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Riassunto“percorsi della cittadinanza romana dalle origini alla tarda repubblica” LAMBERTI, Sintesi del corso di Storia Romana

Riassunto del documento “percorsi della cittadinanza romana dalle origini alla tarda repubblica” di Francesca Lamberti

Tipologia: Sintesi del corso

2022/2023

In vendita dal 11/06/2023

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Scarica Riassunto“percorsi della cittadinanza romana dalle origini alla tarda repubblica” LAMBERTI e più Sintesi del corso in PDF di Storia Romana solo su Docsity! Percorsi della cittadinanza romana dalle origini alla tarda Repubblica Introduzione In questo lavoro si affronta il processo di ampliamento della romanità nella Repubblica romana dal punto di vista della cittadinanza, sottolineando l’importanza della civitas come strumento per l’espansione di un sistema politico e, in definitiva, del Diritto come base della cittadinanza. 1. IL CITTADINO E LA CITTÀ-STATO Uno dei motivi del fascino esercitato da Roma antica sulle epoche successive è rappresentato dal carattere di unicità di tante delle istituzioni sociali, politiche e giuridiche, prodottesi nel corso della sua vicenda storica. Peculiare di Roma è, fra l’altro, il modello di cittadino sviluppatosi nella concreta esperienza della irradiazione di Roma in Italia. Alle proprie origini la “città-Stato” Roma non presenta sostanziali differenze rispetto alle poleis del mondo greco e magnogreco, etrusco e latino. Una comunità dotata di autonomia di governo, cementata da rituali di natura religiosa e politica comuni, fondata su vincoli e consuetudini di tipo domestico e civile che ne materiano la continuità.in tale contesto si origina lo statuto di un cittadino-soldato, ma anche l’accesso ad una serie di facoltà implicanti la partecipazione alla vita istituzionale delle città stato. In realtà il rapporto fra ascesa di Roma ed elargizione della civitas non può dirsi sempre lineare.l’attribuzione della cittadinanza romana infatti, nella prima fase dell’espansione romana, sarebbe stata vista in prevalenza come una forma di sottrazione di autonomia alle comunità destinatarie della stessa: Roma, una città-Stato tra le altre, imponeva il proprio modello alle popolazioni assoggettate. Fra III e II secolo, con la penetrazione di Roma in Italia, la qualità di civis Romanus avrebbe gradualmente acquisito attrattiva sino a divenire addirittura obiettivo di sotterfugi e frodi alla legge. La lettura della vicenda della civitas Romana non è, quindi, né lineare né semplice. 2. IL CIVIS NELLA CITTÀ E come in tutte le realtà antiche configurabili come città-Stato, l’appartenenza - anche in Roma - fonda l’accesso a determinate possibilità. Alle origini della città appare fondamentale l’appartenenza ad una gens: le “genti” sono aggregazioni eponime di persone che si riconoscono in un ascendente comune. In quanto formazioni autonome esse disponevano di propri culti, di propria assemblee e di propri statuti. A partire dal VIII sec. a.C., le gentes avrebbero ceduto una parte della propria autonomia per dare vita progressivamente alla città-Stato Roma: eventuali “nuove” gentes che avessero avuto intenzione di insediarsi in Roma, vi sarebbero state accolte per incorporazione. In questo periodo è verosimile che ad essere soggetti di diritto fossero solo i capi delle gentes (patres gentis) ed i membri liberi affiliati ai patres. Le fonti riferiscono del delinearsi del convitto fra patres e plebs. Nonostante le minori prerogative riservate alla plebe, la discordia è interna alla città: sia pure “di diritto minore” i plebei sono pur sempre cives. Dalla caduta della monarchia la plebe rappresenta un elemento dinamico all’interno del populus Romanus, teso a rimuovere i meccanismi che lo escludono dal governo, delle massime cariche religiose e dalle assegnazioni di terra. E a partire da tale momento che un nuovo tipo di appartenenza, quella all’esercito, fonda la progressiva “emancipazione politica” e la parificazione dell’elemento plebeo al patriziato. La necessità della classe dirigente romana di fare ricorso anche alla plebe per la composizione dell’esercito consente a quest’ultima di affermare progressivamente le proprie istanze. L’esercito ci viene descritto nelle fonti, nella sua forma matura, come strutturato in cinque classi di fanteria. La ripartizione della popolazione (maschile) in centurie all’interno delle diverse classi effettuata in base alla ricchezza posseduta. I cittadini più ricchi appartenenti alle prime classi sono obbligati a procurarsi un armamento più costoso, laddove su quelli delle classi inferiori incombono spese minori, dato l’armamento più leggero cui sono tenuti. A partire dalla “riforma oplitica“si afferma il principio dell’eguaglianza geometrica. Dovendo dichiarare le ricchezze possedute si impone infatti la regola per cui chi dispone di un reddito più elevato è tenuto ad assumere maggiori oneri in battaglia. Oltre gli oneri si accede tuttavia ad onori. Dal momento in cui la “costituzione centuriata” si stabilizza diviene infatti realmente possibile la partecipazione politica della plebe ai destini della res publica, dato che quello che è il corpo militare in tempo di guerra, in tempo di pace viene radunato come assemblea politica suprema della città, per prendere decisioni di importanza costituzionale per la res publica. La ripartizione dei cittadini in classi di censo, realizzata in base al reddito e condotta, a partire dalle leggi Licinie Seste, dai censori, era infatti funzionale tanto alla leva militare quanto al prelievo fiscale e alle operazioni di voto nei comizi. L’assemblea politica suprema, il comizio centuriato, si fonda su una struttura alquanto articolata: in essa ha maggior peso il voto degli appartenenti alla prima delle cinque classi di censo, unitamente al voto delle 18 centurie di cavalieri rispetto quello delle restanti classi. I comizi centuriati si riuniscono per l’elezione dei magistrati maggiori, la promulgazione di leggi di contenuto politico o de bello indicendo e le decisioni in tema di giudizi capitali.il sistema è strutturato in modo tale che al voto accedono prima le centurie di equites, poi quelle degli appartenenti alla prima classe e poi, scalare, le successive. Coloro su cui incombono maggiori oneri fiscali relativi al combattimento in guerra hanno anche l’ultima parola sulle questioni “capitali” della res publica. Sancita definitivamente dalla legge Valeria, la provocatio ad populum sarebbe stata estesa anche ad ipotesi di illegittima fustigazione, ed anche a cittadini fuori di Roma e a soldati nei riguardi del proprio comandante. Anche il diritto di provocare ad populum era visto, dall’esterno, come un privilegio. Norme del genere avevano ovviamente lo scopo di “adescare” i non cittadini, ottenendone la partecipazione ad alcuni degli ideali politici e morali della Repubblica, con la rassicurazione di un loro trattamento più mite nei processi criminali in cui dovessero eventualmente trovarsi coinvolti. In sintesi può dirsi che “solo il cittadino romano può portare nei comizi, in essi, decide della pace e della guerra, dell’abolizione e della concessione della libertà, della creazione dei magistrati, dell’esercito, dei tributi, della vita dei concittadini, degli onori e dei trionfi. Egli è legittimato all’esercizio delle azioni popolari, direttamente davanti alle quaestiones, attraverso magistrati dotati dell’ius rogationis davanti ai comizi. Egli solo può essere letto alle magistrature, godere dell’ius militiae, entrare nei collegi sacerdotali, prendere gli auspici, fondare una tomba. A lui spettano il diritto di provocare ad populum, di essere esente da pene corporali, di sottrarsi mediante exilium alla pena capitale.” L’insieme di tali prerogative sarebbe divenuto appetibile per buona parte di coloro che ne risultassero esclusi. 3. L’ASTRATTO E IL CONCRETO DEL CITTADINO ROMANO Aldilà delle possibilità teoriche cui dà accesso la cittadinanza romana, un cenno va fatto ai limiti e alle discriminazioni interne allo stesso corpo cittadino. La cittadinanza infatti non rende eguali: fra cittadini sussistono, sin dall’antichità, rilevanti differenze di status. Né esiste un riconoscimento formale di una teorica eguaglianza fra cittadini. La Roma protorepubblicana conosce un divario di posizioni e diritti, si è visto, fra gli appartenenti alle gentes patrizie e la parte plebea della popolazione: il Populus Romanus Quiritium si sostanzia, è vero, di entrambe le componenti, ma una delle due gode di possibilità ben più ristrette a fronte dell’altra. Il consolidarsi di una nobilitas Patrizio- plebea, da cui provengono regolarmente i magistrati e i membri del Senato, darà vita ad ulteriori, nuove divergenze di classe: gli appartenenti alla ristretta cerchia dell’aristocrazia senatoria godono evidentemente di un numero maggiore di privilegi rispetto ai cittadini romani comuni. Fra essi si annoverano la possibilità di esprimere dal proprio seno i magistrati maggiori, in particolare i consoli, l’accesso ai sacerdozi, la conoscenza del diritto e l’esercizio della professione di iusperitus, la disponibilità di un’ampia cerchio di clienti. Un altro ceto privilegiato, formatosi a partire dalla seconda guerra punica, è l’ordo equester, composto di possidenti terrieri, membri dell’Elites locali naturalizzati, che dispone di prerogative più limitate rispetto all’aristocrazia senatoria. Un’aristocrazia del denaro, il ceto equestre, i cui membri sono titolari di un capitale tale da poter virtualmente rientrare nelle centurie di equites affiliate alla prima classe. Nonostante i privilegi acquisiti nel corso della tarda repubblica, gli equites risultarono quasi sempre esclusi dalle massime cariche della Repubblica, dato che la nobiltà si passava il consolato di mano in mano al proprio interno. Pure lo snobismo e il conservatorismo dell’Elite dei nobili non furono efficaci a produrne il coagulo in una casta chiusa: l’accesso al consolato rimase, per tutta l’epoca repubblicana, virtualmente aperto a chiunque avesse le capacità politica che fosse fornito dei mezzi finanziari necessari per dare la scalata la massima carica. Al di sotto di tali categorie privilegiate vi è la massa del popolo romano. I suoi membri accedono ai comizi, ma con diverse limitazioni. In quelli centuriati sono iscritti nelle classi inferiori.essi possono tuttavia far sentire la propria voce nei comizi tributi e nei concilia plebis, dato che la strutturazione in tribù di tali assemblee aveva un’impostazione più democratica rispetto quella dei comizi centuriati. E pure nelle assemblee tribute si votavano quasi esclusivamente leggi aventi ad oggetto il diritto privato, restando le materie di rilevanza costituzionale riservate all’assemblea centuriata. Senza contare i meccanismi in grado di pilotare il voto e rendere meno efficace la sentenza espressa dalle tribù. Insomma, le classi inferiori e i nuovi cittadini riveste un ruolo di secondo piano nel determinare le sorti della civitas. Pur avendo pieno diritto di voto, le decisioni passano, per così dire, sopra la loro testa, essendo rimesse al consesso senatorio e ai ceti che esprimono i magistrati maggiori. Con l’aumentare della plebe inurbata e delle pressioni demagogiche da parte di politici privi di scrupoli, e l’assenza di una forza di polizia in grado di contenere i picchi di disagio sociale, la massa dei cittadini meno ambienti avrebbe finito per rappresentare un fattore politico delicato. La città-stato in quanto tale non sarebbe stata in grado di sviluppare strumenti istituzionali e voluti al punto da poterne governare l’espansione indisciplinata. Uno degli strumenti che consente l’accesso alla civitas e la liberazione di uno schiavo adopera del proprio padrone. La manomissione crea una particolare tipologia di cives, i liberti, che godono di uno status intermedio tra cittadini di pieno diritto ed apolidi. Sei liberati attraverso la manomissione solenne i liberti acquisiscono libertà e cittadinanza assieme. Le loro prerogative dei cittadini sono tuttavia sensibilmente limitate. Quanto ai diritti politici, essi vengono iscritti nelle tribù urbane, le più affollate e meno influenti al voto, ed esclusi dall’elettorato passivo. Analogamente assai limitata la possibilità di partecipazione alle operazioni militari. Anche il riferimento alla loro posizione di diritto civile risultano soggetti a pesanti limitazioni, dovuta al legame para-potestativo che si instaura con il loro patrono. Stante la situazione descritta, un ruolo sensibile erano destinati ad assumere i rapporti di clientela e patronato fra i nobili e gli appartenenti agli strati meno elevati, o i personaggi di estrazione libertina: i primi avrebbero avuto appoggio dei secondi nelle competizioni elettorali e nelle principali attività legate alla pubblica amministrazione nelle quali fossero coinvolti, mentre loro clienti potevano attendersi aiuto nei processi, nelle attività imprenditoriali e nelle svariate faccende nella vita civile in cui intervento di un prominente potesse rivestire utilità. 4. ROMA E I RAPPORTI CON L’ESTERNO FRA LA CADUTA DELLA MONARCHIA E L’ULTIMO SECOLO DELLA REPUBBLICA Il mito del sostanziale esclusivismo della città antica, va ultimamente perdendo smalto in ispecie per quel che riguarda la Roma delle origini. Negli ultimi decenni la storiografia a posto l’accento sulla relativa apertura di Roma alle popolazioni finitime, almeno per l’età monarchica. “Apertura” che si traduce nell’assorbimento di altri popoli nel corpo sociale romano. Sia che si penti a sinecismi forzosi dove comunità più dinamiche e forti costituivano un polo atto ad attrarre strutture minori, più deboli o addirittura in via di "disgregazione, sia che si inquadri il fenomeno nel contesto della «mobilità gentilizia» delle origini, l'evidenza della tradizione indica, per le origini dell'affermazione romana, una certa quale «permeabilità» della civitas, con tendenza ad assimilare anche costumi e pratiche religiose delle popolazioni vinte. Un'attitudine, questa, che si rinviene anche in alcune strutture del diritto privato, dall'assorbimento dei clientes nella famiglia del patronus, all'assunzione della potestà paterna sull'adrogatus, all'acquisto del potere maritale sulla moglie. Una logica che Roma, in alcuni casi, conserverà ancora anche, nella media repubblica, nei riguardi di comunità che le han mosso guerra, con il duplice intento di scioglierne la compagine e di porre sotto stretto controllo le élites dei ribelli. È forse con la caduta delle tirannidi originarie, o con il progressivo prender forma delle strutture istituzionali interne, che si assiste al consolidarsi dell’autonomia delle diverse realtà cittadine del Lazio antico. Pur in presenza di una sensibile condivisione di valori, l’individualizzarsi delle singole comunità provoca la emersione di una serie di regole ed istituti attraverso cui gestire il rapporto con l’altro. Significativo il contesto religioso nel quale si fanno innestare le relazioni “intercomunitarie”, nel passaggio da monarchia a Repubblica: è infatti in tale periodo che si osserva la costituzione di federazione cittadine, di leghe, di carattere politico-religioso, analoghe alle amfizionie ellenistice. Per quanto attiene alle esigenze di “reciprocità” nella regolamentazione dei rapporti fra appartenenti a collettività distinte, i primi passi sono rappresentati dalla concessione di hospitium a membri di comunità straniere da parte della civitas in quanto collettività, oltre che da una forma di ospitalità per così dire “privata”, realizzata da singoli gruppi familiari o singole gentes all’interno della civitas. Un ulteriore profilo è costituito da promesse di amicitia fra popoli dell’Italia centro- meridionale, che avevano come base un sostanziale impegno di non aggressione. L’amicizia fra comunità è di contenuto vario, ma generalmente tende ad assicurare un trattamento di reciproco riguardo, all’interno del proprio Stato, ai membri del popolo alleato. I foedera arcaici contemplano ad esempio regole sulla reciperatio internazionale, attraverso cui le comunità possono trovare giustizia in caso di sottrazione o altri illeciti di natura violenta, presumibilmente previsioni in tema di scambi commerciali, e il riconoscimento di tutela giuridica di pretese privatistiche nei reciproci confronti. Fonti più tarde definiscono il commercium come il “diritto reciproco di acquistare e vendersi beni”. Esso rappresentava non solo la facoltà di vendere a, ed acquistare beni da un membro di un’altra collettività, quanto la possibilità di veder tutelato il proprio acquisto sia dinanzi la comunità d’origine che presso quella del venditore. In virtù delle Non dovremmo esser troppo lontani dal vero nel supporre che fra gli scopi della fondazione di colonie, tanto romane quanto latine, potesse esservi anche quello, per alcune famiglie dell'oligarchia al potere, di crearsi clientele potenti nella colonia di nuova istituzione, espandendo così il proprio influsso nel centro-Italia. I rapporti fra coloni e indigeni non appaiono essere stati caratterizzati da elevati livelli di conflittualità, come sarebbe invece avvenuto per le colonizzazioni sillane: pare anzi che le colonie fossero funzionali alla progressiva assimilazione del substrato indigeno. Non bisogna sottovalutare neanche la capacità di attrazione di tali «isole di romanità» nel contesto italico. Lo svolgimento di attività commerciali e la celebrazione di riti religiosi erano certo fattori di richiamo per il contado circostante e anche per gruppi più vasti soggetti a movimenti migratori. Attraverso tali attività comuni si veicolavano gli ideali e la lingua di Roma. A partire dagli inizi del II sec. a. C., la politica della classe dirigente romana appare tuttavia mutare. Le deduzioni di colonie latine si rarefanno per interrompersi nel 181 a.C.163, e si perdono le tracce delle elargizioni di cittadinanza che avevano caratterizzato i rapporti fra Roma e le comunità del Lazio e del sud limitrofo dopo la «risistemazione» del 338 a.C. Che la originaria «apertura» di Roma abbia subito una battuta d'arresto sembra indicato anche dai ripetuti tentativi da parte di Latini e soci Italici di pervenire alla cittadinanza tramite sotterfugi. Pare che la tendenza dominante fosse, nelle colonie e nelle città federate tenute a fornire annualmente contingenti di armati, sottrarsi ai doveri in esame, spostandosi dal proprio centro di residenza in una colonia romana, o nella stessa Roma. I tentativi di contenere il fenomeno della migratio Romae avranno avuto scarso successo, data la loro reiterazione nel tempo. A partire dal 167 a.C., alle diverse possibilità sino allora accessibili ai cives, si era aggiunta anche la soppressione del tributum, cui si è già accennato. Non è escluso che tale nuova agevolazione potesse rendere ancor più attrattivo, per soci e Latini, almeno individualmente considerati170. l'accesso alla civitas. Via via che gli ideali e la cultura della romanità andavano armonizzando fra loro le diverse realtà italiche, si vedeva disperdersi Padesione all'identità locale. Il malcontento, sempre più diffuso e ormai trasversale nelle comumità latine e socie. avrebbe condotto a una prima ribellione, aspramente domata, a Fregelle. L'atteggiamento di apertura di Gaio Mario doveva poi trovare un sensibile contrappeso nella lex Licinia Mucia del 95 a.C., che ancora una volta interveniva a reprimere la prassi abusiva del pro cive se gerere. I tempi erano maturi per una sollevazione dell'Italia intera, che avrebbe condotto al bellum sociale e alla definitiva concessione della cittadinanza universae Italia, con la lex Iulia de civitate dell'89 a.C.. Da quel momento in poi la civitas Romana era destinata a mutare radicalmente natura, divenendo strumento di accesso ad una res publica universale. 6. “IUS LATII”, “IUS ADIPISCENDAE CIVITATIS PER MAGISTRATUM” E “MUNICIPALIZZAZIONE” NELLA TARDA REPUBBLICA La civitas Romana diventa dopo la lex Iulia de sociis uno strumento per governare i rapporti fra Roma e le popolazioni extra-italiche. In particolare i capiparte e gli imperatores avrebbero fatto assai disinvoltamente ricorso a naturalizzazioni collettive. Un vasto progetto di colonizzazione fu poi avviato da Cesare. Le coloniae Iuliae quasi certamente attribuibili a Cesare di cui abbiamo notizia sono prevalentemente di diritto latino, dato da cui si desume che Cesare si sia perlopiù limitato a concedere statuto di colonia a realtà peregrine preesistenti. La sua vera grandezza risiedé tuttavia nell’estensione del ius Latii a numerosissime comunità romanizzate di Sicilia, Spagna e Gallia Narbonese. Il “ius latii” era stato arricchito con la concessione ai veteres incolae della comunità della Transpadana della possibilità, gerendo una magistratura nella città d’origine, di acquisire la civitas Romana. Si trasformava, mi sembra, un diritto intermedio fra la civitas romana e lo statuto Peregrino, in una porta d’ingresso, uno stadio preliminare, alla cittadinanza romana. Roma avvicinava a sé le élites municipali delle realtà maggiormente romanizzate al di fuori dell’Italia aprendo un nuovo canale di accesso alla civitas. 7. DOPPIA CITTADINANZA E PATRIA COMMUNIS Le elaborazioni teoriche di maggiore rilevanza in tema di civitas sono riconducibili sostanzialmente a Cicerone. Dal punto di vista più strettamente giuridico troviamo nella pro Balbo la teorizzazione della sostanziale diversità fra l'esperienza delle póleis greche e quella di Roma in tema di cittadinanza. Nella tarda repubblica nell'ordinamento delle póleis greche vigeva il principio per cui chi godesse di doppia cittadinanza era considerato come cittadino di ciascuna delle relative comunità. Si trattava, parrebbe, di una scelta diretta a superare la frammentazione politica da cui erano affette le realtà in questione, e volta ad assicurare la necessaria osmosi fra comunità e la migliore circolazione di capitali e persone. Roma aveva optato per meccanismi differenti di «inclusione» dello straniero che consentissero la fruizione delle norme dell'ordinamento romano. Dal punto di vista più propriamente giuridico questo si traduceva nella «esclusività» della civitas, nell'impossibilità, per un romano, di acquisire la cittadinanza di un'altra comunità. Coloro che, per ignoranza, si fossero fatti inserire nelle «liste civiche» di un'altra città, o nei tribunali giudicanti di una polis greca, avrebbero automaticamente perso la cittadinanza romana. Diverso orientamento si sarebbe progressivamente fatto strada nel principato, anche in connessione con il progressivo sostituirsi di Roma alle basileiai ellenistiche. Alla fine della repubblica ai romani non era invece consentito «appartenere contemporaneamente a questa città e ad un altra qualsiasi, a piacimento» Non deve escludersi che alla base di un simile orientamento vi fossero anche riflessioni legate alle necessità del prelievo fiscale. È invece in un'ottica propagandistica che si spiegano le affermazioni contenute nel de legibus ciceroniano, riferite all'origo, e che in qualche modo appaiono «tirare le somme» dell'ormai intervenuta unificazione italica nel nome di Roma. Roma, nell’assorbire in sé i latini e i soci italici, era assurta a protettorato comune dell’intera Italia, a punto di riferimento politico, giuridico e culturale, a patria quanto al profilo dell' «appartenenza». Opportuno, politicamente, lasciare ai non romani ('illusione di un'autonomia geografica, etnica, lato sensu culturale: è quanto si ravvisa, direi, nell'allusione ad una patria naturae. Al di là dell'illusione, restava la realtà dei fatti: dal punto di vista di Roma l'urbs, con la sua civitas, era ormai punto di riferimento giuridico- politico per l'Italia intera. In un momento in cui l'identità italica era ancora in via di formazione, essendo ancora frammentate le realtà che la componevano, il collante unitario era rappresentato dal diritto. dal potersi, le diverse etnie ora unite nella comune civitas, riconoscersi nell'unica patria iuris Roma.
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