-bis). Questa disposizione, introdotta dall'art. 171 d. lgs. n. 51 del 1998, è stata successivamente precisata, nella sua portata, dal comma 2-ter (aggiunto dall'art. 11 1. 16 dicembre 1999, n. 479), il quale, in deroga alla previsione del comma precedente, esclude la ricorrenza di una situazione di incompatibilità allorché il giudice per le indagini preliminari si sia limitato ad adottare, nell'ambito del medesimo procedimento, taluno dei seguenti provvedimenti, ritenuti inidonei a de-terminare una situazione di pregiudizio: a) il provvedimento con cui si autorizza il trasferimento in un luogo esterno di cura dell'indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere e quello con cui si autorizza il medesimo ad essere visitato da un sanitario di fiducia (art. 11 commi 2° e 11° ord. penit.); b) i provvedimenti relativi ai permessi di colloquio, alla corrispondenza telefonica e al visto di controllo sulla corrispondenza, concernenti l'indagato sottoposto a custodia cautelare in carcere (art. 18 comma 8° ord. penit.); c) il provvedimento con cui si accoglie o si rigetta la richiesta di un permesso di uscita dal carcere in presenza dell'imminente peri-colo di vita di un familiare o del_ convivente della persona sottoposta ad indagini, ovvero in presenza di altri eventi di particolare gravità inerenti alla sua famiglia (art. 30 commi 1° e 2° ord. penit.); d) il provvedimento con cui una parte o un difensore vengono restituiti in un termine stabilito a pena di decadenza (art. 175); e) il provvedimento con cui viene dichiarata la latitanza dell'indagato (art. 296). Per completare l'elenco, bisogna aggiungere che l'art. 2-quater d.l. 7 aprile 2000, n. 82 (convertito con 1. 5 giugno 2000, n. 144) ha inserito nell'articolo in esame il comma 2-quater, il quale prende in considerazione l'ipotesi in cui il giudice «abbia provveduto all'assunzione dell'incidente probatorio o comunque adottato uno dei provvedimenti previsti dal titolo VII del libro quinto» , titolo dedicato, per l'appunto, all'incidente probatorio - escludendo che ciò basti a configurare a suo carico una situazione di incompatibilità. Dato atto del carattere tutto sommato marginale delle ipotesi derogatorie, bisogna riconoscere che il disposto di cui all'art 34 comma 2-bis risulta innovativo sotto due diversi profili: da un lato, sancendo un'incondizionata incompatibilità al giudizio, assorbe (e supera) sia quella parte dell'art. 34 comma 2° in cui si fa riferimento al giudice che «ha disposto il giudizio immediato o ha emesso il decreto penale di condanna», sia quell'ampio ventaglio delle succitate sentenze della Corte costituzionale che hanno ricollegato l'incompatibilità algiudizio del giudice per le indagini preliminari a specifiche situazioni "pregiudicanti"; dall'altro, escludendo che il giudice per le indagini preliminari possa «tenere l'udienza preliminare», capovolge, come emerge inequivocabilmente dalla riformulazione del secondo periodo dell'art. 7-ter comma 1° ord. giud. (art. 6 lett. a d. lgs. n. 51 del 1998), l'originaria impostazione. e) non può, infine, esercitare l'ufficio di giudice in un determinato procedimento chi, in quello stesso procedimento, ha esercitato funzioni di pubblico ministero o ha svolto atti di polizia giudiziaria ovvero un altro ruolo (difensore o procuratore speciale di una parte, testimone, perito, consulente tecnico) idoneo a comprometterne l'imparzialità. Per quanto concerne le cause di astensione e di ricusazione, esse sono disciplinate unitariamente nella disposizione relativa all'astensione (art. 36). Non si può parlare, però, di una totale coincidenza: non costituisce, infatti, motivo di ricusazione l'ipotesi — non richiamata dall'art. 37 — in cui sussistono non meglio specificate «gravi ragioni di convenienza» (art. 36 lett. h); e, viceversa, non costituisce motivo di 15 In base all'odierna formulazione dell'art. 47 comma 1°, è lo stesso giudice procedente che, in seguito alla presentazione della richiesta, può disporre con ordinanza (inoppugnabile) la sospensione del processo fino a che non sia intervenuta l'ordinanza di inammissibilità o di rigetto. Analogamente, dopo essere stata investita della richiesta, la corte di cassazione può disporre la sospensione. Quanto ai presupposti delle due ipotesi di sospensione facoltativa appena ricordate sono ancorate ai principi del fumus boni iuris e delpericulum in mora. La sospensione può essere obbligatoria, rospetto alla stessa, funge da necessaria premessa la comunicazione, da parte della corte di cassazione, che, non avendo il presidente della medesima corte rilevato, nell'ambito del suo esame preliminare, alcuna causa di inammissibilità tale da giustificare l'investitura della sezione-filtro di cui all'art. 610 comma 1°, è avvenuta l'assegnazione della richiesta ad una delle altre sezioni della corte oppure alle sezioni unite (art. 48 comma 3°). In seguito a tale comunicazione, il giudice procedente deve sospendere il processo prima dello svolgimento delle conclusioni (in sede di udienza preliminare) o della discussione (in sede dibattimentale), e resta preclusa la pronuncia sia del decreto che dispone il giudizio, sia della sentenza. Anche in questo caso la sospensione dura fino a che non venga pronunciata l'ordinanza della corte che dichiari inammissibile o rigetti la richiesta (art. 47 commi 2° e 3°). E' da escludere la sospensione quando la richiesta non è fondata su elementi nuovi rispetto a quelli di una precedente richiesta rigettata o dichiarata inammissibile (art. 47 comma 2°). Finché dura la sospensione, restano sospesi i termini della prescrizione del reato e, se la richiesta di rimessione proviene dall'imputato, anche i termini di durata massima della custodia cautelare previsti dall'art. 303 comma 1° (infra, cap. IV, §§ 19-20). La sospensione consente comunque il compimento degliatti urgenti (art. 47 comma 3°). La decisione della corte di cassazione, che procede in camera di consiglio ex art. 127 dopo aver eventualmente acquisito le necessarie informazioni (art 48 comma 1°), assume la forma dell'ordinanza. Che potrà essere di inammissibilità, di rigetto o di accoglimento: in quest'ultima ipotesi l'ordinanza – contenente l'indicazione del nuovo giudice, da individuare ai sensi dell'art 11 (retro, § 5) – è immediatamente comunicata al giudice designato e al giudice originariamente competente. Da notare che, quando la corte di cassazione rigetta o dichiara inammissibile la richiesta di rimessione, può condannare l'imputato – così deve essere inteso l'inesatto riferimento alle «parti private» risultante dall'art. 48 comma 6° – al pagamento di una somma (da 1000 a 5000 euro) a favore della cassa delle ammende. Quanto alla conservazione degli atti del processo oggetto di rimessione, (ferma restando l'utilizzabilità degli atti validamente compiuti dinanzi al giudice a quo, in quanto inseriti nel fascicolo dibattimentale), vale ora la regola, secondo cui il giudice designato procede alla rinnovazione degli atti quando una (qualsiasi) delle parti ne faccia richiesta. Con due sole eccezioni concernenti, da un lato, l'ipotesi che si tratti di atti «di cui è divenuta impossibile la ripetizione» e, dall'altro, l'eventualità che si versi in una delle due situazioni rispettivamente contemplate dal comma comma 1-bis dell’art. 190-bis. L'ipotesi di una nuova richiesta di rimessione è regolata dall'art. 49, che consente l'iterazione sia nel caso in cui la richiesta sia diretta ad ottenere un ulteriore spostamento del processo, sia nel caso in cui essa miri ottenere per la prima volta il relativo provvedimento, già negato da un’ordinanza di rigetto o d’inammissibilità. L’ulteriore spostamento del processo può essere richiesto quando nella sede designata si ripresenta una situazione riconducibile al disposto dell'art.45 ovvero quando, essendo venute meno nella sede originaria le ragioni che avevano indotto a sollecitare l'intervento della corte di cassazione, si creano le premesse per una revoca del provvedimento di rimessione. Nel caso in cui, invece, sia intervenuto un provvedimento negativo della corte di cassazione, bisogna distinguere: in presenza di un'ordinanza che abbia rigettato la precedente richiesta o abbia dichiarato l'inammissibilità della stessa per manifesta infondatezza, l'ulteriore richiesta, per non essere dichiarata inammissibile, deve essere fondata su «elementi nuovi» (art. 49 comma 2°). La richiesta dichiarata inammissibile per motivi diversi dalla manifesta infondatezza – si consideri il disposto dell'art. 46 comma 4° – può essere sempre riproposta (art. 49 comma 4°). 13. La posizione di parte del pubblico ministero e la sua funzione tipica. Il pubblico ministero, pur rivestendo la qualità di parte nel processo, anzi fin dalla fase delle indagini preliminari, costituisce, al tempo stesso, un organo dell'apparato statale incaricato di vegliare «all'osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia», nonché, tra l'altro, di iniziare ed esercitare l'azione penale (artt. 73 e 74 ord. giud.). 16 Ma il pubblico ministero non è solo affrancato dal potere esecutivo, ma gode di una posizione di indipendenza (c.d. esterna) rispetto a tutti gli altri poteri costituzionali. A riguardo rilevanti sono l’art. 101 comma 2° Cost e l'art. 107 comma 4° Cost. Anzitutto, l'art. 104, si riferisce pure alla magistratura requirente che gode, del resto, dell'elettorato attivo e passivo rispetto all'organo di autogoverno (Consiglio superiore della magistratura). Ancora, l'art. 108 comma 2° Cost., laddove demanda alla legge il compito di assicurare l’indipendenza del pubblico ministero presso le giurisdizioni speciali, non può che valere, a maggior ragione, per il pubblico ministero istituito pressi) gli organi di giurisdizione ordinaria. Inoltre, l'art 109 Cost. statuendo e che l'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria, indica un obiettivo il cui raggiungimento sarebbe in maniera inevitabile compromesso se al potere esecutivo fosse dato interferire, grazie alla sopraordinazione goduta sugli apparati di polizia, nell'attività investigativa del pubblico ministero. Un peso assorbente riveste, infine, il canone dell'obbligatorietà dell'azione penale (art. 112 Cost.). Non solo, la Corte ha riaffermato (sentenza n. 420 del 1995) che l'indipendenza non tollera interferenze esterne non solo nel momento in cui il pubblico ministero decide in ordine all'esercizio dell'azione penale, ma pure nel corso dell'intera fase anteriore delle indagini preliminari. Allo stato, il pubblico ministero risponde del suo operato solo di fronte alla legge, godendo delle stesse garanzie attribuite al giudice circa il reclulamento, l'inamovibilità dalla sede e la soggezione al potere di controllo del Consiglio superiore della magistratura. L'aspirazione in senso accusatorio del sistema e la parità tra accusa e difesa trovano un primo sviluppo nel titolo II del libro I dedicato al pubblico ministero colto quale soggetto del procedimento (artt. 50-54-quater). Vi trovano posto disposizioni che regolano i rapporti tra i diversi uffici _ed all'interno di ogni ufficio in modo tale da evidenziare l'acquisita natura di parte del titolare dell'accusa e l'autonomia delle soluzioni rispetto aquelle- dettate per il giudice. L'art. 50 comma 1° conferisce, anzitutto, al pubblico ministero la titolarità dell'azione penale. Pertanto, nel sistema codicistico non trova spazio né l'azione penale privata, conferita cioè alla persona offesa dal reato, né l'azione penale popolare, attribuita cioè al quisque de populo. Si tenga presente, però, che l'art. 21 d. lgs. 28 agosto 2000, n. 274, prevede che per «i reati procedibili a querela è ammessa la citazione a giudizio dinanzi al giudice di pace della persona alla quale il reato è attribuito su ricorso della persona offesa» (infra, cap. XIII § 10). Sempre l'art. 50 comma 1° enuncia, poi, il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, in piena aderenza all'art. 112 Cost.: il doveroso esercizio dell'azione rinviene quale suo unico limite la richiesta di archiviazione . Si noti, tuttavia, come le sole attività riportabli all’inizio dell'azione penale, e non già al suo proseguimento,siano presidiate dalla previsione di una nullità assoluta (art. 179 comma 1°). La lettura coordinata con l'art. 405 – che elenca gli atti tipici di esercizio dell'azione penale, contenenti tutti la formulazione dell'imputazione – permette di individuare il momento di inizio del processo penale in senso proprio, riservando la fase delle indagini preliminari al mero procedimento. Al contempo, lettura coordinata con l'art. 60 dedicato all'assunzio ne della qualità di imputato, chiarisce come quest'ultima discenda unicamente da un atto – la formulazione dell'imputazione – che segna l'avvenuto esercizio dell’azione penale (infra, § 21). Trattandosi di fatti in mancanza dei quali il pubblico ministero non può agire validamente, le condizioni di procedibilità sono suscettibili, in concretp, di collidere con principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Non trova, invece, posto nel codice un altro consueto principio – quello della pubblicità dell'azione penale – perché la sua enunciazione è parsa superflua: i poteri attribuiti alla persona offesa, specie là dove consentono di opporsi alla richiesta di archiviazione (art. 410), non sono assimilabili all'esercizio di un'azione penale privata. Il 3° comma esprime, poi, il tradizionale principio della irretrattabilità dell'azione penale: questa, una volta esercitata, esce dalla sfera del suo autore e comporta l'insorgere di un dovere decisorio in capo al giudice: ciò equivale a dire che l'oggetto del processo penale è indisponibile. Naturale, a tal punto, sottoporre le cause di sospensione o di interruzione dell'azione penale al principio di tassatività. 14. L'organizzazione e la distribuzione del lavoro tra gli uffici: loro rapporti. In forza dell'art. 51 comma 1° lett. a le funzioni di pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono esercitate dai magistrati della procura della Repubblica presso il tribunale. In virtù dell'art. 71 ord. giud., alle procure della Repubblica presso i tribunali ordinari possono essere addetti magistrati onorari in qualità di vice procuratori «per l'espletamento delle funzioni indicate dall'art. 72». 17 Una deroga all'art. 51 comma 1° lett. a, con il consentire al procuratore della Repubblica presso il tribunale di delegare nominativamente determinate funzioni, da precisarsi di volta in volta, ad uditori giudiziari, a vice procuratori onorari addetti all'ufficio, a «personale in quiescenza da non più di due anni che nei cinque anni precedenti abbia svolto le funzioni di polizia giudiziaria», ovvero a laureati in giurisprudenza che frequentano il secondo anno della scuola biennale di specializzazione per le professioni legali di cui all'art. 16 d. lgs. 17 novembre 1997, n. 398. Dal comma lett. b dell'art. 51 si desume, invece, che i magistrati della procura della Repubblica presso la corte d'appello esercitano, per regola, le funzioni di pubblico ministero nei soli giudizi di impugnazione, così come accade sempre per i magistrati della procura generale presso la corte di cassazione relativamente a tale giudizio. Merita evidenziare, in proposito, come la partecipazione al giudizio d'appello del rappresentante dell'ufficio presso il giudice di primo grado, che abbia presentato le conclusioni e ne abbia fatta richiesta nell'atto di appello, non si configuri alla stregua di una deroga in senso proprio. In tal caso la sostituzione, atteggiandosi a delega nominativa, è disposta, sulla base di una valutazione di mera opportunità, dallo stesso procuratore generale presso la corte d'appello al quale continuano a spettare i relativi avvisi (art. 570 comma 3°). Al procuratore generale non sono neppure forniti mezzi per controllare la mancata attivazione dei procuratori della Repubblica del suo distretto nei riguardi di informazioni che non assurgano al ramo di notizia di reato: esse, infatti, non impongono di richiedere il decreto di archiviazione, allorché non siano state neppure iscritte, per la loro indeterminatezza, nell'apposito registro ex art. 335 (art. 109 disp. att.). Durante la fase delle indagini preliminari si apre una serie di canali informativi tra procure della Repubblica e relative procure generali presso la corte d'appello, e viceversa. Si considerino le notizie e le segnalazioni di cui all'art. 118-bis disp. att. che preludono, quando il coordinamento investigativo non sia stato promosso o non risulti effettivo, al potere del procuratore generale presso la corte d'appello di riunirei procuratori della Repubblica che procedono ad indagini collegate (infra, cap. V, § 28). L'unico strumento mediante il quale il procuratore generale presso la corte d'appello subentra, nella titolarità delle indagini preliminari, al procuratore della Repubblica del sua distretto è l'avocazione. Il relativo potere non è generalizzato, ma sempre subordinato a tassative previsioni legislalive così da caratterizzarsi come istituto di natura eccezionale (cfr. 2 n. 42 della legge delega). L'avocazione scatta in maniera, per così dire, automatica quando ricornano le situazioni qui di seguito descritte (infra, cap. V, § 32). In primo luogo, nel caso di impossibilità di provvedere, nell'ambito dell'ufficio della procura della Repubblica, alla tempestiva sostituzione del magistrato designato a seguito di astensione o di incompatibilità (art. 372 comma 1° let. A); in secondo luogo, nel caso di omessa tempestiva sostituzione del magistrato da parte del capo dell'ufficio, ricorrendo alcune tra le fattispecie che avrebbero imposto al giudice di astenersi e consentito alle parti di ricusarlo (art. 372 comma 1° lett. b.); infine, in un diverso contesto, nel caso di omessa presentazione, nei termini prefissati, della richiesta di archiviazione ovvero di omesso esercizio, sempre nei medesimi termini, dell’azione penale (art. 412 comma 1°). Meno solido è il collegamento con il presupposto dell'inerzia rispetto al caso di avocazione (facoltativa) che si configura, nel procedimento per reati di competenza del tribunale o della corte d'assise (infra, cap. V, § 35), quando il giudice per le indagini preliminari fissa l'udienza in camera di consiglio, non avendo accolto in prima battuta la richiesta di archiviazione (art. 412 comma 2° in rapporto all'art. 409 comma 3°), oppure quando ritiene ammissibile l'opposizione all'archiviazione proposta dalla persona offesa (art. 410 comma 3°). Nella medesima prospettiva si colloca l'avocazione consentita al procuratore generale nell'ipotesi in cui il giudice dell'udienza preliminare abbia indicato al pubblico ministero le ulteriori indagini da svolgersi ad integrazione di quelle già svolte, ma ritenute «incomplete» (art. 421-bis comma 2°). Investe una valutazione complessa, poi, l'ipotesi delineata dall'art. 372 comma 1- bis. Qui il procuratore generale, assunte le necessarie informazioni, dispone, sempre con decreto motivato, l'avocazione delle indagini preliminari per una serie di delitti di criminalità organizzata, allorquando, trattandosi di indagni collegate, non risulti effettivo il coordinamento prescritto ex art. 371 comma 1° e non abbiano dato esito le riunioni disposte o promosse dal procuratore generale, anche d'intesa con gli altri procuratori generali interessati (in-fra, cap. V, § 35). In aggiunta al vincolo del decreto motivato, si prevede, inoltre, che copia del provvedimento con cui il procuratore generale presso la corte appello (al pari del procuratore nazionale antimafia nelle ipotesi appena ricordate) dispone l'avocazione delle indagini preliminari è sempre trasmessa al Consiglio superiore della magistratura ed ai procuratori della Repubblica interessati. Ciò consente a questi ultimi di proporre reclamo al procuratore generale 20 La ratio sottostante al riconoscimento codicistico dell'autonomia sta nel consentire che la condotta del magistrato possa adeguarsi all'oralità dell'udienza. Ciò non toglie che il capo dell'ufficio possa impartire direttive sulle premesse dell'udienza. L'autonomia del magistrato del pubblico ministero nell'udienza comporta che le cause di sostituzione restino circoscritte perché non si risolva-no in un espediente volto ad aggirare quel principio. L'art. 53 commi 2° e 3° fornisce, al riguardo, un elenco assai articolato. Un primo gruppo si riferisce a cause che consentono una valutazione discrezionale da parte del capo dell'ufficio come il «grave impedimento» e «le rilevanti esigenze di servizio». Un secondo — definibile in termini di obbligatorietà – concerne alcune fra le situazioni in presenza delle quali il giudice sarebbe obbligato ad astenersi: il rinvio all'art. 36 comma 1° lett. a, b, d ed e rende palese che sono state escluse le «gravi ragioni di convenienza» di cui alla lett. h. Un terzo gruppo riguarda la sostituzione effettuata con il consenso del magistrato interessato: le cause possono essere le più disparate, perché la tutela dell'obiettività della parte pubblica è assicurata dal consenso. Qui possono trovare spazio anche quelle «gravi ragioni di convenienza» che avrebbero potuto sorreggere una richiesta di astensione. Spetterà al capo dell'ufficio scegliere tra le due vie. Resta da considerare il caso in cui il capo dell'ufficio non abbia provveduto alla sostituzione in presenza di uno dei presupposti considerati nel secondo gruppo: essendo la sostituzione demandata al procuratore generale, con designazione di un magistrato del suo ufficio, si avrà qui una figura simile all'avocazione. Nel caso in esame la designazione vale, invece, per le sole funzioni di udienza e per le attività che ne seguono, cosicché la sostituzione disposta ex art. 53 comma 3° riveste un'efficacia meramente temporanea. Ma è sul piano dei presupposti che si coglie appieno, la differenza tra i due istituti: la sostituzione, infatti, opera successivamente all'esercizio dell'azione penale, mentre l'avocazione ex art. 372 lett. b si colloca nella fase delle indagini preliminari. Per guanto riguarda la fase delle indagini preliminari, in forza di una lettura a contrario dell'art. 53, non vi è dubbio che il magistrato del pubblico ministero goda di un certo grado di autonomia. 17. Uffici del pubblico ministero e criminalità di stampo mafioso. Una serie di deroghe che incidono sulla divisione del lavoro e sui _rapporti tra gli uffici del pubblico ministero, così da creare, fin dalla fase delle indagini preliminari, una sorta di procedimento speciale per tali reati (c.d. doppio binario). Per quel che qui importa, la disciplina speciale concernente il pubblico ministero opera nei procedimenti di cui all'art. 51 comma 3-bis, cioè quelli relativi ai delitti, consumati o tentati, di associazione di tipo mafioso (art. 416- bis c.p.) e di sequestro di persona a scopo estorsivo (art. 630 c.p.), ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis c.p. (c.d. reati «fine» rispetto al delitto di associazione di stampo mafioso) ovvero al fine di agevolare l'attività delle associazioni previste dallo stesso articolo (c.d. reati «mezzo»), al delitto di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti o psicotrope (art. 74 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309), al delitto di associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri (art. 291-quater d.P.R. 23 gennaio 1973, n. 43), nonché per i delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo (art. 51 comma 3-quater, così come introdotto dall'art. 10-bis comma 1° 1. 15 dicembre 2001, n. 438). Per tutti i reati in discorso le funzioni di pubblico ministero nelle indagini preliminari e nei procedimenti di primo grado sono attribuite all'ufficio che ha sede presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello. Il procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto costituisce, sempre nell'ambito del suo ufficio, una direzione distrettuale antimafia. Negli uffici delle procure distrettuali può essere comunque istituito un posto di procuratore aggiunto. Salvi casi eccezionali, il procuratore distrettuale designa per l'esercizio delle funzioni di pubblico ministero nei procedimenti in discorso i magi-strati addetti alla direzione (art. 70-bis ord. giud.). La continuità nella designazione può, però, venir meno, essendo previsto che — su richiesta del procuratore distrettuale — il procuratore generale presso la corte d'appello, per giustificati motivi, possa disporre che le funzioni di pubblico ministero per il dibattimento siano esercitate da un magistrato designato dal procuratore della Repubblica presso il giudice competente (art. 51 com- ma 3-ter): l'eccezione alla deroga ripristina, così, la regola. Tutto ciò, naturalmente, non scongiura l'eventualità che si diano contrasti, positivi o negativi, tra i diversi uffici del pubblico ministero sulla relativa legittimazione a procedere. 21 In proposito, l'art. 54-ter muove dalle consuete due ipotesi. Se il contrasto si verifica tra diverse direzioni distrettuali, la risoluzione è affidata al procuratore generale presso la corte di cassazione, ma al procuratore nazionale antimafia è demandata, in virtù della sua sfera di cognizione privilegiata, una funzione consultiva. Se, invece, il contrasto insorge all'interno del medesimo distretto, il compito tocca al procuratore generale presso la corte d'appello. Diversa è, invece, la collocazione della procura (rectius, direzione) nazionale antimafia, istituita nell'ambito della procura generale presso la corte di cassazione (art. 76-bis ord. giud.). Ad essa è preposto un magistrato di cassazione (il procuratore nazionale antimafia, per l'appunto), di spiccate attitudini organizzative e professionali, il quale viene nominato con delibera del Consiglio superiore della magistratura di concerto con il Ministro della giustizia; tale incarico ha la durata di quattro anni e può essere rinnovato una sola volta. Alla direzione sono addetti, quali sostituti, venti magistrati con funzioni di magistrati di corte d'appello, essi pure nominati dal Consiglio superiore della magistratura, sentito il procuratore nazionale antimafia. Al procuratore nazionale sono attribuite unicamente le funzioni previste dall'art. 371- bis e dato che esse investono i soli procedimenti per i reati di cui all'art. 51 comma 3- bis, si può cogliere nella direzione nazionale antimafia la fisionomia di un ufficio del pubblico ministero specializzato. In una situazione del genere. In effetti, il procuratore nazionale antimafia appare investito di due nuclei di funzioni: quelle di impulso al coordinamento e quelle di impulso alle investigazioni. Al primo nucleo è ascrivibile il compito di assicurare, d'intesa con i procuratori distrettuali interessati, il collegamento investigativo anche tramite i magistrati della direzione nazionale antimafia (lett. a). Il procuratore nazionale antimafia e, inoltre, investito del potere di impartire ai procuratori distrettuali specifiche direttive, alle quali essi debbono attenersi al fine di prevenire e risolvere contrasti sulle modalità relative al coordinamento delle attività di indagine (lett. f). Estremo rimedio al mancato coordinamento il procuratore nazionale antimafia può ricorrere allo strumento dell'avocazione (lett. h) (infra, cap. V, § 37). L'impulso alle investigazioni si risolve, anzitutto, nell'acquisizione e nell'elaborazione di notizie, di informazioni e di dati attinenti alla criminalità organizzata, ai fini non solo del coordinamento investigativo, ma pure della repressione dei reati (art. 371-bis comma 3o lett. c). Nella medesima prospettiva si colloca la facoltà di procedere a colloqui personali con detenuti ed internati, attribuita – senza necessità di autorizzazione – al procuratore nazionale antimafia ai fini delle funzioni di impulso e di coordinamento ex art. 371- bis. Anche la funzione di curare, mediante applicazioni temporanee dei magistrati della direzione nazionale e delle direzioni distrettuali antimafia, la necessaria flessibilità e mobilità degli apparati del pubblico ministero, così da soddisfare specifiche e contingenti esigenze investigative e processuali (art. 371-bis comma 3° lett. b). I presupposti sono l’esistenza di procedimenti di particolare complessità o che richiedono specifiche esperienze e competenze professionali. L'applicazione è disposta con decreto motivato del procuratore nazionale antimafia, sentiti i procuratori generali e i procuratori della Repubblica interessati. Il decreto di applicazione è trasmesso senza ritardo al Consiglio superiore della magistratura per l'approvazione, nonché al Ministro della giustizia (art. 110-bis commi 2° e 3° ord. giud.). Poiché il titolare dell'ufficio al quale il magistrato viene applicato non può designare il medesimo per la trattazione di affari diversi da quelli in-dicati nel decreto di applicazione (art. 110-bis comma 4° ord. giud.), è logico desumerne che anche nel corso delle indagini preliminari non siano consentite sostituzioni, se non quelle scaturenti dall'art. 36 lett. a, b, d ed e. Anche da questo punto di vista si coglie l'estrema duttilità e la grande latitudine di questa particolare forma di applicazione che, di fatto, finisce per ridimensionare l'ambito dell'istituto dell'avocazione, pur utilizzabile dallo stesso procuratore nazionale antimafia. 18. Le funzioni ed i soggetti di polizia giudiziaria. le funzioni di polizia giudiziaria «sono svolte alle dipendenze e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria» (art. 56). L'elevazione al rango di soggetto del procedimento non altera, pertanto, la tradizionale collocazione della polizia giudiziaria tra gli organi ausiliari dell'autorità giudiziaria. L'art. 55 comma 1°, occupandosi così delle attività che la polizia svolge anche di propria iniziativa – vale a dire senza un previo impulso dell'autorità giudiziaria – segue una classica tripartizione. L'attività informativa si sostanzia nell'acquisire la notizia di reato, secondo le forme dell'apprensione diretta o della ricezione (art. 330) e 22 nel riferirla, con ritmi accelerati, ancorché variamente stabiliti, al pubblico mini- stero (art. 347). L'attività investigativa consiste nel ricercare l'autore del reato mediante il compimento di atti atipici e di atti tipici (art. 348 comma 2°)` L'attività assicurativa, infine, quale ideale perfezionamento della precedente, è riferita alle fonti di prova, in conformità al canone secondo cui la prova si forma tendenzialmente in sede dibattimentale. La norma menziona, inoltre, l'obbligo di raccogliere quant'altro possa servire per l'applicazione della legge penale e l'obbligo di impedire che i reati siano portati a conseguenze ulteriori. L'art. 55 comma 2° considera, per completezza, le funzioni che la polizia giudiziaria adempie su ordine o su delega dell'autorità giudiziaria. Per quanto riguarda il pubblico ministero sono da ricordare accanto al genenerale potere coercitivo, nel cui esercizio è consentito ricorrere non solo alla polizia giudiziaria ma, pure, alla forza pubblica, le direttive ai sensi dell’art. 348 comma 3° e gli atti delegabili ex art. 370. Né vanno dimenticate le funzioni esecutive consistenti – ad esempio – nell'eseguire le notificazioni richieste dal pubblico ministero con riferimento ai soli atti di indagine o ai provvedimenti «che la stessa polizia giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire» (art. 151 comma 1°), ovvero nel documentare, mediante verbale o annotazioni, gli atti del titolare delle indagini (art. 373 comma 6°). Per quanto riguarda il giudice – oltre al potere coercitivo di cui si e appena fatto cenno (art. 131) – va rammentato come l'intervento della polizia giudiziaria possa essere chiesto per eseguire provvedimenti ordinatori quali l'accompagnamento coattivo dell'imputato (art. 132) o di altre persone (art. 133), misure cautelari personali o reali, provvedimenti che dispongono mezzi di ricerca della prova come le ispezioni (art. 244), le perquisizioni (art. 247), i sequestri (art. 253). Si noti come nei procedimenti con detenuti e nei procedimenti davanti al tribunale del riesame il giudice può disporre, in caso di urgenza, che le notificazioni siano eseguite dalla polizia penitenziaria del luogo in cui i destinatari sono detenuti (art. 148 comma 2°, così novellato dall'art. 17 comma 1° lett. a d.l. 27 luglio 2005, n. 144, convertito con l. 31 luglio 2005, n. 155). L'elenco di chi riveste la qualifica di ufficiale o di agente di polizia giudiziaria è fornito dall'art. 57. In una posizione del tutto particolare si situano coloro che fanno parte della già ricordata Direzione investigativa antimafia (Dia) istituita, nell'ambito del dipartimento della pubblica sicurezza, con d.l. 29 ottobre 1991., n. 345, convertito con modificazioni dalla 1. 30 dicembre 1991, n. 410. Il relativo personale, attinto da quello dei ruoli della polizia di Stato, dell'arma dei carabinieri e della guardia di finanza, è investito, oltre che delle funzioni di investigazione preventiva attinente alla criminalità organizzata, anche del compito di «effettuare indagini di polizia giudiziaria relative esclusivamente a delitti di associazione di tipo mafioso o comunque ricollegabili all'associazione medesima» (art. 3 comma l° d.l. 29 ottobre 1991, n. 345). 19. L'organizzazione della polizia giudiziaria e la sua dipendenza funzionale dall'autorità giudiziaria. L'attribuzione dei compiti di polizia giudiziaria a funzionari appartenenti alla pubblica amministrazione posti, pertanto, alle dipendenze di superiori politici ed amministrativi - presenta l'inconveniente di consentire ad organi estranei all'attività giudiziaria di condizionare l'esercizio dei compiti giudiziari. La scarsezza di personale o la modestia delle attrezzature tecniche della polizia giudiziaria finisce per compromettere così l'indipendenza esterna dell'ordine giudiziario e la stessa garanzia che discende dal principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Occorre distinguere la dipendenza funzionale dall'autorità giudiziaria dalla dipendenza burocratica dalla pubblica amministrazione. Benché tutte le funzioni di polizia giudiziaria siano sempre svolte alla dipendenza e sotto la direzione dell'autorità giudiziaria, il legame che si instaura con la medesima è variabile perché costruito in relazione ai diversi apparati amministrativi. L'art. 56, come tipica norma a valenza organizzativa, individua una triplice struttura. La prima concerne i servizi di polizia giudiziaria così come previsti dal-la legge, con implicito richiamo all'art. 17 1. 1° aprile 1981, n. 121, che prevede l'istituzione e l'organizzazione di simili unità da parte del diparti-mento di pubblica sicurezza, «nei contingenti necessari, determinati dal Ministro dell'interno, di concerto con il Ministro della giustizia». Le amministrazioni interessate devono costituire servizi centrali ed interprovinciali della polizia di Stato, dell'arma dei carabinieri e del corpo della guardia di finanza: al riguardo, devono ricordarsi il Servizio centrale operativo della polizia di Stato (Sco), il Raggruppamento operativo speciale dell'arma dei carabinieri (Ros), il gruppo di investigazione sulla criminalità organizzata della guardia di finanza (Gico). In determinate regioni e per particolari esigenze, le predette strutture possono essere poi costituite in servizi interforze (art. 12 comma 2° d.l. 13 maggio 1991, n. 152). Nella stessa prospettiva si colloca l'introduzione di unità antiterrorismo. 25 qualità di imputato, l'art. 61 ha opportunamente evitato una costruzione in chiave di riscontri formali: è sufficiente la semplice sottoposizione della persona alle indagini preliminari. Più precisamente, taluno diviene persona sottoposta alle indagini a seguito, anzitutto, del ricevimento da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero di una notizia qualificata di reato (denuncia, referto; ma pure querela, istanza, richiesta) contenente un'incolpazione nei confronti di un soggetto determinato. Inoltre, viene in gioco la valutazione di dati emergenti dalle indagini e ritenuti idonei a fornire un principio di conoscenza circa l'attribuibilità a taluno di _un fatto di reato. L'ipotesi trae origine dalla nozione di indizio, così come omesso utilizzata dal legislatore (artt. 63 comma 1°, 207 comma 2°, 267 comma 1°, 273 comma 1°, 312, 384 comma 1° e 705 comma 1°), nonostante le interferenze che si creano con la nozione di prova indiziaria scaturente dall'art. 192. Con la prima espressione ci si riferisce ad un risultato conoscitivo indispensabile per adottare alcune misure, anche ad opera del giudice, nel corso della fase delle indagini preliminari o per far-ne scaturire determinati effetti diversi dalla decisione sul dovere di punire. Con la seconda, invece, si allude alle c.d. prove critiche assoggettate ad una apposita regola di giudizio al momento della valutazione probatoria. La tutela assicurata alla «persona sottoposta alle indagini preliminari» si estende tanto per i diritti dell'imputato quanto per le garanzie a lui riconosciute, senza alcun limite derivante dall'effettivo compimento di un qualche atto del procedimento. L'art. 61 comma 2° sancisce poi, la regola per cui alla persona sottoposta alle indagini si estende ogni altra disposizione relativa all'imputato, salvo esplicite statuizioni in diverso senso. 22. Le dichiarazioni rese dall'imputato. Le norme contenute negli artt. 62-65 presentano un oggetto comune (riguardando dichiaraszioni rese dall'imputato, dalla persona sottoposta alle indagini ovvero da soggetti che a seguilo di tali dichiarazioni possono assumere le predette qualità) ed uno scopo comune (mirando tutte ad assicurare nei rapporti con I'autorità procedente un livello di lealtà e di civiltà adeguato ai canoni personalistici tipci del modello accusatorio). In effetti, l'art. 62 assume una portata estremamente lata con il prescrivere che le dichiarazioni comunque rese nel corso del procedimento dal-l'imputato e dalla persona sottoposta alle indagini non possono formare oggetto di testimonianza. In primo luogo, la norma investe non solo le dichiarazioni sollecitate (artt. 294 comma 299 comma 3-ter, 301 comma 2-ter, 302, 364 comma 388 e 391 comma 3°), ma pure quelle che il soggetto rilasci di propria iniziativa (artt. 350 comma 7°, 374 comma 2°, 415-bis comma 3°, 421 comma 2° e 422 comma 4°). Sono escluse, pertanto, le dichiarazioni rilasciate prima dell'avvio del procedimento o al di fuori di esso (c.d. res gestae): si pensi a quanto narrato ad un ufficiale di polizia giudiziaria nel corso di una conversazione svoltasi in un bar. Infine, stante la natura oggettiva del divieto, è inibito pure l'ingresso alla testimonianza di chi riferisca, anche avendolo appreso da altri, il con-tenuto delle dichiarazioni dell'imputato o dei soggetti a lui assimilati. La regola probatoria in discorso esplica la sua funzione precipua nei confronti delle dichiarazioni che la persona sottoposta alle indagini o i soggetti individuabili ex art. 63 rendono alla polizia giudiziaria al di fuori dell'assistenza del difensore Il legislatore ha inteso dare efficacia rappresentativa solo alla documentazione appositamente redatta ed utilizzabile entro i limiti stabiliti in funzione dello sviluppo procedimentale (cfr. art. 514 comma 1°). Al tempo stesso, ha voluto impedire che, ricorrendo al duplice meccanismo delle «dichiarazioni spontanee» e della «testimonianza de auditu», possa venire aggirato il diritto al silenzio riconosciuto dal successivo art. 64 comma 3°. È appena il caso di evidenziare che l'inosservanza del divieto posto dall'art. 62 non è priva di sanzioni processuali. Acquisita illegittimamente, la testimonianza in discorso risulta, infatti, compresa nella sfera dell'inutilizzabilità costruita dall'art. 191 comma 1°. La disciplina delle dichiarazioni indizianti costituisce non solo un'anticipazione del diritto al silenzio operante in sede di interrogatorio (art. 64 comma 3"), ma, nei confronti di chi è chiamato a deporre dinnanzi al giudice, suona a completamento della regola per cui nessuno può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere la propria responsabilità penale (art. 198 comma 2°). L’art. 63 viene in gioco nei confronti di chi abbia già commesso il reato — sebbene, al momento, ciò fosse ignorato dall'autorità procedente — e non già di chi ponga in essere il reato mediante le dichiarazioni che sta rendendo: si pensi ad una falsa testimonianza o ad una calunnia. Profilatisi gli indizi, si determinano, in capo 26 all'autorità procedente, tre obblighi distinti Anzitutto, vige l'obbligo di interrompere l'esame, come pure l'eventuale assunzione d'informazioni. Inoltre, l'autorità procedente deve avvertire la persona che «potranno» essere svolte indagini nei suoi confronti per effetto della mutata veste processuale. Il richiamo alla mera eventualità di future indagini tien conto che le dichiarazioni indizianti sono magari rese non davanti al pubblico ministero — titolare delle indagini — ma davanti alla polizia giudiziaria o al giudice i quali saranno, in ogni caso, tenuti a trasmettere, nelle forme ordinarie, la notizia di reato al suo destinatario ultimo (ai sensi, rispettiva- mente, degli artt. 347 e 331). Poiché l'art. 63 comma 1° non contempla l'obbligo di avvertire l'indiziato che «le sue dichiarazioni potranno sempre essere utilizzate nei suoi confronti» così come prevede, invece, l'art. 64 comma 3° lett. a, il soggetto non è messo sull'avviso circa gli effetti sfavorevoli che potrebbero scaturire da ulteriori dichiarazioni rese prima dell'inizio dell interrogatorio o delle sommarie informazioni ex art. 350. Infine, l'invito alla persona che ha rilasciato le dichiarazioni indizianti a nominare un difensore accentua il divario rispetto a coloro ai quali il fatto è attribuito da una comune notizia di reato. Nei confronti di costoro l'invito è formulato, di regola, nell'informazione di garanzia, da inviarsi, però, solo a partire dal primo atto cui il difensore ha diritto di assistere (art. 369 comma 10). La disciplina dell'art. 63 si perfeziona con il divieto di utilizzare, contro la persona autoindiziatasi, le dichiarazioni rese prima dell'avvertimento (c.d. inutilizzabilità soggettivamente relativa). La norma vuole, infatti, tutelare la libertà di autodeterminazione di chi, se fosse stato consapevole del proprio status, avrebbe ben potuto esercitare il diritto al silenzio e non rilasciare dichiarazioni a sé pregiudizievoli. La prevista inutilizzabilità anche nei confronti di coloro che dalle dichiarazioni indizianti sono comunque coinvolti (c.d. inutilizzabilità assoluta) si spiega, dunque, col proposito di disincentivare l'adozione di comportamenti contra legem intesi ad acquisire non già il contributo della persona ormai sottoposta alle indagini (a tal fine sarebbe sufficiente, infatti, il più circoscritto divieto posto dal 1° comma), bensì dichiarazioni accusatorie a carico di terzi. 23. L'interrogatorio. Il sistema distingue in maniera netta l'esame dell'imputato dall'interrogatorio della persona sottoposta alle indagini e dell'imputato stesso. Date le loro rispettive funzioni, il primo è collocato tra i mezzi di prova (artt. 208- 210: infra, cap. III, § 9), il secondo è disciplinato dagli artt. 64 e 65. Nella fase delle indagini preliminari, il pubblico ministero procede all'interrogatorio il titolare delle indagini è libero di scegliere il momento in cui assumere l'atto, salvo che si tratti di una persona sottoposta a custodia cautelare (e non già ad arresto in flagranza o a fermo di indiziato di delitto): in tal caso l'interrogatorio del giudice deve precedere quello del pubblico ministero (art. 294 comma 6°). Il pubblico ministero, ove non intenda formulare richiesta di archiviazione, è chiamato a notificare, prima della scadenza del termine di durata delle indagini preliminari, un avviso di conclusione delle medesime indirizzandolo alla persona sottoposta alle indagini ed al difensore. Tale avviso contiene, tra l'altro, l'avvertimento che l'indagato ha facoltà, entro venti giorni, di presentarsi per rilasciare dichiarazioni ovvero chiedere di essere sottoposto ad inter-rogatorio. Non solo il pubblico ministero è tenuto a procedere all'interrogatorio, se il soggetto lo richiede, ma all'inosservanza della prescrizione in ordine all'invio dell'avviso è ricollegata una nullità – da intendersi a regi-me intermedio – della richiesta di rinvio a giudizio (art. 416 comma 1°) o del decreto di citazione a giudizio del pubblico ministero (art. 552 comma 2°). Nella fase in discorso, essendo il giudice per le indagini preliminari tendenzialmente privo di poteri ufficiosi, il relativo interrogatorio si atteggia come attività sempre doverosa. Ciò vale, in sede di convalida, per quello dell'arrestato o del fermato, «salvo che questi non abbia potuto o si sia rifiutato di comparire» (art. 391 comma 3°) e per quello di chi sia sottoposto ad una misura cautelare personale, entro termini scadenzati: immediatamente e, comunque, non oltre cinque giorni dall'esecuzione se si tratta di custodia cautelare in carcere (a meno che all'atto in discorso si fosse non oltre dieci giorni dall'esecuzione o della notificazione del provvedimento cap. IV, § 15). Ma vi è un correttivo: se il pubblico ministero ne fa istanza nella richiesta di custodia cautelare, l'interrogatorio deve avvenire entro quarantotto ore (art. 294 commi 1°, 1-bis, 1-ter). Si noti, però, come dal solo mancato interrogatorio nei termini prescritti della persona in stato di custodia cautelare discenda la caducazione della relativa misura (art. 302). Il giudice procede, inoltre, ad interrogatorio in rapporto a talune vicende delle misure cautelare personali: quando il pubblico ministero, nel corso della fase delle indagini preliminari, gli ha richiesto di sospendere la persona 27 sottoposta alle indagini dall'esercizio di un pubblico ufficio o servizio (art. 289 comma 2°); quando gli è richiesto di revocare o sostituire la misura applicata: qui 1 atto è facoltativo, ma diviene obbligatorio se l'istanza medesima «è basata su elementi nuovi o diversi rispetto a quelli già valutati» (art. 299 comma 3-ter); del pari obbligatorio è l'interrogato-rio quando il giudice proroga la custodia cautelare in carcere disposta per esigenze probatorie (art. 301 comma 2-ter). Esercitata l'azione penale, l'imputato è libero di sottoporsi ad interrogatorio in sede di udienza preliminare (artt. 421 e 422), così come nel giudizio abbreviato. Dal punto di vista funzionale, all'interrogatorio condotto dal pubblico ministero si suole attribuire un prevalente carattere investigativo, a quello condotto, invece, dal giudice si suole ricollegare un prevalente significato di controllo e di garanzia. Quanto all'assistenza tecnica un dato comune è rappresentato dal diritto del difensore di essere, anche in termini brevi (art. 364 comma 5°), avvisato del compimento dell'atto così da potervi sempre assistere. Quanto alla difesa personale, gli artt. 64 e 65 modellano l'interrogatorio in maniera idonea a garantire una partecipazione libera e cosciente da parte del soggetto. L'art. 64 comma 1°, stabilendo che la persona assoggettata al regime di custodia cautelare o detenuta per altra causa, intervenga libera nell'interrogatorio, salve le cautele necessarie per prevenire il pericolo di fuga. L'art. 64 comma 2° esplicita il principio per cui nel corso dell'interrogatorio non possono essere impiegati, ancorché con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei ad influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare le capacita mnemoniche o valutative. In questo quadro si colloca il nucleo essenziale della disciplina del diritto al silenzio della persona sottoposta ad interrogatorio. Prima che inizi l’interrogatorio vero e proprio, scatta per l’organo procedente l'obbligo di rivolgere alla persona interrogata un triplice avvertimento, ai sensi del suddetto art. 64 comma 3°. In primo luogo (lett. a), il soggetto deve essere edotto che le dichiarazioni che renderà potranno sempreessere utilizzate nei suoi confronti. In secondo luogo (lett. b), deve essere avvertito che, fermo restando quanto previsto dall'art. 66 comma 1°, circa l'obbligo di fornire le proprie generalità, gli compete «la facoltà di non rispondere ad alcuna domanda», ma che, in ogni caso, il procedimento proseguirà il suo corso. Al fine di dare effettività a tali prescrizioni, alla loro omissione è ricollegata l'inutilizzabilità delle dichiarazioni eventualmente rese. In terzo luogo (lett. c), la persona interrogata deve essere altresì avvertita che «se renderà dichiarazioni su fatti che concernono la responsabilità (li altri, assumerà in ordine a tali fatti, l'ufficio di testimone». Peraltro, l'indagato destinato a vedersi attribuire coattivamente la qualifica di testimone per il solo fatto di avere rilasciato, nel corso dell'interrogatorio, dichiarazioni coinvolgenti la responsabilità di terze persone — anche se non sollecitato da una specifica domanda — non è sottoposto ad una disciplina dell'esame del tutto analoga a quella del testimone non indagato. Si spiega così perché, anche al mancalo avvertimento in discorso, l'ari. 64 comma 3- bis ricolleghi una duplice «sanzione»: per un verso, la persona interrogata non potrà assumere, in ordine ai fatti riferiti e concernenti la responsabilità di altri, l'ufficio di testimone; per altro verso, le dichiarazioni eventualmente rese contra alios non saranno utilizzabili nei confronti dei terzi coinvolti, ferma restando la loro utilizzabilità, nei confronti del dichiarante (c.d. inutilizzabilità relativa). Dall'esercizio del diritto a non rispondere - ossia di non collaborare - l'organo procedente non può ricavare conseguenza alcuna in quanto insindacabile espressione del diritto di difesa personale. Una volta che il soggetto abbia dichiarato di voler rispondere, entrano in gioco le prescrizioni dettate per l'interrogatorio nel merito dall'art. 65. Esse presentano un carattere più specifico, operando esclusivamente per l'atto assunto dall'autorità giudiziaria. La portata di tali prescrizioni (obbligo di contestare in forma chiara e precisa alla persona sottoposta alle indagini il fatto attribuitole, di renderle noti gli elementi di prova esistenti a suo carico e, se non può derivarne pregiudizio per le indagini, di comunicargliene le fonti) è, però, destinata a subire adattamenti in rapporto allo sviluppo dell'iter procedimentale (fase delle indagini preliminari o udienza preliminare). Del resto, per l'interrogatorio dell'arrestato o del fermato cui procede il pubblico ministero, l'art. 388 comma 2° detta prescrizioni solo in parte analoghe (infra, cap. V, § 20). La dimensione dell'interrogatorio come strumento difensivo emerge appieno dal (sempre successivo) invito ad esporre quanto la persona ritenga utile per discolparsi e dalla mancata riproduzione dell'invito ad in-dicare le fonti di prova a favore, nonché dall'assenza dell'obbligo di dire la verità, salvi i limiti scaturenti dalle norme che incriminano l'autocalunnia e la calunnia. In ordine allo svolgimento dell'atto, la tecnica adottata è quella delle domande poste in via diretta dal solo organo procedente. 30 Una volta costituitosi partecipa al processo in tutti i suoi gradi. Qualora sia carente la capacità processuale del danneggiato, costui dev'essere rappresentato (ad es. quando si tratta di un minore non emancipato), assistito (si pensi al minore emancipato e all'inabilitato), o autorizzato (si può fare riferimento all'interdetto, per il quale è richiesta la preventiva autorizzazione del giudice tutelare) nelle forme prescritte per l'esercizio delle azioni civili. Dopo aver posto questa regola, che è in perfetta consonanza con quanto stabilito, in tema di capacità processuale, dall'art. 75 c.p.c., l'art. 77 prevede, in successione, due diversi correttivi per l'ipotesi in cui risulti impedito l'inserimento dell'azione civile all'interno del processo penale. Anzitutto (art. 77 commi 2° e 3°), viene considerata l'eventualità della nomina di un curatore speciale, necessaria quando manchi la persona a cui spetterebbe la rappresentanza o l'assistenza e ricorrano ragioni di urgenza. Secondariamente (art. 77 comma 4°), ma solo sul presupposto di una «assoluta urgenza», viene consentito che il pubblico ministero eserciti l'azione civile nell'interesse del minore o dell'infermo di mente, finché non subentri il legale rappresentante. A sua volta, l'art. 79 stabilisce un termine iniziale e uno finale, tra i quali deve di regola collocarsi la costituzione di parte civile: quanto al primo, è previsto che la stessa debba avvenire «per l'udienza preliminare». Quanto al termine finale, previsto a pena di decadenza, esso coincide con l'effettuazione, da parte del giudice dibattimentale di primo grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti di eui all'art. 484. Risulta preclusa la costituzione della parte civile una volta iniziata la trattazione delle questioni preliminari regolate dall'art. 491. L'esclusione può, anzitutto, essere la conseguenza di una richiesta motivata, proveniente dal pubblico ministero, dall'imputato e dal responsabile civile art. 80 comma 1°), Relativamente a tale richiesta, con cui possono essere denunciati svariati profili di illegittimità - quali, ad esempio, la tardività della costituzione, il difetto di legittimazione o di capacità processuale, l'inesistenza di un danno risarcibile - il giudice procedente è tenuto a pronunciarsi senza ritardo con un'ordinanza (inoppugnabile). Anche per la relativa richiesta di esclusione occorre rispettare dei termini perentori; va effettuata, prima che siano terminati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti; se, invece, la parte civile si è costituita nella fase degli atti preliminari al dibattimento o nel corso degli atti introduttivi del medesimo, la richiesta di esclusione deve essere avanzata in sede di trattazione delle questioni preliminari. Una seconda ipotesi di esclusione della parte civile è quella disposta – sempre con ordinanza inoppugnabile – ex officio dal giudice (art. 81), il quale, quando accerti l'inesistenza dei requisiti stabiliti per la costituzione di parte civile, può provvedere in conformità fino a che non sia stato aperto il dibattimento di primo grado. Come si è anticipato, si può anche verificare uno spontaneo recesso del danneggiato che, espressamente o tacitamente, revoca la costituzione di parte civile, ad esempio, perché ha concluso con l'imputato una transazio ne sul danno oppure perché, cambiata opinione, ritiene meglio tutelabili le sue pretese in sede civile. Nel easo di revoca espressa, che può aver luogo in ogni stato e grado del procedimento e riguardaretaluno soltanto de-gli imputati, occorre un'apposita dichiarazione, resa personalmente (a differenzadi quanto è richiesto per l'atto di costituzione) o per mezzo di un procuratore speciale. Le ipotesi di revoca tacita, o, meglio, presunta, sono invece tassativamente previste dall'art. 82 comma 2°. 27. Segue: i rapporti tra azione civile da reato e azione penale. Niente impedisce che l'azione di danno, esercitata nella sede naturale proceda in assoluta autonomia rispetto al parallelo processo penale. Nell'ipotesi in cui il processo penale si concluda con una sentenza irrevocabile di condanna, il danneggiato può sfruttare nel giudizio civile l'efficacia di giudicato ad essa riconosciutadall'art. 651 comma 1°, mentre non può accadere il contrario, poiché, grazie alla clausola disalvezza inserita nella parte finale dell'art. 652 comma è esclusa l'efficacia di giudicato della sentenza assolutoria. Solo in via di eccezione alla regola, l'art. 75 comma 3° detta una disciplina che ricalca quella del codice previgente, disponendo che il processo civile rimanga sospeso in attesa del giudicato penale – destinato, in questo caso, ad esercitare la sua efficacia anche ai sensi dell'art. 652 comma 1 ° – qualora l'azione sia stata proposta in sede civile dopo la sentenza penale di primo grado o dopo la precedente costituzione di parte civile nel processo penale. L'art. 75 comma 3° fa salve «le eccezioni previste dalla legge», con la conseguenza che il giudizio civile prosegue senza interruzioni il suo corso quando: a il processo penale è stato sospeso per incapacità dell'imputato (art. 71 comma 6°); b) vi è stata esclusione, ai sensi degli artt. 80 e 81, della parte civile (art. 88 comma 3°); c) la paste civile ha abbandonato il processo penale in seguito alla sua mancata accettazione del rito abbreviato (art. 441 31 comma 4°); d) l'esodo della parte civile consegue alla pronuncia di una sentenza che applica la pena su richiesta delle parti (art. 444 comma 2°); e) il danneggiato, già costituitosi parte civile, esercita l'azione civile in sede propria, dopo che il giudice penale ha dichiarato estinto il reato per intervenuta oblazione (art. 141 comma 4° disp. att.). 28. Il responsabile civile. Oltre che nei confronti dell'imputato, il soggetto danneggiato dal reato può agire per le restituzioni e il risarcimento del danno nei confronti della persona fisica o dell'ente plurisoggettivo (anche non personificato), che, come recita l'art. 185 comma 2° c.p., è tenuto, a norma delle leggi civili, a rispondere per il fatto dell'imputato. A questo soggetto, obbligato in solido con il protagonista del processo penale, il codice di rito riserva il nome di «responsabile civile». La presenza del responsabile civile è strettamente collegata all'inserimento e al mantenimento, da parte del danneggiato, della pretesa restitutoria o risarcitoria all'interno del processo penale. Si è previsto che il responsabile civile venga citato su richiesta di parte e che possa, altresì, intervenire volontariamente nel processo penale. Ai sensi dell'art. 83 comma 1°, legittimati a richiedere la citazione sono esclusivamente la parte civile, che ha un trasparente interesse a fare inter-venire il coobbligato solidale, e il pubblico ministero, limitatamente all'ipotesi in cui, sul presupposto di una «assoluta urgenza», abbia esercitato l'azione civile a favore dell'infermo di mente o del minore (art. 77 comma 4°). Quanto ai tempi della richiesta, l'art. 83 comma 2° stabilisce solo il termine finale, ovverosia che venga «proposta al più tardi per il dibattimento». Verificato il fumus boni iuris della richiesta, il giudice procedente ordina la citazione con un decreto, il cui contenuto è specificato dall'art. 83 comma 3°. La citazione è nulla – si tratta di una nullità intermedia, desumibile dal combinato disposto di cui all'art. 178 comma 1° lett. c e all'art. 180 (infra, cap. Il, § 31) – qualora, per omissione o per erronea indicazione di qualche elemento essenziale, il responsabile civile non sia stato in grado di esercitare i suoi di-ritti nell'udienza preliminare o nel giudizio, ovvero qualora risulti nulla la relativa notificazione. È importante sottolineare che, come si ricava dalla lettera dell'art. 84 comma 1°, il responsabile civile, regolarmente citato, non è per ciò solo tenuto ad intervenire nel processo. Premesso che, al pari della parte civile, sta in giudizio col ministero di un difensore (art. 100 comma 1°), il responsabile civile, al quale è estesa la regola dell'immanenza della costituzione (art. 84 comma 40), può costituirsi in ogni stato e grado del processo. Anche se non è stato citato, il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale – per contribuire, ad esempio, alla dimostrazione di non colpevolezza dell'imputato o per contestare l'elemento fondante della sua obbligazione solidale – sempre che vi sia stata costiuzione di parte civile o il pubblico ministero abbia agito come supplente ai sensi dell'art. 77 comma 4°. È pur vero che, non essendo stato citato, non può essere pronunciata condanna nei suoi confronti e che, per la stessa ragione, non subisce l'efficacia extrapenale di un eventuale giudicato di condanna (art. 651 comma 1°), ma è facile comprendere il pregiudizio che gli potrebbe derivare, come convenuto nell'eventuale giudizio civile, dall'esistenza di una pronuncia che sancisce la responsabilità dell'imputato. Esiste un termine finale, stabilito a pena di decadenza, che coincide con l'effettuazione, nel dibattimento di primo grado, degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti, previsti dall'art. 484. Si è già avuto modo di ricordare che tanto la citazione (art. 83 comma 6°) quanto l'intervento (art. 85 comma 4°) del responsabile civile perdono efficacia in caso di revoca della costituzione di parte civile o di esclusione di quest'ultima ai sensi degli artt. 80 e 81. Oltre a queste ipotesi di estro-missione del responsabile civile, va tenuta presente la possibilità di una sua esclusione su richiesta di parte o di ufficio. Le parti legittimate a pro-porre l'esclusione – a condizione che non si tratti della stessa parte che ha già chiesto la citazione – sono 1 imputato, la parte civile e il pubblico mini- stero (art. 86 comma 1°). La richiesta (motivata) di esclusione, sulla quale il giudice decide, con ordinanza, senza ritardo, de-ve essere proposta, a pena di decadenza, «non oltre il momento degli accertamenti relativi alla costituzione delle parti nella udienza preliminare o nel dibattimento» (art. 86 comma 3°). L'esclusione sarà disposta, con ordinanza inoppugnabile, sia qualora venga accertata la mancanza dei requisiti per la citazione o per l'intervento del responsabile civile 32 (indipendentemente dall'eventuale rigetto, in sede di udienza preliminare, della richiesta di esclusione), sia qualora venga accolta dal giudice la richiesta di giudizio abbreviato. Se l'esclusione del responsabile civile è stata deliberata in seguito a richiesta della parte civile, viene meno, per il soggetto danneggiato dal reato, la possibilità di esercitare l'azione riparaloria ex delicto in sede propria. 29. Il civilmente obbligato per la pena pecuniaria e l'ente responsabile per l'illecito amministrativo dipendente da reato. Una persona (fisica o giuridica) può essere assoggettata, in via sussidiaria ed eventuale, ad una obbligazione civile pecuniaria pari all'importo della multa o dell'ammenda inflitta al condannalo: più esattamente si può affermare che la responsabilità della persona civilmente obbligata si concretizza nel momento in cui il condannato risulta insolvibile (art. 534). Non è prevista la possibilità di un intervento volontario. Può essere, invece citata, «per l’udienza preliminare o per il giudizio», su richiesta del pubblico ministero o dell'imputato (art. 89 comma l°). Per quanto concerne la citazione, la costituzione e l'esclusione della persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria, l'art. 89 comma 2° rinvia alla normativa dettata per il responsabile civile, escludendo, tutta-via, esplicitamente l'applicabilità dell'art. 87 comma 3°: non viene, pertanto, disposta la sua esclusione da parte del giudice che accoglie la richiesta di giudizio abbreviato. La normativa recentemente approvata prevede l'irrogazione di sanzioni amministrative, consistenti nella sanzione pecuniaria, nelle sanzioni interdittive, nella confisca e nella pubblicazione della sentenza (art. 9 d. lgs. cit.), a carico degli enti forniti di personalità giuridica, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica (art. 1 comma 2° d. lgs. cit.), qualora vengano accertati reati commessi nel loro interesse o a loro vantaggio da parte di persone che rivestano funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell'ente nonché di persone che ne esercitino, anche di fatto, la gestione e il controllo, ed, infine, di persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza dei soggetti precedentemente menzionati (art. 5 d. lgs. cit.). Va peraltro sottolineato che la responsabilità amministrativa collegata al reato-presupposto e le relative sanzioni possono venire in rilievo solo se espressamente previste da una legge entrata in vigore prima della com- missione del fatto (art. 2 d. lgs. cit.). La cognizione dell'illecito amministrativo addebitabile all'ente appartiene al giudice penale competente per il reato dal quale l'illecito amministrativo dipende (art. 36 comma l° d. lgs. cit.). Se intende partecipare al procedimento penale con il proprio rappresentante legale, l'ente, al quale si applicano, in quanto compatibili, le disposizioni processuali relative all'imputato (art. 35 d. lgs. cit.), deve costituirsi – la sua costituzione è ammessa sin dalla fa-se delle indagini preliminari – depositando in cancelleria una dichiarazione. Come si è rilevato, la partecipazione dell'ente al processo penale è peraltro solo eventuale: fermo restando che, in caso di mancata costituzione, è prevista, sulla falsariga di quanto dispone il codice di rito relativamente all'imputato (infra, cap. V, § 42 e cap. VII, § 10), un'apposita dichiarazione di contumacia (art. 41 d.lgs. cit.). 30. La persona offesa dal reato. Anche se al titolare dell'interesse protetto dalla norma penale che si assume violata è attribuibile, qualora decida di intervenire nel processo, la qualifica di soggetto, anziché quella di parte. La nozione di persona offesa è stata dilatata mediante il riconoscimento di tale status a soggetti (prossimi congiunti dell'offeso deceduto in conseguenza del reato, enti rappresentativi degli interessi lesi dal reato) che non sono titolari del bene giuridico tutelato dalla norma penale. In concomitanza con l'avvenuta rivalutazione del ruolo della persona offesa quale accusatore privato, avente titolo per supportare l'azione del pubblico ministero, è parso opportuno, in secondo luogo, operare in modo da tenere ben distinta la sua posizione da quella della parte civile, nel tentativo di caratterizzare con maggiore chiarezza quest'ultima come la parte che interviene nel processo penale per far valere la sua pretesa restitutoria o risarcitoria. Sul piano dei risultati, l'operazione si può dire riuscita per quanto concerne la fase delle indagini preliminari. Alla persona offesa dal reato in quanto tale vengono riconosciuti poteri assai ridotti. 35 Occorre, naturalmente, che da parte del soggetto legittimato a sporgere querela non vi sia stata rinuncia, la quale opera automaticamentemente nei confronti di tutti gli autori del reato, e che può essere espressa o tacita, desumibile, cioè, da fatti incompatibili con la volontà di una posteriore iniziativa persecutoria (art. 124 commi 3° e 4° c.p.): circa le forme della rinuncia espressa, si rinvia all'art. 339 il cui 2° comma sanciscel'inefficacia dell'atto abdicativo sottoposto a termini o condizioni. Regola importante è la c.d. indivisibilità della querela: ne consegue che il reato commesso in danno di più soggetti è perseguibile anche quando la querela sia presentata da una sola delle persone offese (art. 122 c.p.) e, reciprocamente. Il diritto di querela si estingue in seguito alla morte della persona ofresa che non lo abbia ancora esercitato. L'estinzione del reato consegue, invece, alla remissione della querela (art. 152 comma 1° c.p.), sempre che il querelato non l'abbia espressa-mente o tacitamente ricusata (art 155. comma 1° c.p.). Si tratta, in sostanza di una revoca da effettuare, salvo che la stessa non sia espressa- mente esclusa dalla legge (art. 609-septies comma 3° c.p.), in ambito processuale o extra processuale prima che sia divenuta irrevocabile la sentenza di condanna (art. 152 comma 3° c.p.). Per quanto concerne i profili formali della remissione bisogna far capo nll'art. 340 (il cui 4° comma, come modificato dall'art. 13 1. 25 giugno 1999, n. 205, ribalta la previgente regolamentazione ponendo le spese a carico del querelato, salvo che sia diversamente convenuto). Con riferimento ai procedimenti relativi ai reati per i quali è prevista dall'art. 550 la citazione diretta davanti al tribunale in composizione monocratica, vale, infine, la pena di ricordare la remissione di cui all'art. 555 collima 3°, la quale consegue al tentativo diconciliazione tra il querelato e la persona offesa esperito con successo dal giudice in sede di udienza di comparizione (infra, cap. VIII, § 11). 34. Il difensore di fiducia dell'imputato. L'art. 24 comma 2° Cost., garantisce un'adeguata copertura nei confronti non solo della difesa tecnica, ma anche dell'autodifesa: ossia di quel complesso di attività che l'imputato esplica personalmente – si veda, ad esempio, l'art. 65 oppure l'art. 494 –per dimostrare l'inconsistenza dell'accusa a suo carico. Il difensore dell'imputato – al quale l'art. 99 comma 1° attribuisce, di regola, le facoltà ed i diritti che la legge riconosce all'imputato stesso (infra, § 36) – viene chiamato a svolgere un ruolo più importante e, di riflesso, più impegnativo, essendo tenuto non solo a dimostrare la scarsa significatività degli elementi di prova a valenza accusatoria, ma anche – soprattutto dopo l'entrata in vigore della 1. 7 dicembre 2000, n. 397 in tema di indagini difensive (infra, cap. V, §§ 23 ss.) – ad individuare e ad acquisire elementi probatori che scagionino l'imputato o alleggeriscano la sua. Nel nostro ordinamento si è negate qualsiasi spazio all'ipotesi di un'esclusiva autodifesa dell'imputato. L’imputato ha diritto di nominare non più di due difensori di fiducia (art. 96 comma 1°). Sono tre possibili le possibili modalità di nomina consistenti, rispettivamente, nella dichiarazione orale resa dall'interessato all'autorità procedente, in quella scritta consegnata alla medesima dal difensore e nel documento di nomina trasmessole con raccomandata (art. 96 comma 2°): senza che sia necessaria l'autentificazione o la certificazione da parte del difensore dell'autografia delta sottoscrizione. Non si tratta peraltro di ipotesi tassative. Va inoltre ricordato che in base all'art. 391-nonies, introdotto dall'art. 11 della succitata legge n. 397 del 2000 in tema di indagini difensive, la no-mina del difensore può essere fatta in via preventiva, cioè «per l'eventualità che si instauri un procedimento penale». In tal caso, la nomina non può non adeguarsi alla specificità della situazione: il mandato difensivo, da rilasciare con sottoscrizione autenticata, deve contenere, oltre all'indicazione del difensore, quella «dei fatti ai quali si riferisce» (art. 391-nonies comma 2°). Ovviamente il difensore dev'essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge professionale per assistere e rappresentare l'imputato nel pro-cesso a suo carico. Tre sono le differenti figure che possono assumere la qualità di difensore: il praticante avvocato che, coi limiti stabiliti dall'art. 8 comma 2° r.d.l. 27 novembre 1933, n. 1578, può patrocinare davanti al giudice di pace e al tribunale in composizione monocratica, nei (soli) processi aventi ad oggetto i reati previsti dall'art. 550, per i quali si procede con ci-fazione diretta a giudizio (art. 7 della legge n. 479 del 1999, novellato dalI'art. 2- terdecies 1. 5 giugno 2000, n. 144); l'avvocato, che può svolgere il suo ruolo di difensore nei processi davanti ad ogni giudice penale, fatta eccezione per la corte di cassazione; l'avvocato iscritto nello speciale albo di cui all'art. 33 del succitato r.d.l. n. 1578 del 1933, il quale può difendere anche davanti alla suddetta corte. La prestazione del difensore di fiducia costituisce l'oggetto di un contratto per la cui conclusione è indispensabile l'accettazione sia pure implicita del nominato (infra, § 42) Inoltre, diversamente da quanto stabilisce l'art 100 comma 3° in relazione alle parti private diverse dall'imputato (infra, § 37), la nomina 36 produce di regola i suoi effetti, salvo che intervengano cause risolutive del rapporto contrattuale (si vedano, ad esempio, gli artt 106 e 107) per tutto l'arco del processo di cognizione. Non solo: ai fini dell'iniziativa contemplata dall'art. 656 comma 6° (infra, cap. X, § 7), dell'istanza, cioè, finalizzata alla concessione di una misura extracarceraria al proprio assistito (ormai condannato con sentenza irrevocabile), è prevista una proroga automatica in executivis dell'investitura effettuata dall'imputato per il processo di cognizione (art. 656 comma 5°). Nel caso l’imputato sia sottoposto a misure restrittive opera la regola che legittima i prossimi congiunti della persona arrestata fermata o sottoposta a custodia cautelare in carcere ad attivarsi in sua vece. A costoro è consentito infatti, nominare, con le stesse forme previste per la nomina diretta, un difensore di fiducia che cessa di operare non appena l'interessato manifesti una diversa volontà (art. 96 comma 3°). In quest'ottica va letta la disposizione che vieta agli ufficiali e agli agenti di polizia giudiziaria, nonché a tutti i dipendenti del-l'amministrazione penitenziaria di dare consigli sulla scelta del difensore di fiducia (art. 25 disp. att.). 35. Il difensore d'ufficio. Qualora l'imputato non abbia nominato un difensore di fiducia o ne sia rimasto privo deve essere assistito da un difensore d'ufficio (art. 97 comma 1°), la cui figura può essere a grandi linee tratteggiata sulla base delle seguenti coordinate: a) la sua presenza è da correlare all'imputato, anche se il carattere esclusivo di tale abbinamento; b) il suo ruolo è sussidiario rispetto a quello del difensore di fiducia; c) mentre il difensore di fiducia è libero di non accettare la nomina (infra, § 42), quello d'ufficio ha l'obbligo di prestare il patrocinio salvo che in presenza di un giustificato motivo (art. 97 comma 5°). Il comma 1-bis dell'art. 29 disp. att. stabilisce – per la prima volta con un minimo di specificità – i requisiti necessari per poter essere iscritti nell'elenco alfabetico dei difensori d'ufficio, predisposto da ciascun consiglio dell'ordine forense, il quale è tenuto a provvedere al suo aggiornamento almeno ogni tre mesi. A tal fine vengo- no indicati due possibili itinerari: l'aver conseguito un'attestazione di idoneità, rilasciata dall'ordine forense di appartenenza, o, in alternativa, l'essere in grado di dimostrare, mediante un'adeguata documentazione, di aver esercitato la professione nel settore penale per almeno due anni, che, nonostante la legge non lo specifichi, sembrerebbero dover essere consecutivi. A questo proposito va precisato che i vari consigli dell'ordine forense costituiti all'interno del di-stretto sono tenuti a predisporre l'elenco dei difensori d'ufficio, e a stabilire altresì i criteri per la nomina di chi vi figura iscritto sulla base delle competenze specifiche, della prossimità alla sede del procedimento e della reperibilità (art. 97 comma 2°). E’ innegabile che in determinate circostanze l'automatismo della nomina si potrebbe ritorcere contro il soggetto a favore del quale è stato progettato. È da condividere, pertanto, la previsione che consente di non far ricorso alla procedura informatizzata nell'ipotesi in cui la materia oggetto della notizia criminis riguardi competenze specifiche (art. 29 comma 2° ult. Period disp. att.). Se il difensore, già ritualmente nominato, non è stato reperito, non è comparso o ha abbandonato la difesa, al giudice è consentito designare come sostituto — e, quindi, senza che il difensore originario venga soppiantato — un altro difedsore immediatamente reperibile, A meno che la necessità di _nominare sostituto non si appalesi «nel corso del giudizio» nel qual caso - data la particolare importanza dell'apporto del difensore il criterio dell'immediata reperibilità passa in secondo piano. Grazie all'avviso previsto dall'art. 369-bis (in fra, cap. V, § 19), la persona sottoposta alle indagini viene tempestivamente informata — tra l'altro — del fatto che non le è consentito fare a meno del difensore, nonché del suo obbligo di retribuire il difensore di ufficio ove non sussistano le condizioni per essere ammessa al patrocinio a spese dello Stato (art. 369-bis comma 2° lett. a e d). In tema di retribuzione, la normativa base è dettata dall'art. 116 d.P.R. cit., dal quale si posso-no estrapolare le tre regole seguenti: a) il difensore d'ufficio si deve far carico della procedura esecutiva per il recupero del credito professionale nei confronti dell'assistito (indagato, imputato o condannato) inadempiente, fermo restando che in questa sua iniziativa giudiziaria usufruisce dell'esenzione da bolli, imposte e spese; b) qualora sia in grado di dimo- strare che la procedura di cui sopra è risultata infruttuosa, il difensore vie-ne retribuito dallo Stato «nella misura e secondo le modalità» previste dall'art. 82 d.P.R. cit., relativo alla retribuzione del difensore patrocinante a spese dello Stato; c) a meno che l'assistito non chieda ed ottenga l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, quest'ultimo surroga il difensore nel suo credito verso il soggetto assistito. Si è inoltre dettata una norma ad hoc — l'art. 117 d.P.R 37 irreperibile: com'è ovvio, in tal caso il difensore viene retribuito senza che sia necessaria una sua preventiva attivazione per il recupero del credito professionale.. cit. - per l'ipotesi in cui l'assistenza risulti prestata a favore di un soggetto (indagato, imputato, condannato) 36. Patrocinio dei non abbienti e poteri del difensore. Dell'art. 98, il quale se per un verso ha rinviato ad un'emananda legge sul patrocinio dei non abbienti, per altro verso non ha rinunciato ad un'anticipazione, menzionando un'ampia gamma di destinatari (imputato, persona offesa dal reato, danneggiato che intenda costituirsi parte civile, responsabile civile). Dalla l. 29 marzo 2001, n. 134, con cui si è dettata una disciplina generale del patrocinio dei non abbienti davanti ad ogni giurisdizione. Attualmente, l'intera materia è disciplinata nel t.u. delle legislative e regolamentari sulle spese di giustizia, approvato con d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. Il soggetto ammesso al patrocinio sceglie quale difensore un libero professionista, il cui compenso viene poi liquidato dall'autorità giudiziaria ed è a carico dello Stato. Non si tratta, evidentemente, dell'unica soluzione possibile, come si ricava, del resto, dallo stesso art. 24 comma 3° Cost., il quale si limita a stabilite che il diritto di difesa dei non abbienti dev'essere assicurato tramite «appositi istituti». Per ipotesi, quindi, anche mediante l'istituzione di «pubblici uffici di assistenza legale», istituto rimasto del tutto incompiuto. L'esame della normativa contenuta nel t.u. può essere avviato partendo dall'art. 81, che, con una previsione parallela all'art. 7 legge n. 60 del 2001 sulla difesa d'ufficio, contempla l'istituzione presso ogni consiglio dell'ordine di un elenco degli avvocati idonei ad essere nominati difensori da colui che è ammesso al patrocinio a spese dello Stato. Circa l'inserimento, su richiesta dell'interessato, in tale elenco — da rinnovare entro il 31 gennaio di ogni anno — delibera il consiglio dell'ordine, che valuta una serie di requisiti recentemente modificati dall'art. 2 l. 24 febbraio 2005, n. 25. Per l’iscrizione all’elenco è sufficiente «l'iscrizione all'albo degli avvocati da almeno due anni»; per l'iscrizione inoltre è necessaria una esperienza professionale «specifica». La soglia per poter usufruire del gratuito patrocinio è di euro 9.296,22 (e, dalla fine del 2005, di curo 9.723,84) del reddito annuale – quello imponibile ai fini dell'imposta personale sul reddito delle persone fisiche – che consente di usufruire del patrocinio a spese dello Stato. Con l'art. 96 commi 2° e 3° d.P.R. cit. ci si è preoccupati del rischio che vengano ammessi al patrocinio soggetti i quali, contrariamente alle loro attestazioni, non versino in realtà nella situazione di "non abbienza". Si è quindi previsto che l'istanza li ammissione al patrocinio vada respinta qualora il tenore di vita, le condizioni personali e familiari del richiedente nonché le attività economiche da lui eventualmente svolte offrano al giudice «fondati motivi» per ritenere – anche in base alle verifiche effettuate dalla Guardia di finanza a tal fine sollecitata – che il reddito da prendere in considerazione superi il tetto stabilito dalla legge. Non solo: con più specifico riferimento all'ipotesi in cui si proceda per uno dei delitti previsti dall'art. 51 comma 3-bis c.p.p. ovvero nei confronti di persona proposta o sottoposta a misura di prevenzione, viene sottratta al giudice qualsiasi discrezionalità, essendo egli tenuto ex lege a chiedere preventivamente al questore, alla direzione investigativa antimafia (Dia) e alla direzione nazionale antimafia (Dna) «le informazioni necessarie e utili» ai fini di una decisione più oculata circa l'ammissione del richiedente al beneficio. E' stata altresì ampliata dal solo processo "principale" a «tutte le eventuali procedure, derivate ed incidentali, comunque connesse». Il difensore del soggetto ammesso al patrocinio può nominare sia un sostituto, secondo quanto dispone l'art. 102 (infra, § 38), sia un investigatore privato autorizzato. A sua volta, l'art. 102 d.P.R. cit. stabilisce che il soggetto ammesso al patrocinio possa «nominare un consulente tecnico di parte». Ne consegue che, diversamente dal passato, è consentita la scelta del sostituto, dell'investigatore e del consulente tecnico anche al di fuori dell'ambito distrettuale, sia pure con la clausola che in tal caso non sono dovute le spese e le indennità di trasferta imputabili alla scelta extra districtum. L'ammissione al patrocinio non è più in alcun modo ostacolata dalla natura contravvenzionale del reato. Nelle ipotesi in cui l'imputato o il condannato partecipino al procedimento penale «a distanza», in base a quanto stabilito dalla l. 7 gennaio 1998, n. 11 (infra, cap. VII, § 8), è ammessa la nomina di un secondo difensore «limitatamente agli atti che si compiono a distanza». Eccettuata tale ipotesi, la nomina di un secondo difensore implica, invece, che gli effetti dell'ammissione al patrocinio a spese dello Stato vengano a cessare (art. 91 comma 1° lett. b d.P.R. cit.). 40 deontologico, rinunci alla difesa. Nell'ipotesi in cui ciò non avvenga, è previsto un intervento del giudice in base al quale viene fissato un termine per la sua rimozione da parte dei diretti interessati (art. 106 commi 2° e 4°). L'extrema ratio, è costituita da un'ordinanza del giudice con la quale viene dichiarata l'incompatibilità e sentite le parti interessate, si procede alle necessarie designazioni dei difensori d'ufficio (art. 106 comma 3°). Nel caso più imputati, difesi da un unico difensore abbiano reso dichiarazioni accusatorie nei confronti di un altro soggetto, imputato nello stesso procedimento o in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 o in un procedimento collegato ex art. 371 comma 2° lett. b.. Il divieto viene in gioco non già per non pregiudicare il diritto di difesa di uno (o più) degli imputati in conflitto di interessi, bensì per non sa- crificare il diritto di difesa del soggetto accusato: sacrificio che, secondo il Il meccanismo previsto dall'art. 106 presuppone l'esistenza di un difensore di fiducia. Lo stesso si deve dire per le ipotesi di non accettazione, rinuncia e revoca del difensore (art. 107). Mentre nel caso di revoca il soggetto agente è l'assistito, la non accettazione e la rinuncia sono iniziative da ricondurre al difensore. Questi ultimi si configurano come atti alternativi (essendo ipotizza bile la rinuncia solo se in precedenza vi è stata l'accettazione della proposta di nomina) che, al pari della revoca, non necessitano di una motivazione. Un profilo importante è quello che concerne il momento in cui si incomianciano a produrre i relativi effetti. Mentre la prima ha effetto dal momento in cui perviene la relativa comunicazione all'autorità procedente (art. 107 comma 2°), con l'eventualità di possibili vuoti di copertura difensiva medio tempore, le seconde sono prive di effetto fino a che la parte non risulti assistita da un nuovo difensore (art. 107 comma 4°). Anzi, se ai fini di una difesa informata il nuovo difensore si avvale ex art. 108 del diritto di ottenere un termine a difesa, la rinuncia e la revoca diventano efficaci solo a partire dalla sua scadenza. Il difensore «ha diritto» ad un termine che, di regola, non può essere inferiore a sette giorni (art. 108 comma 1°). Si può scendere al di sotto di tale termine, fermo restando il limite minimo invalicabile delle ventiquattro ore solo se ricorre una delle tre situazioni considerate nel 2" comma del nuovo art. 108: se vi è il consenso dell'imputato o del suo difensore (in caso di divergenza, troverà applicazione il criterio di cui all'art. 99 comma 2°); se vi sono «specifiche esigenze processuali che possono determinare la scarcerazione dell'imputato»; se ricorrono specifiche esigenze processuali che possono determinare la prescrizione del reato. 43. Gli ausiliari del giudice. Affiancano il giudice o il pubblico ministero svolgendo compiti di vario genere, accomunabili, peraltro, in virtù del loro carattere strumentale rispetto alla funzione della figura cui ineriscono. Pur potendosi attribuire la qualifica di ausiliare in senso lato a chi collabori, anche in via precaria (art. 259) – per ausiliare in senso stretto si deve intendere il coadiutore istituzionale, quello, cioè, la cui presenza è con- trassegnata dai connotati della continuità e della ordinarietà. Con più specifico rifimento alle funzioni del cancelliere, merita di essere anzitutto citato l'art. 126, in cui si prescrive la sua assistenza a tutti gli atti posti in essere dal giudice. Non meno importante è l'attività di documentazione. Tra gli ulteriori compiti vanno segnalati: l'autenticazione di atti (art. 110 comma 3°, art. 39 disp. att.) e dei provvedimenti emessi dal giudice (art. 292 comma 2-bis, art. 429 comma 1° lett. g, art. 460 comma 1° lett. h), la custodia delle cose sequestrate (art.. 258), il rilascio di copie (art. 116), la notificazione dell'atto di i impugnazione (art. 584). Anche presso l'ufficio del pubblico ministero, e, più precisamente, nell'ambito della sua segreteria, opera un ausiliario che svolge funzioni analoghe a quelle del cancelliere. Quanto all'ufficiale giudiziario, premesso che la sua principale funzione è quella di curare l'esecuzione delle notificazioni, ne consegue che svolge un'attività ausiliaria nei confronti sia del giudice (art. 148 comma 1°), sia del pubblico ministero (art. 151). Al medesimo sono attribuiti anche compiti funzionali al corretto svolgimento dell'udienza. Al pari dell'ufficiale giudiziario, anche il direttore dell'istituto penitenziario opera come ausiliario sia del giudice che del pubblico ministero, essendo tenuto a ricevere e ad inoltrare immediata-mente, dopo aver proceduto alla loro iscrizione in apposito registro, l'atto di impugnazione e gli altri atti contenenti dichiarazioni e richieste desti-nate all'autorità giudiziaria, che gli vengano presentati dal soggetto detenuto o internato (art. 123 comma 1° e art. 44 disp. att.). 41 Capitolo II Atti 1. Premessa. Si tratta di definire l'atto processuale penale, in assenza di una esplicita definizione legislativa. Sul piano soggettivo, sono tali quelli posti in essere dai soggetti del procedimento. Sul piano oggettivo, secondo l'opinione in passato prevalente, due sarebbero le caratteristiche essenziali dell'atto processuale penale: la sua attitudine a produrre effetti giuridici dotati di rilevanza processuale penale ed il suo realizzarsi nel contesto del processo penale, ossia all'interno di una fattispecie a formazione progressiva. Una simile impostazione, però, non appare più oggi accoglibile stante la scelta del codice di definire due distinte sequenze denominate, rispettivamente, «procedimento» e «processo», la prima delle quali più ampia e comprensiva della seconda. Lo spartiacque tra i due concetti si ritrova nel compimento, da parte del pubblico mini- stero, di uno dei vari possibili atti di esercizio dell'azione penale, che il legislatore si preoccupa di tipicizzare nell'art. 405, con riguardo sia al pro-cesso ordinario sia ai processi speciali. Ciò che precede l'esercizio dell'azione penale - e, dunque, l'intera fase delle indagini preliminari - compone già la sequenza degli atti del procedimento, mentre ciò che segue fa parte anche del processo. Nella fase delle indagini preliminari difetta un giudice investito del procedimento in senso proprio. Solo nel contesto del processo opera un giudice investito della pienezza delle proprie funzioni giurisdizionali ed abilitato, pertanto, a pronunciare sentenze. Restano da individuare l'atto iniziale e quello finale del procedimento medesimo, ai fini dell'applicabilità delle norme di cui agli artt. 109 ss. Circa la questione del momento iniziale, sembra fuori discussione che gli atti posti in essere prima che la notizia di reato sia venuta ad esistenza non possano mai costituire atti del procedimento. Il primo atto del procedimento con quello immediatamente successivo alla ricezione della notizia di reato da parte della polizia giudiziaria o del pubblico ministero istituito presso il tribunale o la pretura. Ne segue che gli atti nei quali la notizia medesima si sostanzia (denuncia, referto, come pure querela, istanza o richiesta, al- lorquando rivestano una siffatta attitudine) si collocano al di fuori della sequenza del procedimento penale. Da qui, ad esempio, l'inoperatività delle prescrizioni circa l'uso della lingua italiana nella loro redazione. Per le notizie apprese di propria iniziativa dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero appare inevitabile introdurre una distinzione capace di tener conto del fatto che in simili casi la notizia di reato non trova mai consacrazione originaria in un atto tipico. Se la notizia è stata acquisita dal pubblico ministero, poiché scatta l'immediato obbligo di iscriverla nell'apposito registro (art. 335 comma 1°), è da tale iscrizione che ha inizio il procedimento. Il primo atto del procedimento sarà costituito da quello cronologicamente anteriore tra gli atti compiuti dopo l'acquisizione della notizia di reato. Anche per l'individuazione dell'atto finale occorre distinguere. Se le indagini preliminari sfociano in un provvedimento di archiviazione, questo sarà l’ultimo atto del procedimento. Se, invece, l'azione penale è stata esercitata, l'art. 650 comma 2° individua nell'esecutività il momento finale del processo relativamente alle sentenze di non luogo a procedere, così come l'art. 648 individua nella irrevocabilità il momento finale relativamente alle sentenze pronunciate in giudizio ed al decreto penale di condanna. Infine, debbono essere considerati a tutti gli effetti atti processuali penali quelli relativi al procedimento di esecuzione ed al procedimento disorveglianza. Non rileva, invero, la circostanza che entrambe le sequenze siano poste in essere dopo il passaggio in giudicato della sentenza o del decreto di condanna. 2. La lingua degli atti. Di regola, gli atti del procedimento sono compiuti in lingua italiana, che è la lingua ufficiale, ma non si prevedono sanzioni amministrative per chi, pur sapendo esprimersi in tale lingua, ne usi un'altra. L'art. 109 comma 2° supera ogni disegno nazionalistico perché eleva, seppure in un ambito circoscritto al «territorio dove è insediata una minoranza linguistica riconosciuta», altre lingue al rango di lingue del procedimento, accanto e alla pari di 42 quella italiana. L'operazione assicura al cittadino appartenente ad una minoranza linguistica riconosciuta il diritto di impiegare nei rapporti con l'autorità giudiziaria la propria madrelingua, a prescindere dal suo livello di conoscenza della lingua italiana. Ciò vale – si badi – non solo per l'imputato e le altre parti private, ma, pure, per i te- stimoni, i periti, i consulenti tecnici e quanti altri vengono in contatto con il procedimento penale Tuttavia, per i primi, stante l'intensità della tutela approntata, il diritto alla difesa personale (dal punto di vista delle capacità di comprendere e di comunicare della parte) risulta assorbito in quello dell'uso della lingua minoritaria. Al di là della sfera di operatività dell'art. 109 comma 2°, per il cittadino italiano alloglotto che non conosca la lingua italiana operano le regole dettate dalla normativa sulle traduzioni (infra, § 18). L'uso di una lingua diversa da quella italiana è subordinato alla sussistenza di una serie. di requisiti. Il primo è che si tratti di una lingua di cui una legge, (anche regionale) «riconosce» la qualità di lingua minoritaria. Il secondo requisito circoscrive la tutela ai soli procedimenti che si svolgano davanti ad un'autorità avente competenza di primo o secondo grado sul territorio dove, ancorché in parte, è insediata la minoranza linguistica. Il terzo requisito si risolve nell'onere del soggetto alloglotto di richiedere sempre l'uso della lingua minoritaria, ma l'opzione, espressa in forma scritta od orale, è revocabile. La tipologia delle nullità conseguenti all'inosservanza delle regole così poste (art. 109 comma 3°) va esaminata separatamente per ciascuno dei due primi commi. Quanto al 1° comma, non v'è motivo per discostarsi dall'orientamento giurisprudenziale affermatosi in passato: in ogni caso si tratterà di una nullità relativa. Il medesimo assunto sembra non valere per le nullità scaturenti dalla violazione del 2° comma: se essa riguarda una parte privata, è messa in gioco l'inosservanza di una disposizione relativa al suo intervento, sicché l'assorbimento della tutela linguistica in quella del diritto di difesa comporta, di regola, l'inquadramento tra le nullità a regime intermedio (art. 180). Ma non è da escludere il verificarsi di una nullità assoluta allorché si tratti di citazione dell'imputato (art. 179 comma 1°). L'autorità giudiziaria, nell'indicare il difensore d'ufficio o designarne il sostituto ai sensi dell'art,97 comma 4°, deve tener conto dell'appartenenza etnica o linguistica dell'imputato. Essendo la lingua nient'altro che uno strumento di comunicazione, accanto all'art. 109 può situarsi l'art. 119, relativo alla partecipazione del sordo, del muto o del sordomuto agli atti del procedimento. Tutte le volte in cui un soggetto in tali condizioni voglia o debba fare dichiarazioni – espressione volutamente lata così da ricomprendere anche atti non qualificabili come interrogatori od esami – sono previste particolari modalità di comunicazione che si avvalgono della parola o dello scritto. In ipotesi del genere, anche indipendentemente dalla circostanza che la persona in discorso non sappia leggere o scrivere, l'autorità procedente provvede a nominargli uno o più interpreti «scelti di preferenza fra le persone abituate a trattare con lui». A favore del sordo, del muto o del sordomuto imputati, stanti le regole generali fissate dall'art. 144, non potrebbe prestare l'ufficio di interprete il prossimo congiunto, trattandosi di soggetto che usufruisce della facoltà di astenersi: proprio al fine di evitare che un tal genere di imputato non possa giovarsi dell'ausilio di chi, presumibilmente, è persona abituata a trattare con lui, l'art. 144 lett. d introduce un'apposita deroga al divieto. 3. La sottoscrizione e la data. Permane l'interdizione all'impiego di mezzi meccanici (ad esempio, la dattilografia) oppure di segni diversi dalla scrittura (ad esempio, la stampigliatura a timbro), equiparati ad una mancata sottoscrizione: in tal senso va intesa la comminato-ria di invalidità contenuta nell'art. 110 comma 2°. Talora il codice impone che gli atti dei soggetti privati siano muniti di un'attestazione relativa all'autenticità della firma. Sono ora abilitati ad autenticare la sottoscrizione di atti, oltre al funzionario di cancelleria, il notaio, il difensore, il sindaco un funzionario delegato dal sindaco, il segretario comunalé, il giudice conciliatore, il presidente del consiglio dell'ordine forense o un consigliere da lui delegato. Naturalmente, il significato dell'intero discorso sta tutto nelle pur ridotte comminatorie di invalidità, sia nella specie dell'inammissibilità (art. 78 comma l°) sia nella specie della nullità relativa (artt. 142, 171 lett. c e g, e 546 comma 3°), talora rilevabile anche d'ufficio (art. 292 comma 2° lett. e), peri casi di mancata sottoscrizione dell'atto. Da un punto di vista generale, può dirsi che la sottoscrizione illeggibile non produce nullità allorché la provenienza dell'atto, sia ricavabile aliunde. Premesso che nel 45 fascicolo difensivo. Per quanto riguarda l'attività investigativa, la trasmissione di informazioni svolge un compito essenziale all'interno di un sistema che ha inteso ridimensionare l'ambito del processo cumulativo (art. 12). Benché la stessa autorità giudiziaria procedente possa disporre, di propria iniziativa, la trasmissione, ai sensi dell'art. 117, organo legittimato a presentare la richiesta è unicamente il pubblico ministero che procede, donde l’esclusione di organi delegate. La circolazione di copie e di informazioni troverà, pertanto, spazio quando manchino i presupposti del coordinamento informativo ed investigativo, ovvero vi sia dissenso tra gli uffici del pubblico ministero sulla gestione delle indagini, a meno che si tratti di procedimenti per reati di criminalità organizzata (artt. 118-bis comma 3° disp. att. e 371-bis) – il che preclude un coordinamento che l'art. 371 vuole spontaneo – o quando le indagini non risultino collegate nonostante l'ampiezza dei parametri fissati in materia dal legislatore o, ancora, quando l'altro procedimento non si trovi più nella fase delle indagini preliminari. Verificate «senza ritardo» la propria competenza e quella dell'organo da cui proviene la motivata richiesta, l'autorità giudiziaria versa in un'alternativa secca: rigettarla od accoglierla. La prima soluzione sarà adottata, oltre che per ragioni di ordine rituale, per la riconosciuta esigenza di preservare il segreto di cui all'art. 329. L'obbligo di motivare congrua-mente il rigetto non è comunque sanzionato dalla legge processuale. Naturalmente, resta sempre aperta la strada di rinnovare la richiesta. Anche per quanto concerne l'utilizzabilità delle copie di atti o delle in-formazioni trasmesse, l'attenzione si focalizza nell'art. 117. Qui il legislatore ha specificato che la trasmissione vale solo «per il compimento delle indagini» da parte del pubblico ministero. Escluso ogni impiego in chiave probatoria. Un'ulteriore penetrazione nella sfera del segreto investigativo proviene poi dal potere conferito dall'art. 117 comma 2-bis al procuratore nazionale antimafia. 6. Memorie, richieste e dichiarazioni delle parti. Gli artt. 121, 122 e 123 concernono alcuni poteri accordati alle parti – ivi compreso il pubblico ministero – ed alcune modalità di esercizio di altri poteri non necessariamente propri delle parti. Tali soggetti usufruiscono del potere di presentare memorie o richieste scritte al giudice in ogni stato e grado del procedimento. Non sussiste, in effetti, un obbligo generale di comunicare le richieste e le memorie alle altre parti. Avuto riguardo alle sole richieste, l'art. 121 comma 2° impone al giudice di provvedere entro il termine massimo di quindici giorni. Disposizioni speciali stabiliscono poi termini più brevi (artt. 299 comma 3°, 398 comma 1°, 418 comma 1° e 455). Naturalmente, l'obbligo scatta solo in dipendenza di una richiesta «ritualmente formulata». L'imputato detenuto o internato ha facoltà di presentare impugnazioni dichiarazioni (ivi compresa la nomina del difensore di fiducia) o richieste con atto ricevuto dal direttore dell'istituto. Esse, dopo l'iscrizione nell'apposito registro, sono comunicate all'autorità competente immediatamente, ed hanno efficacia come se fossero ricevute direttamente dall'autorità giudiziaria (art. 123 comma in altre parole, risulta neutralizzato il tempo per l'inoltro dell'atto. L'imputato custodito fuori dell'istituto usufruisce delle medesime facoltà: l'atto e in tal caso ricevuto da un ufficiale di polizia giudiziaria. Le impugnazioni, le richieste e le altre dichiarazioni sono comunicate nel giorno stesso o al più tardi in quello successivo all'autorità giudiziaria competente mediante estratto, copia autentica o raccomandata, ma, nei casi di speciale urgenza, è dato avvalersi di strumenti più celeri, come il telegramma confermato da lettera raccomandata o di «altri mezzi tecnici idonei». 7. La garanzia della legalità. Le norme contenute negli artt. 120 e 124 sono accostabili, in sede espositiva, per la comune garanzia di legalità che mirano a realizzare tramite strumenti diversi. L'intervento del testimone ad atti del procedimento (c.d. testimonianza impropria, oppure ad acta) si giustifica, anzitutto, per assicurare la regolare effettuazione dell'atto e precostituire, a tal fine, una fonte di provapersonale distinta ed aggiuntiva rispetto al relativo verbale. Si tenga presente come il codice espliciti che sono oggetto di prova pure i fatti dai quali dipende l'applicazione di norme processuali (art. 187 comma 2°) e collochi il testimone ad atti del procedimento tra coloro che sottoscrivono il verbale (art. 137 comma 1°). Ciò spiega perché l'art. 120 si preoccupi di enunciare tassativamente le cause di 46 incapacità, distinguendole tra naturali e giuridiche (c.d. morali). Se l'imputato o le altre parti private non sono state avvisate della facoltà loro accor- data o ne è stato loro precluso l'esercizio, si verifica una nullità a regime intermedio (art. 180); se, invece, le stesse ipotesi si concretano nei riguardi un altro soggetto, si resta nell'ambito della mera irregolarità. Pure l'obbligo posto dall'art. 124 mira a tutelare il valore della legalità nel procedimento. La norma adempie, infatti, un'importante funzione di chiusura che non può essere pretermessa all'interno di un sistema che accoglie il principio di tassatività delle nullità (infra, § 29). Indipendente, pertanto, dalla comminatoria di forme sanzionatorie endoprocessuali, le norme del codice debbono essere osservate dai magistrati, dai cancellieri, dagli altri organi ausiliari del giudice (e del pubblico ministero). 8. Le forme dei provvedimenti. Il codice contrappone gli atti compiuti nel procedimento, inteso come fase delle indagini preliminari, a quelli posti in essere nel contesto del processo. I primi sarebbero caratterizzati da forme libere. I secondi si atteggerebbero sulla base di forme vincolate (o tassative, ovvero tipiche) in quanto non ammettono equivalent (es.: art. 361 e artt. 213-217): qui non solo la forma intesa come struttura dell'atto risulta minuziosamente prescritta, ma su questa stessa struttura si riverbera anche la forma intesa quale modalità della documentazione (infra, § 14). Da qui un irrigidimento delle forme che anticipa quelle prescritte per i corrispondenti atti probatori del giudizio. Valga, per tutti, l'esempio delle informazioni che il pubblico ministero assume dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini, assoggettate a forme analoghe a quelle della testimonianza (artt. 362 e 373 comma l° lett. d). L'art. 125 segue la tradizione col prevedere tre modelli: sentenza, ordinanza, decreto. Le sentenze si caratterizzano per l'idoneità a chiudere uno stato o un grado del procedimento, in quanto contengono una decisione sulla regiudicanda; quale massima espressione dell'attività giurisdizionale, esse sono pronunciate in nome del popolo italiano. Numerose sono le classificazioni proposte in tema di sentenze e di provvedimenti ad esse equiparabili. Guardando al contenuto decisorio, fondamentale è la contrapposizione tra sentenze di condanna e sentenze di proscioglimento, Le prime sono considerate dall'art. 533 (infra, cap. VII, § 22) come uno degli esiti tipici del dibattimento, ma sentenze di condanna sono pronunciabili anche a lei mine del giudizio abbreviato (art. 442 comma 2°). Vale come sentenza di condanna il decreto penale, mentre la sentenza che applica la pena su richiesta delle parti è solo equiparata ad una sentenza di condanna ex art 445 comma I° (infra, cap. VI, § 8). Le sentenze di proscioglimento costituiscono una categoria assai ampia che include, anzitutto, le sentenze di assoluzione pronunciate all'esito del dibattimento con le formule (indicate nel dispositivo) per cui: il fatto non sussiste, l'imputato non l'ha commesso, il fatto non costituisce reato o non e previsto dalla legge come reato, il reato e stato commesso da persona non imputabile o non punibile per un'altra ragione (art. 530 comma 1°). Le sentenze di assoluzione, allorché diventano irrevocabili, acquistano l'autorità di cosa giudicata, godendo della particolare efficacia loro attri- buita dall'art 652. Dalle sentenze di assoluzione si distinguono tutte le altre sentenze di proscioglimento, in quanto non fornite della particolare efficacia sopra accentrata. Guardando alla progressione dell'iter, cadono sotto l'attenzione le sentenze di non luogo a procedere, pronunciate, al termine dell'udienza preliminare, con le formule, tanto di merito che di rito, indicate nell'art. 425 comma 1°. Esse, ove non siano più soggette ad impugnazione, acquistano forza esecutiva (art. 650 comma 2°), ma non godono dell'irrevocabilità potendo, a certe condizioni, essere revocate (infra, cap. V, § 48). Residuano, infine, le sentenze di non doversi procedere emesse nei re-stanti stati e gradi del procedimento. Qui si collocano le sentenze predibattimentali pronunciate pronunciate con le formule per cui l'azione penale non dove-va essere iniziata o non deve essere proseguita ovvero il reato e estinto (art. 469). le sentenze dibattimentali fondate sulle stesse formule (artt. 529 e 531), nonché quelle pronunciate, sempre con le medesime formule, al termine del giudizio abbreviato (art. 442 comma 1°). In questa classe debbono, infine, essere annoverate anche le sentenze che riconoscono non doversi procedere per l'esistenza di un segreto di Stato (artt. 202 comma 3° e 256 comma 3°) ovvero di una violazione del divieto di bis in idem (art. 649 comma 2°). Trattandosi di sentenze meramente processuali esse non implicano, in quanto ciò non appare necessario, un 47 completo approfondimento di merito: sicché, pur divenendo irrevocabili sono sempre prive di efficacia in sede exlrapenale. Le sentenze c.d. dichiarative in quanto verificano l'esistenza di determinate fattispecie, caratterizzate per la loro natura processuale, ma sfornite della portata liberatoria propria delle sentenze di non luogo a procedere ,e di proscioglimento. Tali sono, ad esempio, le sentenze di annullamento e, soprattutto, le sentenze che pronunciano sulla giurisdizione e sulla competenza. Queste due ultime, in particolare, non sono, per definizione, impugnabili e, se pronunciate dalla Corte di cassazione, godono della particolare efficacia loro decretata dall'art. 25 (retro, cap. I, § 9). Si pensi, ancora, alle sentenze c.d. costitutive, in quanto esse stesse creative di effetti giuridici. Tali sono, ad esempio, le sentenze emesse dal tribunale peri minorenni che concedono il perdono giudiziale (art. 169 c.p.), le sentenze di riabilitazione (art. 683), nonché quelle che riconoscono efficacia alle sentenze penali straniere (art. 730). Altra distinzione è quella tra sentenze di merito e sentenze processuali, posto che essa è ricavata, in larga misura, dall'efficacia della decisione in sede extrapenale. Le ordinanze servono, invece, specie risolvendo le c.d. questioni incidentali, a governare l'andamento del processo, pur essendovene alcune in grado, altresì, di concluderlo, come quelle che dichiarano l'inammissibilità deII'impugnazione (art. 591). Di regola, le ordinanze sono revocabili. A sua volta il requisite dell’inoppugnabilità, inteso alla stregua di un corollario della revocabilità, non e un dato costante, soffrendo di diverse deroghe (artt. 41, 309, 318 e 586). Dal canto loro, i decreti esprimono un comando dell'autorità procedente, assumendo, pertanto, natura prevalentemente amministrativa. Essi sono assoggettati al regime della revoca. I decreti, a differenza delle sentenze e delle ordinanze, non abbisognano, se non è diversamente disposto (artt. 117 comma 2°, 118 comma 2°, 127 comma 8°, 409 comma 1° e 460 comma 1°), di motivazione. Al tempo stesso, è comminata (art. 125 comma 3°) la nullità - relativa - per la mancanza di motivazione nelle sentenze, nelle ordinanze e, ove prescritta, nei decreti, con l'intento di dare piena attuazione all'art. 111 comma 6° Cost.. Stando alla giurisprudenza prevalente, la motivazione per relationem - ossia quella che si riporti al contenuto di un altro atto non è causa di nullità tutte le volte in cui il secondo sia conosciuto o facilmente conosci-bile dalla parte, ad esempio, per effetto del deposito in cancelleria. La giurisprudenza ammette poi l'uso di moduli prestampati. Nella prospettiva di una massima semplificazione, trova spazio, seppur residuale, la categoria dei provvedimenti adottati senza formalità – per-tanto innominati – ed esternabili anche oralmente (art. 125 comma 6°). Il più cospicuo esempio della categoria lo forniscono i provvedimenti emessi dal presidente del collegio (artt. 470 comma 1°, 471 commi 4°, 5° e 6° e 504). L'art. 125 non si occupa solo delle forme dei provvedimenti (commi l°, 2° e 30), ma anche della relativa deliberazione in camera di consiglio, la quale si caratterizza per l'immediatezza rispetto alla chiusura della trattazione, per l'immutabilità dei giudici rispetto alla trattazione medesima e per la continuità delle operazioni. Dalla fase deliberativa è escluso, per espresso divieto (comma 4° prima parte), unitamente alle parti, l'ausiliario che, designato a norma dell'ordinamento, di regola assiste il giudice in tutti gli atti ai quali procede, in conformità alla regola dettata dall'art. 126. Nella seconda parte del 4° comma è collocata, invece, l'espressa previsione del segreto sulla deliberazione, penalmente tutelato dagli artt. 326 e 685 c.p. Nel caso di provvedimenti collegiali e purché lo richieda un componente del collegio che non abbia espresso voto conforme alla decisione, è compilato sommario verbale contenente l'indicazione del dissenziente, della questione o delle questi alle quali si riferisce il dissenso ed i motivi dello stesso, succintamente esposti. Il verbale, redatto dal meno anziano tra i componenti togati del collegio e sottoscritto da tutti gli altri, viene conservato, a cura del presidente, in plico sigillato presso la cancelleria dell'ufficio. 9. Il procedimento in camera di consiglio. La costruzione operata dall'art. 127 di un modello validoper tutti i procedimenti che si svolgono in camera di consiglio (c.d. rito camerale) adempie ad una duplice funzione: da un lato, realizza un'apprezzabile economia legislative; dall'altro, assicura il contraddittorio tra le parti e, più in generale, il diritto di difesa dei soggetti interessati. Al riguardo, si possono distinguere i numerosi casi, in mercé di espresso riferimento all'art. 127, il rinvio a tali forme è integrale, da quelli rispetto ai quali la norma speciale introduce adattamenti talora piuttosto 50 prescrizione nel frattempo maturate. Per quanto concerne il giudizio di cassazione è da ritenere che possa pronunciarsi la formula di merito allorquando il giudice di primo o di secondo grado abbia applicato una causa estintiva. La correzione degli errori materiali (art. 130) mette riparo a deviazioni non gravi dell'atto dal suo schema tipico (infra, § 29). L'apposita procedura opera in presenza di tre presupposti. Anzitutto, ne sono oggetto unicamente gli atti del giudice riportabili al modello delle sentenze, ordinanze e decreti; inoltre, all'errore materiale (o all'omissione) non deve essere ricollegata una previsione di nullità. Stando ad un'opinione corrente, l'errore si deve sostanziare in una difformità tra il pensiero del giudice e la sua formulazione (ossia tra contenuto dell'atto e sua estrinsecazione), mentre l'omissione deve riguardare un comando che discenda, in maniera pressoché automatica, dalla legge. Tuttavia vi sono casi, come l'omessa declaratoria sulla falsità di un documento accertata con sentenza di codanna (art. 537 comma 1°), non riparabili ex art. 130: il rimedio consiste allora nell'impugnazione, anche autonoma, del relativo capo (art. 537 comma 3°). Infine, secondo una valutazione da effettuarsi in concreto, l'eliminazione dell'errore o dell'omissione non deve comportare una «modificazione essenziale dell'atto». Competente a procedere – anche d'ufficio – alla correzione è il giudice autore _ dell'atto, ma, quando sia stata proposta impugnazione, tocca al giudice ad quem, salvo che dichiari inammissibile l'impugnazione stessa. Il procedimento si svolge in camera di consiglio secondo le forme prescritte dall'art. 127. L'ordinanza che dispone la correzione è annotata poi sull'originale dell'atto. Numerose sono le ipotesi alle quali è resa esplicitamente applicabile la procedura in discorso (benché, talora, riferita alla species della rettificazione). Ne segue che, per il principio di specialità, le severe condizioni poste dall'art. 130 possono essere travalicate: così in tema di erronea attribuzione delle generalità all'imputato (art. 66 comma 3°); di omessa condanna alle spese (art. 535 comma 4°); di correzione della sentenza se occorre completare la motivazione ovvero se mancano o sono incompleti altri requisiti previsti dall'art. 546, escluse la mancanza di motivazione, la mancanza o l'incompletezza del dispositivo, la mancata sottoscrizione del giudice, trattandosi di cause di nullità (art. 547); di condanna di una persona in luogo di un'altra per errore di nome. Le Sezioni unite della Corte suprema hanno ritenuto che il procedimento di correzione degli errori materiali operi pure nel giudizio di cassazione. Rispetto alla correzione ex art. 30 assume una più spiccata autonomia la retificazione della sentenza impugnata, a cui provvede la corte di cassazione in forza dell'art 619 (infra, cap. IX § 38). 11. I poteri coercitivi. I poteri coercitivi del giudice di cui si occupa l'art. 131 assumono natura tipicamente amministrativa (c.d. polizia processuale). Il giudice deve avvalersi, anzitutto, della polizia giudiziaria e, solo se quest'ultima non sia in grado di provvedere, ricorrere alla forza pubblica. L'accompagnamento coattivo: l'istituto in discorso si risolve in una restrizione della libertà personale resa necessaria dall'indispensabile acquisizione di un contributo probatorio, la relativa disciplina non poteva trovar posto tra le misure coercitive personali perché oggetto di una rigida predeterminazione finalistica. Può essere adottato anche per reati di minima entità peri quali non è consentita l'emissione di una misura coercitiva personale (art. 280). Al di là dell'ipotesi dell'art. 376, in cui l'accompagnamento è disposto dal pubblico ministero, ancorché a seguito di un'autorizzazione del giudice, per procedere ad atti di interrogatorio o confront. L'accompagnamento coattivo dovrebbe essere preceduto, a seconda dei casi, da un avviso notificato o da un decreto di citazione rimasti senza effetto; suoi destinatari sono la persona sottoposta alle indagini, l'imputato (tanto assente quanto contumace) e gli imputati in un procedimento connesso (artt. 210 comma 2° e 513 comma 2°); suo scopo l'assunzione di prove diverse dall'esame, eccezion fatta per l'esame di persona imputata in un procedimento connesso. Il decreto motivato di accompagnamento è atto dall'efficacia temporale predeterminata. La durata massima pari a ventiquattro ore. La formula dell'art. 133, concernente l'accompagnamento coattivo dei testimoni, periti, consulenti tecnici, interpreti e dei custodi di cose sequestrate, contiene una specifica indicazione dei presupposti. I soggetti indicati sono, infatti, passibili di accompagnamento solo se, regolarmente citati o convocati, omettano di comparire nel luogo e nel tempo stabiliti senza addurre un legittimo impedimento: la medesima condizione vale pure per 51 l'accompagnamento coattivo disposto dal pubblico ministero (art. ;77 comma 2° lett. c). Data la qualità rivestita, le persone in discorso pos- sono essere condannate ad una sanzione pecuniaria, nonché alle spese causate dalla mancata comparizione, ma la condanna è revocata con ordinanza ove il giudice ritenga fondate le giustificazioni addotte in seguito dall'interessato (art. 47 disp. att.). 12. I princìpi in materia di documentazione degli atti. L'attività volta alla documentazione può definirsi come il meccanismo attraverso cui un atto viene inserito e conservato nella sequenza procedimentale, affinché giudice e parti possano controllarne la regolarità ed averne memoria ai fini delle decisioni che si dovranno adottare in primo grado e, soprattutto, nei giudizi di impugnazione. Benché di documentazione possa discorrersi a proposito di tutti gli atti processuali, l'espressione è usata per antonomasia per quelli la cui esternazione si realizza mediante dichiarazioni verbali e per quelli consistenti in operazioni. Solo in tali casi, infatti, assume autonoma rilevanza, rispetto all'attività volta a confezionare l'atto, l'attività intesa a documentarne l'avvenuta confezione. Il senso della linea distintiva si avverte già sul piano soggettivo considerando come l'autore dell'atto documentato non coincida – di regola – con l'autore della documentazione. L'attività di documentazione produce come risultato un un documento (rectius, un atto, secondo la terminologia codicistica, in quanto riferito al medesimo procedimento) avente natura rappresentativa di un'entità distinta dalla propria materialità, consistente in un supporto cartaceo, magnetico, etc. Per gli atti del pubblico ministero si rinvia alle modalità di quelli del giudice (art. 373 comma 2°); per gli atti della polizia giudiziaria il rinvio è mediato, facendosi riferimento alla disciplina predisposta per quelli del pubblico ministero (art. 357 comma 3°). Non solo, è toccato pure modulare l'impianto della documentazione in rapporto alle caratteristiche di ciascuna fase del procedimento: sono state così introdotte disposizioni specifiche per l'incidente probatorio (art. 401 commi 5° e 8°), per l'udienza preliminare (art. 420 comma 4°), per l'udienza dibattimentale ordina-ria (artt. 480-483 e 510) e per quella davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 559 comma 2°). 13. Le modalità della documentazione. L'art. 134, dedicato alle singole modalità di documentazione, rappresenta la chiave di volta che sorregge l'intera costruzione della materia. Il 1° comma enuncia il principio generale per cui la documentazione degli atti del giudice si effettua «mediante verbale». La formula esclude, anzitutto, che per tali atti valga quella modalità documentativa che si sostanzia nella semplice annotazione: essa è praticabile solo per gli atti del pubblico ministero o della polizia giudiziaria. Per quanto concerne la documentazione delle indagini difensive, si tenga presente il rinvio operato alle disposizioni qui esaminate (artt. 134-142) dell'art. 391-ter comma 3°. II codice non fornisce una definizione di «verbale», ma una simile esigenza non assume carattere pressante dal momento che al verbale non è più riconosciuta all'interno del processo penale quella fede privilegiata che gli era conferita in passato perché suscettibile di essere superata solo tramite l'apposito incidente di falso. Nell'udienza preliminare, di regola, il verbale è redatto in forma riassuntiva, ma, su richiesta di parte, il giudice dispone la riproduzione fonografica o audiovisiva ovvero la redazione del verbale con la stenotipia (art. 420 comma 4°). Nel dibattimento davanti al tribunale in composizione monocratica, l'adozione del verbale riassuntivo è rimessa, addirittura, alla concorde volontà delle parti (art. 559 comma 2°), sempre che il giudice non ritenga necessaria la redazione in forma integrale. Niente è detto circa l'inosservanza delle disposizioni dettate in ordine alla forma documentativi prescritta, sicché si deve escludere che ne derivi una qualche invalidità, salvo quanto prescritto dall'art. 141-bis. Nell'elencare i mezzi di documentazione il codice pone sullo stesso piano la stenotipia o altro strumento meccanico e, in posizione subordinata, la scrittura manuale. L'art. 134 comma 3° ricollega come regola alla redazione del verbale in forma rias- suntiva la riproduzione fonografica. Il nesso così creato tra forma e modo di documentazione non è però indefettibile: l'art. 140, infatti, vi apporta una vistosa eccezione (infra, § 14). Infine, l'art. 134 comma 4° prevede che se la modalità di documentazione già considerate appaiono al giudice 52 insufficienti, può essere «aggiunta» la riproduzione audiovisiva «se assolutamente indispensabile». Gli artt. 135, 136 e 137, applicabili quanto meno ai verbali redatti con la stenotipia o con altro mezzo meccanico, ne disciplinano la redazione, il contenuto e la sottoscrizione. Nel redigere il verbale con tali mezzi, l'ausiliario del giudice, se sfornito delle necessarie competenze, può essere autorizzato a farsi assistere sia da personale tecnico facente parte dell'amministrazione sia da personale esterno. Il contenuto del verbale si sostanzia nei normali referenti topografici e cronologici, nonché nella menzione della generalità delle persone intervenute e nell'indicazione delle cause, se conosciute, della mancata presenza di coloro che sarebbero dovuti intervenire. La formalità della sottoscrizione, previa lettura del verbale, è disciplinata dall'art. 137, ove si prevede che la firma (valida, stando alla giurisprudenza, anche con le sole iniziali del nome o con una sigla) sia apposta alla fine di ogni foglio da parte del pubblico ufficiale che l'ha redatto, dal giudice e dalle persone intervenute, ancorché le operazioni non siano esaurite e vengano rinviate ad altro momento. Se taluno degli intervenuti non vuole o non è in grado di sottoscrivere, ne è fatta menzione nel vebale indicandone i motivi: da qui la conclusione che l'atto resta piena mente valido. La regola è semplificata, dato il numero degli intervenienti, per il verbale del dibattimento (art. 483) e per quello dell'incidente probatorio (art. 401 comma 5°), nonché, per ragioni tecniche, tutte le volte in cui è impiegato uno strumento meccanico che non comporla l'immediata impressione di caratteri comuni di scrittura (art. 50 comma 2° disp. att.). 14. Le trascrizioni e le riproduzioni. I nastri impressi con i caratteri della stenotipia sono trascritti in caratteri comuni, ai sensi dell'art. 138, non oltre il giorno successivo a quello in cui sono stati formati, ma la prescrizione risulta tecnologicamente tardiva, stante la possibilità di procedere ormai ad una trascrizione simultanea mediante computer. Ad ogni modo, il termine, non perentorio, è derogato da un'espressa clausola di salvezza per il verbale del dibattimento, che deve essere trascritto non oltre tre giorni dalla sua formazione (art. 483 comma 2°). Effettuate da personale tecnico anche estraneo all'amministrazione dello Stato, ma sempre sotto la direzione dell'ausiliario del giudice, le riproduzioni fonografiche e audiovisive sono in seguito trascritte — senza limiti di tempo — a cura del personale tecnico giudiziario. Se le parti vi consentono, il giudice può disporne l'omissione. Pur senza attribuire alle parti un potere dispositivo sulla documentazione, si vuole realizzare una consistente economia ogniqualvolta le parti non abbiano interesse alla trascrizione, come accade quando la sentenza non sia impugnata. Le registrazioni fonografiche o audiovisive e le relative trascrizioni – se effettuate – sono poi accluse al fascicolo del procedimento (art. 139 comma 6° e, per il dibattimento, art. 483 comma 3°). Dall'art. 139 comma 2° si ricava che, tutte le volte in cui è effettuata la riproduzione fonografica, nel verbale e indicato il momento di inizio o di cessazione delle operazioni di riproduzione. In base l'art. 139 comma 3°, se una parte della riproduzione, per qualsiasi causa, non abbia avuto esito o non sia chiaramente intelligibile, fa prova il verbale redatto in forma riassuntiva. L'art. 140 comma 2° stabilisce, poi, che, se è redatto solo il verbale in forma riassuntiva, al giudice spetta uno specifico obbligo di vigilare a l t in ché sia riprodotta nell'originaria genuina espressione la parte essenziale delle dichiarazioni e siano descritte le circostanze nelle quali esse sono rese, sempre che ciò serva a valutarne la credibilità. Nella prassi, è Io stesso giudice ad intervenire nella redazione, dettando all'ausiliario il riassunto delle dichiarazioni rese davanti a lui. Le cause di nullità (relativa) del verbale sono ridotte dall'art. 142 all'incertezza assoluta sulle persone intervenute ed alla mancata sottoscrizione da parte del pubblico ufficiale che ha redatto il verbale. Essendo il verbale un atto del procedimento, pure l'inosservanza delle prescrizioni dettate dall'art. 109 commi I° e 2° produce nullità. La clausola di salvezza posta nell'art. 142 va riferita alla disciplina delle ricognizioni, da cui si apprende che la mancata menzione nel verbale di determinati adempimenti e dichiarazioni (art. 213 commi 2° e 3°), nonché delle relative modalità di svolgimento (artt. 214 comma 3° 215 comma 3° e 216 comma 2°), determina la nullità del mezzo di prova. In tal caso, pertanto, la documentazione dell'atto funge da condizione di validità del suo contenuto. 55 fini della pienezza del contraddittorio. Nondimeno la relativa questione di legittimità è stata seccamente respinta dalla Corte costituzionale, rimettendo in sostanza al guidi ce la valutazione, caso per caso, delle diverse esigenze. Il legislatore ha esteso anche ai procedimenti che si svolgono in camera di consiglio la disciplina approntata per partecipazione a distanza dell'imputato al dibattimento mercé l'introduzione dell'art. 45-bis disp. att.. E’ sufficiente la sottoposizione al regime di cui all'art. 41-bis ord. pen. affinché operi la partecipazione a distanza. In ordine allo sviluppo procedimentale, il riferimento portato all'imputato appare insufficiente a restringere l'ambito dell'istituto ai procedimenti in camera di consiglio instaurati dopo l'esercizio dell'azione penale. Vale qui l'estensione, potenzialmente anche in malarm partem decretata dall'art. 61 comma 2°, della persona sottoposta alle indagini all'imputato, donde la disponibilità della partecipazione a distanza anche nei procedimenti che si svolgano durante la fase delle indagini preliminari. Il riferimento al condannato vale poi per il procedimento di esecuzione e per quello di sorveglianza, non, invece, in sede di prevenzione, dove il soggetto che partecipa all'udienza assume la qualifica di «interessato». Il delicato quesito in ordine all'individuazione delle udienze in camera di consiglio per le quali vale il nuovo istituto sorge a causa del tenore dell'art. 45-bis comma 2° disp. att., a mente del quale il provvedimento che dispone il collegamento a distanza è comunicato o notificato «unitamente all'avviso di cui all'art. 127 comma 1° c.p.p.». Il richiamo all'art. 127 comma 1° assume un significato generico alla stregua di un mero sinonimo di avviso della data di fissazione dell'udienza camerale. Pertanto, la partecipazione a distanza risulta disponibile pure nei procedimenti che si tengono in udienza camerale per i quali sia stabilito un termine di comparizione inferiore a dieci giorni. Rispetto ai procedimenti a partecipazione eventuale per i reati di cui all'art. 51 comma 3-bis non è pensabile che il legislatore abbia voluto introdurre, in sede attuativa, una sorta di parlecipazione necessaria (sia pure mediatica), ma neppure è sostenibile cbe il legislatore abbia voluto rendere disponibile la partecipazione a distanza solo nei casi in cui il soggetto sia detenuto nella stessa circoscrizione del giudice investito del procedimento. I lavori preparatori testimoniano che si inteso estendere l'istituto a procedimenti come il riesame delle misure coercitive, l'appello delle misure cautelare. La partecipazione a distanza diviene disponibile tutte le volte in cui il giudice ritenga necessaria la presenza dell'imputato o del condannato, anche a seguito di sua richiesta, anziché l'audizione ad opera del magistrato di sorveglianza ai sensi dell'art. i comma 3°. 17. L'esame a distanza. Per salvaguardare la sicurezza di testimoni o imputati il codice aveva fatto leva sul tradizionale strumento di procedere al relativo esame a porte chiuse (art. 472 comma 3°). Con l'art. 7 d.l. 8 giugno 1992, n. 306 poi convertito, con modificazioni, nella 1. 7 agosto 1992, n. 356, il legislatore ha risposto alle esigenze di tutela con l'introduzione, tra l'altro, dell'esame a distanza. Il 1° comma dell'art. 147-bis disp. att. continua così ad occuparsi dell'esame di persone ammesse, in base alla legge, a programmi o a misure di protezione ed a riferirsi alle sole udienze dibattimentali. Ma, trattandosi di disciplina che investe il momento dell'assunzione di un mezzo di prova, non sussistono ostacoli insormontabili ad estenderla, per intero, al-l'incidente probatorio. Se si dovesse ritenere inoperante la clausola posta dall'art. 401 comma 5° riuscirebbe davvero arduo sottrarre l'art. 147-bis disp. att. ad una censura di legittimità per manifesta irragionevolezza. Quanto al telesame, si distinguono ipotesi in cui l'adozione rimane discrezionale da altre in cui essa si atteggia tendenzialmente come obbligatoria. L'art. 147-bis comma 2° disp. att. ne contempla una discrezionale dove l'adozione del telesame, subordinata alla disponibilità di strumenti tecnici idonei, scatta a seguito di una determinazione che il giudice o il presidente del collegio possono assumere sì d'ufficio, ma solo dopo aver sentito le parti. Pure nella dimensione della discrezionalità si collocano le ipotesi di cui al 5" comma. Qui l'adozione del telesame non mira a garantire l'incolumità del dichiarante – prescindendosi da ogni considerazione circa lo status del medesimo, come pure dai reati per cui si procede – ma a realizzare obiettivi di semplificazione processuale rimessi, non sempre congruamente, ad una richiesta delle parti. Il telesame «obbligatoriole» di cui al 3° comma non può dirsi davvero tale: è comunque fatto salvo il caso in cui «il giudice ritenga assolutamente necessaria la presenza della persona 56 da esaminare». La formula va riferita essenzialmente, alla mancata disponibilità o al cattivo funzionamento momentaneo delle apparecchiature tecniche, ma se quest'ultima eventualità si verificasse nel corso dell'esame, l'ordinanza ammissiva ben potrebbe essere revocata. Tre le ipotesi, tutte costruite in chiave soggettiva. Quella di cui alla lett a investe persone., ammesse a programmi o a misure di protezione «nell'ambito di un processo per delitti indicati dall'articolo 51, comma 3-bis nonché dall'art. 407, comma 2°, lettera a), n. 4, del codice»; devono essere esaminate le persone indicate neil'art. 210 nei cui confronti si proceda per uno dei delitti di stampo mafioso oppure con finalità di terrorismo o, ancora, di eversione dell'ordinamento costituzionale. L'ipotesi cui all'art. 147-bis comma 3° lett. c disp. att. si atteggia invece come residuale rispetto a quella della partecipazione a distanza, poiché ritaglia il proprio spazio applicativo al di fuori dei presupposi disegnati dall'art. 146-bis disp. att.. Profili ancor più delicati dischiude la lett. b che scatta «quando nei confronti della persona sottoposta ad esame è stato emesso il decreto di cambiamento delle generalità di cui all'art. 3 d. lgs. 29 marzo 1993, n. 119» Qui vigono due speciali regole: anzitutto, uniformandosi a quanto già prescriveva l'art. 6 comma 8° del decreto appena rammentato, il telesame sarà condotto sotto le precedenti generalità; inoltre, dovranno esse-re disposte «le cautele idonee ad evitare che il volto della persona sia visibile». Le modalità di conduzione del telesame sono state perfezionate. Si è, tuttavia, mantenuta la regola per cui il collegamento audiovisivo si limita n garantire «la contestuale visibilità delle persone presenti nel luogo dove In persona sottoposta ad esame si trova», talché lo standard tecnici) è inferiore a quello della partecipazione a distanza. In armonia, poi, coi l'art. 146 bis comma 6° disp. att. si è attribuito al solo ausiliario del giudice il compito di documentare le operazioni effettuate. Tra di esse, merita di essere evidenziata quella di dare atto delle cautele adottate per assicurare la regolarità dell'esame: non si vuole, pertanto, che il dichiarante si serva di appunti non resi visibili dall'inquadratura delle telecamere, in violazione dell'art. 499 comma 5°. Il telesame si converte in videoconferenza se la persona da esaminare deve essere assistita da un difensore ma, come già sappiamo, si tratta di ipotesi residuali rispetto alla partecipazione a distanza dell'imputato detenuto, per il quale resta ferma la disciplina più garantista. La metamorfosi è decretata dall'art. 147-bis comma 4° disp. att. laddove estende le regole stabilite dall'art. 146-bis commi 3°, 4° e 6° disp. att.. 18. La traduzione degli atti. La traduzione non integra un mezzo di prova, ma una semplice mediazione linguistica tra i soggetti del procedimento, e che il suo impiego non si esaurisce nell'ambito probatorio. Quanto alla terminologia adottata, il titolo quarto prende nome dalla natura dell'attività considerata,mentre, sul piano soggettivo, l'espressione «interprete» è usata per designare sia la persona che riproduce in lingua italiana o in lingua diversa dichiarazioni orali, sia la persona che svolge il medesimo compito nei confronti di atti o documenti scritti. Le ipotesi in cui si deve ricorrere all'ausilio dell'interprete sono tipicizzate dall'art. 143 mediante una tripartizione. La prima concerne esclusivamente l'imputato (e la persona sottoposta alle indagini) il quale non conosca, perché non parla o non comprende, la lingua italiana. Conta qui, come è naturale, non la comprensione del significato tecnico degli atti processuali, ma la padronanza della lingua, talché una conoscenza «media» esclude la necessità dell'interprete. Il diritto all'assistenza dell'interprete investe non solo gli atti orali, ma pure quelli scritti, tutte le volte in cui, fin dalla fase delle indagini preliminari, la mancata conoscenza della lingua italiana sia evidenziata dall'interessato o accertata dall'autorità procedente. Gioca, infatti qui il dettato dell'art. 111 comma 3° Cost., stando al quale la persona accusata di un reato deve essere «assistita da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo». La garanzia deve, ad ogni modo, essere coordinata con quelle predisposte per gli appartenenti ad una minoranza linguistica riconosciuta (retro, § 2). Tuttavia, indipendentemente dalla sfera di operatività dell'art. 109, al cittadino italiano imputato che non parli o non comprenda la lingua italiana e assicurata una posizione di parità con l'imputato straniero, anche se, per evitare facili strumentalizzazioni, l'art. 143 comma 1° pone a suo carico una presunzione relativa di conoscenza della lingua italiana. La tutela dell'imputato straniero che si trovi all'estero si completa con l'obbligo - allorché dagli 57 atti non risulti che egli conosca la lingua italiana - di redigere nella lingua dello Stato dove è nato l'invito a dichiarare o elegge-re domicilio nel territorio dello Stato (art. 169 comma 3°). La seconda ipotesi concerne il sordo, il muto o il sordomuto che non sappia leggere o scrivere: qui la nomina dell'interprete ubbidisce a regole particolari (retro, § 2). La terza ipotesi assume carattere residuale, riferendosi all'esigenza (li procedere alla nomina dell'interprete per tradurre uno scritto in lingua straniera o in dialetto non facilmente intelligibile, oppure per trasferire in lingua italiana una dichiarazione- di qualsivoglia contenuto - effettuala da chi non conosce la lingua italiana. Premesso che l'interprete deve essere nominato pure allorquando il giudice, il pubblico ministero o l'ufficiale di polizia giudiziaria abbia personale conoscenza della lingua o del dialello da interpretare, la prestazione del relativo ufficio assume carattere obbligatorio (art. 143 comma 4°), talché può disporsi l'accompagnamento coattivo dell'interprete (art. 133). Talune persone non possono svolgere la relativa funzione, a pena di nullità (art. 144), il cui regime dipende dal soggetto a favore del quale l'interprete opera. I requisiti di capacità e le situazioni di incompatibilità dell'interprete sono costruiti sulla falsariga di quelli del perito (infra, cap. III, § 11). E’ già rilevato (retro, § 2) come possa assumere la qualità di interprete un prossimo congiunto del sordo, del muto o del sordomuto. L'interprete incapace o incompatibile è ricusabile dalle parti private e, per i soli atti compiuti o disposti (le prove) dal giudice, è ricusabile anche dal pubblico ministero. Assoggettata a precise condizioni temporali, la dichiarazione di ricusazione o di astensione è decisa con ordinanza da ritenersi inoppugnabile (art. 145). Con il provvedimento di nomina, l'interprete è citato a comparire tramite notificazione e, in situazioni di urgenza, anche oralmente per mezzo dell'ufficiale giudiziario o della polizia giudiziaria (art. 52 disp. att.). Il conferimento dell'incarico avviene con forme che non contemplano - naturalmente - la prestazione del giuramento, ma che mantengono l'obbligo incondizionato di serbare il segreto, benché esso cada, in ogni caso, con la chiusura delle indagini preliminari (art. 146). Se l'incarico concerne traduzioni scritte che richiedono un lavoro di lunga durata, l'art. 147 abilita l'autorità procedente a prorogare, per giusta causa, il termine fissato per una sola volta. L'interprete che non abbia presentato la traduzione nel termine può essere sostituito; in quest'ultimo caso, dopo essere stato citato a comparire per discolparsi, è passibile, al pari del perito (art. 231), di condanna al pagamento di una somma a favore del-la cassa delle ammende. Nel corso delle indagini preliminari, è il pubblico ministero che chiede al giudice di applicare la sanzione (art. 53 disp. att.). 19. Le linee di fondo del regime delle notificazioni. Nel processo penale gli atti contano in quanto, con l'osservanza di determinate forme (ed entro certi termini), siano portati a conoscenza dei soggetti diversi dal loro autore: allo scopo è predisposto l'istituto delle notificazioni. L'obiettivo di una tutela effettiva è stato, d'altro canto, imposto dalle interdipendenze che scaturiscono dalla disciplina della restituzione nel termine (art. 175 comma 2°), dalla rinnovazione dell'avviso (art. 420-bis) e della citazione (art. 484 comma 2-bis) e, in generale, dal regime della contumacia. In questo disegno si collocano tanto la consegna dell'atto da parte della cancelleria ex art. 148 comma 4° (infra, § 20), quanto la rinnova-none della notificazione ex art. 157 comma 5° (infra, § 21). Dal punto di vista strutturale, il procedimento di notificazione – nella sua forma più complessa – è tradizionalmente distinto in tre fasi: l'impulso consistente nell'ordine o nella richiesta di eseguire la notificazione e nella consegna materiale dell'atto all'organo esecutivo; l'esecuzione di cui fanno parte la predisposizione dell'atto da notificare, l'attività di ricerca del destinatario e la consegna dell'atto alla persona abilitata a riceverlo; la documentazione dell'attivtà svolta dall'organo esecutivo. 20. Gli organi e le forme delle notificazioni disposte dal giudice o richieste dalle parti. L'art. 148 disciplina gli organi e le forme relative alle notificazioni disposte dal guidice. L'ufficiale giudiziario resta l'organo investito in via primaria dell'attività di notifica, anche se accanto continua ad essergli collocato «chi ne esercita le funzioni». Tra gli organi che esercitano funzioni notificativevanno annoverati, accanto agli aiutanti 60 dall'art. 2 comma 1° d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, convertito con l. 22 aprile 2005, n. 60) si occupa delle notificazioni all'imputato libero successive alla prima, a dispetto della rubrica esibita dalla disposizione in parola. Se l'imputato ha provveduto a nominare un difensore di fiducia (retro, cap. I, § 34), le notificazioni di cui si tratta sono effettuate mediante consegna al suddetto difensore, sempre che l'imputato non abbia provveduto a dichiarare o ad eleggere domicilio ex art. 161. L'intento è quello di favorire uno snellimento delle forme, anche allo scopo di ridurre il rischio di vizi notificativi, gravando il difensore dell'onere di mantenere solidi rapporti con l'assistito. Per tale ragione la regola vale per il solo difensore di fiducia, ma risulta temperata dal riconoscimento a quest'ultimo del potere di «dichiarare immediatamente all'autorità che procede di non accettare la notificazione». Per le notificazioni all'imputato latitante od evaso (art. 296) l'art. 165 pone un'equiparazione di trattamento con l'irreperibile: pertanto, la norma ne riprende i caratteri semplificati (infra, § 22). Per le notificazioni all'imputato interdetto o infermo di mente, l'art. 166 persegue l'obiettivo di una conoscenza personale: l'atto viene così notificato tanto al soggetto quanto, rispettivamente, presso il tutore o il curatore. La disciplina delle notificazioni all'imputato residente o dimorante all'estero (art. 169) è costituita sulla scorta dell'indirizzo assunto in passato. Se risulta dagli atti notizia precisa del luogo di residenza o di dimora all'estero sorge l'obbligo di inviare raccomandata con avviso di ricevimento, contenente una sorta di informazione di garanzia, nonché l'invito a dichiarare o eleggere domicilio nel territorio dello Stato. Se entro trenta giorni il soggetto non risponde in modo congruo all'invito, le notificazioni sono eseguite mediante consegna al difensore. Tale forma di notificazione non si accompagna, peraltro, all'emissione del decreto di irreperibilità. Se, invece, il giudice o il pubblico ministero non abbiano notizie del luogo di residenza all'estero, essi non possono emettere ex abrupto il decreto di irreperibilità, ma devono prima disporre – così come prescritto dalla sentenza costituzionale n. 172 del 1974 – ricerche sia nel territorio dello Stato sia all'estero, ovviamente nei limiti consentiti dalle Convenzioni internazionali. 22. L'irreperibilità ed i suoi effetti. Posto che il rito degli irreperibili sacrifica quasi del tutto la conoscenza effettiva a favore di quella legale. Ai sensi dell'art. 159, condizione essenziale per far luogo alla dichiarazione di irreperibilità resta l'impossibilità di eseguire la notificazione secondo le forme dettate per la prima notifica all'imputato non detenuto. I maggiori obblighi imposti all'organo delle notificazioni dall'art. 157 servono, pertanto, a prevenire il verificarsi di casi di irreperibilità. Nel caso in cui la notificazione all'imputato non detenuto non abbia avuto effetto, sorge, in capo al giudice o al pubblico ministero (art. 161 comma 4°), l'obbligo di disporre nuove ricerche a cui provvede la polizia giudiziaria (cfr. art. 61 disp. att.). Esse investono, in via successiva e non più alternativa, il luogo di nascita, l'ultima residenza anagrafica, l'ultima dimora, il luogo dove il soggetto esercita abitualmente la sua attività lavorativa, nonce l'amministrazione carceraria centrale; inoltre, come rivela l'avverbio «particolarmente», l'elenco dei luoghi non ha carattere tassativo. Se le ricerche non danno esito positivo, il giudice o il pubblico ministero emettono l'apposito decreto con il quale, ove l'imputato sia privo di difensore, si provvede, in ogni caso, a designarne uno d'ufficio. Ma il dato di assoluto rilievo consiste nella circostanza che la notificazione va eseguita mediante consegna di copia dell'atto al difensore. L’art. 160 individua una serie di limiti temporali che talora non coincidono con la chiusura della fase in cui il decreto è stato emesso. A prima vista, parrebbe che la questione non si ponga nel giudizio di cassazione perché le parti vi sono rappresentate dai difensori (art. 613 comma 2°), presso quali risultano rappresentate ex lege. Tutta-via, allo scopo di incrementare le garanzie a favore dell'imputato sfornito di difesa fiduciaria, l'art. 613 comma 4° prevede che pure a lui siano notificati gli avvisi che debbono essere dati al difensore d'ufficio (infra, cap. IX, § 34) Ma siffatti limiti possono non esplicare per intero i loro effetti perché il decreto di irreperibilità resta pur sempre atto sottoposto alla clausola rebus sic stantibus in quanto meramente dichiarativo di uno stato preesistente. In tutti i casi, ogni decreto di irreperibilità deve essere preceduto da nuove ricerche nei luoghi indicati dall'art. 159. 61 23. L'elezione di domicilio. In una prospettiva di collaborazione leale, l’imputato ha l'onere di determinare il luogo dove dovranno essergli notificati gli atti, mediante un'appo sita dichiarazione o elezione di domicilio, alle quali può conseguire pure una serie di facilitazioni in ordine all'esercizio del diritto di difesa: la noti ficazione avverrà non in un luogo astrattamente ritenuto idoneo alla conoscenza, bensì in uno indicato dallo stesso imputato. La dichiarazione di domicilio consiste in una manifestazione di scienza intesa ad indicare un luogo che può essere solo la propria casa di abitazione o la sede del proprio lavoro. L'elezione di domicilio consiste, invece, in una manifestazione di volontà che comporta la designazione di un luogo e, necessariamente, di un destinatario (c.d. domiciliatario). Nel primo atto compiuto, il giudice, il pubblico ministero o gli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria li invitano a dichiarare o a eleggere domicilio per le notificazioni. Nel contempo, al soggetto è rivolto l'avvertimento che, data la sua qualità, ha l'obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto e che, in mancanza di tale comunicazione, oppure in caso di rifiuto di dichiarare o eleggere do- micilio, le notificazioni verranno eseguite mediante consegna al difensore (c.d. domicilio «legale»). Nel verbale dovrà poi farsi menzione della scelta, positiva o negativa, effettuata dall'imputato o dalla persona sottoposta alle indagini. Al di fuori dell'ipotesi del contatto diretto e, quindi, in un ambito residuale, si colloca l'invito a dichiarare o a eleggere domicilio formulato con l'Informazione di garanzia o con il primo atto notificato per disposizione dell'autorità giudiziaria (art. 161 comma 2°). All'imputato (o alla persona le successive notificazioni saranno eseguite nel luogo in cui il primo atto è stato notificato, essendosi tenuto conto che la procedura già una volta è andata a buon fine (c.d. domicilio «determinato»). Se la notificazione nel domicilio determinato ex art. 161 comma 2° diviene impossibile, si provvede mediante consegna al difensore, che assume la veste di semplice consegnatario. Valgono le prescrizioni dettate dagli artt. 157 e 159 qualora, per caso fortuito o forza maggiore, l'imputato non sia stato in grado di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto (art. 161 comma 4°): in altre parole, la consegna al difensore resta ancora (nonostante il tenore dell'art. 157 comma 8 bis) l'extrema ratio. Quanto alle forme con cui è comunicato il domicilio dichiarato o eletto, nonché ogni sua variazione, l'art. 162 appronta un elenco che deve ritenersi tassativo. Esse consistono in una comunicazione all'autorità che procede, con dichiarazione raccolta a verbale, anche dalla cancelleria del tribunale fuori sede, ovvero mediante telegramma o lettera raccomandata muniti di sottoscrizione autenticata. 24. Le notificazioni a soggetti diversi dall’imputato. La rubrica dell’art 153, relative alle notificaziono e comunicazioni al pubblico ministero, lascia impregiudicata la vexata question circa l’autonomia concettuale delle seconde, concernenti i soli atti del giudice, rispetto alle prime. Il mantenimento della comunicazione all'interno di un modello orientato in senso accusatorio, benché teoricamente discutibile, si giustifica in quanto il rappresentante dell'accusa è organo pubblico, nei confronti del quale non si profilano questioni di reperibilità. Tanto premesso, l'art. 153 comma 1° ammette le parti ed i difensori ad eseguire «direttamente» la notificazione mediante la semplice consegna di copia dell'atto nella segreteria del pubblico ministero. Le notificazioni alla persona offesa, alla parte civile, al responsabile civile ed al civilmente obbligato per la pena pecuniaria (art. 154) risultano raggruppate perché nei confronti di tali soggetti valgono, in linea generale, le forme prescritte per la prima notificazione all'imputato non detenuto. La natura dei poteri conferiti nella fase delle indagini preliminari alla persona offesa ha imposto la creazione di una disciplina alquanto analitica e sufficientemente garantista. Allo schema dell'art. 157 sono state introdotte due deroghe: l'una relativa alla tutela della riservatezza di cui al 6 comma,l'altra relativa al doppio accesso da parte dell'ufficiale giudi ziario, cui si aggiunge una previsione ulteriore circa le ipotesi di irreperibilità nonché di residenza o di dimora all'estero. In tali casi la notificazione si dà per avvenuta con il deposito in cancelleria (sempreché l'offeso, dall'estero, non abbia dichiarato o eletto domicilio nel territorio dello Stato), non essendo ipotizzabile la soluzione adottata per l'imputato, stante la mancata previsione dell'obbligatorietà dell'assistenza tecnica. Si noti che se la persona offesa si avvale, ex art. 101, della nomina (facoltativa) di un difensore, 62 quest'ultimo, per ragioni di economia e di celerità, assume la funzione di domiciliatario ex lege (art. 65 disp. att.). Allorché, per il numero elevato delle persone offese ovvero per l'impossibilità di identificarne alcune, la notificazione prevista dall'art. 154 riesce difficile, l'art. 155 demanda all'autorità giudiziaria il potere di disporre l'impiego di un meccanismo simile a quello approntato, a più ampio spettro, sotto la rubrica di «notificazione per pubblici proclami», dal-l'art. 150 c.p.c. In ogni caso, copia dell'atto è depositato nella casa comunale del luogo ove si trova l'autorità procedente ed un estratto del medesimo è inserito nella Gazzetta Ufficiale. La notificazione si «ha per avvenuta» allorquando l'ufficiale giudiziario deposita una copia dell'atto nella segreteria o nella cancelleria dell’autorità procedente. Per quanto riguarda la parte civile, posto che essa deve provvedere a nominare un difensore all'atto della costituzione (art. 78 comma l° lett. e), le notificazioni sono eseguite presso tale soggetto, che cumula, pertanto, il ruolo di domiciliatario: del resto, la soluzione era necessitata non essendo stato imposto l'obbligo di indicare il domicilio all'atto della costituzione. Per quanto riguarda il responsabile civile ed il civilmente obbligato per la pena pecuniaria costituiti, vale, per affinità di condizioni, la medesima regola. Se i destinatari sono pubbliche amministrazioni, persone giuridiche o enti privi di personalità giuridica, le notificazioni seguono le regole del rito civile (art. 154 comma 3°). Nei confronti, infine, dei soggetti fino ad ora non considerati (quali difensori, testimoni, periti, interpreti, consulenti tecnici, custodi di cose sequestrate, procuratori e curatori speciali), l'art. 167 mantiene il richiamo alla disciplina della prima notificazione all'imputato non detenuto, ma, come per la persona offesa, non operano le regole dettate per la tutela della riservatezza e per il doppio accesso di cui all'art. 157 commi 5°, 6° e 7°. 25. La relazione di notificazione e le cause di nullità. Nella relazione, scritta in calce all'originale, ed alle singole copie notificate – fatta salva la tutela della riservatezza imposta dall'art. 157 comma 6° – l'ufficiale giudi- ziario indica il richiedente, le ricerche effettuate, le generalità della persona a cui è stata consegnata la copia e, qualora la notificazione non avvenga a mani proprie, i rapporti tra destinatario e consegnatario, le funzioni e le mansioni svolte da quest'ultimo, il luogo e la data della consegna, infine, appone la propria sottoscrizione al fine di attestare la paternità dell'atto (art. 168 comma 1°). La notificazione produce effetto per ciascun interessato dal giorno della sua esecuzione, ma vi sono eccezioni: se il termine per impugnare decorre diversamente per l'imputato e per il suo difensore, vale per entrambi quello che scade per ultimo (art. 585 comma 3°). Sul terreno dei mezzi rilevano le notificazioni effettuate con l'ausilio degli uffici postali. Alle cause di nullità considerate dall'art. 171 debbono aggiungersi quelle enucleabili in via generale dall'art. 178 (infra, § 29), nonché le ipotesi di inesistenza vera e propria. Nella relazione l'ufficiale giudiziario deve, tra l'altro, indicare la data della consegna: l'inosservanza di una siffatta prescrizione può dar luogo a responsabilità disciplinare ex art. 124. 26. Le regole generali in materia di termini. Un atto non può validamente essere posto in essere prima che se ne realizzi un altro da intendersi come presupposto del primo. All'interno delle tante classificazioni operabili in materia, non può sottacersi quella tra termini dilatori e termini acceleratori (o impulsivi). I primi fanno sì che un atto non possa compiersi (o produrre effetti) prima che il relativo termine sia decorso, sicché generano un effetto inibitorio dell'attività dei soggetti del procedimento: un cospicuo esempio è fornito dal termine di comparizione (art. 429 comma 3°). Se l'atto è egualmente compiuto, esso risulta, per regola, affetto da nullità speciale (art. 127 comma 5°) o generale (art. 178). I secondi sono volti a conseguire un fine opposto a quello dei precedenti perché stimolano l'evolversi del procedimento. Spesso capita che uno stesso termine assuma un'efficacia diversa in funzione dell'attività dei soggetti del procedimento cui si riferisce. Così, il termine ex art. 429 comma 3° è dilatorio per il giudice ai fini della fissazione della data del giudizio, ma acceleratorio per i difensori ai fini del-l'esercizio delle facoltà loro attribuite dall'art. 466. In relazione alle conseguenze ricollegate al loro spirare, i termini acceleratori si distinguono, a loro volta, in due classi. Sono detti termini ordinatori (o comminatori) quelli le cui conseguenze 65 è dichiarabile d'ufficio, in ogni stato e grado del procedimento (come dispone espressamente l'art. 591 comma 4° per le impugnazioni), senza altra causa di sanatoria se non quella del giudicato, a meno che non siano espressamente previsti limiti temporali alla sua rilevazione. Nemmeno l'inutilizzabilità è inclusa nella disciplina del libro II, nonostante si tratti di una sanzione processuale fornita di una sua puntuale autonomia, sia pure nel quadro definito dall'art. 191 (infra, cap. III, § 6), come dimostra la sua elevazione a motivo di ricorso per cassazione (art. 606 comma 1° lett. c), a fianco della nullità, dell'inammissibilità e della decadenza. La sua mancata considerazione nel litro II accanto alla nullità non può essere certo rapportata alla circostanza formale che si tratta di sanzione che concerne non tutti gli atti del procedimento, ma unicamente quelli probatori A dire il vero, l'inutilizzabilità può investire non solo le prove in senso proprio ma pure gli atti delle indagini preliminari. Ogni ipotesi di inutilizzabilità appare funzionale ad una esigenza di tutela della legalità della prova. Si ritiene che le ipotesi di inutilizzabilità integrino un numero chiuso anche rispetto alla fase dibattimentale, posto che la regola fissata dall'art. 526 («il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite al dibattimento»). Circa il modo di operare sul piano soggettivo, evidenziato come inutilizzabilità sia, per lo più di natura assoluta (artt. 63 comma 2° e 188). L'art. 191 comma 2° sancisce la rilevabilità in ogni stato e grado del procedimento, anche d'ufficio, della inutilizzabilità (infra, cap. III, § 6). 29. Il principio di tassatività delle nullità e la tecnica di previsione. Le disposizioni in tema di nullità sono dominate dal principio di tassatività, l'art. 177 riferisce tale principio all'inosservanza non già «delle forme prescritte per gli atti processuali», bensì a quella «delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento», ivi comprese quelle relative alla fase delle indagini preliminari: pertanto, anche agli atti compiuti dal pubblico ministero. All'interprete non è consentito ricorrere all'integrazione analogical. Dato che le nullità formano un sistema chiuso, ne discende che, al di fuori delle ipotesi così esplicitamente definite o implicitamente definibili non vi sono spazi residui per questa specie di invalidità. I vizi della volontà considerati dal codice ci-vile non sono riferibili agli atti processuali penali data l'autosufficienza del relativo sistema delle nullità. Pertanto, un atto — e segnatamente un provvedimento del giudice — anche se inficiato da violenza o minaccia è processualmente valido. Al più, gli interrogatori dell'imputato (art. 64 comma 2°) e le prove (art. 188) affette da vizi della volontà conseguenti all'adozione di metodi o tecniche idonee ad influire sulla libertà di auto determinazione si pensi alla confessione o alla testimonianza in tal modo estorti — rientrano nell'ambito dell'inutilizzabilità. Diverso è il caso in cui venga in gioco non un vizio della volontà, ma il suo assoluto difetto, quale conseguenza di una coazione fisica. Inevitabile, a tal punto, concludere per la raffigurazione di un'ipotesi di inesistenza giuridica. Tra le nullità non sono – per la stessa ragione – inquadrabili gli errores in iudicando, vale a dire quei vizi sostanziali dei provvedimenti del giudice, elevati dall'art. 606 comma 1° lett. b ad autonomo motivo di ricorso per cassazione. Le restanti difformità dallo schema tipico, escluse, ovviamente, le specifiche ipotesi di inammissibilità e di inutilizzabilità (retro, § 28), non possono che essere riportate alla tipologia della mera irregolarità, produttiva, tutt'al più, di conseguenze di natura disciplinare ex art. 124 (retro, § 7) o ricavabili da altri rami dell'ordinamento, come quello penale, civile o tributario (salvo che si cada nell'errore materiale cui pone rimedio, se si tratta di sentenze, ordinanze o decreti del giudice, l'apposita procedura ex art. 130) (retro, § 10). A meno che, in prospettiva decisamente opposta, perché sottratta al principio di tassatività, non debbano ricondursi in via interpretativa alla specie più grave d'invalidità ravvisabile nell'inesistenza giuridica. L'inesistenza pone rimedio alla tassatività delle cause di nullità, l'abnormità alla tassatività oggettiva delle impugnazioni, rendendo ammissibile un autonomo ricorso per cassazione (infra, cap. IX, § 2) o la rilevazione ufficiosa da parte del giudice dell'impugnazione ritualmente investito. Tuttavia, l'abnormità è assoggettata agli ordinari termini ad impugnandum, talché, a differenza, ancora, dell'inesistenza, perde rilevanza a seguito della formazione del giudicato. L'art. 178 è dedicato nella rubrica alle nullità di ordine generale. In tale classe figura l'inosservanza di una serie di disposizioni che concernono il giudice, iI pubblico ministero, l'imputato — espressione comprensiva della persona sottoposta alle indagini, giusta l'equiparazione 66 operata dall'art. 61 compia 1° — le altre parti private, i loro difensori e rappresentanti, nonché «la citazione a giudizio della persona offesa dal reato e del querelante». Alle nullità di ordine generale si contrappongono quelle speciali, perché stabilite da un’apposita previsione legislative. 30. Le nullità assolute. Le nullità che la rubrica dell’art. 179 designa come assolute si caratterizzano per la nota dell’insanabilità. Ciò che distingue le nullità assolute da tutte le altre è il normale regime di insanabilità fino all'irrevocabilità del giudicato. Il secondo attributo menzionato dall'art. 179 comma 1° consiste nella rilevabilita ex officio da parte del giudice in ogni stato e grado del procedimento. È, pertanto, causa di nullità assoluta l'inosservanza delle disposizioni concernenti le condizioni di capacità del giudice ed il numero dei giudici necessario a costituire i collegi giudicanti. Al contrario, non sono riconducibili a tale ambito i vizi concernenti la nomina del giudice, ove non rientranti nell'ambito della capacità. Per quanto riguarda la figura del pubblico ministero, tra le nullità di ordine generale sono assolute solo quelle relative all'iniziativa del medesimo nell'esercizio dell'azione penale. Sono sicuramente riconducibili al regime delle nullità assolute, anzitutto, le violazioni delle disposizioni concernenti l'atto di promuovimento dell'azione penale, facendo riferimento sia alla sua mancanza che alla sua invalidità. Soccorre, al riguardo, l'elenco fornito dall'art. 405 comma l", ma alle ipotesi ivi contemplate debbono, quanto meno, aggiungersi quelle dell'imputazione coatta (artt. 409 comma 5°) e della contestazione in udienza del reato connesso o del fatto nuovo (artt. 423 commi 1° e 2°, 5 I7 e 518), nonché – è appena il caso di dirlo – la citazione diretta a giudizio nel procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica (art. 550). Nell'ambito delle nullità assolute si collocano le violazioni delle disposizioni sulla capacità e sulla legittimazione del rappresentante del pubblico ministero, purché si riflettano sulla sua iniziativa nell'esercizio dell'azione penale. Al primo proposito, possono richiamarsi (retro, cap. 1, § 14) le norme sulla delega nominativa a svolgere le funzioni di pubblico ministero nell'udienza dibattimentale davanti al tribunale in composizione monocratica. Al secondo proposito, ci si può riferire al promuovimento dell'azione davanti ad un giudice diverso da quello presso cui l'ufficio del pubblico ministero è istituito. Per quanto riguarda l'imputato e il suo difensore – gli unici soggetti privati considerati dall'art. 178 lett. c, a favore dei quali operi il regime delle nullità assolute – la disciplina codicistica mira a presidiare le numerose sedi del contraddittorio indefettibile. L'intervento dell'imputato è garantito nei confronti delle nullità che derivano dall'omessa (o dall'invalida) citazione al dibattimento di primo grado (artt. 429 comma 4°, 465 comma 2°, 555 comma 3"), ancorché tenuto a seguito di giudizio direttissimo instaurato nei confronti di imputato libero (art. 450 comma 2°) o di giudizio immediato (art. 456 comma 3°), e al dibattimento di secondo grado (art. 601 comma 1°). Naturalmente la protezione della vocatio in iudicium investe tutti gli atti che compongono tale fattispecie complessa recettizia, ivi compresa la notificazione. Quanto al difensore dell'imputato, è presidiata da nullità assoluta non solo l'assenza dal dibattimento di primo e di secondo grado, così da ribadire l'indefettibilità dell'assistenza tecnica nel giudizio di merito (artt. 451 comma 1°, 484 ,comma 2°, 486 comma 5°, 559 comma 1°, 598), ma pure ogni altra ipotesi rispetto alla quale ne sia dichiarata obbligatoria la presenza. In tale ambito si collocano, pertanto, l'assenza del difensore dall'interrogatorio di persona sottoposta a misura cautelare personale (art. 294 comma 4°); dalle sommarie informazioni che la polizia giudiziaria assume dalla persona nei cui confronti vengono svolte le indagini (art. 350 comma 3°); dall'interrogatorio e dal confronto, delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria. L'art. 179 comma 2°, come già accennato, riconosce per tabulas l'esistenza di nullità a previsione speciale definite espressamente come assolute. L'esempio è fornito dall'art. 525 comma 2°, dov'è stabilito, con riguardo al principio di immediatezza del giudizio, che alla deliberazione della sentenza debbono concorrere gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento; ma la precisazione appare superflua. Vero è che in tal caso non potrebbe farsi leva sulla previsione relativa all'inosservanza delle disposizioni circa il numero dei membri del collegio giudicante, essendo qui in gioco la loro identità fisica. 67 31. Le nullità intermedie. Il regime delle nullità generali, diverse da quelle assolute, è dettato dall'art. 180, la cui rubrica («regime delle altre nullità di ordine generale») non provvede qui ad etichettature di sorta. L'espressione «nullità intermedie» appare la più opportuna per raggrupparle empiricamente, perché il relativo trattamento si situa, in effetti, in posizione mediana tra quello delle nullità assolute e quello delle nullità relative. Le nullità in discorso sono, al pari delle prime, rilevabili anche ex officio, mentre, al pari delle seconde, risultano sanabili in un momento anteriore all'irrevocabilità della sentenza. Le nullità a regime intermedio non possono essere né rilevate (dal giudice ), né dedotte (dalle parti), se verificatesi prima del giudizio, dopo la deliberazione della sentenza di primo grado, o, se verificatesi nel giudizio, dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo. Un limite di maggior portata per la deduzione della nullità intermedie deriva, poi, dalla lettura coorcli mula con l'art. 182 commi 1° e 2° (infra, § 33). Cè, infine, da chiedersi se per le nullità in discorso valga il principio per il quale una nullità — ove sia stata tempestivamente dedotta, ma non dichiarata dal giudice — risulta in via automatica devoluta al giudice dell'impugnazione, senza che debba formare oggetto dei relativi motivi (c.d. perpetuatio nullitatis). Il silenzio serbato, in materia, dall'art. 180 (a differenza di quanto disposto dall'art. 181 per le nullità relative) induce ad una risposta positiva in ordine all'appello, del resto in assenza di qualunque spunto legislativo utilizzabile in altro senso. Per il giudizio di cassazione, la lettera dell'art. 609 comma 2°, prescrivendo che la corte conosca — al di là dei motivi proposti — le sole «questioni rilevabili d'ufficio in ogni stato e grado del processo», sembrerebbe impedire un'analoga conclusione. Ma evidenti ragioni sistematiche, unite all'irrazionalità di un diverso trattamento nei due gradi, consigliano di propendere anche qui per la tesi della devoluzione ex lege. Nelle nullità intermedie troviami l’inosservanza delle disposizioni circa la partecipazione del pubblico ministero al procedimento, sempre che tale attività non sia inquadrabile in quella di iniziativa. La norma si riferisce, in primo luogo, all'attività di prosecuzione dell'azione, sicché, ad esempio, appare inficiata da nullità intermedia l'inosservanza delle disposizioni circa la modifica dell'imputazione nell'udienza preliminare (art. 423 comma 1°) o nel dibattimento (artt. 516 comma 1° e 517 comma 1°), ovvero circa l'applicazione della pena a richiesta (natural- mente, dopo che sia già stata esercitata l'azione penale), là dove si prevede il necessario consenso del pubblico ministero. In secondo luogo, essa si attaglia a tutti quegli interventi in cui si risolve il contributo dialettico del pubblico ministero al procedimento. Vengono, poi, in gioco le richieste del pubblico ministero in ordine al le misure cautelari, nonché la sua partecipazione attiva nel procedimento di esecuzione (art. 666). Assai estesa è la categoria delle nullità a regime intermedio che concernono l'inosservanza delle disposizioni circa l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza dell'imputato. La prima figura va rapportata alle ipotesi di diretta e personale partecipazione dell'imputato (o della persona sottoposta alle indagini) al procedimento; la seconda alle attività svolte dal difensore al fine di far valere i diritti e gli interessi dell'imputato, come pure dal consulente tecnico, dall'interprete, dal curatore speciale; alla terza, infine, fanno capo una serie di fattispecie alquanto eterogenee, sicché mal le si adattano gli schemi di natura civilistica., Si possono ricondurre a tale ultima ipotesi il generale potere di rappresentanza conferito dall'art. 99 comma l° al difensore (c.d. rappresentanza convenzionale); i poteri di rappresentanza, sempre conferiti al difensore, da singole disposizioni (art. 165 comma 3°, 475 comma 2°, 420-quarter comma 2°). Essendo l'inosservanza delle disposizioni riguardanti l'intervento, l'assistenza e la rappresentanza delle altre parti private sempre tutelato da nullità a regime intermedio, ne discende che l’omessa (o invalida) citazione di tali soggetti risulta sottoposta ad un regime più blando di quello previsto per l’omessa (o invalida) citazione dell’imputato. In ordine all'inosservanza delle disposizioni che concernono la sola citazione a giudizio della persona offesa e del querelante, l'inserimento di tale vizio nell'ambito delle nullità a regime intermedio suona, infine, come un riconoscimento dell'esigenza che tali nullità siano rilevabili anche e officio, a differenza di quelle relative. 70 CAPITOLO III LE PROVE 1. e 2. Premesse e il problema della sfera d’incidenza della normativa contenuta nel libro sulle prove. Le norme del libro sulle prove debbano applicarsi nelle fasi anteriori al dibattimento, con riferimento ai diversi momenti in cui - nell'arco di tali fasi - è previsto l'intervento del giudice, ora in funzione di organo di garanzia, ora in funzione di organo di decisione, anche nel merito. Cominciando da questa seconda ipotesi, e quindi facendo riferimento, in particolare, all'attività del giudice in sede di udienza preliminare - la quale, com'è noto, può anche rivestire la fisionomia di una udienza di integrazione della piattaforma probatoria già acquisita - sembra fuori discussione che il medesimo giudice debba attenersi, di regola, alle norme sancite nel libro III, fermi ovviamente i limiti risultanti da specifiche previsioni di natura derogatoria. Più precisamente, ad esempio, dovranno osservarsi le disposizioni generali in tema di ammissione delle prove. Non bisogna dimenticare, d'altra parte, che al termine dell'udienza preliminare – anche sulla base delle «prove» (così si esprime l'art. 422) ammesse ed assunte nel corso della medesima – il giudice potrà pronunciare non solo un decreto di rinvio a giudizio (art. 429) od una sentenza di non luogo a procedere (art. 425), ma anche una sentenza di condanna nel caso di giudizio abbreviato (art. 442) ovvero una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (art. 448). E, in proposito, è innegabile che, ai fini della selezione e della valutazione del materiale probatorio su cui fondare la propria decisione, il medesimo giudice non possa discostarsi dalle nor- me che presiedono ex artt. 191 e 192 alla formazione del convincimento giudiziale (infra, §§ 6 e 7). La conclusione non può essere diversa, salvi i necessari adattamenti, anche riguardo alle ipotesi in cui il giudice sia chiamato ad intervenire, nel corso delle indagini preliminari, nell'adempimento del suo tipico compito di garanzia dei diritti e delle libertà fondamentali: ad esempio essendogli richiesta l'adozione di un provvedimento in tema di coercizione personale (art. 291), ovvero in tema di intercettazioni telefoniche (art. 267). In questa ed in altre analoghe situazioni si deve ritenere che il giudice per le indagini preliminari, di fronte agli elementi probatori fornitigli a sup- porto delle correlative richieste, possa utilizzare alla base del proprio provvedimento soltanto quelli il cui impiego non sia incoerente con la corrispondente disciplina stabilita in materia di prove. Il pubblico ministero (e lo stesso vale, ovviamente, per gli organi di polizia giudiziaria) non si trovi nella condizione di un organo legibus solutus nello svolgimento delle indagini preliminari, senza alcun obbligo di osservanza almeno dei princìpi di fondo dettati sul terreno probatorio. Non solo perché vi sono determinati atti del pubblico ministero (e della polizia giudiziaria) per loro natura destinati ad essere inseriti nel fascicolo per il dibattimento, e quindi ad essere acquisiti con valore di prova in tale sede (artt. 431, 511 e 511-bis), ed altri atti che il medesimo valore possono assumere per effetto del verificarsi di determinate circostanze, o in conseguenza del loro impiego per le contestazioni dibattimentali (artt. 500 commi 4° e 6° e 503 commi 5° e 6°), ovvero a seguito di lettura dei relativi verbali, in presenza di particolari situazioni (artt. 512, 512-bis e 5 13 ), od ancora in forza di accordo intervenuto tra le parti (artt. 431 comma 2°, 493 comma 3° e 500 comma 7°). Ma anche, e su un piano più generale, perché – stando al sistema accolto dal codice nella disciplina dei procedimenti speciali «senza dibattimento» – dipende in definitiva dal consenso delle parti che tutti gli atti di indagine preliminare compiuti dal pubblico ministero (e, se del caso, dalla polizia giudiziaria) possano venire utilizzali come prove alla base di una sentenza di merito idonea a definire il procedimento prima del passaggio al dibattimento. In altri termini, se è vero che le indagini preliminari del pubblico ministero (nonché quelle della polizia giudiziaria) sono suscettibili, nelle ipotesi appena ricordate, di assurgere al livello di prova, contribuendo così in positivo alla formazione del convincimento del giudice, non è seriamente pensabile che le medesime possano svolgersi al di fuori di qualunque riferimento alla disciplina dettata nel codice in materia di attività probatorie. Se ne desume, anzitutto, che le «disposizioni generali» con cui si apre il libro III (infra, §§ 3-7), in quanto espressive di alcune basilari scelte di civiltà giuridica sul terreno probatorio – e, quindi, della ricerca probatoria – debbano senz'altro applicarsi anchenel corso delle indagini 71 preliminari del pubblico ministero (e della polizia giudiziaria), ovviamente entro i limiti consentiti dalla natura e dalla finalità delle stesse. Per quel che concerne la disciplina dei mezzi di ricerca delle prove precostituite – corrispondenti, del resto, ad attività tipiche della fase delle indagini preliminari (infra, §§ 13-14) – non sembra dubbio che essa debba venire osservata dal pubblico ministero e, per quanto di sua competenza, dalla polizia giudiziaria. Lo stesso non può dirsi, invece, in ordine alla disciplina dei mezzi di prova (infra, §§ 8-12), che non a caso risulta dettata facendo di regola riferimento al «giudice», trattandosi di atti normalmente affidati alla sua gestione, in quanto destinati a sfociare in prove «formate» nel processo, e come tali idonee a concorrere direttamente alla formazione del eonvincimento giudiziale. Proprio per sottolineare questi aspetti peculiari, nel codice la regolamentazione delle omologhe attività da parte del pubblico ministero, all'interno delle indagini preliminari, presenta una sua specifica autonomia, tale da far pensare che il legislatore abbia inteso senza dubbio tenerla distinta da quella dei mezzi di prova in senso proprio. Sembra allora doversi concludere che le norme relative ai diversi mezzi di prova, quali risultano sancite nel libro III, non debbano in linea di massima applicarsi nel corso delle indagini preliminari del pubblico ministero. Ciò non significa, peraltro, che — al di fuori degli espliciti rinvii disposti dal legislatore — non si possa talora pervenire in sede interpretativa a ritenere applicabili le norme dettate per i mezzi di prova anche con riferimento a particolari attività o situazioni riconducibili all'ambito delle indagini preliminari del pubblico ministero. Così, in ispecie, non sembra potersi dubitare che agli atti di confronto cui alludono gli artt. 364 comma 1° e 376 (senza, peraltro, fornire ulteriori precisazioni) debba applicarsi la disciplina descritta ex artt. 211 e 212. Più precisamente, in quanto si tratti di norme dettate non già in funzione della specifica attitudine di tali mezzi a «formare» la prova, bensì, su un piano più generale, esclusivamente allo scopo di stabilire le idonee garanzie «minime» per il relativo procedimento di acquisizione probatoria (da osservarsi, dunque, prescindendo dalla circostanza che le risultanze così acquisite siano, o meno, destinate a valere come prova in sede dibattimentale): garanzie, cioè, in assenza delle quali il medesimo procedimento potrebbe risultare gravemente deficitario rispetto ai princìpi fondamentali del sistema. 3. L’oggetto della prova. Si definisce l'oggetto della prova facendo riferimento, in sostanza, al tema della decisione. E, attraverso tale riferimento, si è fissato il requisito della pertinenza come critrio-guida per lo sviluppo dell'attività probatoria, ma anche, nel contempo, per la definizione dei suoi confini. Dal 1° comma dell'art. 187, dove è evidente lo sforzo di una limitazione del perimetro del thema probandum corrispondente all'area delle questioni poste attraverso l'esercizio dell'azione penale (ovvero prima di quell'esercizio, all'area delle questioni da risolversi in vista delle relative «determinazioni», con riferimento alla «ipotesi di imputazione» posta alla base delle indagini. Tali, da un lato, i fatti che si riferiscono all'imputazione, dall'altro quelli concernenti la punibilità dell'imputato, nonché la determinazione della pena o della misura di sicurezza. Quando vi sia costituzione di parte civile, poi, il tema probatorio è destinato ad allargarsi fino ad includere le questioni derivanti dall'esercizio dell'azione civile in sede penale. Del tutto nuova infine, risulta la prevista estensione dell'oggetto della prova anche ai c.d. «fatti processuali» , o, più esattamente ai fatti «dai quali dipende l'applicazione di norme processuali» (art 187 comma 2"). Il criterio di pertinenza che vi è enunciato rappresenta infatti come si dirà (infra, § 5), il parametro di fondo per la verifica circa la rilevanza della prova in vista della sua ammissione (art. 190 comma 1°) oltreché per la soluzione dei diversi problemi che possono porsi in sede di assunzione di determinate prove: ad esempio, per quanto riguarda l'esercizio dei poteri del presidente volti ad assicurare la «pertinenza delle domande» (art. 499 comma 6°), ed a decidere sulle correlative opposizioni (art. 504), in sede di esame diretto e di controesame. Proprio in relazione alla disciplina dell'oggetto della prova va ricordata, infine tra le numerose, e spesso inutili, classificazioni del fenomeno probatorio – la distinzione tra «prove dirette» e «prove indirette», a seconda che le stesse si riferiscano, o non si riferiscano, immediatamente al thema probandum principale, quale risulta dall'art. 187. Stando a questa terminologia sono prove dirette quelle aventi per oggetto il fatto da provare – nelle sue diverse articolazioni – mentre sono prove indirette quelle che non hanno direttamente ad oggetto il fatto da 72 provare, bensì un altro fatto, dal quale il giudice potrà risalire al primo solo attraverso una operazione mentale di tipo induttivo. Le prove appartenenti a questa seconda categoria si definiscono anche come «prove indiziarie», così da sottolinearne la struttura tipicamente inferenziale, e tali sono gli «indizi», cui si riferisce la regola di valutazione dettata dall'art. 192 comma 2° (infra, § 7), da non confondersi con gli «indizi» richiesti quale presupposto, ad esempio, per I'adozione di una misura cautelare ex artt. 273 comma 1° e 292 comma 2° lett. c (infra, cap. IV, §§ 3 e 13) ovvero per l'autorizzazione ad una intercettazione telefonica ex art. 267 comma 1° (infra, § 15). In queste ultime ipotesi, infatti, perpetuando una infelice ambiguità già criticala al l'epoca del codice abrogato, il legislatore parla di «indizi» con riguardo ad elementi conoscitivi di varia natura, di per sé idonei a concretare soltanto una situazione di fumus commissi delicti. 4. Prove atipiche e garanzie per la libertà morale della persona. Si è deciso, quindi, di non dettare alcuna aprioristica preclusione nei confronti delle prove «non disciplinate dalla legge» (ciò che sarebbe potuto risultare eccessivo, soprattutto nell'ottica dei prevedibili sviluppi tecnologici sul terreno degli strumenti investigativi), ma di trasferire in capo al giudice, caso per caso, il compito di un vaglio preliminare circa l'ammissibilità di tali prove. La verifica è subordinata a due distinte e concorrenti valutazioni: da un lato, che essa «risulta idonea ad assicurare l'accertamento dei fatti», dall'altro che «non pregiudica la libertà morale della persona». Dopo di che, qualora venga riconosciuta l'ammissibilità della prova non ostante la sua fisionomia atipica, sarà ancora compito del giudice definire in concreto le modalità del-la sua assunzione, dopo avere sentito le parti allo scopo di concordare, se possibile, le relative cadenze procedurali (art. 189). Nessuna prova potrà essere ammessa ai sensi dell'art. 189, qualora possa derivarne una lesione alla libertà morale del soggetto che vi è coinvolto. Si tratta, del resto, (li una applicazione del principio di fondo secondo cui non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, tecniche o metodi probatori «idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti» (art. 188). Nessuna prova potrà essere ammessa, né tanto meno assunta, quando la stessa pre- supponga il ricorso a metodiche tali da vanificare, o comunque da compromettere, la normale attitudine della persona all'autodeterminazione ed all'esercizio delle facoltà mnemoniche e valutative. 5. Diritto alla prova e criteri di ammissione. Alle parti è ricunosciuto un vero e proprio «diritto alla prova» (a sua volta tipica manifestazione diritto di difesa, per quanto riguarda le parti private, sotto il particolare profilo dell'esigenza di «difendersi provando»), che infatti il codice esplicitamente sancisce. Lungo questa prospettiva, e relegando nei confini delle eccezioni stabilite dalla legge «i casi in cui le prove sono ammesse d'ufficio», l'art. 190 non esita ad affermare con chiarezza il principio – di impronta tipicamente accusatoria – per cui «le prove sono ammesse a richiesta di parte», e su tale base impone al giudice di provvedere «senza ritardo con ordinanza» alla delibazione di ammissibilità che gli è demandata. Emerge così il duplice livello sul quale si articola il diritto alla prova riconosciuto alle parti. In primo luogo come diritto di richiedere l'ammissione di determinate prove. In secondo luogo, una volta adempiuto a tale onere, come diritto ad ottenere la prova ri- chiesta, entro i limiti in cui la medesima possa venire ammessa, o, comunque, ad ottenere una tempestiva pronuncia – distinta dalla sentenza finale sulla richiesta ritualmente formulata. Non si può non ricordare almeno l'esplicita attribuzione all'imputato del diritto ad ottenere l'ammissione prove delle a discarico «sui fatti costituenti oggetto delle prove a carico ed al pubblico ministero del corrispondente diritto in ordine alle prove a carico «sui fatti costituenti oggetto delle prove a discarico» (art. .115 comma 2°). In queste ipotesi, anzi, legislatore ha voluto evidentemente attribuire un particolare risalto al c.d. diritto di «controprova» – in quanto tipica espressione della dialettica del contraddittorio – al punto da configurare uno specifico motivo di ricorso per cassazione proprio con riferimento alla «mancata assunzione di una prova decisiva», allocche la stessa sia stata richiesta dalla parte, anche nel corso dell'istruzione dibat- timentale, a norma dell'art. 495 comma 2° (art., 606 comma 1° lett. d). Sul piano delle valutazioni di diritto, il 75 esprime nel divieto di valutazione sancito dall'art. 526 comma 1-bis, con l'escludere che tale prova possa essere ottenuta sulla base di «dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore». Dove evidentemente si è operata una trasposizione nel tessuto codicistico della regola enunciata nella seconda parte dell'art. 111 comma 4° Cost.. 8. La testimonianza. Mentre i mezzi di prova (testimonianze, esami delle parti canfronti, ricognizioni, esperimenti giudiziali, perizie documenti) si caratterizzano per la loro attitudine ad offrire al giudice dei risultati direttamente utilizzabili ai fini della decisione, lo stesso non può dirsi invece per i mezzi di ricerca della prova (ispezioni, perquisizioni, sequestri, intercettazioni telefoniche), che non integrano di per sé una fonte del convincimento giudiziale, ma risultano funzionalmente diretti a permettere l'acquisizione di cose, tracce, notizie o dichiarazioni idonee ad assumere rilevanza probatoria. I mezzi di ricerca della prova si caratterizzano specialmente in quanto diretti a propiziare l'acquisizione al processo (per lo più attraverso atti fondati sulla sorpresa) di elementi probatori in vario modo precostituiti rispetto al medesimo, laddove i mezzi di prova si qualificano, al contrario, per la loro funzionalità ad assicurare la formazione della prova in sede processuale. Quanto alla tematica della testimonianza (artt. 194-207), il cui oggetto ed i cui limiti risultano definiti con sufficiente chiarezza dall'art. 194. merita anzitutto d'essere posta in luce la articolata normativa dettata per il fenomeno della c.d. testimonianza indiretta (art. 195). Più precisamente, da un lato, viene sancita, in termini generali, la inutilizzabilità della deposizione di chi non possa o non voglia indicare la persona o la fonte da cui abbia appreso la notizia al centro dell'esame testimoniale (art. 195 comma 7°). E di qui deriva il tradizionale corollario rappresentato – come si vedrà tra breve – dal divieto di acquisizione e di impiego delle notizie provenienti dagli informatori confidenziali, dei quali gli organi di polizia e dei servizi di sicurezza non abbiano rivelato i nomi, essendo espressamente facoltizzati a tacerli anche di fronte al giudice (art. 203). D'altro lato, viene previsto che, allorquando il testimone riferisce fatti o circostanze, la cui conoscenza dichiari di aver appreso da persone diverse, queste ultime non solo possano essere chiamate a deporre d'ufficio dal giudice, ma debbano comunque esserlo su richiesta di parte, a pena di inutilizzabilità delle dichiarazioni de relato (art. 195 commi 1° e 3°) laddove tale richiesta venga disattesa (salvo che l'esame del testimone direttamente a conoscenza dei fatti risulti impossibile a causa di morte, di infermità o di irreperibilità). In questo quadro, con riferimento ad una esplicita direttiva della legge delega (art. 2 n. 31), il 4" comma dell'art. 195 aveva stabilito il divieto – nei confronti di ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria – di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni (rectius, da persone che successivamente potessero assumere la veste di testimoni), configurando così una deroga piuttosto rigida rispetto alla ordinaria disciplina della testimonianza indiretta. Sebbene questa disposizione derogatoria fosse stata dichiarata costituzionalmente illegittima (e, con essa, la corrispondente direttiva della de-lega), in quanto discutibilmente ritenuta «sfornita di ragionevole giustificazione», essa è stata tuttavia di recente riproposta nello stesso 4° comma, sia pure in versione più circoscritta, nell'ambito della legislazione attuativa dei princìpi di garanzia del contraddittorio affermati nel testo novellato dell'art. 111 Cost.. Più precisamente, è stato ripristinato in capo ad ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria il divieto di deporre sul contenuto di dichiarazioni rese da testimoni, ma limitatamente alle dichiarazioni acquisite «con le modalità di cui agli artt. 351 e 357 comma 2 lett. a e b. Questo divieto non opera, invece, negli «altri casi» (rispetto a quelli specificamente indicati nel 4° comma del l'art. 195). Alla esigenza di assicurare sempre, in linea di principio, la operatività di un controllo sulla fonte delle deposizioni «di seconda mano» — oltreché iii rallorzare la tutela processuale di determinati segreti – ubbidisce anche In regola di esclusione della testimonianza dei soggetti che facciano rilevimento a fatti conosciuti da persone titolari di un segreto prolessionale (art. 200), ovvero di un segreto d'ufficio (art. 201), senza dubbio comprensivo anche del segreto di Stato, sempreché le medesime persone non abbiano deposto sugli stessi fatti, o non abbiano altrimenti divulgate. Dopo avere delineato in termini organici i capisaldi della capacità di testimoniare (art. 196), il codice si sofferma a descrivere la disciplina delle incompatibilità con il relativo ufficio (art. 197), ed in 76 particolare le ipotesi di incompatibilità a testimoniare dell'imputato. In particolare, per quanto concerne l'area essa risulta oggi circoscritta in termini assoluti (con notevole restrizione rispetto alle corrispondenti previsioni del previgente art. 197) alla situazione di chi sia coimputato del medesimo reato o imputato in un procedimento connesso a norma dell'art. 12 comma 1° lett. a, sempreché nei suoi confronti già non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, ovvero sentenza irrevocabile di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444. A questa ipotesi di incompatibilità assoluta a testimoniare dell'imputato, prevista dalla lett. a dell'odierno art. 197, si affianca nella successiva lett. b un'ulteriore ipotesi di incompatibilità ad essa speculare, con riferimento alla situazione di chi sia imputato in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 comma 1° lett. c, ovvero di un reato collegato a norma dell'art. 371 comma 2° lett. b (sul punto non rilevano, quindi, le pur significative modifiche rispettivamente apportate circa l'ambito di operatività delle suddette disposizioni), naturalmente sempreché nei suoi confronti non sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di proscioglimento, di condanna o di applicazione della pena ai sensi dell'art. 444. Senonché tale ulteriore ipotesi di incompatibilità risulta temperata dalla clausola di esordio della stessa lett. b dell'art. 197, che fa «salvo quanto previsto dall'art. 64 comma 3 lett. C». Se ne desume, in sostanza, che quest'ultima causa di incompatibilità non opera allorché si realizzino le circostanze descritte nel medesimo art. 64 comma 3° lett. c, dopo che all'imputato dichiarante sia stato dato il relativo avvertimento. Tutto ciò trova conferma nel nuovo art. 197-bis, destinato per l'appunto a disciplinare la posizione delle persone che rivestendo (o avendo rivestito) la qualifica di imputato «in un procedimento connesso o collegato», nondimeno possono ricoprire l'ufficio di testimone (ferme, ovviamente, le già ricordate incompatibilità sancite dall'art. 197). Tali sono, in primo luogo, alla stregua dell'art. 197-bis comma 1°, tutti gli imputati che si siano trovati nelle situazioni descritte dall'art. 197 lett. a e b. Tali sono, in secondo luogo, come risulta dall'art. 197-bis comma 2° in rapporto all'art. 197 lett. b, tutti gli imputati in un procedimento connesso ai sensi dell'art. 12 comma 1 lett. c o di un reato collegato a norma dell'art. 371 comma 2° lett. b, i quali in sede di interrogatorio abbiano reso dichiarazioni concernenti l'altrui responsabilità, essendo stati ritualmente preavvertiti ex art. 64 comma 3° lett. c. Un testimone che è tale a tutti gli effetti. Ma anche, nel contempo, un testimone che gode di un regime particolare dal punto di vista delle garanzie, evidentemente in ragione del rischio che – tenuto conto del suo peculiare status processuale – dall'adempimento del dovere di deporre possa derivargli qualche pregiudizio sul terreno dell'accertamento delle proprie eventuali responsabilità. Anzitutto si stabilisce, attraverso una previsione inedita rispetto alli ordinaria figura testimoniale, che nelle ipotesi in questione il testimone venga assistito da un difensore (di qui la formula, ormai diffusa nella prassi, di «testimone assistito»), con l'ulteriore precisazione relativa alla nomina di un difensore d'ufficio nel caso di mancanza di un difensore di fiducia. E, sebbene a questo difensore non venga attribuito un «diritto di partecipare all'esame» del tipo di quello spettante, invece, al difensore dei soggetti (imputati in un procedimento connesso che «non possono assumere l'ufficio di testimone») ai quali si riferisce l'art. 210 comma 4°, non sembra tuttavia dubbio che al medesimo difensore debba riconoscersi sia il diritto di presenziare all'esame dei testimoni di cui tratta l'art. 197-bis (nonché all'audizione dei medesimi soggetti prevista dagli artt. 351 comma 10 e 362, stante il rinvio ivi operato al suddetto art. 197-bis) sia, in quella sede, il diritto di formulare richieste, osservazioni e riserve, ovviamente a tutela della posizione del testimone assistito e delle corrispondenti prerogative sul versante dei limiti al dovere testimoniale. L'art. 197 bis comma 4° individua due altre specifiche ipotesi con riferimento alle quali il medesimo testimone «non può essere obbligato a deporre», e quindi può legittimanueule rifiutarsi di rispondere alla relative domande. In primo luogo, quando si versi in una delle situazioni previste dal 1° comma del predetto art. 197-bis, si stabilisce che il testimone è esonerato dall'obbligo di deporre sui fatti per i quali in giudizio sia stata pronunciata a suo carico senbilia irrevocabile di condanna (non anche, dunque, sentenza di applicazione della pena ex art. 444, attesa la esplicita distinzione tra le due sen Irnze rimareata nello stesso 1° comma), allorché nel procedimento egli «aveva negato la propria responsabilità» (da intendersi in senso stretto, con riguardo al fatto storico), ovvero «non aveva reso alcuna dichiarazione». Inoltre, quando si versi in una delle situazioni previste dal successivo 2° comma dell'art. 197-bis, si stabilisce che il testimone è del pari esonerato 77 dall'obbligo di deporre su fatti concernenti «la propria responsabilità in ordine al reato per cui si procede o si è proceduto nei suoi confronti», così integrandosi e specificandosi il già ricordato principio per cui nessun testimone può essere obbligato a deporre su fatti «dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale» (art. 198 comma 2°). Il 5° comma dell'art. 197-bis si preoccupa di predisporre anche un diverso tipo di garanzia, destinata ad operare ex post. Più precisamente si prescrive che tali dichiarazioni non possano essere utilizzate «contro» la persona da cui provengano non solo nel procedimento a suo carico, ove ancora in corso (e potrebbe anche trattarsi dello stesso procedimento in cui tale persona avesse assunto veste testimoniale ex art. 197-bis comma 2°), ma nemmeno nell'eventuale procedimento di revisione della sentenza di condanna pronunciata nei suoi confronti, ne in qualsiasi altro giudizio civile o amministrativo relativo al fatto oggetto di tali procedimenti o di tale sentenza. Meno comprensibile risulta, invece, da un certo punto di vista, la previsione contenuta nell'ultimo comma dell'art. 197-bis, là dove alle dichiarazioni provenienti dai testimoni indicati nel medesimo articolo viene estesa la regola dettata nell'art. 192 comma 3°, nel senso di esigere che anche le suddette dichiarazioni, per assumere pieno valore probatorio, debbano venire corroborate da «altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità» (retro, § 7). Per quanto riguarda i doveri processuali cui è tenuto in via generale, salvo diversa disposizione di legge, il soggetto che assume la veste di testimone, l'art. 198 – dopo aver definito i tradizionali obblighi propri dell'ufficio testimoniale (obbligo di presentarsi al giudice, di attenersi alle prescrizioni e di rispondere veridicamente) – vi ricollega esplicitamente la classica garanzia contro il rischio della self- incrimination, stabilendo che il medesimo teste «non può essere obbligato a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale». A parte la disciplina della testimonianza dei prossimi congiunti dell'imputato, imperniata sull'ordinario riconoscimento della facoltà di astensione e sul diritto al relativo avviso, a pena di nullità (art. 199) – salvo che abbiano presentato denuncia, querela o istanza, ovvero essi, od un loro prossimo congiunto, siano offesi dal reato – le deroghe all'obbligo della deposizione sono dunque riconducibili alla sfera dei segreti cui la stessa legge delega (art. 2 n. 70) ha imposto di attribuire rilevanza in sede di acquisizione probatoria. Per quanto riguarda l'ambito del segreto professio- nale (art. 200), prescindendo dai ritocchi apportati alla definizione delle categorie già in precedenza legittimate all'opposizione di quel segreto, va soprattutto segnalato l'allargamento operato attraverso il riferimento anche agli esercenti altri uffici o professioni, cui la legge «riconosce la facoltà di astenersi dal deporre determinata dal segreto professionale». Fermo restando il potere del giudice di ordinare che, in ipotesi del genere, il testimone deponga, tutte le volte in cui si sia convinto, dopo i necessari accertamenti, della infondatezza della dichiarazione di segretezza opposta dal medesimo per esimersi dal deporre, un regime particolare è previsto nei confronti dei giornalisti professionisti iscritti all'albo (esclusi, dunque, i pubblicisti), relativamente ai nomi delle persone che abbiano loro fornito notizie in via fiduciaria. Entro questi limiti anche ad essi viene estesa la normativa dettata per il segreto professionale, ma al giudice è sempre riservato il potere di obbligarli a rivelare l'identità di tali persone, quando le suddette notizie siano indispensabili per la prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo attraverso l'identificazione della fonte fiduciaria (art. 200 comma 3°). La stessa disciplina prevista per la facoltà d'astensione dei titolari di un segreto professionale (ivi compresa la importante precisazione «salvi i casi in cui hanno l'obbligo di riferirne all'autorità giudiziaria») risulta estesa anche ai pubblici ufficiali, ai pubblici impiegati ed agli incaricali di un pubblico servizio in rapporto alla tematica del segreto d'ufficio, sia pure con la variante che ad essi compete non tanto la facoltà, quanto «l'obbligo di astenersi dal deporre» sui fatti «che devono rimanere segreti» (art. 201). Un aspetto peculiare della disciplina del segreto d'ufficio è rappre- sentato, infine, dalla prerogativa riconosciuta agli ufficiali ed agli agenti di polizia giudiziaria – ai quali vengono accomunati, per la prima volta, gli appartenenti ai servizi di sicurezza – di non rivelare i nomi dei propri informatori confidenziali, senza alcuna possibilità per il giudice di obbligarli a lornire le relative indicazioni, fermo in tal caso il già ricordato divieto di acquisizione e di utilizzo processuale delle informazioni provenienti dai medesimi (art. 203 comma 1°). Quanto alle ipotesi di opposizione del segreto di Stato, da parte degli stessi soggetti legittimati ad opporre il segreto d'ufficio, l'art. 202 non fa che ricalcare le linee della corrispondente direttiva della legge delega (art. 2 n. 70), del 80 esaminati a norma dell'art. 210, venga comunque dato l'avvertimento previsto dall'art. 64 comma 3° lett. c, nel qual caso, ove non si avvalgano della facoltà di non rispondere, gli stessi assumeranno l'ufficio di testimone. 10. Confronti, ricognizioni ed esperimenti giudiziali. Riguardo alle figure dei confronti sono disiplinate agli artt. 211-212, le ricognizioni artt. 213-217 e gli esperimenti giudiziali artt. 218-219. I confronti aono ammessi «esclusivamente» fra persone «già esaminate o interrogate», nel caso di dichiarazioni in contrasto «su lutti e circostanze importanti» (art. 211), si tratta di un mezzo che dovrebbe trovare largo impiego anche, se non soprattutto, nel corso delle indagini preliminari (non a caso il relativo potere viene testualmente riconosciuto al pubblico ministero ex art. 364 comma 1°). Circa le modalità dell'atto, ne risulta evidenziata la funzione propulsiva attribuita al giudice nel richiamare le precedenti dichiarazioni – sulle quali i soggetti ammessi al confronto siano risultati in disaccordo – non-che nell'invitarli alle «reciproche contestazioni». Anche la disciplina delle ricognizioni ricalca, nelle sue grandi linee, i modelli tradizionali di questo mezzo probatorio, caratterizzandosi in ispecie sia che esse abbiano ad oggetto le persone (art. 213), sia che abbiano ad oggetto le cose (art. 215) – per la accuratezza e l'analiticità della descrizione degli adempimenti preliminari e, quindi, dei modi di svolgimento dell'atto (art. 214), evidentemente a causa di una certa diffidenza legislativa verso l'attendibilità dei risultati di questo delicato mezzo di prova. Addirittura si prevede che sia causa di nullità anche soltanto la mancata menzione, in sede di verbale, dell'osservanza delle forme prescritte per scandire la relativa procedura dai suoi preliminari alla vera e propria attività ricognitiva (artt. 213 comma 3°, 214 comma 3° e 215 comma 3°). Merita di essere ricordata, ancora, l'apertura contenuta nell'art. 216 a proposito della ricognizione di voci, di suoni o «di quanto altro può essere oggetto di percezione sensoriale». Il codice delinea qui una figura probatoria riconduci-bile all'ambito delle prove «non (del tutto) disciplinate dalla legge», per la quale dovranno quindi valere, anche in rapporto alle modalità di assunzione, i princìpi dettati nell'art. 189. Sia nel caso dei confronti, sia nel caso delle ricognizioni, è innegabile che la persona chiamata a compiere l'atto viene a trovarsi nella condizione di dover rilasciare dichiarazioni che – a seconda della sua posizione processuale – sono assimilabili per il loro contenuto informativo a quelle rese dall'imputato in sede di interrogatorio ovvero di esame ex art. 503. Quanto agli esperimenti giudiziali, mezzo di prova tipicamente finalizzato ad accertare se un fatto «sia o possa essere avvenuto in un determinato modo», attraverso la riproduzione della situazione e la ripetizione delle modalità relative al suo presumibile svolgimento (art. 218), la preoccupazione del legislatore si è appuntata soprattutto sull'esigenza di una maggiore specificazione in ordine alle forme da osservarsi per fare luogo alla relativa procedura, come risulta dal disposto dell'art. 219. Il giudice ha l’obbligo di provvedere affininché l'esperimento possa regolarmente svolgersi senza offendere «sentimenti di coscienza», e senza esporre a pericolo «l'incolumità delle persone o la sicurezza pubblica». 11. La perizia. La disciplina della perizia è data agli artt. 220-233. Circa l'oggetto della perizia, esso risulta delineato in via generale dall'art. 220 comma 1° attraverso la definizione del presupposto di ammissibilità della prova peritale (che si configura, nel contempo, come presupposto del dovere del giudice di disporre la perizia), facendo cioè riferimento alle situazioni in cui «occorre svolgere indagini», ovvero «acquisire dati o valutazioni», i quali richiedano «specifiche competenze tecniche, scientifiche o artistiche». Un'ipotesi particolare di perizia, di recente introdotta nel sistema, è quella prevista dall'art. 16 1. 15 febbraio 1996, n. 66, stando alla quale l'imputato per uno dei gravi delitti ivi indicati (contro la personalità dei minori o contro la libertà sessuale) dev'essere sottoposto «con le forme della perizia» ad accertamenti per l'individuazione di «patologie sessualmente trasmissibili», tutte le volte in cui le modalità del fatto possano prospettare «un rischio di trasmissione delle patologie medesime». Tornando alle linee di fondo dell'istituto, quando il giudice accerti la sussistenza di una delle necessità indicate nell'art. 220 comma 1° egli sarà obbligato ad ammettere - e, quindi, a disporre – la perizia anche d'ufficio, come si dà cura di precisare l'art. 224 comma 1°, prevedendo altresì il 81 contenuto della relativa ordinanza, che accanto alla nomina del perito dovrà, tra l'altro, recare la «sommaria enunciazione dell'oggetto delle indagini». A quest'ultimo proposito, restano confermate le tradizionali esclu- sioni dell'ammissibilità della perizia in rapporto a determinati oggetti. Salvo quanto disposto in sede di esecuzione della pena o della misura di sicurezza (artt. 678 comma 2° e 679 comma 1°), infatti, sono vietate le perizie concernenti il carattere e la personalità dell'imputato, le forme qualificate di pericolosità sociale e, in genere, le sue qualità psichiche indipendenti da cause patologiche (art. 220 comma 2°). Mentre in rapporto alla tematica della incapacità, incompatibilità ed astensione del perito (artt. 222 e 223) non emergono profili di particolare interesse, il criterio principale per la nomina del perito quello della sua iscrizione negli «appositi albi» professionali. Il codice impone giudice di disporre una perizia collegiale, quando «le indagini e le valutazioni risultano di notevole complessità», ovvero quando le medesime «richiedono distinte conoscenze in differenti discipline» (art. 221). Circa le ulteriori sequenze procedurali, l'art. 224 comma 2° attribuisce anzitutto al giudice — a parte i necessari adempimenti relativi alla citazione del perito ed alla comparizione delle persone sottoposte all'esame peritale — il potere di adottare ogni altro provvedimento necessario per l'esecuzione delle relative operazioni, essendo peraltro da escludere da tale ambito le misure incidenti sulla libertà personale dell'imputato o di terze persone, salve quelle specificamente previste nei «casi» e nei «modi» dalla legge. Una breccia per il superamento in concreto di tale divieto (breccia significativa, ma tanto più singolare nella perdurante assenza di una specifica disciplina in materia peritale) risulta dalla attribuzione agli organi di polizia giudiziaria del potere di procedere anche coattivamente al «prelie- vo di capelli o di saliva», nelle forme e con le garanzie previste dall'art. 349 comma 2-bis ai fini della identificazione dell'indagato. Ovvero, più in generale, sebbene attraverso una formula piuttosto ambigua nella sua ampiezza, del potere di procedere, allo stesso modo, al «prelievo di materiale biologico», ai fini degli accertamenti urgenti previsti dall'art. 354 comma 3°. Si prevede che il perito possa essere autorizzato dal giudice ad assistere all'esame delle parti ed all'assunzione di altre prove, mentre.potrà prendere visione degli atti e delle cose prodotti dalle parti soltanto nei limiti in cui imedesimi siano acquisibili al fascicolo dibattimentale (art. 228 commi 1° e 2°). E’ consentito, poi, che ai fini dello svolgimento dell'incarico il perito raccolga «notizie» dall'imputato, dall'offeso od anche da «altre persone», ma con la precisazione – evidentemente volta ad evitare il rischio di aggiramenti delle ordinarie regole relative alla rilevanza probatoria degli atti corrispondenti – che gli elementi così acquisiti potranno essere utilizzati «solo ai fini del l'accertamento peritale» (art. 228 comma 3°). Quanto alla relazione finale della perizia bi è l’espressa previsione che il perito risponda immediatamente ai quesiti propostigli, e comunque in forma orale, mediante «parere raccolto nel verbale» (art. 227 commi 1 ° e 2°), salvo peraltro al giudice il potere di autorizzare anche la presentazione di una relazione scritta, ove la stessa risulti indispensabile ad illustrare il suddetto parere. Naturalmente qualora il perito non sia in grado di fornire una risposta immediata, e sempreché il giudice non ritenga di sostituirlo (come è consentito, a norma dell'art. 231, anche in ogni altra ipotesi di inerzia o di negligenza nell'espletamento dei suoi compiti),_ si prevede la concessione di un termine non superiore a novanta giorni - ma prorogabile fino ad un massimo di sei mesi. Si può dar luogo ad incidente probatorio quando la medesima perizia se fosse disposta nel dibattimento, ne potrebbe determinare «una sospensione superiore a sessanta giorni». I consulenti tecnici possono essere nominati, in numero non superiore a quello dei periti, sia dal pubblico ministero (art. 73 disp. att.), sia dalle parti private, se del caso ricorrendo al patrocinio statale per i non abbienti (art. 225) lungo l'intero arco di svolgimento della perizia, fin dal momento della formulazione dei quesiti (art. 226 comma 2°). Un significativo riscontro di questa disciplina sarà fornito, poi, dalla prevista possibilità di sottoposizione ad esame, in sede dibattimentale, tanto dei periti, quanto dei consulenti tecnici, secondo le disposizioni dettate per l'esame dei testimoni (art. 501). In particolare, relativamente alle modalità di intervento dei consulenti tecnici, essi sono autorizzati ad assisere al conferimento dell'incarico e, quindi, a partecipare a tutte le operazioni peritali (di cui le parti devono essere informate ex art. 229, anche nel caso di «continuazione»): non solo formulando osservazioni e riserve, ma anche proponendo al perito lo svolgimento di specifiche indagini, con la previsione che delle une e delle altre debba darsi atto in sede di relazione (art. 230 82 commi 1° e 2°). Essi possano sempre prendere visione delle relazioni, ed essere autorizzati dal giudice ad esaminare le persone, le cose o i luoghi oggetto della perizia, purché non ne derivi ritardo al-l'esecuzione della perizia od al compimento di altre attività processuali (art. 230 commi 3° e 4°). Del tutto inedita è, infine, la normativa contenuta nell'art. 233, a proposito della possibilità di nomina e di intervento dei consulenti tecnici delle parti anche nelle ipotesi in cui non sia stata disposta perizia (potrà trattarsi, se del caso, degli stessi consulenti tecnici già nominati nel corso delle indagini preliminari, in occasione degli accertamenti previsti dagli artt. 359 e 360), con la conseguente attribuzione a tali consulenti del potere di esporre al giudice il proprio parere su singole questioni, eventualmente attraverso la presentazione di memorie ai sensi dell'art. 121. Dopo di che, qualora successivamente alla nomina del consulente tecnico il giudice si decidesse a disporre perizia, al medesimo consulente sarebbero riconosciuti i diritti e le facoltà ordinariamente previsti ex artt. 226 comma 2° e 230 (art. 233 comma 2°). Qualora, invece, la perizia non venisse disposta, si deve ritenere che il consulente tecnico possa di sua iniziativa svolgere le indagini e gli accertamenti consentitigli dalla oggettiva disponibilità (ad opera della parte che lo abbia nominato) delle persone, delle cose o dei luoghi assunti come oggetto della consulenza. Il consulente tecnico nominato ex art. 233 (al quale possono essere attribuiti i poteri previsti dal comma 1-bis dello stesso articolo) pùò essere sottoposto ad esame, nel corso del dibattimento, ai sensi dell'art. 501, proprio allo scopo di consentire l'acquisizione probatoria degli esiti delle sue indagini e delle sue valutazioni. 12. La prova documentale. La è prova documentale disciplinata dagli artt. 234-243. Si tiene distinta l'area dei «documenti» in senso stretto (formati fuori dall'ambito processuale, nel quale devono essere introdotti affinché possano acquistare rilevanza probatoria) da quella degli «atti» (formati all'interno del procedimento, e rappresentativi di quanto vi sia accaduto, come sono tipicamente i verbali), e soltanto ai primi si è riferita la nuova disciplina, sulla base della definizione accolta nell'art. 234 comma 1°: dove, accanto ai tradizionali «scritti», e con innegabile intento estensivo, viene consentita la acquisizione come documento di ogni altra cosa idonea a rappresentare «fatti, persone o cose» attraverso «la fotografia, la cinematografia, la fotografia e qualsiasi altro mezzo». Viene inveee ammessa la acquisizione dei documenti necessari al giudizio sulla personalita dell'imputato e, se del caso, della persona offesa dal reato, ricompren(len dovi anche quelli esistenti presso gli uffici pubblici di servizio sociale e presso gli uffici di sorveglianza (art. 236 comma 1°). Per i certificati del casellario giudiziale e per le sentenze divenute irrevocabili - nonché per le sentenze straniere riconosciute - si prevede, inoltre, che possano venire acquisiti, con evidente riferimento alla tematica dell'esame diretto, anche al fine di valutare la credibilità dei testimoni (art. 236 comma 2°). I documenti costituenti corpo del reato «devono essere acquisiti qualunque sia la persona che li abbia formati o li detenga» (art. 235), anche d'ufficio. Una normativa particolare è inoltre dettata, secondo tradizione, per i documenti provenienti dall'imputato, nel senso che di essi è sempre consentita l'acquisizione «anche di ufficio», sebbene si tratti di documenti sequestrati presso altri o da altri prodotti (art. 237). Riguardo alla verifica della provenienza è previsto che il documento venga sottoposto per il riconoscimento alle parti private ed ai testimoni (art. 239) mentre relativamente ai documenti anonimi rectius, contenenti «dichiarazioni anonime» - viene confermata la classica regola di esclusione, prescrivendosi che essi «non possono essere acquisiti, né in alcun modo utilizzati», a meno che «costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall'imputato» (art. 240). Quanto alla ipotesi di falsità dei documenti, a parte l'eventualità in cui la stessa venga accertata e dichiarata con la sentenza di condanna o di proscioglimento (art. 537), stabilisce l'art. 241 che il giudice - ove ritenga falso uno dei documenti acquisiti - dopo la definizione del procedimento, debba informarne il pubblico ministero, trasmettendogliene copia in vista degli adempimenti di sua competenza. È palese come, per questa via, si sia in sostanza riconosciuto al giudice penale il potere di accertare incidenter tantum l'eventuale falsità dei documenti. Adottandosi una impostazione coerente con gli ordinari limiti posti all'impiego probatorio delle risultanze degli atti compiuti nelle fasi preliminari al dibattimento, l'acquisizione dei verbali di prove di altri procedimenti penali è ammessa senza ulteriori condizioni, secondo i normali criteri di 85 circa la fisionomia ed i limiti delle ispezioni e delle perquisizioni presso gli uffici dei difensori, non a caso collocata nell'apposito titolo dedicato ai medesimi, sotto la si- gnificativa rubrica «garanzie di libertà del difensore» (art. 103). Definiti rigorosamente i presupposti in presenza dei quali soltanto può farsi luogo a simili atti, quando debbano eseguirsi negli studi professionali dei difensori – da parte del giudice in persona, ovvero, nel corso delle indagini preliminari, da parte del pubblico ministero, sulla scorta di un motivato decreto autorizzativo del giudice competente per tale fase – la relativa procedura si caratterizza, ancora, per la prevista necessità che ne venga avvisato il locale consiglio dell'ordine forense, affinché il presidente od un consigliere suo delegato possa assistere alle operazioni. A ciò si aggiunga, per connessione di argomento, che identiche modalità procedurali sono stabilite dal predetto art. 103 anche in materia di sequestro, peraltro con la classica precisazione che presso i difensori ed i consulenti tecnici non si può procedere a sequestro di «carte o documenti relativi all'oggetto della difesa, salvo che costituiscano corpo del reato». In applicazione della medesima esigenza di tutela della riservatezza dei rapporti funzionali all'esercizio della difesa (diretta espressione, d'altronde, del principio sancito nell'art. 24 comma 2° Cost.) sono vietati, inoltre, il sequestro ed ogni altra forma di controllo della corrispondenza tra l'impatato ed il proprio difensore, in quanto riconoscibile dalle apposite indica/ioni, sempreché l'autorità giudiziaria non abbia «fondato motivo di rienere che si tratti di corpo del reato»; e,_alla stessa stregua, sono vietate le intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni dei difensori, dei consulenti tecnici e dei loro ausiliari (ovviamente in quanto riguardanti I'oggetto della difesa), nonché quelle tra i medesimi ed i loro assistiti. Nell'ultimo comma dell'art. 103, si precede che risultati delle ispezioni, delle perquisizioni, dei sequestri e delle intercettazioni eseguiti in violazione delle precedenti disposizioni del medesimo art. 103 (salvo che per l'avviso al consiglio dell'ordine forense, previsto a pena di nullità) non possano venire utilizzati, con l'unica eccezione rappresentata dall'ipotesi in cui essi costiluiscano corpo del reato. Devono ricordarsi, infine, alcune particolari figure di perquisizione consentite agli organi di polizia giudiziaria da leggi speciali allorché, nel corso di operazioni dirette alla prevenzione o alla repressione di determinati delitti, si verifichino situazioni di necessità ed urgenza tali da non permettere un tempestivo intervento dell'autorità giudiziario. Così, ad esempio, quando tali operazioni riguardino il traffico illecito di stupefacenti gli ufficiali ed agenti di polizia giudiziaria possono procedere di re-gola a perquisizioni (oltreché, prima ancora, al controllo ed all'ispezione in ogni luogo di mezzi di trasporto, bagagli ed effetti personali), ove abbiano fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti (art. 103 commi 2" e 3° d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309). Analogo potere e attribuito, poi, ai medesimi organi, nell'ambito di operazioni relative ai delitti previsti dagli artt. 416-bis, 648-bis e 648- ter c.p., nonché agli altri delitti indicati in questi ultimi articoli, ove abbiano fondato motivo di ritenere che possano essere rinvenuti denaro o valori costituenti il prezzo o il profitto di tali delitti, o comunque da essi provenienti, ovvero armi ed esplosivi (art. 27 1. 19 marzo 1990, n. 55). Resta fermo, inoltre il potere attribuito in via generale agli organi di polizia, sempre in situazioni di necessità ed urgenza, di procedere ad «immediata perquisizione sul posto» di persone dimezzi di trasporto «al solo fine di accertare l'eventuale possesso di armi, strumenti di effrazione ed esplosivi» (art. 4 1. 22 maggio 1975, n. 152), mentre è stato ripristinato in capo ai soli ufficiali di polizia giudiziaria il potere, già loro attribuito all'epoca della legislazione antiterroristica, di procedere a perquisizioni locali anche di «interi edifici o blocchi di edifici». Possano venire disposte quando vi sia fondato motivo di ritenere che in tali edifici si trovino armi, munizioni ed esplosivi, ovvero che vi si sia rifugiato un latitante od un evaso in relazione a taluno dei delitti di criminalità organizzata indicati nell'art. 51 comma 3-bis, ovvero ai delitti aventi finalità di terrorismo (infra, cap. IV, § 14). Si tenga presente che in tutte le suddette ipotesi di perquisizioni di polizia si prevede – coerentemente con la regola dettata nell'art. 352 confina 4° (infra, cap. V, § 15) – che delle operazioni compiute venga data tempestiva notizia al procuratore della Repubblica in vista della eventuale convalida delle stesse, che dovrà sopravvenire entro le successive quarantotto ore, affinché i risultati così acquisiti possano venire utilizzati nel procedimento. 86 14. Il sequestro. Nel tracciare la disciplina del sequestro penale il legistatore si è anzitutto preoccupato di distinguere questo particolare mezzo di acquisizione della prova (artt. 253-265) dalle diverse figure di sequestro che, pur concretandosi anch'esse nell'imposizione di un vincolo di indisponibilità sulla cosa, ubbidiscono invece ad una esigenza di natura eminentemente cautelare: ora, come si vedrà, con finalità «conservativa» (artt. 316-320), ora con finalità «preventiva» (artt. 321-323). a non equivoca caratterizzazione in chiave probatoria dell'istituto emerge già, del resto, dalla stessa definizione del suo oggetto, che l'art. 253 comma l° individua facendo riferimento al «corpo del reato» ed alle «cose pertinenti al reato», le quali – si aggiunge con evidente accentuazione della dimensione finalistica – risultino «necessarie per l'accertamento dei fatti». Circa la nozione di corpo del reato, essa viene opportunamente precisata dal 2° comma dello stesso art. 253 (anche a beneficio delle numerose disposizioni che vi si richiamano), ricomprendendovi non solo le cose «sulle quali o mediante le quali il reato è stato commesso», ma anche quelle che «ne costituiscono il prodotto, il profitto o il prezzo». Da tutto ciò parrebbe doversi desumere che, nell'ipotesi di perquisizione eseguita contra legem, dalla illegittimità della attività perquisitiva dovrebbe scaturire in via derivata la illegittimità del sequestro ad essa con-seguente e, quindi, la inutilizzabilità come prova dei suoi risultati (secondo la nota teoria dei «frutti dell'albero avvelenato», codificata nei limiti previsti dall'art. 191). Tuttavia, dopo una lunga serie di contrasti giurisprudenziali, le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ritenuto che la sanzione dell'inutilizzabilità non operi quando si tratti di sequestro ex art. 253 del «corpo del reato» o delle «cose pertinenti al reato», sulla base del rilievo che in tali ipotesi — essendo il sequestro comunque un «atto dovuto» — debba reputarsi irrilevante il modo con cui allo stesso si sia pervenuti, e debba invece prevalere l'obbligo dell'autorità procedente di disporre il sequestro. Dopo avere rapidamente delineato i profili procedurali del sequestro, prescrivendo la necessità del decreto motivato (da consegnarsi in copia all'interessato, se presente) ad opera dell'autorità giudiziaria procedente, e stabilendo altresì che la medesima possa procedere all'atto sia di persona, sia a mezzo di un ufficiale di polizia delegato con il predetto decreto (art. 253) - ferma in ogni caso la redazione dell'apposito verbale (art. 81 disp. att.) — il codice passa quindi a disciplinare alcune fattispecie peculiari di sequestro, ovviamente prescindendo da quello presso i difensori, di cui poco sopra si è ricordata la specifica regolamentazione all'interno dell'art. 103. Rientrano in questa cornice le ipotesi del sequestro di corrispondenza, del sequestro presso banche, nonché le diverse figure di sequestro aventi ad oggetto atti o documenti rispetto ai quali venga eccepita la sussistenza di un segreto. Cominciando dal sequestro di corrispondenza, dal testo dell'art. 254 non risultano particolari innovazioni rispetto alla nostra tradizione legislativa, essendo stata confermata, da un canto, la sequestrabilità negli uffici postali di lettere, pieghi, pacchi e di ogni altro oggetto presumibilmente spedito dall'imputato, od a lui diretto (esclusa, come si è constatato ex art. 103, la corrispondenza «riconoscibile» tra imputato e difensore), o che comunque possa avere relazione con il reato; e, d'altro canto, qualora proceda al sequestro un ufficiale di polizia giudiziaria, l'obbligo per il medesimo di consegnare gli oggetti sequestrati al magistrato senza aprirli e senza prendere in altro modo conoscenza del loro contenuto (in ottemperanza al disposto dell'art. 15 comma 2° Cost.). L'unica novità riguarda l'esplicita enunciazione della regola che impone la immediata restituzione all'avente diritto delle carte e dei documenti sequestrati, laddove si accerti ex post la loro estraneità all'ambito della corrispondenza suscettibile di sequestro. Anche in rapporto al sequestro presso istituti bancari non emergono dall'art. 255 peculiarità di grande rilievo, a parte la possibilità (che deve ritenersi sempre ammessa ex art. 253 comma 3°, non essendo stata esplicitamente esclusa) che l'esecuzione di tale atto venga delegata agli organi di polizia giudiziaria; presso le banche possano venire sequestrati documenti (ivi compresi, naturalmente, i c.d. documenti bancari), titoli, valori, somme ed ogni altra cosa, ancorché depositata o contenuta in cassette di sicurezza, quando si abbia fondato motivo di ritenere la loro pertinenza al reato, indipendentemente dal fatto che appartengano all'imputato o siano iscritti a suo nome: col elle risulta manifestamente ribadita la insussistenza di alcun «segreto ban- cario» di fronte al potere di sequestro dell'autorità giudiziaria in sede penale. Più delicata appare, invece, la tematica dei rapporti tra sequestro e segreti: essendo state in concreto ricalcate le linee della normativa già 87 dettata a proposito dei rapporti tra testimonianza e segreti, stilla base del generale «dovere di esibizione» imposto alle per persone indicarte negli artt. 200 e 201, allorchè venga loro richiesta dall'autorità giudiziaria la consegna di atti, documenti e di ogni altra cosa di cui abbiano la disponibilità «per ragioni del loro ufficio, incarico, ministero, professione o arte»; a meno che, siaggiunge, le medesime persone vi si oppongano, dichiarando per iscritto il vincolo derivante da un segreto professionale, o d'ufficio, ovvero da un segreto di Stato (art. 256 comma 1°). L’autorità quando dubiti dell’autenticità del segreto opposto potrà disporre i necessari accertamenti, a conclusione dei quali il sequestro dovrà essere ordinato, nel caso di accertata infondatezza dell'opposizione di quei segreti (art. 256 commi 1° e 2°). Il sequestro dovrà essere ordinato allorché le notizie fornite dalla fonte fiduciaria del giornalista risultino indispensabili ai fini della prova del reato, e la loro veridicità possa venire accertata solo attraverso la identificazione di tale fonte. E' da escludere che possano comunque venire sottoposti a sequestro gli atti ed i documenti contenenti i nomi degli informatori confidenziali, dei quali gli organi di polizia uhudi' ziorio o dei servizi di sicurezza dichiarino di non voler rivelare l'identità. Nell'ipotesi, poi, di opposizione del segreto di Stato, gli adempimenti prescritti all'autorità giudiziaria risultano esattamente gli stessi delineati dall'art. 202 a proposito della analoga eventualità in ordine alla prova testimoniale. A parte la prevista possibilità dell'impugnativa del decreto di sequestro mediante richiesta di riesame — per la quale viene richiamata la procedura descritta nell'art. 324. L'estinzione del vincolo imposto attraverso il sequestro e, quindi, la resititunione delle cose ad esso assoggettate dipendano, in linea di principio, dal venir meno delle esigenze probatorie che avevano determinato il provvedimento, a parte altri adempimenti specificamente previsti (artt. 84 e 85 disp. att.). In particolare, come si esprime il 1° comma dell'art. 262, quando «non è necessario mantenere il sequestro a fini di prova», le cose sequestrate devono essere restituite «a chi ne abbia il diritto, anche prima dealla sentenza». A questa regola si collega, in chiave derogatoria, la previsione relativa alle ipotesi di conversione del sequestro, da misura con finalità probatoria a misura con finalità cautelare: non si tratta, tuttavia, di una conversione di tipo automatico, giacché la vigente normativa è esplicita nel subordinare il passaggio tra l'una e l'altra forma di sequestro alla pronuncia di un apposito provvedimento, nel rispetto delle ordinarie procedure, limitandosi in sostanza ad operare una saldatura tra il momento estintivo del sequestro penale ed il momento di eventuale adozione della cautela reale (art. 262 commi 2° e 3°). Tornando al procedimento per la restituzione delle cose sottoposte a sequestro penale, prevede l'art. 263 che il relativo provvedimento possa venire pronunciato de plano allorché non vi siano dubbi sulla loro appartenenza (ma nel caso di sequestro presso una terza persona si dovrà sempre instaurare il contraddittorio, secondo le forme del rito camerale ex art. 127), mentre quando sorga controversia sulla proprietà delle stesse la sua risoluzione dovrà essere rimessa al competente giudice civile, fermo restando il vincolo del sequestro. Si prevede tuttavia che, nel corso delle indagini preliminari, sulla restituzione delle cose sequestrate debba provvedere il pubblico ministero con decreto motivato. Dopo di che, contro il decreto che abbia disposto la restituzione, ovvero abbia respinto la relativa richiesta (art. 263 commi 4° e 5°), le persone interessate potranno proporre opposizione, sulla quale sarà chiamato a decidere il giudice per le indagini preliminari, ai sensi dell'art. 127; in simmetria, del resto, con la attribuzione allo stesso giudice del potere di decidere sulla richiesta di sequestro penale proposta dall'interessato, nel corso delle indagini preliminari, laddove il pubblico ministero non ritenga di accedervi (art. 368). 15. Le intercettazioni di conversazioni o di comunicazioni. Il settore dei mezzi di ricerca della prova si conclude con la disciplina delle intercettazioni di conversazioni e di comunicazioni (artt. 266-271), il cui risalto e la cui delicatezza, anche alla luce del dettato ex art. 15 Cost. – dov'è precisato che la libertà e la segretezza delle comunicazioni, definite «inviolabili», possono venire limitate soltanto «per atto motivato dell'autorità giudiziaria, con le garanzie stabilite dalla legge» – sono testimoniati dal largo spazio che vi ha dedicato la legge delega. L'art. 266 definisce anzitutto, con riferimento alla natura ed alla gravità dei reati per i quali si stia procedendo – il cui elenco deve ritenersi tassativo – i limiti oggettivi entro i 90 comunque, «fuori dei casi consentiti dalla legge». Nel medesimo ambito deve poi ricomprendersi, a maggior ragione, quale fonte di un divieto di utilizzazione nel caso di inosservanza, il principio enunciato nell'art. 68 comma 3° Cost., a proposito della necessità di autorizzazione della Camera di appartenenza per poter «sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni». La suddetta autorizzazione deve essere richiesta dall'autorità che ha emesso il provvedimento da eseguire, con l'ulteriore corollario per cui, nel frattempo, l'esecuzione del suddetto provvedimento dovrà rimanere sospesa: sicché, ove le intercettazioni venissero nondimeno eseguite, lo sarebbero «fuori dei casi consentiti dalla legge». Da notare che lo stesso art. 4 prevede analoga disciplina anche nel caso in cui l'autorità giudiziaria debba «acquisire tabulati di comunicazioni» nei riguardi di un parlamentare. Sul piano dei contenuti il divieto di utilizzazione sancito dall'art. 271 viene esteso, poi, in virtù di una scelta legislativa inedita per il nostro ordinamento — ma coerente con il sistema di tutela processuale del segreto professionale (artt. 200 e 256 comma 2°), anche a livello di testimonianza de auditu (art. 195 comma 6°) — fino a ricomprendervi tutte le intercetta-,ioni riguardanti le comunicazioni delle persone indicate nell'art. 200 comma 1°, quando abbiano ad oggetto fatti conosciuti «per ragione del loro ministero, ufficio o professione», salvo che tali persone «abbiano de- posto sugli stessi fatti, o li abbiano in altro modo divulgati» (art. 271 comma 2°). Come risulta anche da questo inciso, ispirato alla medesima ratio dell'identica precisazione nell'art. 195 comma 6° (retro, § 8), la norma rappresenta una sorta di proiezione del diritto di astensione riconosciuto alle suddette persone in sede di testimonianza. Se ciò è vero, tuttavia, non può non sorprendere che tale normativa di salvaguardia indiretta sia stata dettata per i soli segreti professionali, con esclusione del segreto d'ufficio. Quanto alla sorte delle registrazioni e dei verbali relativi alle intercettazioni riconosciute come inutilizzabili (destinati ad essere stralciati), dispone l'art. 271 comma 3° che, in deroga al principio generale di «conservazione» enunciato nell art 269, essi debbano venire distrutti per ordine del giudice in ogni stato e grado del processo. Un problema particolare, è quello che sorge a proposito dei verbali e delle registrazioni di conversazioni o comunicazioni, cui abbiano preso parte dei membri del Parlamento, le quali siano state regolarmente intercettate nel corso di procedimenti riguardanti terze persone, o, comunque, non a seguito di operazioni disposte nei confronti del parlamentare (intercettazioni c.d. indirette). Come si accennava poco sopra, il tema delle intercettazioni occasionali (o, come si diceva, indirette) nei confronti di membri del Parlamento, è stato espressamente disciplinato dall'art. 6 1. 20 giugno 2003, n. 140. In questa prospettiva il suddetto art. 6 commi l° e 2° distingue a seconda che il giudice per le indagini preliminari ritenga irrilevanti, ovvero che li ritenga rilevanti: più precisamente, che ritenga «necessario» utilizzare le risultanze delle relative intercettazioni, su istanza di una parte. Nella prima ipotesi, infatti, è stabilito che le medesime risultanze debbano essere integralmente distrutte, a norma dell'art. 269 commi 2° e 3°; nella seconda ipotesi, invece, è stabilito che il giudice, per poter utilizzare le intercettazioni così eseguite, debba tempestivamente ri- chiedere l'autorizzazione della Camera di appartenenza del parlamentare. I problemi sorgono nel caso in cui la medesima venga negata, poiché il 5° comma del citato art. 6 è tassativo nel prescrivere che, in una simile evenienza, la «documentazione delle intercettazioni» deve essere «distrutta immediatamente, e comunque non oltre dieci giorni dalla comunicazione del diniego». Il successivo 6° comma stabilisce che tutti i verbali e le registrazioni acquisiti «in violazione del disposto» del suddetto art. 6 debbano essere «dichiarati inutilizzabili» ad opera del giudice «in ogni stato e grado del procedimento». Si tratta evidentemente di una disciplina molto drastica, che tuttavia può comprendersi, sul piano della ragionevolezza, soltanto se riferita al caso delle intercettazioni indirette, i cui contenuti risultino obiettivamente incidenti sulla po- sizione di un membro del Parlamento. La medesima disciplina sarebbe, invece, difficilmente giustificabile in termini di ragionevolezza – ed anzi, per certi aspetti, decisamente paradossale – qualora la si volesse riferire anche al caso delle intercettazioni indirette, i cui contenuti risultassero rilevanti esclusivamente sulla posizione di terze persone (in particolare, del soggetto indagato, la cui utenza sia stata sottoposta a controllo), delle quali un membro del Parlamento sia stato interlocutore occasionale. Con la conseguenza che, nel caso di diniego (ovvero di mancata concessione) dell'autorizzazione prevista dal citato 91 art.6, dovrebbero essere distrutte, o comunque dichiarate inutilizzabili. Le c.d. intercettazioni preventive trovano oggi la loro disciplina nell'art. 226 disp. att., che le consente, su iniziativa del Ministro dell'interno o di un'autorità da lui delegata – ed a seguito di autorizzazione del procuratore della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del «distretto in cui si trova il soggetto da sottoporre a controllo ov- vero, nel caso in cui non sia determinabile, del distretto in cui sono emerse le esigenze di prevenzione» – quando le medesime risultino «necessarie per l'acquisizione di notizie concernenti la prevenzione» dei delitti indicati dall'art. 407 comma 2° lett. a n. 4 e dall'art. 51 comma 3-bis. Inoltre, quando le suddette intercettazioni siano ritenute «indispensabili per la prevenzione di attività terroristiche o di eversione dell'ordinamento costituzionale», esse possono venire disposte anche su iniziativa dei direttori dei servizi informativi e di sicurezza, in quanto a ciò delegati dal presidente del Consiglio dei ministri, ed a seguito di autorizzazione del procuratore generale presso la corte d'appello del distretto come sopra individuate. Gli elementi eventualmente acquisiti attraverso tali intercettazioni «non possono essere utilizzati nel procedimento penale, fatti salvi i fini investigativi». Le risultanze «non possono essere menzionate in atti di indagine, né costituire oggetto di deposizione, ne essere altrimenti divulgate». 92 CAPITOLO IV MISURE CAUTELARI 1. e 2. Premessa e Riserva di legge e riserva di giurisdizione in materia di misure cautelari personali. Il sistema delle misure cautelari è basato e modellato sul principio di legalità delle stesse; principio in proposito sancito dall’art. 272, con lo stabilire che «le libertà della persona possono essere limitate con misure cautelari soltanto a norma delle disposizioni del presente titolo. La disposizione dell'art. 279, che è norma generale attributiva della competenza funzionale, nella quale si riflette la garanzia della riserva di giurisdizione in ordine al medesimo settore. Stabilendo che sia sull'applicazione, sia sulla revoca, sia sulle vicende modificative delle misure cautelari personali la competenza a provvedere spetta sempre al giudice che procede, l'art. 279 si riferisce in sostanza al giudice competente all'esercizio della giurisdizione nelle diverse fasi del procedimento. In tal modo viene data attuazione alla scelta della legge de-lega di riservare all'organo giurisdizionale la titolarità esclusiva dei poteri in materia di restrizioni della libertà personale (art. 2 n. 59), riconoscendo al pubblico ministero unicamente il potere di disporre il fermo di indiziati (art. 2 n. 32), sulla base di una ripartizione di funzioni che il codice puntualmente fa propria (art. 384 comma 1°, da leggersi anche in correlazione con l'art. 307 comma 4°). 3. I presupposti del fumus commissi delicti e del periculum libertatis. I presupposti delle misure stesse, sia con riferimento al profilo del fumus commissi delicti, sia con riferimento alla sfera del periculum libertatis. L'art. 273 comma 1° individua quali «condizioni generali» di applicabilità delle misure in questione la sussistenza a carico del destinatario di «gravi indizi di colpevolezza», con l'evidente proposito di accentuare (rispetto alla formula tradizionale del codice previgente, dove ci si accontentava di «sufficienti indizi») la consistenza della piattaforma indiziaria. Venendo ai criteri di valutazione dei suddetti «gravi indizi», va segna lato il nuovo comma 1-bis dell'art. 273 (inserito ad opera della l. 1° marzo 2001, n. 63), nel quale vengono richiamate allo scopo alcune specifiche previsioni, in aggiunta al già ricordalo art. 203 (retro, cap. III, § 8). Questa volta, infatti, il richiamo non riguarda soltanto l'art. 203, ma si allarga fino a ricomprendere anche l'art. 192 commi 3° e 4°, nonché l'art. 271 comma 1°, descrivendo così un ventaglio piuttosto ampio di disposizioni (tra le quali peraltro, si noti, non rientrano tutti i commi dell'art. 195 diversi dall'ultimo), di cui il giudice dovrà necessaria-mente tener conto nel valutare il presupposto del fumus commissi delicti a fronte di una richiesta di misura cautelare. E’ disposta l’applicazione delle regole di valutazione probatoria sancite dall'art. 192 commi 3° e 4° anche nell'ambito del procedimento applicativo delle misure cautelari. Ne deriva che, ai fini della valutazione circa la sussistenza dei «gravi indizi» necessari per l'adozione di una misura cautelare, in tanto il giudice potrà tener conto delle dichiarazioni provenienti da persone che siano imputate dello stesso reato, o in un procedimento connesso, o di un reato collegato ex art. 371 comma 2° lett. b, in quanto le medesime dichiarazioni risultino corredate da altri elementi probatori idonei a confermarne l'attendibilità. Mentre, come emerge dal mancato richiamo anche al 2° comma del suddetto art. 192, il medesimo giudice non dovrà ritenersi necessariamente vincolato dalla regola ivi prevista, per cui «l'esistenza di un fatto» non può essere desunta sulla base di indizi (qui da intendersi come prova critica indiziaria), salvo che gli stessi risultino «gravi, precisi e concordanti». Per un verso, infatti, ne risulta notevolmente irrigidito il criterio di apprezzamento dei gravi indizi. Per altro verso, non si può sottacere il rischio che, per questa via, il provvedimento applicativo di una misura cautelare (tanto più se passato indenne al vaglio del tribunale del riesame e della corte di cassazione) finisca per caricarsi di un peso assai gravoso sulla sorte processuale dell'imputato. Quanto al versante del periculum libertatis, l'art. 274, affrontando e risolvendo con chiarezza sistematica il problema del «vuoto dei fini», si preoccupa di predeterminare le «esigenze caute-Iati» che sole, concorrendo con il presupposto rappresentato dai gravi indizi di colpevolezza, devono considerarsi di per sé idonee a giustificare l'adozione delle misure 95 6. Altre applicazioni del principio di adeguatezza. Per quanto riguarda, in ispecie, l'impiego della custodia in carcere, una sorta di presunzione di «non necessità» della misura carceraria risulta sancita nel 4° comma dell'art. 275, con riferimento ad una gamma variegata di ipotesi, rispetto alle quali si delinea una previsione di divieto («non può essere disposta la custodia cautelare in carcere») della suddetta misura. Così è stabilito, m particolare, quando siano imputati una donna incinta, o una madre di prole di età inferiore ai tre anni con la stessa convivente, ovvero un padre (sembrerebbe senza ulteriori condizioni) qualora «la madre sia deceduta o assolutamente impossibilitata a dare assistenza alla prole», od ancora una persona che abbia superato i settanta anni. Lo stato di incompatibilità con la custodia in carcere è presunzione posta dalla legge a favore dei medesimi imputati, potrà (anzi, dovrà) disporsi anche a loro carico la misura della custodia in carcere. Analogamente, qualora ricorrano i presupposti per la custodia in carcere, ma non sussistano esigenze cautelari di eccezionale rilevanza, e si tratti di imputati tossicodipendenti o alcooldipendenti sottoposti a programma terapeutico di recupero, l'art. 89 commi 1° e 2° d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (così come modificato dall'art. 4- sexies d.l. 30 dicembre 2005, n. 272, convertito con 1. 21 febbraio 2006, n. 49) stabilisce che nei confronti di tali imputati debba essere disposta la misura degli arresti domiciliare, allorché l'interruzione del programma in atto potrebbe pregiudicare il loro recupero. La medesima disciplina si applica altresì nei confronti dell'imputato tossicodipendente o alcooldipendente, già assoggettato a custodia cautelare, il quale intenda sottoporsi ad un programma terapeutico di recupero. Un esplicito, ed anzi più rigido, «divieto di custodia cautelare» (questa è la dizione ancora accolta nella rubrica dell'art. 286-bis, pur dopo le sopravvenute modifiche) è stabilito, infine, dall'art. 275 comma 4-bis nei riguardi degli imputati che siano affetti «da Aids conclamata o da grave deficienza immunitaria» (accertate ai sensi dell'art. 286-bis comma 2°), ovvero «da altra malattia particolarmente grave». Allorché venga verificata la sussistenza di condizioni di salute del tipo di quelle ivi menzionate — sulla base di accertamenti e di terapie praticabili anche in strutture pubbliche esterne all'ambito penitenziario, a norma e nei limiti dell'art. 286-bis comma 3° — si prevede che, con riferimento a tali soggetti, la custodia cautelare in carcere «non può essere disposta né mantenuta». Se «sussistono esigenze cautelari di eccezionale rilevanza», dovrà farsi regolarmente luogo a custodia cautelare presso «idonee strutture sanitarie penitenziarie», a meno che l'adozione di tale misura non risulti possibile «senza pregiudizio per la salute dell'imputato» o per quella «degli altri detenuti». Più in generale, infine, pur ricorrendo le situazioni appena descritte, allorché il soggetto risulti imputato, o sia stato sottoposto ad altra misura cautelare, per uno dei delitti previsti dall'art. 380 (in quanto commessi dopo l'applicazione delle misure previste dal suddetto comma 4-ter), il giudice potrà comunque disporne la custodia cautelare in carcere, evidentemente allo scopo di evitare gli inconvenienti altrimenti derivanti, soprattutto in rapporto al pericolo d _reiterazione di determinati reati, dal so- stanziale riconoscimento a tali soggetti di una sorta di «immunità» rispetto alla custodia carceraria. Ancora alla sfera del principio di adeguatezza, sia pure con riferimento all'ipotesi di condotte dell'imputato contrastanti con le prescrizioni inerenti alle singole. misure cautelari deve ricondursi la disposizione dell'art. 276 comma 1°. Dove, in termini generali, viene enunciato il principio per cui, nel caso di inosservanza delle suddette prescrizioni, il giudice può ordinare la sostituzione della misura già disposta, ovvero il suo cumulo con altra più grave: sempre, di regola, dietro richiesta del pubblico minister. I criteri di valutazione, oltre a quelli indicati una volta per tutte nel medesimo art. 275, sono quelli imperniati sulla «entità», sui «motivi» e sulle «circostanze della violazione». Resta inteso, dunque, che non ogni «trasgressione» dell'imputato alle prescrizioni impostegli dovrà necessariamente dare luogo — da parte del giudice — ad un nuovo provvedimento in chiave sostitutiva. 7. La salvaguardia dei diritti della persona sottoposta a misura cautelare. Tipica norma di garanzia per la posizione soggettiva dell'imputato è l'art. 277 che stabilisce che le modalità esecutive delle misure cautelari «devono salvaguardare i diritti della persona ad esse sottoposta». 96 8. I criteri di determinazione della pena ai fini dell'applicazione delle misure. Le regole dettate dall'art. 278 per la determinazione della pena agli effetti dell'applicazione delle misure stesse. Quanto alla soluzione accolta, articolata sulla scia della stessa delega (art. 2 n. 59), essa prescrive che debba aversi riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato, senza tener conto né della continuazione, né della recidiva (il riferimento alla recidiva è stato ripristinato, a sorpresa, dal legislatore del 1995), né, di regola, delle circostanze del reato. Da notare che i criteri dell'art. 278 risultano richiamati dall'art. 379 per quanto concerne la determinazione della pena ai fini dell'arresto in flagranza e del fermo. 9. Misure coercitive e misure interdittive. Le une e le alter possono applicarsi soltanto «quando si procede per i delitti per i quali la legge stabilise la pena dell’ergastolo o della reclusione superiore nel massimo a tre anni» (artt. 280 e 287). E’ lo stesso 1° comma dell'art. 280 a fare anzitutto «salvo quanto disposto dai commi 2 e 3» dello stesso articolo, o dove la deroga si riferisce specificamente all'impiego della custodia cautelare in carcere. Essa, infatti può essere applicata esclusivamente- quando si proceda per delitti «consumati o tentati, per i quali sia prevista, la pena della reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni» " 1995). Questo limite, tuttavia, ai sensi del 3° comma dell'art. 280, non opera «nei confronti di chi abbia trasgredito alle prescrizioni inerenti ad una misura cautelare». Una seconda eccezione, di segno contrario rispetto a quest'ultima regola generale, è stabilita dal medesimo art. 280 comma 1° facendo salvo quanto disposto «dall'art. 391» (anche se, come si vedrà tra breve, un palese difetto di coordinamento legislativo rende imperfetto un tale raccordo). Il richiamo va, ovviamente riferito a15° comma dello stesso art. 391, dove, nel disciplinare in via generale la c.d. conversione dell'arresto in flagra z odel fermo in «una misura coercitiva a norma dell'art. 291», ivi compresa la custodia in carcere, si dispone espressamente che tale conversione — naturalmente in presenza dei presupposti richiesti ex artt. 273 e 274 — possa avere luogo «anche al di fuori dei limiti di pena previsti dagli artt. 274 comma 1 lett. c e 280», quando l'arresto «è stato eseguito per uno dei delitti indicati nell'art. 381 comma 2», ovvero «per uno dei delitti per i quali è consentito anche fuori dei casi di flagranza»: dunque, anche con riferimento a determinati delitti punibili «con la reclusione non inferiore nel massimo a tre anni». Ciò significa che, in ordine alle ipotesi delittuose contemplate dall'art. 381 comma 2°, l'applicazione di una misura di coercizione personale potrà configurarsi soltanto a seguito di conversione dell'arresto in flagranza, mentre non potrà trovare base nel potere coercitivo originariamente spettante al giudice. Il 2° comma del suddetto art. 280 ha circoscritto l'applicabilità della custodia in carcere esclusivamente ai delitti punibili con la «reclusione non inferiore nel massimo a quattro anni». L'applicazione della custodia carceraria a seguito di convalida dell'arresto in flagranza continua ad essere consentita — anche «al di fuori dei limiti di pena previsti» dall'art. 280, nonché dall'art. 274 comma 1° lett. c — nei soli casi in cui l'arresto sia stato eseguito a norma dell'art. 381 comma 2° (quantunque i delitti ivi elencati siano tutti punibili con la reclusione «non inferiore nel massimo atre anni»), mentre risulta preclusa nei casi in cui l'arresto sia stato eseguito a norma dell'art. 381 comma 1°, ogniqualvolta si tratti di delitti per i quali la legge stabilisce la pena della reclusione in misura bensì «superiore nel massimo a tre anni», ma «inferiore nel massimo a quattro anni». In questi ultimi casi, infatti, a causa della mancata predisposizione di una clausola derogatoria analoga a quella contenuta nell'art. 391 comma 5° non può non operare il limite di applicabilità sancito, per la custodia in carcere, dal 2° comma dell'art. 280, e richiamato dall'art. 274 comma 1° lett c. Senonché tutto ciò è palesemente assurdo, poiché, per effetto di un simile difetto di coordinamento legislativo, esiste oggi nel sistema una fa-scia di situazioni rispetto alle quali (sebbene riferite a delitti più gravi di quelli cui allude l'art. 381 comma 2°), pur dopo la convalida dell'arresto in flagranza, non potrà essere applicata la misura custodiale nei confronti dell'arrestato, non ostante l'accertamento dei presupposti cautelari idonei a legittimarne l'applicazione ex art. 391 comma 5°. Quanto al resto, non risultando ammessa nessuna ulteriore deroga, il limite stabilito dall'art. 280 deve ritenersi operante per tutte le altre misure coercitive, ivi comprese le più blande, com'è ad esempio il divieto di espatrio. 97 10. La tipologia delle misure coercitive ed il principio di gradualità. All'interno di questa ideale gerarchia, nella quale si concreta uno strumento evidente- mente indispensabile per l'attuazione del principio di adeguatezza (art. 275), si collocano le misure del divieto di espatrio, opportunamente raccordato con la disciplina dei passaporti, sulla base della riconosciuta specificità dei suoi presupposti (art. 281), dell'obbligo di presentazione periodica agli uffici di polizia giudiziaria (art. 282) e dell'allontanamento dalla casa familiare (art. 282-bis). Ad esse si aggiungono le misure del divieto e dell'obbligo di dimora (art. 283). A proposito dell'obbligo di dimora va in ogni caso sottolineata la attribuzione al giudice del potere di imporre all'imputato anche quella di «non allontanarsi dall'abitazione in alcune ore del giorno, una prescrizione analoga, seppur circoscritta entro limiti temporali piuttosto rigidi, a quella in cui si sostanzia la misura degli arre- sti domiciliari (art. 284), riguardo alla quale l'obbligo dell'imputato «di non allontanarsi dalla propria abitazione», o dagli altri luoghi consentili, può risultare attenuato soltanto dalla autorizzazione del giudice «ad assentarsi nel corso della giornata dal luogo di arresto, per il tempo stretta-mente necessario» a provvedere ad «indispensabili esigenze di vita», ovvero per esercitare una attività lavorativa, nel caso di «assoluta indigenza». Anche su questo terreno, dunque, attraverso la duplice possibilità offerta al giudice di graduare diversamente, per intensità e per durata, la sottoposizione dell'imputato all'obbligo di «non allontanamento» dalla propria abitazione – ora facendo ricorso alla versione più gravosa dell'obbligo di dimora, ora disponendo direttamente gli arresti domiciliary. L'imputato agli arresti domiciliari «si considera in stato di custodia cautelare» (art. 284 comma 5°), soltanto in quest'ultimo caso, e non anche nel primo l'imputato costretto a rimanere nella propria abitazione potrà usufruire dei vantaggi derivanti dalla suddetta equiparazione: in particolare con riferimento alla disciplina dei termini massimi di custodia, nonché al meccanismo di scomputo della durata della misura domiciliare dalla durata della pena (infra, § 11). Mentre per quanto riguarda la concedibilità degli arresti domiciliare un limite soggettivo espresso è quello sancito dal nuovo comma 5-bis dell'art. 284, in termini di divieto nei confronti degli imputati già condannati (dunque, con sentenza irrevocabile) per il reato di evasione nei cinque anni precedenti al fatto per cui si procede, assai più articolata e complessa appare la disciplina oggi consacrata nell'art. 275-bis, con riferimento alla possibilità di subordinare la misura degli arresti domiciliari all'assoggettamento dell'imputato a particolari «procedure di controllo» da attuarsi mediante «mezzi elettronici o altri strumenti tecnici»: dove è evidente l'allusione al congegno del c.d. "braccialetto elettronico". Più precisamente, stabilisce il 1° comma dello stesso art. 275-bis che il giudice, nel disporre la misura degli arresti domiciliari «anche in sostituzione della custodia cautelare in carcere», possa prescrivere – ove lo ritenga necessario in relazione alle esigenze cautelari del caso concreto – la adozione delle suddette «procedure di controllo» elettronico, salvo comunque prevedere con il medesimo provvedimento l'applicazione della misura carceraria, allorché l'imputato neghi il proprio consenso a sottoporsi ai relativi «mezzi e strumenti». 11. Le forme della custodia cautelare. La custodia in carcere non presenta grandi novità dal misura della pinto di vista dei contenuti, trovando base nel provvedimento con cui il giudice dispone che l'imputato «sia catturato ed immediatamente condot to in un istituto di custodia per rimanervi a disposizione dell'autorita giudiziaria» (art. 285). Quando, poi, si tratti di un imputato. in stato di infermità di mente tale da incidere gravemente sulla sua capacità di intendere e di volere, si prevede che il giudice possa disporne — in luogo della custodia carceraria — la custodia cautelare non carceraria mediante ricovero provvisorio in una idonea struttura. Il raggio di operatività di tale istituto (così come previsto dall'art. 206 c.p.) copre un'area di ipotesi assai più ampia di quella riferibile al solo imputato infermo di mente. Quanto agli imputati che si trovino nelle gravi condizioni di salute descritte dall’art. 275 comma 4-bis, stabilisce il 3° comma dell’art. 286-bis che il giudice possa disporre il ricovero provvisorio in una adeguata struttura del servizio sanitario nazionale «per il tempo necessario», adottando nel contempo, ove occorra, i provvedimenti «idonei a evitare il pericolo di fuga». Dopo di che, una volta cessate le esigenze del ricovero (che deve
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