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Riassunto primi tre capitoli de "Il teatro musicale del rock", Sintesi del corso di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea

Riassunto dei primi tre capitoli del libro "Il teatro musicale del rock" di Gianfranco Salvatore. Sono esclusi tutti i successivi capitoli riguardanti i singoli frontmen. Esame di "Storia del jazz e della popular music".

Tipologia: Sintesi del corso

2018/2019

In vendita dal 15/11/2019

filomenacip
filomenacip 🇮🇹

4.8

(18)

6 documenti

Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto primi tre capitoli de "Il teatro musicale del rock" e più Sintesi del corso in PDF di Storia Della Musica Moderna E Contemporanea solo su Docsity! SUONI, AZIONI, VISIONI ANEDDOTO SU GHOSTBUSTERS Si elencano due poli opposti della teatralità della popular music: le grandi macchinerie scenotecniche e la potenza drammaturgica del suono (o il gesto). Il primo rappresentato appunto dall’ingresso dell’enorme mostro sul palco, il secondo dalla rottura dello strumento. Il teatro musicale del rock presenta continuamente questi elementi. Secondo Artaud il teatro è anche lo scontro di diverse dimensioni contrastanti: grande e piccolo, sublime e banale, umano e disumano, interiore ed esteriore. L’elemento essenziale è ovviamente il corpo sonoro e fisico del frontman ovvero colui che regge l’asta del microfono sul proscenio, talvolta leader della band. Lui ha il compito di gestire non solo la sua propria immagine ma anche quella dell’eventuale band. Egli è un corpo in azione che si serve di voce, immagine e movimento per svolgere il suo ruolo attivo. Il frontman è interprete e spesso anche regista della scena. Ma ancor prima di questa showmanship viene il suono della voce, la grana che è un’estensione del soma, un effetto corporeo, un modo immateriale con il quale il cantante/musicista esprime la propria presenza, personalità ed essenza. Ma la grana non è tutto: la voce del frontman interagisce con elementi i quali melodia, testo e repertorio che contribuiscono a creare il discorso. Inoltre conta molto il rapporto tra l’individualità del cantante e lo stile collettivo della band (Ian Gillian che fa un disco con i Black Sabbath non è lo stesso che fa un disco con i Deep Purple in quanto il contesto è cambiato ). Si parla dunque di duplice discorso i quali elementi sono: il frontman, la band più la loro reciproca relazione. Questa relazione crea: musica, sound, teatro rock, stile, spettacolo. Morfologicamente parlando il teatro rock consiste in una serie di “elementi nucleari” (dalla voce all’illuminazione, agli elementi scenografici) che possono essere coniugati e declinati diversamente. Da un determinato uso di questi elementi scaturiscono poi i rispettivi significati. Il frontman quindi produce un discorso le cui chiavi d’accesso consistono in una serie di pratiche: posture, gestualità, mimica e pantomima, prossemica, abbigliamento. Alla base della sua presenza e azione sul palco c’è sostanzialmente una certa tendenza all’eccesso sia in senso narcisistico che in senso animalesco del termine. Secondo Pietro Pelù, fondatore dei Liftiba, il teatro musicale del rock è un sistema organico basato sulla collaborazione tra campo visivo e campo sonoro. Così si basa su azioni sceniche che rappresentano visivamente i messaggi cantati e suonati. Per favorire ed instaurare una sintassi sul lessico del teatro rock c’è bisogno di una serie di cose. Il frontman gettato lì di fronte al pubblico rappresenterebbe solo teatro povero, “performance art” nuda e cruda: un uomo ordinariamente vestito, la sua voce, i suoi gesti. Questo tipo di sincerità è si un elemento necessario ma non sufficiente alla teatralità del rock. Il frontman ha bisogno di una serie di corredi: corredi per il corpo (costumi), corredi per il viso (maschere o make-up) e addirittura corredi per la voce. Esistono perfino mascheramenti vocali. Uno tra i primi a mascherare e modulare la propria voce e i propri timbri a scopi drammatici è stato sicuramente David Bowie che nel primo album omonomo cambiava tono di voce in quasi ogni canzone adeguandolo al personaggio che descriveva cantando. Quindi sostanzialmente il frontman rappresenta davanti al pubblico, da solo o con la complicità della sua band o altri collaboratori la sua drammaturgia. All’inizio del Novecento musicisti e pittori soprattutto parigini diedero il via ad una nuova tendenza che prese il nome di “Primitivismo”. Durante questo periodo l’ispirazione proviene dai popoli africani o oceanici, in arte in particolar modo dalla statuaria che molti pittori collezionavano. L’equivalente musicale della statuaria fu il blues elettrico di Chicago. Gli artisti europei erano affascinati da questi fenomeni per via dei loro risvolti etnici ed antropologici incomprensibili ai bianchi. Ovviamente questi elementi si rivelarono totalmente predisposti ad essere “violentati” nel loro senso originario dando vita a qualcosa di nuovo e completamente diverso. In chiave teatrale il primitivismo puntava l’attenzione su due aspetti principali: l’esplorazione degli stati onirici, dell’istinto e dell’incoscio della psiche, e la centralità pseudoreligiosa del mito e della magia. Dunque questo primitivismo insiste sul liberare il lato primitivo della psiche di pari passo con la sperimentazione in chiave estetica. E’ una sorta di antidoto alla società del tempo che invece esaltava la razionalità. Secondo Christopher Innes, uno dei principali storici delle avanguardie teatrali, l’avanguardia esige una trasformazione della natura umana per compiere un qualsiasi tipo di cambiamento sociale. Questa trasformazione può essere indotta manipolando il pubblico tramite forme rituali piuttosto che tramite discorsi chiari e diretti. La scena del rock si fa carico di primitivismo e ritualismo, infatti tende a comunicare in modo altrettanto primario secondo due classi di significanti: tramite archetipi di tipo junghiano del termine (quindi triangoli, quadrati, cerchi, spirali, croci, specchi, tenebre, lampi di luce) e tramite elementi i quali Fuoco (spettacoli di fiamme), Aria, Acqua (vapore che opacizza la vista dello spettatore) e Terra (polo gravitazionale da cui spiccare il volo e ricadere). Il senso del sacrificio in termini di dispendio psicofisico, sudore, stress permea la performance rock. Una sorta di religiosità pagana. E’ un vero e proprio ritualismo del dispendio energetico. Infatti l’immaginario che ruota attorno all’energia è piuttosto diffuso nel rock. Si tratta di un’energia che si trasmette dal palco al pubblico e viceversa in modo bidirezionale, circolare dove ci si carica, scarica, ricarica a vicenda. Per Christopher Innes, la ripresa o l’invenzione di tecniche ritualistiche proviene dunque dagli aspetti appartenenti al primitivismo. Nel rock, una componente ritualistica e autosacrificale proviene dalla matrice blues del rock ‘n’ roll, dalle radici afroamericane del gospel e dell’r&b. Di fatti considerare il concerto rock come un rituale collettivo proviene dallo spirito con il quale il pubblico più devoto si avvicina in un atteggiamento apostolico e quasi religioso. Il frontman è si un’icona ma in questo caso anche un officiante, una vittima e un aguzzino. Il concerto può anche essere visto come una liturgia con tanto di “divi” che hanno “poteri” nel corso di “cerimonie”. La stessa rappresentazione della violenza trova un contesto se calata in uno schema cerimoniale. Semplicemente si operava in un contesto tragicomico, o in una parodia del diabolico e del mostruoso, ogni rappresentazione altrimenti di gratuita crudeltà fine a se stessa. Talvolta viene portato in scena anche lo scontro ideologico tra Bene e Male. Quando il rock porta in scena l’immateriale, il simbolico, il religioso, l’ideologico, lo fa per provocare shock, per turbare. Uno dei motivi per i quali è molto più vicino a concezioni della performatività e della drammaturgia delle avanguardie teatrali piuttosto che quelle del teatro tradizionale. Infatti, se inizialmente l’attenzione si poneva sulla storia e sul plot – ovvero sul testo scritto di riferimento – nel corso del Novecento si avvia una nuova organizzazione scenografica e luministica che punta il focus più sulla fisicità del performer. Un po’ come nella teoria dei neuroni a specchio: il dispendio energetico esibito sul palco può attivare per mimesi neuronale i riflessi spontanei di chi assiste alla performance. Le avanguardie hanno sempre prediletto forme e soluzioni performative del tutto estranee al “grande teatro”. Polo di attrazione è il teatro popolare antico e moderno. Parliamo ad esempio del cabaret, nato a fine Ottocento dalla tradizione della music hall che esaltava una teatralità fisica e visuale che poi sarebbe stata ripresa dal dramma moderno. Drammaturghi come Frank Wedekind e Bertolt Brecht simpatizzarono con esso. Il dadaismo fu il primo movimento d’avanguardia ad esordire pubblicamente con un locale d’intrattenimento chiamato Cabaret Voltaire, una sorta di ossimoro tra ragione ed insensatezza. Anche il teatro di Oskar Schlemmer, nel Bauhaus ebbe una forte inclinazione per il burlesco e gli effetti cabarettistici. Per quanto riguarda il discorso legato alla “maschera” intesa come corredo furono dadaisti, futuristi italiani e russi e i primi espressionisti ad introdurre l’uso di make-up e maschere assurde. In realtà l’uso della maschera vera e propria (che dal Rinascimento in poi, a partire dalla Commedia dell’arte era rimasto legato per secoli al teatro comico) tornerà ad avere estrema importanza negli anni Venti quando il regista e teorico russo Mejerchol’d rivalutò la sua funzione generale, la gestualità ed il movimento associati a particolari caratteri anche nel dramma. Le successive avanguardie furono poi influenzate da tutto quanto è associato alla maschera, o ne è un surrogato non umano come nel caso della pantomima o del marionettismo che stilizzano il movimento in una gestualità fluida o al contrario rigida, tesa. Il fascino delle marionette pervase in particolar modo il teatro simbolista. Il futurismo applicò per primo l’idea di marionetta alla figura umana ricorrendo talvolta a fantocci a grandezza naturale. Questi fantocci talvolta surreali, talvolta insensati venivano introdotti per disorientare e sconcertare il pubblico. Tra la fine della Prima guerra mondiale e gli anni Venti, Schlemmer iniziò a parlare di sostituire l’organismo con la figura umana meccanica in quanto il nuovo movimento valorizzava scienza e tecnologia. Insisteva sull’associazione dell’uomo alla macchina e del corpo al meccanismo. Spesso era poi l’insensatezza del quotidiano ad andare in scena nella teatralità delle avanguardie storiche o del rock per provocare il pubblico o suscitare indignazione (Es. quando Frank Zappa leggeva per conto suo un giornale in scena). Lo stesso Wedekind nel lontano 1891 esibiva scene di sadomachismo, autoerotismo, masturbazione, orinare sul palco etc. Ma futuristi e dadaisti hanno portato in scena anche manifestazioni di violenza nuda e cruda sia praticandola sul palco sia tramite insulti e minacce agli spettatori che potevano sfociare nella provocazione fisica diretta. D’altronde lo stesso Breton scrisse che l’azione surrealista più semplice consisteva nello scendere in strada con una rivoltella e sparare velocemente alla cieca tra la gente. Nel 1923 Oskar Schlemmer assunse la direzione del teatro Bauhaus ed iniziò ad usare diverse maschere realizzate in vari materiali ma sempre molto antinaturalistiche. Secondo la descrizione di uno spettacolo gli attori indossavano delle “teste marziane” sovradimensionate e di cartapesta che somigliavano alle odierne maschere antigas. Durante la performance dei Mothers of Invention Roy Estrada indossò una di queste maschere antigas in uno sketch musicale sulla repressione sessuale e sul frustrato “giovane d’oggi” come creatura aliena. Tutto ciò non ci sembra nuovo. Alice Cooper era so ito minacciare il suo pubblico con un lanciafiamme. E altri come Jim Morrison o Iggy Po si divertivano a susci are sconcert o indignazione. Alla base di tutti questi episodi c’è la concezione di performatività come gesto sociale del rapporto tra performance e spettatori. Il primo a parlare di questo gesto sociale tra performer e spettatori fu Marinetti del Manifesto del teatro di varietà. Ma fu un’innovazione di Brecht quella secondo la quale gli attori potessero rivolgersi direttamente agli spettatori. Dagli anni Sessanta ogni performance è anche un evento che stimola reazione, suscita domande ed offre risposte. Ciò che si instaura è un feedback loop. Lo spettatore non ricopre più il ruolo di semplice testimone ma è un partecipante attivo della performance. Si tratta dunque di stabilire un contatto spesso provocatorio e sconcertante con intenzioni creative, morali o ideologiche che invita la gente a riflettere a smettere di essere passiva. Un’ulteriore primogenitura che si può assegnare alle avanguardie teatrali del primo Novecento è quella dell’innovazione di palcoscenici anomali e multipli, passerelle (Es. il “Teatro a U” di Farkas Molnar o il “Teatro sferico” del Bauhaus). Tuttavia però questi progetti non venivano realizzati ma sono sicuramente stati ripresi anni dopo dal rock. Gli anni Trenta furono caratterizzati da due fenomeni in particolare: il Bauhaus americano e le idee di Antonin Artaud. Nel 1933 alcuni membri del Bauhaus tedesco costretti ad emigrare negli Stati Uniti a causa del nazismo costituirono in America la comunità di professori e studenti del Black Mountain College: fu un centro di sviluppo delle idee d’avanguardia europee negli Stati Uniti. Tra di loro c’era un esponente del Bauhaus di Weimer e di Dessau, Josef Albers, che a sua volta invitò un suo collega, Alexander Scawinsky che realizzò la prima vera “esperienza totale” i cui performer interagivano con l’ambiente e l’architettura. Questa performance fu poi ripresa da John Cage e Merce Cunningham che rielaborata gettò le basi per i primi happening. Negli happening l’ambiente diventava una sorta di collage animato da una performance i cui elementi erano suoni, tempi-durata, gesti, sensazioni e persino odori. La differenza rispetto al dramma tradizionale risiede nel togliere totalmente importanza all’espressione verbale, evitandola del tutto a favore di tutti gli elementi sopraelencati. Non c’è narrazione né logica. Non ha trama né personaggi e dipende molto dagli umori del momento e dalla reazione del pubblico a determinati stimoli. L’happening inoltre non è mercificabile in quanto non ripetibile. Gli happening non “derivano” solo dal Bauhaus ma anche dal dadaismo in quanto diversi artisti come Duchamp erano attivi sul suolo statunitense già dagli anni Dieci. Un’importanza altrettanto rilevante per il teatro rock la detiene Antonin Artaud. Secondo la sua concezione lo spettatore deve essere avvolto dallo spettacolo. Riteneva che il teatro tradizionale ponesse eccessiva enfasi sulla trama e il linguaggio e su tematiche prettamente intellettuali e psicologiche. Lui voleva sostituirle con uno spettacolo basato sull’azione “fisica e obiettiva”. Incoraggiava l’uso di strilla, gemiti, apparizioni a sorpresa, costumi ispirati alla magia del rituale, movimenti naturali ma ritmici, maschere, oggetti colorati ed enormi pupazzi sul palco, e un uso evocativo delle luci con improvvisi cambi di illuminazione. Lui parla di “Teatro della crudeltà” facendo un appello alla crudeltà e al terrore in quanto “senza un elemento di crudeltà alla base di ogni spettacolo non esiste teatro”. Ma questo concetto di “crudeltà” non deve essere inteso in senso letterale ma coincide con il fare tabula rasa della tradizione, specie quella legata al testo e alla parola. Più in generale Artaud intendeva la sua visione “crudele” del teatro come una sorta di identificazione tra arte e vita. Il teatro della crudeltà non è una rappresentazione, è la vita stessa in ciò che ha di irrappresentabile. Bisognava dunque rappresentare l’irrappresentabile e ciò auspicava ad un teatro che provoca trances, stati modificati di coscienza attraverso l’intensità di colori, di luci, di suoni. E’ un linguaggio indipendente dalla parola che ha come fine quello di soddisfare i sensi. Ciò accade in un nuovo spazio performativo: lo spettatore è al centro mentre lo spettacolo lo circonda. Questo favorisce una comunicazione diretta fra spettacolo, spettatore e attore in quanto lo spettatore si trova pienamente coinvolto. Lo studio sul corpo segue due direzioni principali: quello circa l’interconnessione tra linguaggio corporeo e induzione di emozioni e quello circa la liberazione del corpo come metafora di una liberazione dalle oppressioni e dai condizionamenti sociali. La prima direzione sfocia nella Biomeccanica di Mejerchol’d secondo la quale lo sviluppo del linguaggio corporeo nello spazio scenico avviene tramite movimenti astratti e frenetici (dondolarsi su un trapezio, buttarsi da uno scivolo). La seconda direzione invece è quella intrapresa da gruppi americani d’avanguardia operanti nella seconda metà degli anni Sessanta e in particolare nel lavoro del Living Theatre: il corpo è prigioniero di se stesso e della società dunque bisogna liberarlo per una società conseguentemente più libera. Il Living Theatre voleva soprattutto rappresentare la violenza istituzionale denunciando la repressione sociale anche tramite nudità e promiscuità. Queste sono caratteristiche più o meno comuni alla performance art basata su otto tratti fondamentali: 1. ATTEGGIAMENTO PROVOCATORIO, ANTICONVENZIONALE O CONTESTATARIO 2. POLEMICA CONTRO LA MERCIFICAZIONE CULTURALE DELL’ARTE 3. STRUTTURA MULTIMEDIALE 4. ASSEMBLAGGIO E SIMULTANEITA’ DI EVENTI 5. USO DI MATERIALI DI RECUPERO 6. GIUSTAPPOSIZIONE DELL’INCONGRUO E DELL’IRRELATO 7. INCLUSIONE DELLA PARODIA, DELLO SCHERZO, DELL’IRREGOLARITA’ 8. FORMA APERTA Molti di questi tratti sono condivisi dal teatro rock, le due aree espressive si influenzano a vicenda ma la performance art prende forma alla fine degli anni Sessanta: quando ormai il rock ha già dettato le sue regole in merito alla sua arte performativa. Il termine “performance art” viene coniato e si afferma in America attorno al 1970. Gli artisti della performance art sono soliti interpretare loro stessi, la propria vita o personalità e non un personaggio. L’idea rock della nudità era molto vicina a questa: il nudo aveva un significato politico, estraneo a qualsiasi tipo di accezione erotica. suo poteva assumere caratteri di un “teatro astratto multimediale” in quanto proiettava sopra i ballerini immagini di tessiture visive, trame ottiche che acquisivano dinamica attraverso il movimento del danzatore. La storia dell’illuministica teatrale comincia con l’impiego sempre più creativo della tecnologia del gas. Vetri o sete colorate ne consentivano un utilizzo cromatico con tre o quattro varianti, potendo addirittura simulare albe o tramonti. Fu lo spettacolo popolare della pantomima ad elaborare una vastità di soluzioni luministiche, specie nel campo che noi oggi definiremmo degli “effetti speciali”. Poi nel 1879 Edison inventa la lampada a incandescenza che consentirà di realizzare la luce dall’alto, colorata grazie a tamburi che avvolgono le lampade su cui si trovano lamine di gelatina colorata. Con l’introduzione dell’elettricità si ebbero la luce direzionale anziché diffusa, i comandi centralizzati, postazioni specifiche e non solo fisse: finalmente la luce poteva essere progettata, disegnata, composta diventando un vero e proprio elemento drammaturgico. Antonin Artaud s’interessò a questa ricerca utilizzando luce nera, illuminazione pulsante, luci stroboscopiche che impiegava per emozionare e destabilizzare lo spettatore. Per lui la luce non ha solamente lo scopo di illuminare o colorare: essa porta in sé la propria energia, la propria influenza, assume un linguaggio autentico e le cose sulla scene rivelano i significati intrinsechi. Il suo è un uno psicologico della luce. Nel corso dell’ottocento l’attenzione si focalizzò sull’inventare un meccanismo che potesse generare uno spettacolo di colori: parliamo di marchingegni controllati da una tastiera in grado di “tradurre” un’esecuzione musicale in chiave luminosa e colorata. Un’antenata di questa idea era la lanterna magica di Athanasius Kircher. Ma già nel 1975 il francese Castel aveva teorizzato il clavecin oculaire “clavicembalo ottico”: durante un’esecuzione musicale la pressione di ogni tasto avrebbe provocato la visione di una delle tendine colorate poste nelle sessanta finestrelle del macchinario collegato alla tastiera del clavicembalo. Questo macchinario non è mai stato completato e non ha mai veramente funzionato. Tra Sette e Ottocento si teorizzò molto circa la corrispondenza tra luce e suono musicale. Primo fra tutti Erasmus Darwin (nonno del famoso naturalista) perseguì le proprie riflessioni circa l’argomento. Tuttavia nessuno degli strumenti ottocenteschi, progettati per lo spettacolo di luci colorate, era in grado di produrre musica tranne il Pyrophone. Era stato progettato per produrre simultaneamente sia la musica che la luce colorata sfruttando i getti di gas utilizzati per l’illuminazione domestica. Una sorta di “singing lamp”. L’Inghilterra fu dunque il primo paese europeo, nell’ottocento, ad impegnarsi non solo nella riflessione teorica ma anche nella messa in pratica della sperimentazione circa il connubio tra luci e suoni. Ma nella prima metà del Novecento tutto ciò suscitò l’interesse anche in due artisti russi, un musicista ed un pittore: Aleksander Skrjabin e Vasilij Kandinskij. Entrambi erano interessati alla teosofia (dottrina filosofico- religiosa che tende a combinare la conoscenza mistica con l’indagine scientifica) e curiosamente tutti e due erano affetti da cromestesia: il fenomeno che permette di associare i colori all’ascolto musicale. Tuttavia i loro progetti non ebbero buon esito. Primo centro di ulteriore collaborazione fu l’Italia grazie al lavoro dei futuristi Arnaldo Ginna e Bruno Corra che progettarono un dispositivo per “sinfonie cromatiche” comprendente ventotto proiettori colorati comandati da altrettanti tasti nell’utopia di eseguire “cromaticamente” il repertorio classico. Si trattava di uno strumento a tastiera, con ventotto tasti corrispondenti ad altrettante lampade elettriche, ciascuna di colore diverso: premendo un tasto, uno dei colori veniva proiettato su una superficie; premendone più di uno i colori si fondevano, formando una sorta di “accordo” luminoso. Su queste prime esperienze luministiche si basarono le ricerche di Giacomo Balla, l’unico tra i futuristi a portare a compimento un progetto scenico basato sulla musica e sulla luce. Si trattava dell’allestimento del “balletto senza ballerini” di Stravinskij. Può essere definito come una messa in scena tridimensionale di un dipinto dello stesso Balla. Nello spettacolo gli unici “attori” erano le luci e i set in movimento in una sorta di visione multimediale in 3D dell’opera stravinskiana. Anche nella scuola del Bauhaus a Weimar si tenevano continue ricerca sulla luce diretta e riflessa e sui teatri di ombre. Un “teatro delle luci” inizialmente accompagnato da un pianoforte ma Hirschfeld-Mack sviluppò negli anni successivi una sorta di colour organ con il quale era in grado di eseguire composizioni per musica e luci riflesse. L’artista è di fatti considerato tra i più importanti pionieri del coordinamento della musica con immagini luminose e colorate in movimento. Il primo dopo tutte le esperienze deludenti dell’Ottocento. Nel corso degli anni Venti si introduce poi anche l’uso di proiezioni (o filmati) su azioni coreografiche, teatrali e musicali. Si trattava di filmati che interagivano con ciò che accadeva sul palco. I tre giovani californiani che furono i principali responsabili del processo che portò all’applicazione del light- show al rock si chiamavano: Bill Ham, Tony Martin e Elias Romero. L’istallazione più importante progettata da Tony Martin fu “A theatre for walkers”. Si trattava di una combinazione tra l’esposizione pittorica e l’happening. La mostra diventava “teatro” per chi ci camminava dentro. Nel 1962 il progetto fu ulteriormente sviluppato grazie alla partecipazione di una compagnia di danza: a quel punto la performance prese il nome di Theatre for Walkers, Talkers, Touchers, e costituiva ormai una dimostrazione di arte environmental in chiave multisensoriale. A settembre un ulteriore sviluppo aveva preso il titolo di Theatre for Walkers, Touchers, Watchers and Listeners dando così spazio alla componente musicale. Nel 1962 nacque il a San Francisco il Tape Music Center, un centro per la ricerca musicale basata sul nastro magnetico. Nel 1963 Tony Martin fu assunto come direttore delle luci e si occupò della combinazione di fari e specchi per una prima esecuzione. Personalizzava le sue proiezioni incidendo, disegnando e dipingendo su vetro, su diapositive e su pellicole cinematografiche. Ma continuò sempre a considerarsi un pittore strettamente legato all’avanguardia se non avesse incontrato Bill Graham e non lo avesse invitato a visitare il nuovo locale “Filmore Auditorium” proponendogli di piazzare dieci proiettori sui palchetti per illuminare le band sul palco. Martin, in realtà, così facendo stava già lavorando ad un principio di psichedelia. Elias Romero svolse un ruolo cruciale sul piano delle tecnologie impiegate nei light-show. Lui elaborò un normale episcopio, un proiettore studiato per visualizzare su una parete o su uno schermo pagine di libri o carte geografiche, semplicemente appoggiati su un piano di vetro a scopo didattico. Inizialmente Romero ci giocherellava per proiettare silhouette di aerei o navi. Poi incontrò un docente di scultura, Locks, che invece cominciò ad utilizzare l’apparecchio per proiettare forme realizzate sul momento versando liquidi sul piano di vetro. Elias Romero sfruttò questa nuova trovata in una produzione teatrale (Run). Fu Bill Ham, un giovane scultore ad applicarne l’uso nei concerti rock. Ham incontrò Romero durante la produzione di Run in quanto realizzò per essa una scultura. Venuto a conoscenza delle ricerche del giovane collega gli chiese di prestargli uno dei suoi episcopi. Dopo Ham iniziò ad acquistarne altri e a lavorare con diversi musicisti. Ham creò da sé l’occasione per applicare quelle sperimentazioni al rock e allestì uno spettacolo di luci per le esibizioni di una delle prime band psichedeliche californiane: i Charlatans. Questo fu l’inizio ufficiale della storia dei light-show del rock. Parallelamente si svolgevano sperimentazioni visuali ed acustiche culminate poi nel “Trips Festival”: un evento multimediale peculiare per l’obiettivo di riprodurre gli effetti dell’Lsd rinunciando ad ogni tipo di droghe allucinogene e sfruttando la combinazione di musica ed effetti di luce. L’associazione di musica e spettacoli luminosi alla “filosofia” della psichedelia emerse nel 1965 (quasi un anno prima del “Trips Festival”) anche sulla costa orientale degli Stati Uniti. Nella primavera di quell’anno la comunità psichedelica guidata da Timothy Leary fu coinvolta nell’apertura a New York della Coda Gallery dove si tenne quello che viene considerato il primo light-show psichedelico americano. Lo sviluppo di quest’idea di light show psichedelico si deve alla USCO (“Us Company”) fondata dal poeta Stern, il pittore pop art Durkee e il direttore tecnico del Tape Music Center Michael Callahan. Questa compagnia rimane nella storia anche per la collaborazione con la fondazione di Leary che realizzò la performance Psychedelic Explorations. Queste “esplorazioni psichedeliche” erano finalizzate a produrre un’alterazione audio-visual- olfattiva della coscienza. La locandina lo descriveva come “Psychedelic Theatre”. Un ruolo importante in questo contesto fu svolto dalla prima formazione dei Velvet Underground quando ancora non si chiamavano così. Di ritorno dall’India il futuro batterista MacLise si unì a Cale e a Lou Reed e creò uno spettacolo multimediale, The Launching of the Dream Weapon, una sorta di “happening rituale” che alla musica combinava poesia, danza, proiezioni e spettacoli di luci. Le due esperienze, quelle della USCO e quella dei Velvet Underground si incontrarono poi ad un festival (denominato New Cinema Festival 1) al quale partecipò anche Warhol che fece esibire i Velvet vestiti di bianco proiettando sopra di loro un film di loro stessi mentre suonavano fino a farli scomparire del tutto. Warhol mescolava le proiezioni con luci stroboscopiche. Come conseguenza tra il 1965 e l’inizio del 1966 i Velvet furono inseriti in diverse serate e rassegne multimediali, a dominanza cinematografica più che musicale a cui fornivano un accompagnamento sonoro. Poi quando cominciarono a dedicarsi ai concerti il loro light-show si basava principalmente sull’utilizzo di luci stroboscopiche che si conciliava perfettamente con il loro sound, lo spettacolo frenetico e lo stile sadomaso del gruppo (iniziarono ad indossare gli occhiali da sole proprio per proteggersi da queste luci). “Dom”: uno dei più importanti centri multimediali newyorkesi, viene considerato la versione newyorkese del “Trips Festival”. La scuola newyorkese nata fra la Filmmakers’ Cinematheque e il Dom era ovviamente destinata a scontrarsi con quella californiana. Bill Graham definì a modo suo la differenza stilistica tra light-show newyorkese e quello californiano: se quelli californiani, seppur belli, consistevano in tecnologie elementari (Per Tony Martin le sue proiezioni erano “musica visuale” in sé e per sé. Le composizioni non accompagnavano né musica né teatro), quelli della Fillmore East, realizzati dal Joshua Light Show (di Joshua White) erano studiate coreografie di luci che riflettevano la complessità della musica e dei tempi in cui vivevano (Il loro light show era ispirato dalla musica ma mai sincronizzato con essa). Eppure fu la Fillmore californiana, a San Francisco, che introdusse le cosiddette “proiezioni liquide”. Per realizzarle si servivano dell’episcopio e di una bacinella d’acqua in vetro molto bassa (generalmente ad esempio utilizzavano la copertura di un orologio da parete). Questa bacinella venina posta sul piano in vetro dell’episcopio, al posto di una pagina di libro, e al suo interno venivano diluiti i colori (in acqua o in olio). Le proiezioni liquide diventarono il fulcro dell’estetica psichedelica californiana per la loro affinità con l’esperienza lisergica. La scuola newyorkese cercò di perfezionarle ma criticandole spesso e appellandole “wetshows”.
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