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Riassunto per Storia delle Tradizioni Popolari, Dispense di Antropologia

Riassunto di Cultura Popolare in Italia + F come Folclore

Tipologia: Dispense

2021/2022

Caricato il 24/11/2023

Patateal4no
Patateal4no 🇮🇹

5

(6)

10 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto per Storia delle Tradizioni Popolari e più Dispense in PDF di Antropologia solo su Docsity! L'interesse per il popolare nasce in Europa nella seconda metà del 700 dal momento in cui i ceti dominanti intellettuali cominciarono a pensare sé stessi come moderni, vale a dire, come le avanguardie di un percorso inarrestabile di progresso materiale e spirituale che si lascia alle spalle i residui arcaici e spezza le catene della povertà. Tale percorso, tuttavia procede in modo disuguale lasciando dietro di sé zone d'ombra, In altre parole “dislivelli di cultura”. Dislivelli possono essere esterni o interni. I dislivelli esterni riguardano i popoli che si chiamano allora primitivi o selvaggi, i quali sembravano restare confinati in una statica dimensione preistorica. I dislivelli interni riguardavano invece i ceti popolari degli stessi paesi occidentali. Queste ma se vivevano in una situazione di relativo isolamento rispetto ai grandi centri di produzione della ricchezza del sapere, in condizioni di vita e di lavoro arcaiche di analfabetismo e di mancanza di istruzione. La cultura del popolo rurale era fatta di usi e costumi antichi, immobilizzati dalle norme della tradizione, di credenze e riti magici e di una religione immanente superstiziosa. Questa forma culturali, considerate come sopravvivenza di civiltà passate, iniziarono ad interessare gli intellettuali moderni. Il termine folclore fu coniato da William Thoms in una lettera pubblicata sulla rivista Atheneum nel 1846. Thoms ha come modello l'opera di Grimm. Il filologo tedesco aveva raccolto una mole di dati, storie, aneddoti e narrazioni, e ne aveva ricavato un quadro della mitologia tedesca. Egli voleva dimostrare l'unità della nazione tedesca cercandola nella profondità storica (motivo politico). Thoms trova le impostazioni di Grimm estremamente convincente e si augura che anche in Inghilterra possa trovarsi qualcuno in grado di sviluppare lo stesso lavoro. Bisogna aggiungere però che le fonti primarie a cui i raccoglitori attingevano erano soprattutto orali e quindi vive, attuali, con tutte le implicazioni che ci ho comportava. Il narratore può modificare la sua storia, anche per tratti minimi, ogni volta che la racconta e possiamo immaginare cosa accadeva quando una fiaba o un canto veniva appreso e ripetuto nel corso del tempo e si diffondeva in aree più o meno ampie. Lo studio della cultura popolare prende corpo tra il 700 e 800, nella grande stagione del romanticismo. Nei secoli passati, la cultura delle classi sociali più basse aveva suscitato occasionali e attenzioni di tipo polemico da parte di intellettuali. È con il romanticismo che si fa strada l'idea di una cultura peculiare e distintiva prodotta dal popolo come entità collettiva. Intellettuali romantici consideravano il loro compito la raccolta, il fissaggio nella scrittura e dunque il salvataggio di quella cultura orale così labile e delicata che rischia di essere spazzata via dall'avvento della modernità. In Italia questo impulso arriva con qualche ritardo. Gli intellettuali italiani, che tanto hanno investito sulle eredità rinascimentale e sul programma neoclassico, sono meno interessati al brivido romantico rispetto a quelli di altri paesi. L'atto di nascita di un campo autonomo della cultura popolare è rappresentato dalla “Gita dal pistojese”, un testo pubblicato sulla rivista “Antologia” nel 1832, in cui il filologo Niccolò Tommaseo narra del suo incontro con Beatrice di Pian degli Ontani, la poetessa pastora. Beatrice pratica improvvisazione poetica in ottava rima, Tommaseo vede impersonato in lei il fascino per l'ispirazione istintiva, per la creazione collettiva e per le forme artistiche che sembrano sgorgare spontaneamente dal popolo. Museo propone con enfasi il recupero diretto dei documenti popolari dalle fonti, lasciandoli nella loro veste semplice e disadorne, senza intervenire con ritocchi e aggiustamenti di sapore letterario. Tommaseo, infatti, non manca di criticare infiltrazioni di elementi estranei, che non vengono dell'oralità ma dalla stampa: dalla diffusione di fogli volanti e altre forme di letteratura che inquinano il naturale sentire e parlare dei poeti popolari. I popolari non hanno consapevolezza del loro tesoro linguistico e poetico, e nell’esprimerlo lo mescolano costantemente con cose di scarso valore e cattivo gusto. Sta al folklorista separare le gemme vere da quelle false. Per Tommaseo le scelte estetiche si combinano con quelle che lo muovono sul piano dell'impegno politico. Ciò emerge in modo molto esplicito nella raccolta dei “Canti popolari toscani, corsi, illirici, greci” in cui vi è il riferimento alle popolazioni asservite a stati e imperi da cui vorrebbero rendersi autonomi. Il desiderio di libertà rientra tra i sentimenti naturali che i canti esprimono. A cavallo fra i due secoli si sviluppano in particolare due scuole di studi folclorici, quella siciliana e quella fiorentina. Per la prima, il personaggio più rappresentativo certamente il medico palermitano Giuseppe Pitrè. La scuola Fiorentina, invece, discende dagli insegnamenti di Paolo Mantegazza, Che fin dal 1871 aveva fondato una Società italiana di antropologia ed etnologia, Centrata su un nucleo di studi naturalistici, ma largamente interessata anche all'etnografia e al folklore. Queste dimensioni sono sviluppate particolarmente da Lamberto Loria. Egli fu essenzialmente un viaggiatore e un etnografo, un ricercatore che lavorava sul campo e considerava parte intrinseca e fondamentale della ricerca la raccolta di reperti oggetti. Nella primavera del 1905, andando per la prima volta a Circello nel Sannio, fu fortemente impressionato dalla diversità delle usanze, dai costumi e della psiche di quelle popolazioni meridionali. Dopo tanti anni, spesi a cercare la diversità in giro per il mondo egli la trova a casa. Di conseguenza ritiene il suo compito promuovere un'etnografia italiana e raccogliere documenti che non offriranno una rappresentazione. Nel 1906 crea il museo di etnografia italiana a Firenze. La collezione verrà successivamente trasferita a Roma e costituirà il nucleo iniziale del grande museo nazionale che in mente di realizzare. In vista delle celebrazioni del 1911, ricevette l'incarico di Curare la mostra etnografica per l'Esposizione universale romana e fece valere il suo talento di straordinario instancabile collezionista e organizzatore. Suddivise il paese in aree che affidò a raccoglitori di fiducia, senza trascurare il contatto con nomi tutelari come Pitrè e D’Ancona. Questa mostra rappresenta il punto di maggiore sviluppo e visibilità degli studi di folklore nella loro fase positivistica. La cultura del popolo è vista come patrimonio specifico del paese, accanto alle grandi eredità dell'archeologia o della storia dell'arte. Emblematica è la sorte della Mostra che avrebbe dovuto rapidamente stabilizzarsi in Museo nazionale di etnografia. Si dovette attendere il 1956 perché i reperti del 1911 trovassero finalmente una sistemazione espositiva nell'attuale Museo nazionale delle arti e delle tradizioni popolari. Giuseppe Pitrè nacque a Palermo nel 1841. Le condizioni molto umili della sua famiglia influenzarono i suoi futuri interessi di ricerca, grazie alla conoscenza diretta dei quartieri popolari della città che frequento attivamente anche nella sua attività di medico. L'attività medica lo tenne in contatto costante con il popolo, di cui documentava dettagliatamente modi di parlare, repertori di tradizione orale, usi e costumi, riti cerimonie, forme della cultura materiale e tecniche del lavoro. Pitrè ha un'ampia profondità cognizione della letteratura antropologica ed etnografica prodotta in ambito nazionale. Egli è un attentissimo indagatore e si adopera instancabilmente per realizzare una puntuale “Bibliografia delle tradizioni popolari d'Italia” e dota la rivista “Archivio per lo studio delle tradizioni popolari”. Il 25 volumi della “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane” costituisce certo l'impresa più nota. Pitrè inoltre tenne dialogo fitto costante con gli altri studiosi e bisogna riconoscere che la sua lezione costituì uno stimolo per numerosi ricercatori di storie patrie, in un contesto, peraltro, molto diversificato e vitale. Che la guerra non fosse una festa divenne presto chiaro e soldati intruppati nelle trincee a far da bersaglio per l'artiglieria nemica. La trincea costitutiva uno spazio stretto di convivenza tra persone che avevano poco in comune. Questa enorme tragico laboratorio non fu di particolare stimolo alla riflessione antropologica, la quale rinnovarsi invece invischiato la fine del conflitto in una congiunzione sfavorevole per cause che possono essere ricondotte a due grandi ordini, uno relativo al piano delle idee, l'altro quello del potere politico culturale. Lo storicismo idealistico di Benedetto Croce contrastava già dalla fine dell'Ottocento e la filologia e le giovani scienze sociali per il loro naturalismo, cioè l'ottusa determinazione a ricalcare i metodi generalizzanti ed esplicativi delle scienze della natura in un campo, la conoscenza dell’uomo, in cui il sapere incentrato sulla ricerca di cause e leggi non è semplicemente perseguibile. I saperi umanistici sono per Croce accessibili solo all'approccio individuante della storia. Le metodologie di ricerca empirica delle pseudo scienze umane non potevano per lui aspirare all'autonomia conoscitiva, le considerava sono utili pratiche di ordinamento e classificazione. I folkloristi continuarono a vivere pratiche positivistiche aderendo solo esternamente allo storicismo, ma si condannarono a forte marginalità. Contemporaneamente scelsero poi di pagare un altro prezzo, aderendo in modo utilitaristico e non superficiale al regime fascista. Del folklore vennero così poste al centro l'accezione più retrive, conservatrici, funzionali all'ideologia e alla propaganda del potere politico. Le specificità folcloriche, che nella realtà quotidiana andavano con diversa velocità trasformandosi o estinguendosi, vennero ricostruite e cristallizzate perché rivivessero nel tempo libero. Il fascismo riuscì progressivamente a controllare ogni aspetto della vita sociale, con altrettante forme istituzionali. Non è legato al caso la Rifondazione di “Lares”, nel 1929 si tiene a Firenze il primo Congresso nazionale delle tradizioni popolari voluto da un Comitato nazionale per le tradizioni popolari legato al centro di alti studi dell'istituto nazionale fascista di cultura che l'anno dopo editerà il primo numero della nuova serie di “Lares”. I folkloristi cercavano appoggi nel regime anche per lo scarso spazio che avevano ottenuto in ambito universitario. Sono nel 1932 viene istituita una libera docenza in “Letteratura e tradizioni popolari”. Paolo Toschi, primo direttore del nuovo “Lares”, ottiene prima in carico nel 1934 e una cattedra nel 1938. Gravi si dimostrano le compromissioni dei folkloristi italiani quando il regime assunse posizioni sempre più decisamente razziste. Raffaele Corso fu tra i firmatari, nel 1938, del “Manifesto degli scienziati razzisti” assieme a Giuseppe Cocchiara, Che scrisse vari articoli sulla difesa della razza. I folkloristi italiani si dimostrarono al servizio del regime anche nella Seconda guerra mondiale. Come abbiamo già detto, anche il grande rilievo assunto del pensiero di Benedetto Croce determinò In Italia una stasi della ricerca sociale. Nel 1933 croce pubblica in volume una serie di studi sulla “Poesia popolare e poesia d'arte”. La questione che egli pone è cosa si debba intendere per popolare, con riferimento ai testi poetici, opponendosi sia quello che definisce il mito romantico sia la postura positivista dei filologi. Contesta, infatti, la letteratura di stampo tommaseano del popolo poeta e di una creazione poetica collettiva anonima. Egli dice che alla fine un autore deve pur esserci stato e ritiene inadeguate le determinazioni riferibili alla trasmissione orale dei testi e alle trasformazioni che subiscono per effetto delle rielaborazioni produttrici di varianti. Croce afferma che anche gli autori colti possono comporre testi popolari qualora scelgano semplicità di toni, perché è il tono psicologico a segnare la differenza. La poesia vera e pura intuizione, poi c'è l'artificio, la ricerca di soluzioni tecniche, che possono ridimensionare la qualità. L'opera d'arte muove abbondanza di sentimenti, di pensieri, ti ricordi, con molteplici gradazioni e sfumature. L'opera d'arte popolare invece non è spinta da grandi travagli e riflessioni, segue percorsi brevi si esprime in forme facili. Le puntualizzazioni di croce non convinsero proprio tutti. Particolarmente maggiori demonologi di formazione filologiche letteraria, tra cui Giuseppe Vidossi e Vittorio Santoli. Pur evitando di respingere l'idea del tono, ribadirono il dato empirico che i testi popolari avevano una grande diffusione, passando di voce in voce, senza che gli utenti ne conoscessero l'origine e la provenienza, erano soggetti a continue rielaborazioni, concludendo che era possibile definirli in base a queste caratteristiche. In aggiunta, se i filologi dell'Ottocento avevano l'obiettivo di cercare nel passato la forma primaria, per i loro discepoli il testo non è l'originale, né la variante più integra, ma è un individuo composto di individui, ovvero l'insieme della sua tradizione costituita dalla totalità delle variazioni riscontrabili. Ernesto De Martino era stato in gioventù un fervente sostenitore del fascismo. Egli conseguì la laurea in filosofia e successivamente si iscrisse alla scuola di studi storico-religiosi. Nel 1934 si trasferì a Bari in qualità di supplente e, successivamente, di professore ordinario. Gli anni dell'insegnamento in Puglia furono quelli della sua adesione al pensiero liberale, perché frequento un gruppo di intellettuali antifascisti che facevano capo all'editore Laterza, lo stesso che pubblicava le opere di Croce. Conobbi il senatore nel 1937 e consolidò il rapporto con lui fino a ottenere di frequentare la sua fornitissima biblioteca e a redigere un giuramento il nome dell’Europa, della patria e della libertà, in cui proclamava la sua incondizionata dedizione al liberalismo. Nel 1941 pubblica il suo primo libro, “Naturalismo e storicismo nell’etnologia”, in cui, passa al vaglio dello storicismo passa al vaglio dello storicismo le ricerche e le opere etnologiche che ritiene particolarmente significative. Sebbene fosse pronto negli anni immediatamente successivi alla guerra, “Il mondo magico” viene pubblicato nel 1948. Il libro non nasce da una ricerca sul campo, ma sulle monografie etnologiche. L'indagine etnografica sarà per De Martino un'opzione che maturerà più tardi. Il problema centrale che egli si pone ruota intorno al tema della presenza. Possiamo intendere la presenza non alla stregua di una generica esistenza, ma nei termini del concreto esserci, pensare, progettare, agire nel mondo che ci circonda, difenderci dai pericoli, superare i momenti difficili. Ora, esistono realtà sociali, quella che venivano ancora definite primitive o selvagge, in cui la presenza è labile, incerta, debole, non acquisito la salvezza che rivendichiamo per la società occidentale. Il magismo ne è l'elemento costitutivo, in quanto dà forma al complesso insieme di strumenti concettuali e tecnici adatti per fornire una soluzione alle situazioni di crisi che si generano a ogni circostanza. Il fatto che consideriamo l'esercizio della magia un'illusione ho una superstizione dipende da una chiusura del pensiero nostro, che esclude la possibilità che esistano altri sistemi di pensiero. La perdita della presenza può avvenire sul piano individuale e collettivo e può essere causata da qualsiasi fattore intervenga ad alterare il corso degli eventi, una caduta, il brutto tempo, un parto complicato, visioni, sogni, il comportamento degli animali. “Il mondo magico” fa questo con grande interesse e con altrettanta diffidenza. Lo stesso Croce si prese la briga di intervenire due volte per ribadire i paletti della sua filosofia, da cui perimetro il lavoro di De Martino scappa senza freni. L'etnologo, infatti, dichiara apertamente che lo storicismo strettamente inteso è esclusivo e circoscritto, si occupa solo di una parte dell'umanità e quindi è uno strumento povero. De Martino, comunque, accogliere osservazioni di Croce e rinuncia all'idea che il magismo possa essere considerato un'epoca storica. Lo ritiene invece come un insieme di tecniche per il controllo e la risoluzione le situazioni di crisi. L'opera di Carlo Levi ha avuto un enorme ruolo nell'accendere l'attenzione degli studiosi, artisti, intellettuali, nei confronti dell'Italia meridionale, la sua realtà rurale e magico-religiosa. A ciò si aggiunge la fitta serie di programmi di ricerca e di sviluppo, attivati in numerosi paesi, da enti pubblici e agenzie private, che ne sostennero i progetti. Il più famoso tra i casi del genere fu la “Commissione di studio sulla città e l'agro di Matera” guidata da Frederick Friedmann Io appoggio di Adriano Olivetti, che si impegnò nell'elaborazione del programma di risanamento dei Sassi e del piano regolatore di Matera. Assai importante fu l'azione di raccordo compiuta, con alcuni dei visitatori e all'interno dei gruppi di ricerca, da personalità locali come Rocco Scotellaro. Egli in particolare, accompagno Levi nei suoi ritorni nelle regioni meridionali e favorì i primi approcci di De Martino con la realtà rurale lucana. Negli anni 50, infatti, De Martino intraprende una serie di attività di ricerca sul campo, particolarmente in Basilicata, sul tema della magia oltre che sulla lamentazione funebre, per cui vede in azione i meccanismi di risoluzione delle situazioni di crisi. De Martino non ama la figura dell'esploratore solitario, infatti, egli ricorre a un gruppo coordinato di specialisti, non troppo numeroso, ognuno con un compito ben preciso. L'obiettivo deve essere concorde e unitario, la guida unica e in prospettiva bisogna che vi sia il libro, la monografia che raccolga in forma compiuta il lavoro svolto. De Martino fu sempre molto attento al momento della divulgazione delle sue ricerche. Egli le stampo su giornali di ampia diffusione, svolse conferenze, tenne trasmissioni radiofoniche, collaboro con i documentaristi che traevano spunto dai suoi scritti per realizzare i loro filmati. Si ricava l'esistenza di una viva tensione verso la scrittura e la comunicazione, ma non è una scelta stilistica. Secondo De Martino occorreva liberare le informazioni etnografiche dalla inerzia storiografica che ingabbiava le catalogazioni e gli elenchi prodotti dai folkloristi, i quali tendevano a isolare saperi, pratiche, documenti della vita quotidiana delle persone, che andava invece considerata nella sua dinamica storica. Questa è un'esigenza che De Martino diceva dalle donne e dagli uomini che incontra nelle camere del lavoro, nelle case e nei quartieri poveri dei paesi. Antonio Gramsci non fu un folclorista, né un antropologo in senso stretto, ma le sue riflessioni hanno influenzato in modo determinante questi ambiti di studio nel secondo dopoguerra e oltre. Gramsci fu tra i fondatori del partito comunista d'Italia nel 1921. Nel 1926, malgrado il suo ruolo di deputato, fu arrestato dal regime, con altri esponenti del partito, ed allora trascorse il resto della sua vita tra confino e prigione fino al 1937, l'anno in cui morì. I 33 quaderni che Gramsci ha riempito di annotazioni nel periodo della detenzione conobbero una prima edizione in sei volumi presso Einaudi tra il 1948 e il 1951. Il loro contenuto, inevitabilmente disorganico e vario, venne organizzato per argomenti omogenei. Già per i primi lettori interessati al problema del folklore si apriva un enorme problema, poiché l'autore dei quaderni sembrava offrire con una mano allo sguardo antropologico ciò che con l’altra toglieva. Il suo impianto legittimava lo studio delle forme della cultura bassa, che non appare più nella forma di superstizioni da condannare, né di pittoresche arti minori da saltare in uno spirito romantico. Si tratta piuttosto di scritti che documentano le condizioni delle classi subalterne e illustrano il funzionamento del progetto egemonico. La loro analisi acquista significato nel quadro di una più vasta indagine delle diseguaglianze sociali. Gli studi di folklore avrebbero così potuto insediarsi al centro stesso della grande teoria economico-politica, eppure, al contempo, Gramsci non garantiva affatto l'autonomia disciplinare di tali studi. Il folklore non è, infatti, per lui una cultura isolata e compatta governata dai principi di una propria specifica storia, è piuttosto un frammentario insieme di residui dei processi di formazione dell’alta cultura, e non può essere né descritto né compreso indipendentemente dalla storia dei processi egemonici. Secondo le parole di Gramsci, il folklore può essere considerato come la concezione del mondo e della vita di determinati strati in contrapposizione con le concezioni del mondo ufficiale. Concezione del mondo e della vita espressione che potrebbe essere accostata al concetto antropologico di cultura, tanto più in quanto si tratta di una cultura implicita, cioè non elaborata in modo consapevole dai gruppi che ne sono In Italia, l'intellettuale che con maggiore intensità ha saputo raccontare gli effetti della grande trasformazione, la fine della civiltà contadina, il sopraggiungere della cultura di massa, riformarsi nelle periferie di un sottoproletariato urbano fu Pierpaolo Pasolini. Scrittore, regista, Pasolini non fu propriamente non antropologo, ma ha lavorato molto sui temi della cultura popolare, sia attraverso una riproduzione, in chiave estetica e letteraria, del mito del mondo arcaico, sia attraverso l'analisi dell'attualità, promuovendo un dibattito politico e culturale che lo vedevano attestato solitamente su posizioni eterodosse, sia frequentando direttamente e raccontando l'esistenza condotta nelle borgate romane. Nel 1952 aveva pubblicato “Poesia dialettale del 900”, un'antologia piuttosto voluminosa, alla quale seguì nel 1955 “Il canzoniere italiano. Antologia della poesia popolare”. Pasolini operò delle scelte su base regionale, compulsando centinaia di raccolte, e compose un corposo saggio introduttivo in cui ricostruiva la storia degli studi sul tema. Italo Calvino, un grande scrittore, non antropologo, non folklorista, Ha pubblicato nel 1956 la raccolta delle “Fiabe italiane”. L'obiettivo era quello di realizzare un'ampia scelta di fiabe dalle numerose raccolte regionali e locali, spesso oscure, di limitata circolazione. Egli giunge a spulciare le collezioni italiane, soprattutto ottocentesche, cercando di rappresentare tutti i tipi di fiaba di cui è documentata l'esistenza nei dialetti italiani, cercando di rappresentare tutte le regioni italiane. Per tipi delle fiabe dobbiamo intendere la sinteticità trama delle stesse, esposta in poche parole. La classificazione delle fiabe per tipi fu proposta nel 1910 dallo studioso finlandese Antti Aarne e ripresa nel 1928 da Stith Thompson. Se si smontano e rimontano le fiabe appare con evidenza che tipi e motivi viaggiano molto, li ritroviamo in combinazioni che si somigliano ho differiscono per qualche dettaglio. Ciò dipende dal fatto che le fiabe hanno goduto di un'amplissima diffusione orale e, come avviene per ogni storia rinarrata, non potevano certo rimanere uguali a sé stesse. È importante per Calvino un tratto stilistico delle fiabe che considera prezioso, vale a dire la rapidità. Egli ritiene che la tecnica della narrazione orale nella tradizione popolare risponda a criteri di funzionalità, cioè, trascura i dettagli che non servono, ma insiste sulle ripetizioni, come per esempio quando la fiaba consiste in una serie di ostacoli da superare. Risale al 1972 la “Convenzione riguardante la protezione sul piano mondiale del patrimonio culturale e naturale”, voluta dall’UNESCO, che istituiva una lista riservata ai monumenti, ai siti, agli edifici di grande importanza storica, artistica, paesaggistica. Al di là delle buone intenzioni, è evidente che, riguardo alle richieste di inserimento dei beni, risultavano favoriti quei paesi che potevano vantare la presenza nel loro territorio di beni monumentali, artistici, archeologici il numero considerevole, a discapito di altri che avevano conosciuto un percorso storico differente. A partire dagli anni 90 mi scusi è dedicata anche ai beni etnografici, cioè quelli che non consistono in opere materiali e durevoli, ma in saperi, performance, forme espressive tramandate dalla tradizione orale e legate esclusivamente alla memoria, alle pratiche, al linguaggio di portatori di lenti. Lo scopo di questa estensione a un'accezione antropologica della cultura e prima di tutto consentire la partecipazione alle liste dei capolavori anche paesi privi di reperti monumentali e storico-artistici, ma anche di includere, per lo stesso vecchio mondo, tutto l'ambito del tradizionale e del popolare indagato e valorizzato ormai da due secoli di studi folklorici. Il concetto intangibile finisce per inglobare tutti gli altri nel documento fondamentale adottato nel 2003, la “Convenzione per la salvaguardia del patrimonio culturale intangibile”, che istituisce una lista rappresentativa analoga a quella del patrimonio materiale. La convenzione viene adottata da molti dei paesi membri dell’UNESCO, inclusa Italia che la ratifica nel 2007, finendo per guidare le politiche culturali sia dell'amministrazione centrale sia dei governi regionali e locali. Il documento del 2003 stabilisce una definizione costituzionale dei beni intangibili. Si deve notare la forte connotazione antropologica di questo documento che:  si apre a molteplici processi e prodotti culturali;  insiste sui gruppi e sulle comunità come soggetti portatori di tali beni, che sono lunghe collocati in una dimensione sociale;  precisa che il patrimonio da intendersi come radicato nell'ecologia dei gruppi sociali, cioè nella modalità pratiche di interazione con l'ambiente da un lato, con la memoria il passato storico dall'altro;  specifica le modalità di trasmissione che rimandano all'oralità e al rapporto diretto fra le generazioni;  propone un richiamo forte al concetto centrale della tradizione antropologica, vale a dire la conoscenza e rispetto della diversità culturale. Rispetto alla lista materiale vi sono importanti differenze. In primo luogo, si tratta di una lista rappresentativa, che non pretende di selezionare delle assolute eccellenze, ma di segnalare più ampi complessi culturali. Inoltre, al centro della tensione patrimonializzante stanno intanto degli oggetti quanto dei processi culturali, intesi come repertori di competenze creative in costante sviluppo e mutamento. Ciò pone in discussione anche il requisito dell'autenticità, centrale per l'indicazione del patrimonio storico- artistico e che diviene qui meno pressante. La salvaguardia, inoltre, intesa non come conservazione o documentazione, ma come modo per favorire il passaggio di saperi fra le generazioni. Ciò implica che gli interlocutori principali delle politiche Unesco non sono gli esperti o gli studiosi, ma principalmente portatore di quel sapere o tradizione, cioè i soggetti o le comunità che ne sono protagoniste.
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