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Riassunto Politiche economiche, dei mercati e dell'ambiente, Sintesi del corso di Economia Politica

Riassunto Politiche economiche, dei mercati e dell'ambiente di Donatella Porrini

Tipologia: Sintesi del corso

2015/2016
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Caricato il 10/01/2016

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Scarica Riassunto Politiche economiche, dei mercati e dell'ambiente e più Sintesi del corso in PDF di Economia Politica solo su Docsity! CAPITOLO 1 1. IL PIL Il termine PIL sta per Prodotto Interno Lordo. • P sta per Prodotto e si riferisce a tutto ciò che viene prodotto nel sistema economico, sia beni materiali che servizi, sia del settore pubblico che del settore privato. • I sta per Interno e indica che la misurazione riguarda il territorio compreso nei confini nazionali. • L sta per Lordo e indica che si tratta di una misura al lordo degli ammortamenti. Per quanto riguarda l’andamento del PIL nel tempo, dal 1970 al 1979 il PIL è cresciuto intorno al 40%, negli anni 80 ha rallentato la propria crescita, sfiorando comunque il 25%. Negli anni 90 non è andato oltre il 13%, ma la vera e propria battuta d’arresto si è avuta tra il 2000 e il 2009, quando il PIL è cresciuto appena dell’1,2%. In Italia il PIL viene stimato dall’ISTAT e viene calcolato attraverso 3 metodi. 1. Metodo della distribuzione del reddito: si somma tutto ciò che viene distribuito in forma di retribuzione, lavoro (salari) e capitale (profitti) in modo da evidenziare come vengono distribuiti i redditi all’interno di un paese. Per quanto riguarda questo metodo, contabilmente viene indicato quanto prodotto dal sistema economico, in termini di prodotti e servizi, che è equivalente alla somma di tutti i redditi che vengono distribuiti (PIL=Y); 2. Metodo del valore aggiunto : si somma tutto ciò che viene prodotto dai singoli settori (agricoltura, industria e servizi) in modo da rappresentare le caratteristiche produttive di un paese. Questo metodo va a calcolare il contributo di ciascun settore produttivo al prodotto finale; 3. Metodo della domanda aggregata: si sommano consumi, investimenti, spesa pubblica e la differenza tra importazioni ed esportazioni in modo da avere un quadro generale della domanda. Con questo metodo viene messo in evidenza non solo a quanto ammonta la produzione, ma anche da chi e in che modo viene impiegata. Il PIL viene misurato annualmente e viene calcolato anche trimestralmente in modo da mettere in evidenza l’andamento del sistema economico nel breve termine. Il PIL può essere reale e nominale. Il PIL reale viene misurato senza l’influenza dell’inflazione, quindi misura la crescita economica indipendentemente dall’influenza monetaria (questo è quello calcolato dall’Istat). Il PIL viene rapportato al numero degli abitanti del paese nell’anno e indica quanto reddito riceve in media ogni individuo della popolazione. 2. LA DISTRIBUZIONE DEL REDDITO Il reddito varia in funzione delle classi economiche e sociali. Abbiamo tra tipi di classi: ricca, media e povera. Due paesi possono avere lo stesso PIL, ma quello che fa la differenza è la concentrazione del reddito, che potrebbe essere molto diverso nelle classi sociali. La misura della distribuzione del reddito avviene tramite il calcolo del PIL pro capite. PIL pro capite = PIL / numero abitanti del paese Il teorema di Atkinson afferma che tanto più è equa la distribuzione del reddito tra la popolazione tanto più è elevato il benessere sociale. Dal punto di vista della distribuzione, la situazione è preoccupante quando in un paese vi sono molte persone in povertà (Povertà= situazione che porta le famiglie ad avere dei disagi, dovuto al reddito basso). Il livello di povertà viene misurato attraverso due indici: quello assoluto e quello relativo. • Assoluto: • quando viene usato a livello internazionale, è quella percentuale di popolazione che non gode di neanche un dollaro di reddito al giorno; • quando viene usato a livello nazionale, l’Istat va a definire la soglia di povertà assoluta come la spesa minima per acquisire i beni e i servizi che nel contesto italiano vengono considerati essenziali per conseguire ad ogni famiglia uno standard di vita minimamente accettabile. • Relativo: • L’indice di povertà relativo definisce la povertà in relazione al luogo e alla situazione in cui si vive. Si parla di “forbice del reddito” quando vi è tendenza, dopo la crisi, all’aumento delle classi ricche e povere (negli ultimi anni queste sono in costante aumento). La curva di Lorenz misura quanta parte della popolazione possiede un certo reddito. Sulle ordinate troveremo il reddito espresso in percentuale. Sulle ascisse troveremo la percentuale delle famiglie. L’equa distribuzione del reddito sarà rappresentata dalla bisettrice e questa si ottiene quando il 100% del reddito (PIL) sarà distribuito al 100% delle famiglie. Per esempio il 30% delle famiglie dovrebbe avere il 30% di risorse, ma quello che realmente accade è che il 30% delle famiglie gode solo del 10% delle risorse. La curva di Lorenz indica i dati reali dei paesi e tanto più è panciuta, tanto più abbiamo una disequità nella distribuzione del reddito. Obiettivo delle politiche economiche è quello di aumentare il PIL, ma resta aperto il problema se il PIL è una corretta misura del benessere. Normalmente si ipotizza che il benessere corrisponda al livello di produzione di un paese, più si hanno a disposizione beni e servizi, più le persone stanno bene. Quindi, si pensa che i beni materiali siano direttamente proporzionali al benessere. Sempre più frequentemente questo viene messo in discussione e vengono così evidenziati i limiti del PIL. Il PIL ha un particolare difetto, che non registra soltanto i beni (prodotti che danno benessere ai cittadini) e i servizi, ma anche i mali. Sono stati gli americani per primi a coniare questi termini: goods and bads. Il PIL, per esempio, non rileva la quantità e la qualità di istruzione, il livello di corruzione e criminalità, il rispetto dell’ambiente, lo stato di salute e le aspettative di vita; inoltre non tiene conto del livello di povertà. Questi sono tutti parametri sociali che sono fondamentali per la valutazione del benessere e sono proprio così detti Bads. Vi è anche un serio problema di contabilità, in quanto il PIL non tiene conto della materia nella quale un determinato stato va ad investire. Esempio: armi o sanità, oppure istruzione. Quindi, potrebbe accadere che due paesi apparentemente uguali per tasso di PIL siano diversi dal punto di vista del benessere della vita sociale, in quanto, in un paese il tasso del PIL sarà dato dalla produzione di armi, in un altro dall’investimento nella sanità o nell’istruzione. Inoltre, altro problema del PIL, è che questo non riflette tutto ciò che viene prodotto in un paese, come attività informali, oppure attività legali ma occultate. Quindi, possiamo dire, che il PIL è incompleto nel registrare la crescita, questo perché al calcolo statistico sfuggono tre tipi di voci, che non vengono contabilizzate: • Voci di economia informale: attività per le quali non è previsto scambio monetario. Es: il proprietario di un fondo che lascia raccogliere il raccolto del terreno gratuitamente. Non emerge per tanto l’attività economica e non verrà registrata; • Voci di economia sommersa: attività economica che non viene dichiarata, per tanto non emerge e non verrà mai registrata. Es: quando affitti un appartamento ad un amico senza effettuare nessun contratto; • Voci di economia illegale: grandi attività economiche non dichiarate e non registrate. Es: produzione di beni e di servizi la cui vendita, distribuzione e possesso sono proibite dalle norme penali. Tutte queste attività, secondo l’ISTAT, vanno racchiuse nella voce “economia non direttamente osservata” e devono essere incluse nella stima del PIL. Il motivo per il quale tali voci non sono computate nel calcolo statistico dell’ISTAT è che quest’ultime non sono meramente registrate dalle indagini statistiche presso le imprese, o nei dati fiscali amministrativi. I nuovi sistemi di contabilità nazionale impongono a tutti i paese di contabilizzare nel PIL anche l’economia non osservata. La contabilità nazionale italiana, al pari di quella di altri paesi europei, esclude l’economia illegale per la difficoltà nel calcolare il provento dovuto da tale attività illecita. Oltre all’attività illecita anche il mancamento versamento dei contributi sociale nel 2008 quasi 3 milioni di lavoratori non regolari. Approfondimento: Nel 2008 il valore calcolato nell’area dell’economia sommersa risulta compreso tra un minimo di 255 miliardi e un massimo di 265 miliardi di euro, rispettivamente il 16,3 e il 17,5% del PIL. La parte più rilevate dell’economia sommersa è data dalla non dichiarazione del fatturato (evasione fiscale). In Italia, attività economiche parallele (come lo smaltimento illegale di rifiuti tossici e la legalizzazione di alcune attività, come la vendita di cannabis e la legalizzazione della prostituzione) potrebbero far aumentare notevolmente il PIL. Per via dell’economia sommersa, la comunità europea ha deciso di attuare una correzione in percentuale del PIL per permettere di ipotizzare il reale PIL di un paese se tali voci fossero registrate. Quindi, possiamo dire che il benessere delle persone non è collegabile ad un fattore meramente economico, ma dipende anche da fattori sociali come: la qualità della vita, la sicurezza sul luogo di lavoro, la disponibilità di tempo libero, la possibilità di avere mezzi di trasporto efficienti. Quindi si affronta il problema della contabilità del PIL inserendo o togliendo tali voci, che possono essere calcolate per avere un PIL corretto rispetto a quello tradizionali. Importante contributo, in questo senso, è stato dato da i Nobel Nordhaus e Tobin, che hanno proposto il MEW (Mejor of Economic Welfare). La MEW riesce ad inquadrare il benessere di un paese anche se starà trattando due paesi con uguale PIL. Questo perché sarà in grado di determinare l’area di maggior investimento di uno stato (armi, sanità e istruzione). Proprio in questo senso, sono stati creati altri indicatori di benessere che cercano di fornire informazioni, oltre che sulla sfera economica (come il PIL), anche su quella sociale e ambientale. Sono indicatori di benessere: • PIL verde: che si ottiene sottraendo al PIL tradizionale, voci di spesa, come i costi per i danni ambientali subiti o perdita di patrimoni naturali. • HDI: Human Development Ideas: questo indica lo sviluppo della qualità della vita, oltre che la crescita, quindi lega al PIL tradizionale 3 variabili: reddito pro capite, speranza di vita alla nascita, alfabetismo e scolarizzazione. • Il più avanzato indicatore di benessere è però il GPI (Genuine Progress Indicator) ovvero l’indicatore di felicità. Gli economisti che hanno creato tale indicatore credono che nella misura della felicità bisogna andare a separare la disponibilità monetaria dal benessere. Secondo tali economisti il benessere dipende, gran parte, non dai beni materiali, ma dagli aspetti della vita economica e sociale. Es: Tra un dipendente e un libero professionista è più felice il libero professionista anche se in ambito lavorativo corre più rischi. Oppure, la felicità degli individui dipende a seconda che questi si trovino in paesi caratterizzati da istituzioni democratiche o istituzioni totalitarie. Detto ciò, i tentativi dei vari economisti di misurare in modo diverso il benessere degli individui, considerando vari fattori, è molto importante dal punto di vista della politica economica perché se è un dato di fatto che il PIL non è una misura corretta del benessere, le politiche economiche non devono essere necessariamente indirizzate verso la crescita del PIL ma piuttosto verso l’aumento della qualità della vita, ovvero verso investimenti che permettono agli individui di stare bene, anche senza un reddito più adeguato. 1.6 LO SVILUPPO SOSTENIBILE Il concetto di sostenibilità è un concetto che ha a che fare con lo sviluppo nel tempo. Quando però si parla di sviluppo sostenibile ci si chiede a che cosa questi continui aumenti di produzione daranno origine. La risposta è che a lungo andare ci potrebbe essere un esaurimento delle risorse, quindi il problema da porsi è quello sulla riproducibilità di tali risorse. Nella Conferenza di Stoccolma del 1972 è stata richiamata l’ attenzione sul fatto che per migliorare le condizioni di vita in modo duraturo bisognerebbe preservare le risorse naturali a nostra disposizione. La prima definizione di sviluppo sostenibile, è stata data nel 1987 e si ritrova nel Rapporto Brundtland, secondo cui: “ lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la capacità delle generazioni future di soddisfare i propri “ Tale concetto pertanto si riferisce al benessere delle persone mettendo in luce un principio fondamentale, quello della responsabilità da parte delle generazioni di oggi nei confronti delle generazioni future, evidenziando così due aspetti vitali dell’ eco-sostenibilità, ovvero il mantenimento delle risorse e l’ equilibrio ambientale del nostro pianeta. Nel calcolo dello sviluppo sostenibile, quindi, si fa un calcolo proiettato nel futuro ed eventualmente si decide di limitare la disponibilità presente. Per meglio spiegare la sostenibilità, questa è da intendersi come un processo continuo che coniuga tre dimensioni fondamentali dello sviluppo: 1. Sostenibilità ambientale: ovvero, mantenere qualità e riproducibilità delle risorse; 2. Sostenibilità economica: capacità di un sistema economico di generare una crescita duratura degli indicatori economici (generare reddito, lavoro.. ); 3. Sostenibilità sociale: la capacità di garantire condizioni di benessere umano (sicurezza, salute, istruzione) equamente distribuiti per classi e per genere. Il perseguimento dello sviluppo sostenibile è legato alla capacità di garantire una interconnessione completa tra economia, società e ambiente. Tali elementi costituiscono un unico insieme e quindi contribuiscono al raggiungimento del loro fine comune, ovvero lo sviluppo sostenibile. Ciò significa che un intervento di politica ambientale deve tenere conto delle reciproche interrelazioni e nel caso in cui le scelte privilegino solo una o due delle sue dimensioni (vivibile, equo e realizzabile) non si verifica uno sviluppo sostenibile. L’attenzione al problema ambientale è molto importante, in quanto, con lo sfruttamento delle risorse, si potrebbero avere effetti gravissimi non tanto per la nostra generazione ma per quelle successive. Il tema ambientale è tutelato non solo a livello nazionale, ma anche e soprattutto dalla comunità europea. Nonostante ciò, normalmente le politiche economiche messe in atto dal governo tendono ad essere politiche miopi, in quanto, non guardano lontano ma guardano soltanto il resoconto del breve periodo, questo a discapito delle risorse ambientali, come per esempio il petrolio, che è sempre più sfruttato dai più importanti stati mondiali. In termini economici, il problema riguarda la misurazione dello sviluppo sostenibile e dell’utilizzo dell’indice di sostenibilità. E’ molto difficile capire quali siano le variabili che possono dare misura della sostenibilità. Il benessere futuro delle generazioni, rispetto al nostro, dipende dalla dimensione degli stock di risorse esauribili e dal modo nel quale riusciremo a conservare la quantità e la qualità di tutte le altre risorse naturali rinnovabili necessarie per la vita. L’approccio alla sostenibilità deve saper combinare i diversi dispositivi volti a controllare lo stato fisico dell’ambiente e il miglioramento della qualità della vita e della società. Se le risorse fossero scambiate in un mercato senza imperfezioni, ovvero in grado di tenere conto dello sfruttamento delle risorse naturali, il valore di ogni risorsa potrebbe essere tenuto sotto controllo. In Italia, la fondazione Enrico Mattei si è impegnata a realizzare l’obiettivo della misurazione attraverso la formazione di un indice di sostenibilità che constata una classificazione tra i diversi paesi, per vedere se lo sviluppo che stanno registrando sia sostenibile oppure no. Il Feem Sustainability Index è volto alla creazione di uno strumento alternativo al PIL per la misurazione del benessere e per la valutazione della sostenibilità dei paesi. L’indicatore di sostenibilità si compone di tre tipologie di indici: L’inflazione ha diverse cause e quindi è difficile capire a quale di queste sia dovuto l’aumento dei prezzi. Capire le cause è molto importante proprio perché da ciò si va a capire quale politica economica adottare per far tornare il tasso di inflazione a livelli stabili. Una prima causa di inflazione viene espressa dalle Teorie Costiste, che legano l’inflazione al fenomeno dell’aumento dei costi di produzione. Per esempio, in Italia negli anni 70 si è avuto un tasso di inflazione a doppia cifra insieme all’aumento dei costi di produzione. Esempio di costi di produzione possono essere il fattore produttivo lavoro, quindi un aumento dei salari dovuto alle rivendicazioni sindacali; una seconda tipologia di costi sono quelli legati alle materie prime. Seconda questa teoria, l’imprenditore reagisce all’aumento del costo del lavoro e delle materie prime aumentando i prezzi dei prodotti finali. Se l’inflazione è dovuta a fenomeni costisti, per combatterla occorrono politiche economiche che intervengano sui mercati delle materia prime e sul mercato del lavoro. Un’altra causa di inflazione è dovuta all’eccesso di domanda. L’inflazione da domanda è una teoria elaborata dagli economisti classici che credono fermamente che la stabilità vi sia soltanto quando domanda e offerta si incontrano. Secondo tali economisti l’inflazione non può durare per un lungo periodo, in quanto in ogni mercato è possibile trovare l’equilibrio attraverso il prezzo e quindi nel lungo periodo avere un adeguamento dell’offerta rispetto alla domanda. Secondo gli economisti neoclassici però tale adeguamento non potrebbe esserci a causa del malfunzionamento dei mercati e quindi dovranno essere le politiche economiche adottate dai governi a far ritornare l’equilibrio. Un eccesso di domanda potrebbe essere determinato da un eccessiva disponibilità di moneta. A questo proposito, tale teoria classica è espressa dall’equazione di Fisher. M V = Y M V = P T M è la quantità di moneta per la velocità alla quale circolata (V), deve essere uguale al reddito Y che è dato dal livello dei prezzi (P) moltiplicato per le transizioni (T). La parte sinistra dell’equazione indica l’ammontare di risorse monetarie a disposizione dei cittadini in un paese. Questo valore deve essere uguale alla parte destra, quindi alle transizioni espresse in moneta. Anche nella teorie keynesiana l’eccesso di domanda porta all’inflazione. Secondo Keynes, in un’ipotesi di carenza di domanda occorre un intervento dello stato, con l’aumento della spesa pubblica, che dia una spinta all’economia. Se però la domanda è molto elevata, la teoria keynesiana viene ribaltata, quindi lo stato dovrebbe disincentivare la domanda e i consumi. Sia per i classici che per i keynesiani, un’eccessiva circolazione di moneta porta ad un aumento sproporziato della domanda e quindi dell’inflazione. Proprio sulla base di tale teoria, la Banca Centrale Europea è orientata a combattere l’inflazione attraverso il controllo della quantità di moneta in circolazione. CAPITOLO 3 3.1 IL TASSO DI DISOCCUPAZIONE Per disoccupazione, in senso generale, si intende un problema per il quale all’interno del sistema economico vi sono persone che non trovano lavoro. Quando parliamo di misurazione della disoccupazione, significa misurare i non occupati, ovvero coloro che vorrebbero lavorare ma che non riescono a trovare lavoro (disoccupazione involontaria). La disoccupazione viene misurata dal tasso di disoccupazione, che misura in percentuale i disoccupati all’interno di un paese. Tasso di disoccupazione(%) = numero di disoccupati / forza lavoro Secondo l’ISTAT “il tasso di disoccupazione si ottiene come rapporto percentuale tra la popolazione di 15 anni e più in cerca di occupazione e le forze di lavoro. Queste ultime sono date dalla somma degli occupati e dalle persone in cerca di occupazione”. Per forza lavoro si intende la misura di coloro che hanno capacità di lavorare. Quindi sono esclusi coloro che sono al di sotto dell’età lavorativa, quelli al di sopra (quelli che sono in pensione) e quelli affetti da incapacità fisica. La variabile della forza lavoro, negli ultimi anni, è aumentata a causa dell’immigrazione, ma è diminuita a causa della diminuzione della natalità. Quando parliamo di occupazione facciamo riferimento al concetto di ricerca attiva del lavoro. L’occupazione si misura attraverso il tasso di occupazione, che è la misura in percentuale degli occupati all’interno di un paese. Tra il tasso di disoccupazione e quello di occupazione, il più preciso ad individuare la quantità di disoccupati all’interno di un paese è quello di occupazione, in quanto vi sono fonti più attendibili che certificano tale tasso. Un altro tipo di misurazione del tasso di occupazione è dato dal rapporto tra gli occupati tra i 20 e il 64 anni e la popolazione della stessa età per 100. A livello Europeo, una persona si definisce occupata se nella settimana presa in considerazione ha svolto almeno un’ora di lavoro in qualsiasi attività che preveda un corrispettivo monetaria o in natura, oppure è stata assente dal lavoro per ferie, malattia o cassa integrazione. Obiettivo fissato dall’Unione Europea è raggiungere nel 2020 un’occupazione del 75% della popolazione tra i 20 e i 64 anni. Paesi come Svezia, Olanda, Germania, Danimarca e Austria hanno raggiunto già tale livello; ma altri paesi come l’Italia sono al di sotto di tale percentuale. A livello statistico, per capire cause e rimedi della disoccupazione, non si può considerare semplicemente l’occupazione a livello nazionale, bisogna per tanto andare a parlare di statistiche che caratterizzano le diverse categorie di lavoratori. Ad esempio analizzare il tasso di occupazione dei diversi settori di attività, suddividerlo per arie geografiche, per età e per genere. Un’altra misurazione della disoccupazione può essere data dal tasso di inattività, che si ottiene dal rapporto percentuale tra le non forze di lavoro nella fascia di età dai 15 ai 64 anni e la corrispondente popolazione. Sono definite come non forze di lavoro le persone che non sono ne occupate ne in cerca di occupazione. Per avere un’esatta quantificazione del livello di disoccupazione è necessario anche considerare il lavoro sommerso, il c.d. lavoro nero. Approfondimento: secondo l’ISTAT nel 2009 i lavoratori non in regola erano 3 milioni. Il lavoro nero alimenta fortemente l’evasione fiscale, inoltre, va sottolineato che i lavoratori irregolari hanno uno stipendio più basso rispetto a quelli regolari, per tanto, sono costretti a lavorare di più, in condizioni di minore sicurezza ed in completa assenza di tutele sui proprio diritti sindacali. Tali problemi sono critici in quanto non permettono il rilancio dell’occupazione e neanche una ristrutturazione del sistema del mercato del lavoro. La disoccupazione ha anche una rilevanza dal punto di vista sociale, in quanto, chi è disoccupato non ha reddito per potersi permettere una vita dignitosa. I disoccupati sono persone che non riescono a contribuire al sistema produttivo, quindi non consumando beni non creano alcuna spinta allo sviluppo del sistema economico. La disoccupazione deve essere quindi combattuta e i governi devono impegnarsi a trovarne i rimedi. Il tasso di disoccupazione è stato inizialmente ignorato nel trattato di Maastricht, in quanto non è stato inserito tra i parametri giudicati dei paesi aderenti. Vi è una confusione generale a livello europeo sulle politiche del lavoro, in quanto queste possono far aumentare il debito pubblico; d’altra parte l’unione monetaria ha spinto i paesi a sanare il bilancio attraverso politiche di controllo del debito pubblico, che quindi sono in opposizione all’obiettivo di migliore l’occupazione. La Banca Centrale Europea, che è espressione dell’unione monetaria, si occupa principalmente del problema dell’inflazione, in quanto per permettere il mantenimento della moneta unica deve assicurare un controllo del livello dei prezzi nei vari stati europei. Questo ha fatto si che l’Unione Europea lasciasse libertà decisionale riguardo le politiche del lavoro alle nazione aderenti. Per sottolineare il controsenso, va considerato inoltre che nel trattato di Roma del 1957 viene affermato che la Comunità Europea ha il compito di promuovere lo sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile dell’attività economiche, nonché un elevato livello di occupazione e protezione sociale. 3.2 TEORIE SULLA DISOCCUPAZIONE E RIMEDI DI POLITICA ECONOMICA Con il termine politiche del lavoro si intendono gli interventi attuati nel mercato del lavoro. Vi sono vari filoni di pensiero riguardo il funzionamento di tale mercato, il primo approccio è di tipo classico, che guarda la disoccupazione come un problema legato allo schema tradizionale di mercato nel quale domanda e offerta non si incontrano. Il mercato del lavoro, a differenza degli altri mercati, è caratterizzato da una domanda espressa dalle imprese che cercano lavoro a seconda della loro attività produttiva. L’offerta invece è fornita dai lavoratori che sono coloro che fanno parte della forza lavoro. La variabile determinante per l’incontro tra domanda e offerta è il prezzo che in questo mercato prende il nome di salario/stipendio. Il mercato del lavoro è un mercato particolare, in quanto, come già detto, si ha l’inversione dei soggetti che esprimono la domanda e l’offerta, nonché a questo si aggiunge la collocazione al di sopra degli altri mercati, in quanto, dal lavoro dipende la produzione di altri beni. Un’altra causa di disoccupazione è quella che viene chiamata disoccupazione strutturale, ovvero dovuta alla carenza di strutture produttive, quindi vi si crea disoccupazione a causa di carenze infrastrutturali idonee a garantire l’occupazione, come strade impianti e trasporti, ma anche perché le imprese non permettono uno sviluppo adeguato per l’aumento dell’occupazione. Quando si parla di problema strutturale si fa anche riferimento all’assenza di strutture che servono a formare coloro che si devono assumere. Altro problema che è causa di disoccupazione è il salario che è troppo elevato, così come troppo elevati sono i contributi che le imprese devono versare per i loro dipendenti. Questo crea un costo molto elevato del lavoro stesso e porta così gli imprenditori a non assumere. Se il problema in questo caso è la rigidità dei salari, le soluzioni che possono essere adottate riguardano l’aumento della flessibilità del lavoro, ovvero La quantità del debito emesso, in valore assoluto, deve essere sempre rapportata alla misura della capacità dello stato di ripagarlo. Dato che il governo può decidere la percentuale di reddito da prelevare dai cittadini attraverso le tasse, è abitudine consolidata rapportare la grandezza del debito pubblico alla somma dei redditi prodotti in un paese, ovvero al PIL. Un rapporto debito/PIL elevato comporta un vincolo importante per la politica economica di un paese, obbligata a destinare risorse pubbliche al servizio del debito per evitare un ulteriore aumento. Vi sono diversi filoni di pensiero che guardano al debito pubblico, secondo la teoria keynesiana, in certe circostanze è auspicabile deliberatamente aumentare il debito pubblico, spendendo di più di quanto si guadagna. Questo perché secondo Keynes la spesa pubblica che tale debito va a finanziare genererebbe la crescita del PIL. Altri economisti sottolineano invece che se si arriva ad avere un debito pubblico corrispondente al 60% del PIL si raggiungerà un effetto cascata secondo il quale il maggior debito rischierà di far crollare il PIL. 4.2 LE POLITICHE DI RIENTRO DEL DEBITO Il debito pubblico non può crescere in maniera smisurata, in quanto un comportamento simile dello stato sarebbe simile al comportamento di un soggetto che spende sempre di più di quanto guadagna. L’interventi per il contenimento del debito sono noti come politiche di rientro. La forma estrema di tale politiche è data dal disconoscimento da parte dello stato dell’intero ammontare del debito, collocando questo a colpe dovute ai cittadini. Questa è una misura impopolare e destabilizzante che mina il rapporto di fiducia tra governo e popolazione. Un secondo intervento potrebbe essere dato da politiche volte a portare il bilancio corrente se non al pareggio, per lo meno a posizione prossima. Poiché il deficit di bilancio è dato da un esubero di spese rispetto alle entrate, in tale situazione sarebbe auspicabile ridurre la spesa pubblica e quindi aumentare le tasse. Entrambi questi interventi hanno un forte impatto sul benessere dei cittadini. La pressione fiscale è calcolata come rapporto tra il prelievo fiscale (imposte dirette e indirette) e parafiscale (contributi sociali e il PIL). La pressione fiscale, in Italia, risulta in linea con la media degli altri paesi europei fino al 2005, mentre successivamente si distanzia dai valori europei nonostante la tendenza di questi a diminuire. L’attuazione di una politica fiscale di rientro, ovvero realizzare un aumento delle entrate attraverso l’aumento della pressione fiscale è molto mal vista, oltre che dai cittadini anche dagli economisti. A questo proposito si può citare la teoria della curva di Laffer, dell’economista statunitense Arthur Laffer. Tale teoria consiste nell’affermazione secondo cui occorre diminuire le aliquote sulla tasse per far aumentare il gettito fiscale. Secondo Laffer vi è un livello di tassazione oltre il quale non ha più senso per l’utente privato investire, produrre e lavorare. L’aumento della pressione fiscale ha quindi l’effetto di disincentivare l’attività economica e quindi ridurre il gettito. Laffer afferma anche che un aumento della tassazione sulle imprese potrebbe portare all’aumento dei costi di produzione, aumento che provocherebbe una diminuzione della competitività delle imprese nazionali e anche processi di delocalizzazione delle imprese italiane e fuga di imprese straniere. D’altra parte, una politica della riduzione della spesa pubblica può portare a una modifica in senso negativo delle aspettative da parte delle imprese. Se entrambe queste teorie hanno effetti recessivi sul PIL, la politica economica da perseguire sarà diversa in base alle esigenze e le situazioni di un paese. In Italia, per esempio, dove la spesa pubblica è destinata in maniera inefficiente e finanzia strutture improduttive è chiaro che sarebbe auspicabile andare a riorganizzare tale spesa piuttosto che aumentare la pressione fiscale. In generale, la miglior soluzione in politica fiscale sarebbe però quella di diminuire la spesa pubblica ma anche la pressione fiscale, questo potrebbe avere un effetto espansivo sul PIL. La riduzione del debito può essere anche realizzata attraverso operazioni di finanza pubblica, attraverso per esempio l’alienazione degli assetti pubblici. Dalla privatizzazione di questo ingente patrimonio si potrebbe dunque ricavare un ingente somma da destinare al debito. Per quanto riguarda le società quotate statali, la privatizzazione consiste nel vendere i pacchetti azionari a società private. L’ingente patrimonio immobiliare dello stato, stimato intorno ai 400 miliardi di euro, non può essere messo sul mercato tutto in un colpo, in quanto questo porterebbe al crollo del mercato immobiliare. Detto ciò, nonostante il momento delicato del mercato di riferimento, la vendita degli immobili di proprietà dello stato porterebbe nelle casse di quest’ultimo introiti ragionevoli, nonché una diminuzione delle spese di manutenzione di tali edifici. Vi sono tuttavia delle obiezioni riguardo le privatizzazione e la vendita degli immobili statali, in quanto in periodo di crisi, i prezzi degli immobili e delle azioni sono valutate a ribasso. Detto ciò, cedere a privati le partecipazioni nelle imprese e vendere gli immobili statali è l’occasione, non solo per assicurare una gestione più efficiente, ma anche per liberalizzare alcuni mercati incintivando la concorrenza e ampliando la possibilità di scelta dei consumatori. Il processo di privatizzazione, quindi, non deve essere un azione secondaria nella strategia di abbattimento del debito, in quanto i suoi effetti sono positivi nel rapporto debito PIL, sia sul numeratore che sul denominatore. Un dato interessante per capire le spese che hanno generato il deficit di bilancio, è quello di andare a guardare la misura della spesa per abitante. In Italia, nel 2011, la spesa pubblica per abitante ammontava a circa 13 mila euro. Questo valore colloca l’Italia appena al di sopra della media europea. In questo situazione si capisce che la spesa non è elevata di per sé, ma appare tale in relazione alla qualità dei servizi pubblici offerti, detto ciò, dal punto di vista delle politiche di rientro la strada praticabile sarebbe data da una maggiore attenzione agli sprechi e da una razionalizzazione dell’uso delle risorse. Quindi, più che una riduzione della spesa pubblica, si dovrebbe attuare un riordino di tale spesa, che permetta alla pubblica amministrazione di offrire un servizio migliore all’utente privato, sia esso cittadino o impresa. Politiche di bilancio, che aumentano le imposte sono generalmente recessive. I tagli alla spesa pubblica sono inutili se non accompagnati da una riduzione delle imposte su imprese e lavoro. Inoltre, per sbloccare i mercati la politica fiscale deve essere accompagnata da un piano straordinario di vendita del patrimonio pubblico e di privatizzazione. CAPITOLO 6 6.1 I VANTAGGI DELLA CONCORRENZA Con mercato si intende qualsiasi luogo, fisico o virtuale, in cui si incontrano domanda e offerta che stabiliscono una quantità di un determinato bene o servizio e un prezzo di scambio. La domanda è espressa dai consumatori e l’offerta è espressa da coloro che immettono un bene o un servizio nel mercato. L’acquisto (domanda) è determinato da tre fattori: • Budget: disponibilità economica (vincolo) • Gusti: non sono misurabili economicamente (scelta) • Utilità: benessere che il consumatore ne ricava (scelta) L’offerta data dalle imprese è prodotta tenendo conto di due fattori: • Costi (vincolo) • Modalità tecnica (scelta-domada) DEFINIZIONE DI CONCORRENZA La concorrenza è la competizione che si viene a creare tra le imprese per dare un’offerta più efficiente al consumatore. Nel regime di concorrenza, il consumatore ha la libertà di prediligere l’acquisto di un bene da un’impresa piuttosto che da un’altra. VANTAGGI DELLA CONCORRENZA Obiettivo delle imprese è il profitto, per tanto la concorrenza dal lato dell’offerta è la competizione tra imprese per riuscir ad avere un maggior profitto. Per il consumatore invece, la concorrenza è vantaggiosa perché più imprese ci sono più vasta può essere la sua scelta. I prezzi potrebbero essere più bassi in quanto le imprese stesse, nel regime di concorrenza, tendono ad abbassare i costi di produzione per sbaragliare la concorrenza. Il mercato moderno è un mercato di concorrenza e la perfezione di tale mercato è data dalla concorrenza perfetta. La concorrenza perfetta è una forma di mercato che ha notevole importanza, dal punto di vista teorico, ma è difficilmente realizzabile. Questo tipo di mercato è caratterizzato: • da una pluralità di imprese di dimensioni ridotte, con caratteristiche simili e che producono gli stessi beni. Il terzo fattore è molto importante, in quanto, il consumatore di fronte a un bene omogeneo è libero di acquistare da un’impresa o da un’altra. • In tale forma di mercato non esistono barriere, ne all’entrata ne all’uscita. All’entrata non esistono barriere in quanto non vi sono costi elevati per le imprese per immettersi nel mercato. Allo stesso modo, l’uscita non comporta costi gravosi per le imprese. • L’informazione perfetta è molto importante in quanto è un problema di tutti i mercati. In base a tale variabile il consumatore è in grado di capire se un abbassamento del prezzo sia dovuto a una scarsa qualità del prodotto, questo è possibile soltanto attraverso un’efficiente informazione fornita ai consumatori. • Non esistono accordi preferenziali tra produttori e consumatori. Nel grafico di un mercato a concorrenza perfetta il prezzo non varia al variare delle vendite. Inoltre questo coincide sia con la curva del ricavo marginale (rmg), sia con la curva del ricavo medio (ar). Per quanto riguarda il profitto, la retribuzione è gia compresa nei costi di produzione. (Guardare libro) Questo è un modello ideale nel quale si hanno prezzi di vendita graditi ai consumatori. Con la concorrenza perfetta viene inoltre stimolato il progresso tecnologico e l’efficienza produttiva delle imprese, in quanto quelle meno competitive escono dal mercato. Per realizzare il modello ideale teorico della concorrenza perfetta bisognerà agire attraverso politiche economiche che intervengono nel mercato e tutela la concorrenza attraverso leggi antimonopolistiche. Nella concorrenza perfetta i consumatori ricavano un eccesso di utilità rispetto al prezzo pagato per l’acquisto, il cosiddetto surplurs o rendita del consumatore. I produttori, a loro volta, ottengono per il loro prodotto un prezzo superiore al costo di produzione, il cosiddetto surplus del produttore. L’opposto della concorrenza perfetta è dato dal monopolio, che esiste quando è una sola impresa a fronteggiare l’intera domanda di mercato. Il monopolio è caratterizzato: • Da una sola impresa produttrice; Problema diverso dalla concorrenza sfrenata è data dai monopoli privati che nascono da imprenditori che acquistano quote di mercato via via rilevanti fino a diventare monopolisti all’interno di un mercato. Esempio eclatante è Bill Gates e la sua Microsoft. E’ molto diffuso il fenomeno dei cartelli, che si generano soprattutto nei mercato di oligopolio dove i grandi colossi limitano la concorrenza accordandosi sui prezzi di vendita, quasi sempre elevati, e sul territorio di vendita. Quando vi è un cartello vi è una forma di collusione tra grandi imprese. Quando si realizza la collusione, il consumatore percepisce un offerta diversificata tra i produttori, che operano tramite marche diverse. Ma ciò avviene solo in apparenza, perché in verità le imprese stanno adottando politiche uguali a quelle di un monopolista. In particolare, le imprese che colludono si accordano per praticare gli stessi prezzi elevati al danno dei consumatori. Quando vi è la collisione, i mercati oligopolisti diventano dannosi esattamente come i monopoli. Tuttavia però vi sono alcuni casi in cui il monopolio di una determinata attività darà risultati migliori rispetto a un regime di concorrenza. Questo è il caso dei settori dei trasporti, elettricità e delle telecomunicazioni. Questi vengono chiamati monopoli di pubblica utilità e sono regolati dall’autorità pubblica, che attraverso i suoi interventi vietano che i consumatori vengano danneggiati. La AGCM (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) ha poteri di indagine e accertamento, esercita un controllo dell’attività di impresa nel mercato e al contempo, in presenza di elementi che lascino intravedere condotte anticoncorrenziali da parte delle imprese, l’autorità procede con l’avvio di un istruttoria, ovvero uno svolgimento concreto di un accertamento. A conclusione dell’attività istruttoria, l’autorità adotta i rimedi che l’ordinamento prevede a tutela dell’equilibrio dei mercati. La legge 287/1990 pertanto stabilisce che qualora vi siano attività anti-concorrenziali, l’autorità deve porre il termine per l’eliminazione delle infrazioni. Si tratta del potere di diffida mediante il quale l’autorità può esprimere un divieto o un’inibizione. L’autorità ha anche poteri sanzionatori e nel caso di inflazioni può applicare sanzioni amministrative pecuniarie, la cui consistenza sarà determinata in un massimo pari al 10% del fatturato realizzato da ciascuna impresa prima della notifica di diffida. In ottica diversa vi sono programmi di clemenza. Questi permettono alle imprese coinvolte in un’inflazione di non essere sanzionate economicamente previa autodenuncia della partecipazione alla pratica illecita e alla collaborazione in termini di prova all’autorità. Tuttavia tale programma non fa venire meno la responsabilità delle imprese per i danni causati ai consumatori o ai concorrenti. L’autorità esercita altri due importanti poteri: la segnalazione e il potere consultivo. La segnalazione viene fatta al parlamento, al presidente del consiglio dei ministri, ai ministri competenti e agli enti locali e territoriali interessati. Il potere consultivo è previsto dall’art.22 e consente all’autorità di esprimere pareri sulle iniziative legislative o regolamentari e sui problemi riguardanti la concorrenza ed il mercato, quando lo ritenga opportuno, o su richiesta di amministrazione o enti pubblici interessati. Quando l’autorità si trova davanti a dei veri e propri cartelli, volti a fissare i prezzi e ripartire l’offerta, se non vi sono notevoli elementi probatori che consentano di identificare l’esistenza di un accordo tra le imprese, l’autorità andrà a valutare i comportamenti delle imprese da cui si possa capire l’esistenza di accordi. La AGCM si occupa anche delle pratiche commerciali scorrette e delle pubblicità ingannevoli, i cui comportamenti poco trasparenti e le informazioni incomplete sono sanzionate dall’autorità in quanto danneggiano il consumatore inducendolo a scelte sbagliate. 6.5 LE POLITICHE PER LA CONCORRENZA: PRIVATIZZAZIONE E LIBERALIZZAZIONE Con il termine politiche della concorrenza si intende l’insieme di misure volte ad ampliare il mercato nell’economia. Con liberalizzazione si intende un processo, solitamente legislativo che consiste nella riduzione di restrizioni precedentemente esistenti. In termini economici il fenomeno comporta nella sostanza l'adeguarsi ai principi del liberalismo economico o a esigenze di libera scelta o di autonomia. Tipicamente, ci si riferisce alla liberalizzazione economica, specialmente alla liberalizzazione del commercio e del mercato. Con il termine liberalizzazione si intendono le politiche volte a rendere i mercati il più possibile concorrenziali, ovvero quelle politiche che immettono nel mercato le caratteristiche della concorrenza, l’eliminazione di barriere all’entrata e all’uscita e l’aumento della competizione. Possiamo avere vari tipi di barriere: • Quelle create dallo stato (barriere pubbliche). Le barriere di tipo pubblico sono applicate in maniera molto diffusa. In Italia ad esempio, in molti settori occorrono delle licenze per operare nel mercato; • Quelle create dalle imprese stesse (barriere private) queste vengono create dalle imprese che operano nel mercato per limitare l’ingresso di altre imprese e possono essere: di tipo finanziario (es. si limita la concessione di credito alle imprese che vogliono entrare nel mercato di determinati settori) barriere date dalle scelte strategiche di marketing (es. imprese che investono nella pubblicità, rendendo impossibile per una nuova impresa entrante di poter sostenere livelli così alti di spesa pubblicitaria) barriere che riguardano la creazione di determinati gruppi di potere (es. per operare nel mercato bisogna appartenere ad un certo gruppo di imprese e il nuovo entrante non viene ammesso in questo gruppo). Di queste barriere si occupa l’attività antitrust o le autorità che vigilano sulla concorrenza nei vari mercati.; La privatizzazione è quel processo economico che sposta la proprietà di un ente o di un'azienda dal controllo statale a quello privato. Vi è una privatizzazione quando vi è un a trasformazione, che non riguarda lo stato giuridico di un’impresa da pubblica a impresa di diritto privato. Ciò che conta nella privatizzazione è che cambi il sistema di incentivi a cui è soggetta l’impresa, quindi quando l’impresa è incentivata non dal sistema pubblico ma bensì da un sistema privato. La cessione del controllo da pubblico a privato deve essere regolata dalla legge, per tale motivo con la legge 481 è stata istituita l’autorità di regolazione per il settore dell’energia e delle telecomunicazioni. In Italia, in seguito all’esigenza di fare cassa, si è avviato un processo di privatizzazione delle imprese pubbliche senza seguire tuttavia modalità appropriate per dar luogo ad una effettiva liberalizzazione. Guardano il processo di privatizzazione italiano, i vantaggi sotto il profilo competitivo sono evidenti, in quanto la dimissione dei soggetti pubblici ha comportato l’inserimento di gruppi italiani ed esteri già leader nel settore specifico. Tuttavia in Italia, nonostante le privatizzazioni, si hanno ancora forme di ampia influenza pubblica sulle imprese, questo perché in Italia rimane la tendenza di affidarsi allo stato più che al mercato per la risoluzione di problemi economici e sociali. Nella lista delle privatizzazione spicca quella della Rai pubblica, già condizionata pesantemente dalla politica e la privatizzazione delle fonti di energia Eni-Snam. La regolazione introduce nuove regole maggiormente orientate al mercato. Gli interventi specifici di garanzia consistono nell’applicazione della normativa antitrust. In Italia le politiche volte alla tutela della concorrenza non sono state sempre condivise nella teoria economica. Nel nostro paese si è arrivati relativamente tardi alla concorrenzialità dei mercati. Prima degli anni 90 vi erano una pluralità di monopoli pubblici. A partire dagli anni 90 si hanno però le prime misure che segnano un cambiamento della politica economica italiana. Il processo di liberalizzazione del mercato è partito quindi in ritardo rispetto ai processi avviati in sede comunitaria. Il ritardo è dovuto anche all’ampia presenza pubblica nell’economia, per tanto si è proceduto attraverso la riduzione delle imprese pubbliche che avevano caratterizzato gli anni 70/80. Il processo di apertura al mercato è stato tuttavia spinto dalla comunità europea e dagli obblighi da essa stabiliti. Gli obblighi furono diretti ai settori delle telecomunicazioni, energia elettrica e gas. Tuttavia alla liberalizzazione si è arrivati anche grazie al fallimento della tendenza interventista degli anni 70, evidenziata dalla crisi del sistema delle imprese pubbliche e delle partecipazioni statali. CAPITOLO 7 7.1 GLI INTERVENTI DI POLITICA AMBIENTALE Per Politiche Ambientali si intendono gli interventi dello Stato indirizzati a risolvere le problematiche ambientali a livello locale, nazionale ed internazionale. Queste hanno come obiettivo quello di correggere il malfunzionamento del mercato. Un economista che affronta i problemi ambientali lo fa utilizzando la categoria delle esternalità, per cui l’inquinamento non è altro che un trasferimento di costi da un soggetto ad un altro. In economia una esternalità si manifesta quando l'attività di produzione o di consumo di un soggetto influenza, negativamente o positivamente, il benessere di un altro soggetto. L’esternalità conducono a fallimenti del mercato per vari motivi, il primo è dato dal fatto che gli individui operano con riferimento a costi e benefici privati che sono spesso divergenti rispetto a quelli sociali. Per esempio, si può considerare un’impresa che produce danni in termini di emissioni dannose per gli abitanti dell’area vicina al sito di produzione. L’impresa ha interesse a mantenere alti i livelli di produzione (interesse privato), questa non considera gli interessi sociali rappresentati dall’interesse degli abitanti della tutela dell’ambiente. Quando vi è l’esternalità si ha un trasferimento di costi sulla popolazione, che vive in maniera malsana, a questo punto occorre un intervento che faccia si che tali costi rientrino tra quelli dell’impresa, che deve pagare le conseguenze della sua produzione. L’obiettivo a questo punto è quello di internalizzare i costi in capo all’azienda. Nei casi di esternalità, lo Stato deve intervenire, in quanto l’inquinamento dell’area che è un bene pubblico non permette ai cittadini da soli di esercitare un proprio diritto, in quanto ne loro ne l’azienda ne sono titolari. Qualora vi sia inquinamento, si devono considerare le diverse politiche economiche che possono attuate a seconda del caso. Nel caso di una fabbrica che inquina e grava sui vicini, la prospettiva è microeconomica e quindi si ha bisogna di una soluzione per il singolo caso, che riguarda la legge dello stato e i regolamenti locali. Quando invece si riferisce ad altri fenomeni come i cambiamenti climatici dovuti alle immissioni di CO2, si ha una prospettiva macroeconomica, per tanto saranno chiamate in causa tutte le imprese di tutti i settori e le soluzione verranno concordate a livello internazionale. Per quanto riguarda le spese che sono state sostenute a livello nazionale per la tutela ambientale, dal punto di vista statistico, tali spese comprendono spese destinate ad interventi di protezione dell’ambiente e di uso e gestione delle risorse naturali, o anche attività di monitoraggio e controllo, ricerca e sviluppo, amministrazione e regolamentazione, informazione e comunicazione. Nel 2010, in Italia la spesa ambientale delle amministrazione regionali ammonta mediamente a 71,6 € per abitante. Gli interventi volti alla protezione dell’ambiente, quindi a salvaguardare questo da fenomeni di Il problema del sistema di attribuzione della responsabilità oggettiva sorge quando l’imprenditore responsabile dell’inquinamento non sia in grado di fronteggiare i costi per i danni derivanti dall’incidente ambientale, questo viene chiamato Judgement Proof. Per risolvere tale problema possono essere applicati due tipologie di strumenti volti ad estendere la responsabilità ad altri soggetti, per permettere di coprire il danno. 1. Lender’s Liability: consiste nell’estendere la responsabilità a soggetti collegati all’impresa ed in particolare ai suoi finanziatori; 2. Financial Responsability: implica che le operazioni di impianti pericolosi (imprese) siano autorizzate soltanto se le imprese possono provare un’adeguata copertura finanziaria o assicurativa per le future obbligazione che potrebbero derivarne. In Italia la direttiva sulla responsabilità ambientale è sancita all’interno del Testo Unico Ambientale (T.U.A. Legge 152/2006). Questa raccoglie una serie di norme per la tutela ambientale e nella parte quinta tratta l’attribuzione della responsabilità. Qualora l’impresa prevenga la possibilità di incidenti che causino danni ambientali e quindi la sua conseguente responsabilità, questa può tutelarsi dai costi per la riparazione del danno, attraverso la stipulazione di contratti assicurativi. L’incidente ambientale è caratterizzato dal fatto che si vanno a danneggiare risorse ambientali che hanno la caratteristica di beni pubblici. Le vittime di tali incidenti non sono ben definite, vi possono essere le cosiddette vittime collettive. Per esempio, può essere vittima di un incidente ambientale l’intera società. Questo è un problema, in quanto, se non vi sono vittime specifiche, mancano i soggetti che andranno a promuovere una causa civile o penale. Per risolvere tale problema, la legislazione italiana ha dato la possibilità alle associazione ambientaliste di adottare ciò che negli Stati Uniti è stato adottato come Class Action. Le Class Action sono azione collettive promosse da gruppi di persone che hanno subito lo stesso danno ambientale. Altro problema legato alla legislazione in ambito ambientale è che il danno che subiscono le vittime potrebbe manifestarsi dopo molto tempo e quindi non essere facilmente attribuito ad una causa. Tale problema lo si risolve attraverso l’accettazione del nesso di casualità, ovvero un collegamento tra l’attività dell’impresa e un possibile aumento di una fattispecie di malattia in un determinato territorio. Bisognerà andare ad analizzare i criteri per valutare il costo in quantità monetaria da attribuire ad un eventuale danno ambientale. Dato che è difficile trovare un prezzo per pagare il danno ambientale, in quanto l’ambiente è un bene pubblico e quindi non vi è un mercato e non vi è quindi domanda, si andrà ad attuare una simulazione di mercato, per cui la valutazione del prezzo si basa sul prezzo che l’utente sarebbe disposto a pagare per l’utilizzo del bene; per tanto si ipotizza una curva di domanda. Poiché l’utilizzo di un bene pubblico non comporta alcun prezzo, attraverso un’indagine statistica, si stabilisce quanto i soggetti sarebbero disposti ad accettare come risarcimento se perdessero la possibilità di utilizzo del bene. Elenco dei vari metodi di risarcimento: 1. Metodo delle preferenze espresse: si cerca di misurare la modificazione del benessere degli individui dovuta al danno ambientale, cioè di quanto vorrebbero essere risarciti gli individui per non usufruire di quel determinato benessere. Un esempio di calcolo del danno si può fare prendendo come esempio una spiaggia libera. Dato che la spiaggia non ha un prezzo di accesso, si andrà a prendere il tariffario di una spiaggia privata, in questo modo si andrà a calcolare il danno. 2. Metodo delle preferenze rilevate: attraverso domanda indirette si chiede agli individui quanto questi, nell’esempio della spiaggia, sarebbero disposti a spendere per usufruire di un’altra spiaggia libera ma ad esempio più lontana rispetto a quella inquinata. 3. Metodo della valutazione endonica: si va a stabilire il valore di mercato del danno ambientale, tenendo conto dei beni che sono incorporati nell’ambiente stesso. Classico esempio è quello del prezzo degli immobili. I prezzi delle case nel mercato immobiliare dipendono da caratteristiche intrinseche, ma anche da caratteristiche estrinseche quali la qualità dell’ambiente. Questo ci permette di calcolare il valore del bene in assenza di inquinamento e di dare una valutazione del danno derivante da quest’ultimo. Altra categoria di metodi è costituita dai metodi senza curva di domanda, che non stabiliscono direttamente il prezzo di un bene, ma trovano una relazione tra i beni privi di mercato e i beni che avendo un mercato sono facilmente valutabili. 1. Il primo metodo si basa sui “costi di”: tale metodo indiretto consiste nel valutare il valore d’uso sociale del bene (es. bosco) facendo un’indagine statistica riguardante il costo che un gruppo di persone avrebbe pagato per sostenere l’escursione. 2. Il secondo è il metodo del costo opportunità: con questo metodo si va a stabilire il costo per un eventuale danno ambientale sulla base della preservazione dell’ambiente stesso, attraverso la rinuncia alla sua possibile massima attività produttiva. Cioè si calcola il valore di una spiaggia libera e il valore di una spiaggia privata dove si andrebbe a impiantare un’attività produttiva e si fa una relazione. 7.5 LE TASSE COME STRUMENTO DI POLITICA AMBIENTALE Le tasse sono strumenti economici che consentono l’internalizzazione degli effetti negativi sull’ambiente. Queste vanno a colpire determinate scelte che influenzano l’attività economica dell’impresa per incentivarla ad avere un comportamento rispettoso dell’ambiente. In pratica si vanno a pagare le scelte che sono contro l’ambiente, cercando di spingere verso soluzioni produttive più ecologiche. Successivamente all’imposizione della tassa, lo Stato si deve porre il problema di come utilizzare il gettito raccolto dalle imprese. L’obiettivo è che questo produca effetti positivi e che quindi lo stato lo utilizzasse ai fini ambientali per il disinquinamento e la tutela dell’ambiente. L’imposta ideale dovrebbe portare l’impresa a ragionare in modo tale che la tassazione venga considerata come un costo marginale sociale. Il costo marginale corrisponde al costo di un'unità aggiuntiva prodotta, cioè alla variazione nei costi totali di produzione che si verifica quando si varia di un'unità la quantità prodotta. E’ fondamentale che la tassa sia ideale, in quanto se questa è troppo bassa si ha soltanto una parziale internalizzazione dei danni e l’impresa continuerà a produrre troppo con un aumento dell’inquinamento. Al contrario, se la tassa è troppo alta, ci sarà un forte scoraggiamento dell’attività produttiva. Esiste un problema legato alla tassazione, ovvero che la tassa va a colpire determinati settori rispetto ad altri. Secondo un analisi di mercato, se viene tassato un settore, si hanno conseguenze sul livello di concorrenza, in quanto la tassazione di un prodotto fa si che questo sia più costoso rispetto ad un altro di altri mercati (es. gasolio-benzina). Le Green tax sono strumenti che vengono utilizzati in tutti i paesi industrializzati e risultano essere politiche molto sostenute a livello di politiche ambientali Europee e la loro applicazione e implementazione viene gestita ancora da ogni nazione con i propri organi interni. Quello che fa l'Unione Europea è quella di utilizzare il sito www.eea.eu sul quale si trovano documenti e studi volti a dimostrare che le tasse sono strumento importante ed efficace da sviluppare all'interno dei paesi e poi viene lasciata ai singoli paesi la scelta se applicarli o meno, perché queste rientrano nelle politiche fiscali ed ambientali e delle scelte di ciascun paese. Politiche fiscali e politiche ambientali non sono delegate a nessun organo dell'UE ma sono rimaste ancora all'interno delle decisioni di politica economica che vengono prese dei singoli Stati. Quando noi parliamo di tasse ambientali ci riferiamo ad uno strumento che viene chiamato strumento economico, anche gli economisti attribuiscono a questo strumento una rilevanza economica, anche se per sua natura non lo è. Perché rispetto ad altri strumenti le tasse ambientali hanno particolare effetto sulle decisioni economiche delle imprese e sui soggetti in generale. Le tasse ambientali vengono anche denominate “strumenti indiretti”. Vengono denominati strumenti indiretti perché hanno come obiettivo quello di far pagare alle imprese o ad i singoli individui una certa somma di denaro in relazione all'utilizzo di certe risorse o ad una certa attività produttiva e a determinate conseguenze inquinanti. È un prelievo che viene fatto dallo Stato alle imprese. Per questo motivo rientra nella definizione di strumento economico. Quindi un vero e proprio scambio monetario, ovvero scambio economico. Si tratta di un obbligo di pagamento da parte di un organo dello Stato ad soggetti privati o pubblici. È in indiretto perché non è un comando che viene fatto nei confronti dei soggetti, ovvero non sono dei limiti che vengono imposti all'attività delle imprese, non sono degli standard di comportamento, ma le tasse sono semplicemente un modo di far pagare di più un determinato tipo di sostanza o far corrispondere ad una determinata attività un certo pagamento in modo da disincentivare questa attività inquinante e cercare così di incentivare un'attività meno inquinante. È un modo di pilotare le scelte delle imprese attraverso una motivazione economica. Quindi si fa pagare di più un certo comportamento inquinante sperando che questo comportamento diminuisca e quindi diminuisca l'inquinamento e di conseguenza ci sia la scelta di un comportamento meno inquinante. La storia delle tasse ambientali ha avuto un momento di particolare importanza appena il problema ambientale si è posto, quindi negli anni 70 dove le politiche ambientali assumono maggiore rilevanza insieme alla diffusione dell'industria, dopodiché questo strumento è stato un pochino abbandonato perché si ritiene essere uno strumento che ha più difetti che pregi, e adesso invece ha momenti di nuovi vigori. In linea generale le tasse sono imposte dello Stato, quindi essi risultano essere strumenti fiscali, quindi normalmente sono imposti dallo Stato e chi controlla il pagamento delle tasse sono di solito delle agenzie, poste al controllo dei pagamenti dei tributi. Quindi è un sistema che in Italia si inserisce nell'ambito del prelievo fiscale. Quando noi parliamo di “cuneo fiscale” delle imprese, nelle imprese ci sono anche una buona quota di tasse di tipo ambientale. In Italia lo strumento delle tasse ambientali è poco utilizzato proprio perché la pressione fiscale sui soggetti pubblici o privati è già di gran lunga elevata. Le tasse possono colpire ed essere applicate su diverse cose, ovvero categorie, o su diversi soggetti oppure in base alle attività produttive e possono avere forme diverse. Di seguito verranno elencate le diverse tipologie di tassazioni. Abbiamo diverse tipologie di tasse ambientali: un certo comportamento, mentre con il contributo si aiuto le imprese perché facciano una data scelta ambientale. 2. Finanziamenti a tasso agevolato: vengono concessi tassi di interesse inferiori a quello di mercato a quelle imprese che si impegnano dal punto di vista ambientale. 3. Sgravi fiscali: con i quali, invece di tassare le imprese per il loro comportamento inquinante, queste vengono sgravate dalle tasse per il loro comportamento di tutele per l’ambiente. 7.6 IL SISTEMA DEI PERMESSI VENDIBILI PER COMBATTERE I CAMBIAMENTI CLIMATICI I permessi vendibili sono strumenti economici che vengono utilizzati come politica ambientale e che hanno come destinatari soprattutto le imprese. Tale sistema si basa sulla creazione e sul funzionamento di un mercato (market base). Sarà la quantità dei permessi scambiati e prezzati a creare un mercato. Si determina, prima di emettere tali permessi, una soglia tollerabile di utilizzo della risorsa. Saranno autorizzati ad inquinare, entro il limite di tale soglia, soltanto chi andrà a pagare il permesso. I permessi vendibili sono l’esempio di come si possa creare un mercato attraverso l’attribuzione di un diritto di proprietà e nella fattispecie nella possibilità di dare un prezzo alle risorse ambientali. Questo è un sistema per il quale si decide a livello internazionale quale sia il livello di inquinamento sostenibile, di quanto si vuole limitare l’inquinamento e dopo di che si autorizzano le imprese ad inquinare sole se queste acquistano dei permessi e rispettano il livello fissato da quest’ultimi. Gli interventi di tipo economico quindi sono: • La fissazione del limite massimo di inquinamento • L’attribuzione di un prezzo per quote di inquinamento Questi permessi danno alle imprese il diritto di inquinare entro un limite sostenibile e quindi hanno l’obiettivo di limitare l’inquinamento. Tali permessi vengono emessi nel mercato anche per limitare lo sfruttamento di risorse naturali esauribili, per esempio si cerca di limitare la pesca nei laghi e quindi cercare di risolvere il problema di una risorsa naturale scarsa e senza prezzo. I permessi sono vendibili sia alle imprese che ai privati e oltre che vendibili sono anche trasferibili. Le persone o le imprese possono scambiarli tra loro. Nello specifico questi strumenti consistono nel limitare l’inquinamento e di incentivare le imprese ad adottare misure efficienti di prevenzione, in quanto per l’impresa sarà meno oneroso utilizzare una tecnologia pulita per produrre, che comprare permessi vendibili. Questo sistema ha avuto un’applicazione molto importante al fine di far fronte all’inquinamento crescente da anidride carbonica. Quindi, attraverso il sistema dei permessi vendibili si è andato a ridurre il limite massimo di emissioni tollerabile a livello internazionale. Abbiamo diversi sistemi per la determinazione della quantità dei permessi vendibili emessi: 1. Sistema dei punti ricettori (Ambient Permit System – APS) nel quale i permessi vengono definiti sulla base dell’esposizione in corrispondenza del punto ricettore, ovvero del punto dove hanno effetto le emissioni; 2. Sistema di permessi di emissione (Emissions Permit System – EPS) in tale sistema i permessi vengono definiti sulla base della fonte di emissione e dunque di chi attua le immissioni; 3. Sistema di controbilanciamento dell’inquinamento (Pollution Offset – PO) Si tratta di una combinazione di APS ed EPS, nella quale i permessi vengono definiti in termini di emissioni. Lo scambio avviene in area definita ma non uno ad uno e lo standard definito deve essere rispettato in corrispondenza dei punti ricettori. Di conseguenza, il prezzo dei permessi è determinato dagli effetti in corrispondenza dei punti ricettori. Si tratta, solitamente, di inquinanti per i quali l’ambiente ha capacità assimilativa bassissima o nulla e che quindi si accumulano (piombo e altri metalli pesanti, CFC…). Il meccanismo con il quale vengono assegnate le quote descritte nei permessi può essere di diversi tipi: 1. Il primo meccanismo è basato sull’asta tra soggetti qualificati (Auctioning); 2. Il secondo è basato sull’assegnazione gratuita delle quote sulla base di livelli storici di immissioni; 3. Il terzo definisce un prezzo fisso per ogni singola quota di emissione. A questi tre sistema se ne aggiungo altri 3, che vengono definiti misti. Un problema riguardante i permessi vendibili potrebbe essere la mancanza di controlli data dalla difficoltà di monitoraggio del comportamento delle imprese. E’ difficile per l’autorità capire se le imprese rispettino la quantità che si sono impegnate ad emettere attraverso l’acquisto dei permessi, questo perché il controllo avviene su diversi livelli, bisogna sapere quanto producevano prima, quanto acquistano in termini di permessi vendibili e quanto emettono dopo in termini di sostanze inquinanti. Altro problema è dato dal fatto che ci sia un basso scambio dei permessi. Questo è molto grave in quanto caratteristica fondamentale per l’efficienza di tale sistema è quello della commerciabilità dei permessi. Se vi è un livello basso di scambio, significa che non vi è incentivo per le imprese, che trovano più vantaggioso acquistare i permessi piuttosto che adottare tecnologie adeguate per rispettare il limite di inquinamento sostenibile. Nonostante questi problemi, i permessi vendibili sono strumenti adottati a livello internazionale per fronteggiare il problema dei cambiamenti climatici. Il Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, è stato la prima conferenza mondiale dei capi di Stato sull'ambiente. È stato un evento senza precedenti anche in termini di impatto mediatico e sulle scelte politiche e di sviluppo che l'hanno seguita. È comunque generalmente chiamata la Conferenza di Rio. Gli argomenti che furono trattati sono: • l'esame sistematico dei modelli di produzione, in particolare per limitare la produzione di tossine, come il piombo nel gasolio o i rifiuti velenosi; • le risorse di energia alternativa per rimpiazzare l'abuso di combustibile fossile ritenuto responsabile del cambiamento climatico globale; • un quadro sui sistemi di pubblico trasporto con il fine di ridurre le emissioni dei veicoli, la congestione nelle grandi città e i problemi di salute causati dallo smog; • la crescente scarsità di acqua. Un importante risultato della conferenza fu un accordo sulla Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici che a sua volta portò, alcuni anni dopo, alla stesura del protocollo di Kyōto. Nella Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è stato affermato l’obiettivo di stabilizzare le concentrazioni di gas a effetto serra nell’atmosfera ad un livello tale da prevenire un eccessiva alterazione del sistema climatico. Tale livello deve essere raggiunto in un periodo di tempo sufficiente per permettere agli ecosistemi di adattarsi al cambiamento del clima per garantire che la produzione alimentare non sia minacciata e allo stesso tempo per permettere allo sviluppo economico di continuare ad un livello sostenibile. La convenzione ha comportato la creazione di un’istituzione denominata Conferenza delle Parti (COP) per promuovere e monitorare l’attuazione della convenzione e per continuare le negoziazioni circa il modo più efficacie di combattere i cambiamenti climatici. Primo strumento operativo messo in atto dalla COP è rappresentato appunto dal Protocollo di Kyoto del 1997. Questo è un accordo internazionale per contrastare il riscaldamento climatico, è un accordo multilaterale vincolante e con effetto sanzionatorio. Il protocollo impegna i paesi che l’hanno stipulato a ridurre del 5,2% complessivo le principale emissioni di gas effetto serra entro il 2008-2012. Il Protocollo di Kyoto impegnava i Paesi sottoscrittori (le Parti) ad una riduzione quantitativa delle proprie emissioni di gas ad effetto serra (i gas climalteranti, che riscaldano il clima terrestre) rispetto ai propri livelli di emissione del 1990 (baseline), in percentuale diversa da Stato a Stato: per fare questo le Parti sono tenute a realizzare un sistema nazionale di monitoraggio delle emissioni ed assorbimenti di gas ad effetto serra (l’Inventario Nazionale delle emissioni e degli assorbimenti dei gas a effetto serra) da aggiornare annualmente, insieme alla definizione delle misure per la riduzione delle emissioni stesse ( consulta qui la serie storica delle emissioni nazionali italiane). 7.7 IL CASO DEI RIFIUTI I rifiuti che derivano da attività di consumo quotidiana e da attività industriali sono delle esternalità. I rifiuti sono un costo che consumatori e imprese scaricano su altri soggetti, nel senso che quando vengono creati dei rifiuti è la società che deve farsene carico. Quindi si ha bisogno dell’intervento dello Stato che deve trovare gli strumenti per far pagare il costo di eliminazione di questi rifiuti ai consumatori. Lo strumento più diffuso è quello della tassa, che grava su chi ha prodotto le esternalità per coprire i costi per l’internalizzazione. In Italia per i rifiuti di uso domestico si ha una tassa che viene commisurata in base alla grandezza dell’abitazione. E’ stato scelto questo metodo perché è difficile misurare direttamente quanti rifiuti vengono prodotti da ogni individuo e normalmente si ha una casa che è proporzionale al numero di abitanti. In Italia quello dei rifiuti domestici è un problema non indifferente. Al problema dei rifiuti domestici è collegato il problema che si consumano tantissimi prodotti che hanno un imballaggio o una confezione inquinante. Una soluzione sarebbe quella di agire a monte: quindi oltre a far pagare i costi per i rifiuti, bisognerebbe cercare di produrre una minore quantità di rifiuti. Un esempio potrebbe essere incentivare le imprese ad utilizzare involucri e contenitori che abbiano un minor impatto ambientale, in modo da creare anche minor rifiuti possibili. Altra soluzione potrebbe essere quella del riciclaggio, che si basa sull’incentivazione a riutilizzare determinati prodotti, invece che trasformarli immediatamente in rifiuti. Nella normativa europea relativa ai individuati dall’Unione Europea. Questo indicatore è dato dal rapporto tra il valore della spesa delle famiglie per l’acquisto di beni e servizi di carattere ricreativo e culturale e quello della spesa totale per consumi finali delle famiglie. Approfondimento: nel 2010 le famiglie italiane hanno destinato alla spesa per la cultura il 7,35 della spesa complessiva per consumi finali. Questa quota italiana è decisamente inferiore alla quota media dei paese dell’Unione europea, che è 8,9%. Passiamo ora all’offerta. L’Italia, grazie al suo sviluppo storico, gode di ampie potenzialità di offerta culturale. Il nostro paese si caratterizza soprattutto per un’ampia offerta di tipo museale, che è localizzata soprattutto nelle principali città d’arte, situati per lo più nell’area centrale del paese. Per quanto riguarda monumenti e aree archeologiche è consistente la dotazione anche nel mezzogiorno. Nel settore della cultura, visto sia dal lato della domanda che da quello dell’offerta, si può individuare anche un sorta di “prezzo”. Possiamo fare riferimento, ad esempio, all’incasso medio per visitatore/biglietto dato dalle varie proposte culturali. Gli incassi che derivano dall’esposizione al pubblico dei beni artistici e culturali presenta margini di incremento. Approfondimento: i musei statali incassano 2,9 euro per visitatore, mentre per quanto riguarda i monumenti e le aree archeologiche l’incasso medio è di 2,7 euro. Parlando di intrattenimento, il costo medio è pari a 17,1 euro per gli spettacoli teatrali e musicali, 9,2 euro per quelli di danza e 21,3 per le manifestazioni sportive. I prezzi per quanto riguarda l’intrattenimento sono notevolmente elevati rispetto a quelli relativi ai musei, monumenti e aree archeologiche perché hanno un rilevante impiego del fattore lavoro. Altro dato abbastanza rilevante del settore è quello dell’occupazione. Le attività destinate alla produzione di cultura in generale assorbono una quota pari all’1,7% del numero complessivo di unità di lavoro presenti in Italia. 9.3 LA SPESA PUBBLICA E LE POLITICHE ECONOMICHE PER LA CULTURA Il settore della cultura è un settore chiave per quanto riguarda la crescita economica del nostro paese. Nonostante questo, dal 2008 ad oggi il settore culturale ha visto diminuire le sue risorse di circa 1,3 miliardi di euro. I finanziamenti dedicati alla cultura rappresentano solo lo 0,2% del bilancio totale dello stato. Anche per quanto riguarda i privati si registra un calo di finanziamento. Infatti, dal 2008 ad oggi, il finanziamento delle attività culturali da parte dei privati è sceso del 35%. La tutela del patrimonio storico, artistico, culturale e paesaggistico rientra fra i valori primari richiamati dalla costituzione all’art.9, proprio per questo, dovrebbe esserci più impegno da parte delle politiche economiche destinate alla cultura, per far si che questo settori non manchi delle finanze necessarie. Per quanto riguarda la ripartizione delle funzioni amministrative fra Stato e enti territoriali, il patrimonio artistico e culturale si configura come una materia a competenza concorrente, sulla quale vanno a intervenire i diversi livelli di governo. Approfondimento: • Legge Veltroni (D. lgs. 134 del 1998) introduce la possibilità per lo stato di delegare a regioni, province e comuni la gestione e la valorizzazione del patrimonio culturale. • Testo Unico del beni culturali ambientali (D. Lgs. 490 del 1999): conferisce un ruolo stabile alle regioni e agli enti locali in materia di tutela e conservazione del patrimonio culturale. Questo tema è stato ripresa dalla riforma del titolo V della Costituzione che ha affermato il principio di sussidiarietà fra i diversi livelli di governo. Essa assegna alle regioni competenze in materia di valorizzazione dei beni culturali e ambientali. • Federalismo demaniale (D. Lgs. 85 del 2010): prevede la possibilità di trasferire a titolo non oneroso agli enti decentrati alcuni beni appartenenti al demanio statale. Come si può leggere nei diversi decreti legislativi vi è una sorta di confusione per quanto riguarda le competenze. Questa sovrapposizione di funzione rappresenta un ostacolo per i rapporti di collaborazione con i privati. Infatti, se il partner privato in un’iniziativa culturali si trova di fronte a una molteplicità di interlocutori pubblici, tra i quali non si può distinguere competenza e attribuzione, la sua propensione alla collaborazione, e quindi al finanziamento, tende a diminuire. Nella gestione delle varie opere pubbliche, si tende più a far prevalere le esigenze di conservazione su quelle di valorizzazione del bene stesso, questo ne fa derivare un ritorno economico limitato. Da questo punto di vista, un maggiore coinvolgimento del privato nella valorizzazione dei beni, può rappresentare un utile fattore di valorizzazione dell’opera pubblica. Una prima apertura in questo senso si è avuto agli inizi degli anni 90, con la Legge Ronchey, che ha introdotto la possibilità di affidare in gestione a privati alcuni servizi presso i siti culturali pubblici.
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