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Riassunto private equity, Appunti di Economia

private equity, riassunto per il terzo anno di economia, dettagliato

Tipologia: Appunti

2015/2016
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Caricato il 22/04/2016

alessia71
alessia71 🇮🇹

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Scarica Riassunto private equity e più Appunti in PDF di Economia solo su Docsity! IL PRIVATE EQUITY NEL SISTEMA IMPRESA. MIGLIETTA N., SCHIESARI R., Il private equity nel sistema impresa. Luci ed ombre dell'investimento in capitale di rischio, Giappichelli, Torino, 2012. Capitoli: 1, 3, 4 (esclusi paragrafi 4.6 e 4.7), 5, 7, 8. Capitolo 1: Il Private Equity in una prospettiva sistemica. Considerazioni introduttive. Ci sono vari modi per una piccola media impresa per finanziare un progetto di investimento e tutti quanti sono legati al sistema della proprietà e del governo dell’impresa stessa. L’impresa può essere partecipata, e quindi finanziata attraverso la raccolta di capitale di rischio, dallo Stato (impresa pubblica), da una famiglia (impresa privata), da migliaia di proprietari (impresa quotata) oppure può essere supportata dal private equity. Il private equity investe in imprese private, mentre il “public equity” rappresenta il capitale di rischio raccolto nei mercati azionari dalle imprese quotate. Entrambi rappresentano forme di finanziamento essenziali per la sopravvivenza, lo sviluppo e la crescita delle imprese. Che cos’è il private equity? Qualunque attività imprenditoria necessita di capitali che supportino il suo finanziamento e quindi la sua stessa esistenza e ragion d’essere. La finanza aziendale realizza la raccolta delle fonti necessarie al finanziamento dell’attività. Tali fondi possono essere ottenute facendo ricorso al mercato finanziario (imprese quotate) oppure all’indebitamento bancario (riferita sia alle imprese quotate che quelle non quotate) Il capitale di rischio dell’impresa è definito capitale proprio (equity) e viene associato ai titoli azionari. In realtà, esso può assumere diverse forme, a seconda che l’impresa sia quotata o meno ed in ragione delle sue caratteristiche più specifiche. Il meccanismo di raccolta legato alle quotazioni è tipicamente riferito alle imprese di medio grande dimensione, mentre il finanziamento bancario può scontare alcuni fattori congiunturali che ne limitano l’efficacia e, in ogni caso, non può mai rappresentare l’unica fonte di finanziamento dell’impresa. Il private equity si configura come una fonte di finanziamento legata al capitale di rischio (Capitale proprio) e ne rappresenta, per l’impresa che lo riceve, uno stock di capitale non del tutto “paziente”, ma certamente con caratteristiche profondamente diverse dall’indebitamento bancario. il private equity si configura quale tipologia di capitale proprio e fonte di finanziamento nell’expansion financing, lo sviluppo e la crescita dell’impresa. Il mondo del private equity. Il mondo finanziario può essere diviso, dal punto di vista della tipologia dei titoli, in due macro aree: equity (che assegna un diritto di proprietà al sottoscrittore) e debt (prestito, che assegna al sottoscrittore un diritto al pagamento di un interesse alla restituzione del capitale). Il profilo rischio-rendimento è molto diverso. Gli investitori in equity diventano azionisti (shareholders) e possono ottenere guadagni elevati, oppure perdere tutto il loro capitale. Chi investe in capitale di debito (bondholders, debtholders) ottiene un rendimento inferiore ma più garantito, con la previsione di un interesse pre-determinato ed una priorità di rimborso in caso di dissesto. Sia il segmento dell’equity che quello del debt possono essere suddivisi in due segmenti: principale e secondario. Investimento/Finanziamento Equity Debt Mercat o Primary Markets (Private) Private Equity Private Placement Secondary Markets (Public) Borse Valori Mercato Finanziario Il mercato primario è formato dalle emissioni di prestiti obbligazionari collocati nelle forme del private placment e dal private equity e dal venture capital per quanto riguarda il capitale proprio o di pieno rischio. Nonostante esistano specifici obblighi di comunicazione, il mercato primario risulta maggiormente permeato dal fenomeno dell’asimmetria informativa. Per questa ragione gli investimento in capitale di rischio sono considerati “istituzionali”, che significa essere destinato ad investitori dotati di un patrimonio in termini di ricchezza molto consistente. I tre principali attori dell’industria del private equity sono: • i General Partners (GPs), sono i gestori dei fondi di private equity; • i Limited Partners (LPs), sono i clienti dei GPs e rappresentano gli investitori che forniscono il denaro (ricchezza, wealth) ai GPs per realizzare gli investimenti (deals); • i fornitori del capitale di debito (Debt Providers). L’operazione di raccolta del capitale fatta dai GPs nei confronti dei LPs si chiama “fund raising”. La realizzazione del deal, cioè dell’investimento nel capitale di rischio dell’impresa target, prende il nome di “closing”. Il closing di un deal si realizza non solo con l’impiego di equity ma quasi sempre viene utilizzata la cosiddetta leva finanziaria (financial leverage). I Debt Providers sono i fornitori del capitale di debito. L’investimento (deal) è rappresentato dalla partecipazione nel capitale di rischio dell’impresa che viene definita “target”. Il processo di raccolta del capitale di rischio: fund raising e general partners. Gli attori che realizzano il fund raising del capitale di rischio si chiamano GPs (General Partners) e rappresentano le imprese finanziarie che gestiscono l’industria del private per entrambi. La ricostruzione della catena del valore di un fondo di private equity passa attraverso l’individuazione di una tipologia d’investimento (asset class). I GPs la propongono nel corso dell’attività di fund raising raccogliendo dai loro clienti, i LPs, un commitment (impegno). I LPs sono i loro fornitori di capitale. Una volta ottenuto il denaro si passa all’investimento. Viene innanzitutto definita una “pipe line” che rappresenta il timing per la ricerca. Questo significa trovare una buona società (good deal) in cui investire il capitale di rischio raccolto. Cosa si intende per “good deal”? Generalmente il private equity investe in imprese di dimensioni più rilevanti rispetto al venture capital e utilizza le leve finanziarie per supportare l’esperienza, nel passato, poteva arrivare anche sino al 90%. Le condizioni necessarie per realizzare un buon investimento sono: flussi di cassa certi (solid cash flows), aspettative di crescita (growth), e potenziali profitti non realizzati. La stabilità dei flussi di cassa è molto importante soprattutto nei casi in cui l’utilizzo della leva finanziaria sia molto elevato. Perché si utilizza la leva finanziaria? Per un fondo di PE la struttura finanziaria del deal è molto importante per la determinazione del ritorno finale dell’investimento. Dopo la raccolta del debito (senior subordinato e mezzanino) occorre pianificare la strategia di disinvestimento (exit strategy). Facciamo un breve esempio (the game). Ipotizziamo che il valore di mercato di un’impresa sia 750.000 euro. Se un fondo di private equity la paga 1.000.000 di euro riconosce 250.000 come premio, pari al 25% del valore, agli attuali azionisti. Ipotizziamo ancora che la struttura del deal preveda che l’acquisizione avvenga utilizzando un leverage pari al 75% del valore. Il fondo di private equity investirà 250.000 euro sotto forma di equity e raccoglierà 750.000 euro sotto forma di debito da un altro provider (ad esempio una banca). Se al momento del disinvestimento la società, nella quale è stato investito il capitale di rischio (equity), vale diciamo 1.500.000 euro e viene quotata come si determina il rendimento ottenuto dagli investitori? A fonte di un investimento del 50% del valore di mercato della società target (passa da 1 a 1,5 mln), gli investitori del fondo di PE otterranno un rendimento del 300% del loro capitale. Semplicemente perché a fronte di un investimento di 250.000 euro il controvalore del loro capitale è di 750.000 e risulta quindi triplicato. Risulta chiaro come un deal pesantemente “levereggiato” possa generare ritorno del 100-200% anche in presenza di moderati tassi di crescita (10-20%). Naturalmente la leva finanziaria non è il segreto per realizzare un good deal in termini di rendimento, ma semplicemente lo strumento per realizzare la struttura delle fonti e, nel caso di riduzione di valore della società, un suo utilizzo spregiudicato sortisce gli effetti indesiderati e cioè la perdita del capitale. Questo fa del private equity un investimento “rischioso” e proporzionalmente più rischioso dell’aumentare del grado di leverage utilizzato dal fondo. I GPs, infine, per recuperare il loro denaro usano una tecnica denominata “recap”. Convincono cioè le banche che il business è cresciuto di valore e richiedono ulteriore denaro utilizzando il nuovo multiplo (cap rate). Quali sono le ragioni per cui un’impresa dovrebbe considerare l’ingresso di un fondo di private equity? In buona sostanza le stesse che guidano le scelte degli investitori professionali: crescita, sviluppo, creazione di valore, maggiore trasparenza, comunicazione, managerialità, miglioramento delle performance, delle relazioni, del know how e la creazione di nuovi posti di lavoro. Gli elementi chiave del private equity: Le quattro P. Partnership. Innanzitutto la partnership tra general e limited partners (GPs e LPs). L’attività di raccolta del capitale e quella successiva di investimento trova la sua sintesi sistemico-relazionale nella strutturazione del fondo che avviene attraverso una limited partnership. Una buona partnership si fonda essenzialmente su pochi e semplici presupposti: lealtà e correttezza del GPs e sue capacità di trovare un “good deal”. People. Come si realizzare in concreto una buona partnership? Da cosa dipende il successo dell’investimento? In estrema sintesi dalle risorse umane coinvolte nel processo (people). Con riferimento ai GPs ed alle persone coinvolte nel processo di raccolta del capitale e di selezione e gestione degli investimenti, il management team e le sue capacità in termini di professionalità e competenze fanno la differenza. Una volta realizzato il deal possono crearsi conflitti tra gli azionisti della società target, specialmente nelle società a controllo proprietario “forte”, come le imprese familiari. Price. Un good deal, per il LP, dipende dalla ragionevolezza del prezzo pagato che non deve essere artificialmente aumentato per incrementare costi, fees e rendimento del GP. Occorre focalizzare l’attenzione sul processo di valutazione. Esperti indipendenti e terzi rispetto ai soggetti coinvolti debbono certificare il valore del deal e la capacità dell’impresa target di generare cash flow sufficienti a servire il capitale di debito alle scadenze prefissate. Performance. Da cosa dipende il raggiungimento di un risultato adeguato alle aspettative dei LPs? Ancora una volta la consapevolezza da parte dei soggetti coinvolti che il private equity investa per generare un ritorno in termini di cash flow ai proprio LPs. La semplificazione e la facilitazione delle attività imprenditoriali può rappresentare uno dei cambiamenti più importanti per quei governi che vogliono sviluppare l’attività di private equity in un determinato paese. L’attività di training (formazione e guida) è cruciale tanto quanto il supporto fiscale, legale e societario. CAPITOLO 3: Le tipologie di investimento nel capitale di rischio dell’impresa. L’investimento nel capitale di rischio. Con il termine “investimento istituzionale nel capitale di rischio” si intende l’apporto di risorse finanziarie da parte di operatori specializzati sotto forma di partecipazione al capitale azionario o di sottoscrizione di titoli obbligazionari convertibili in azioni, per un arco temporale medio-lungo, prevalentemente in aziende non quotate. Gli operatori di private equity possono intervenire in varie fasi della vita delle imprese e possono porsi differenti obiettivi raggiungere. In ognuna di esse l’impresa ha specifiche esigenze alle quali l’investitore dovrà rispondere apportando risorse, sia in termini di capitale che di know-how. Tradizionalmente le diverse tipologie di investimento nel capitale di rischio vengono catalogate in base alle fasi di sviluppo dell’impresa. Secondo questa classificazione, detta classica, si individuano i seguenti interventi: • seed (finanziamento dell’idea) e start up financing: interventi di early stage, volti a finanziare le primissime fasi di avvio dell’impresa; • expansion financing: investimenti finalizzati a supportare la crescita e lo sviluppo, da un punto di vista geografico, merceologico, ecc.. di aziende già esistenti; • replacement capital (capitale di sostituzione): investimento finalizzato alla ristrutturazione della base azionaria, in cui l’investitore istituzionale si sostituisce a uno o più soci di minoranza non più interessati a proseguire l’attività; • buy out: operazioni orientate al cambiamento totale della proprietà e degli assetti dell’impresa; • turnaround: investimenti di ristrutturazione di imprese in crisi; • bridge financing: interventi finalizzati a creare la condizioni che permettano all’impresa di quotarsi. In tempi più recenti è emerso come la classificazione suddetta presenti alcune problematiche, alla luce della trasformazione del contesto competitivo in cui l’impresa opera e delle innovazioni introdotte a livello tecnologico. Emerge la necessità di effettuare una nuova classificazione non più legata alle fasi di sviluppo, ma al fabbisogno finanziario dell’impresa. Sulla base di questa seconda classificazione, detta moderna, le modalità di intervento degli investitori istituzionali nel capitale di rischio delle imprese possono essere divise in tre macro-aree: • finanziamento dell’avvio; • finanziamento dello sviluppo; • finanziamento del cambiamento. Il finanziamento dell’avvio. L’operatore di private equity può investire sin dalle primissime fasi di vita di un’impresa. In tal caso si parla di finanziamento dell’avvio, il cui obiettivo è quello di supportare la nascita di una nuova iniziativa imprenditoriale sostenendo l’impresa in tutte le fasi del processo di creazione. Gli aiuti sono rivolti ad imprenditori che mirano a sviluppare una nuova invenzione o a migliorare un prodotto/processo produttivo esistente. Spesso non si tratta di veri e propri imprenditori, ma di soggetti che necessitano più che un apporto di risorse, di apporto in termini di capacità imprenditoriale di competenze aziendali e manageriali, di aiuto nella definizione della formula imprenditoriale e nella valutazione della propria posizione competitiva. È molto importante effettuate attente analisi di mercato, one evitare che un’idea, per buona che sia possa poi, a lungo termine rivelarsi fallimentare. Questo è uno dei compiti dell’operatore che investe nelle imprese in fase di avvio. scelta dell’impresa target. Occorre individuare una serie di opportunità d’investimento (deal flow), così da avere un numero consistente di opzioni tra cui scegliere. Maggiore è il numero delle alternative a disposizione, maggiore sarà la possibilità che l’operazione si riveli di successo. L’operatore di private equity deve strutturare dei meccanismi volti alla massimizzazione del deal flow e deve considerare tre ordini di fattori: • Le caratteristiche dell’operatore. Fanno riferimento all’immagine e alla notorietà di cui gode nell’ambito del mercato in cui intende operare. Ciò che è rilevante è la sua esperienza in quello specifico mercato nonché la qualità e la quantità delle operazioni effettuate in passato. Tutto ciò influenza la possibilità di generare un flusso sistematico di deal flow, è necessario che l’operatore in questione non solo sia molto esperto e capace, ma occorre altresì che sia ritenuto credibile dal mercato e che tali abilità vengano percepite; • L’area geografica di intervento. Molto operatori si focalizzano in una particolare area geografica. La concentrazione territoriale è spiegabile considerando che gli investimenti sono più profittevoli quando investitore e imprenditore sono più vicini. La vicinanza geografica consente di reperire con maggior facilità informazioni sulle imprese e ciò semplifica attività quali la due diligence, lo screening e il successivo monitoraggio. individuata l’area geografica in cui operare, fondamentale è conoscere le esperienze e le abitudini degli operatori economici e degli imprenditori e le caratteristiche del mercato; • La tipologia di investimenti da effettuare. A seconda che si tratti di seed capital, buy out, turnaround o altro, cambiano le tipologie e i target di riferimento. La strategia di marketing da intraprendere dovrò, quindi tenere in considerazione la tipologia di operazione. Infine, occorre sottolineare l’esistenza di due differenti modalità che portano alla generazione delle opportunità di investimento: nel paesi anglosassoni che sono caratterizzati da mercati finanziariamente più evoluti, è la stessa società target che si autopropone all’investitore mentre in paesi in cui il private equity è poco conosciuto, come in Italia, sono gli operatori che attraverso un’attività di marketing diretto sono alla ricerca di società in cui investire. L’attività di marketing diretto presenta alcuni vantaggi, in quanto consente: • Attraverso un analisi preliminare, di identificare le aziende target potenziali che possiedono i requisiti primari necessari; • Di generare un flusso di opportunità di buona qualità; • Di scoprire opportunità interessanti ma sconosciute perché poco note; • Di stimolare l’interesse di imprenditori che altrimenti non avrebbero contattato in modo autonomo un investitore istituzionale; • Di scavalcare gli intermediari; • Di costruire nel tempo un serbatoio di opportunità e di capitalizzare/ valorizzare il proprio patrimonio di contatti; • Il cross selling di altri servizi (corporate finance, M&A, consulenza aziendale, ecc..). Valutazione del profilo imprenditoriale e del management team. Importantissima è la fase di valutazione del profilo imprenditoriale e del management in termini di affidabilità, competenze, esperienza e reputazione. L’esperienza dell’imprenditore e del gruppo manageriale influenza notevolmente il buon esito dell’operazione e spesso hanno un peso superiore persino rispetto alla validità tecnica del prodotto o all’assistenza di un mercato con elevati potenziali di crescita. Secondo un’indagine la principale causa di insuccesso di un investimento nel capitale di rischio è connessa proprio all’operato dei senior manager. Altri possibili fattori di insuccesso sono le carenze finanziarie e la mancanza di un’efficace strategia di marketing. L’imprenditore ideale per un operatore di private equity deve perseguire due tipologie di obiettivi: • Obiettivi di sviluppo dell’impresa; • Obiettivi di affermazione personale. Tali obiettivi devono essere impegnativi ma fattibili e devono essere inseriti all’interno del piano complessivo di sviluppo aziendale. Il rapporto tra investitore e imprenditore deve essere improntato sulla massima fiducia. I manager, inoltre devono essere in grado di gestire tutti gli stadi della vita di un’impresa dall’avvio alla crescita. Un altro fattore importante che potrebbe determinare l’insuccesso dell’operazione riguarda il coinvolgimento di imprenditori e manager nel business: un eccessivo coinvolgimento emotivo può essere causa di scarsa lucidità e distrazione. Valutazione del prodotto e del mercato di riferimento. Non bisogna trascurare la valutazione del prodotto e del mercato di riferimento. In tal modo è possibile analizzare il vantaggio competitivo che un determinato prodotto garantisce o che potrà garantire in futuro, le reali opportunità di crescita dell’azienda e la potenziale redditività del business. Per quando riguarda il prodotto, l’investitore è alla ricerca di un prodotto ben distinto, identificabile e fortemente competitivo, spesso con un considerevole grado di innovazione tecnologica. Risulta opportuno fare una distinzione in base alla tipologia di investimento da effettuare tra: • Early stage financing. È importante avere un prodotto efficace e ciò potrebbe determinare il successo, o in caso contrario, l’insuccesso, dell’operazione, soprattutto in caso di investimenti nel settore tecnologico; • Later stage investment. Al contrario, poiché l’impresa opera in settori maturi e con prodotti altrettanto maturi il buon esito dell’operazione potrebbe essere non strettamente connesso alla qualità dei prodotti. Per quanto riguarda il mercato di riferimento, uno dei primi passi da compiere è l’analisi del settore. Tale analisi risulta utile per verificare il livello di attrattività del settore cui appartiene l’azienda target e per definire le competenze chiave che bisognerebbe possedere, o che andranno acquisite, per competere in quel determinato settore. Uno dei moduli più conosciuti è quello delle cinque forze di Porter. Le cinque variabili identificate sono: • Il potere contrattuale dei fornitori; • Il potere contrattuale dei clienti; • La minaccia di potenziali entranti; • La minaccia di prodotti e servizi sostitutivi; • La concorrenza di settore. Tali forze agiscono con continuità e, se non opportunamente monitorate e fronteggiate portano alla perdita di competitività. Effettuata l’analisi di settore, occorre poi analizzare la capacità che ha l’impresa target di generare un valore superiore a quello dei suoi concorrenti diretti, appartenenti allo stesso settore. In merito all’analisi del mercato di riferimento occorre, infine, porre l’attenzione su tre aspetti molto importanti: • La dimensione del mercato: sarà necessario svolgere ricerche di mercato dirette per individuare la dimensione totale del mercato; • Il piano di marketing: occorrerà sviluppare un piano che delinei le azioni da porre in essere per raggiungere i livelli di vendita prospettati; • La strategia di mercato: bisognerà sviluppare una strategia utile per difendere il posizionamento dell’impresa sul mercato. L’operatore di private equity dovrà fare un’attenta analisi del mercato in cui andrà ad operare. Ciò che conta per lui non è il mercato in sé ma il posizionamento dell’impresa target all’interno dell’arena competitiva. Redazione e analisi del business plan. L’operatore di private equity deve valutare se l’azienda sarà in grado di produrre reddito e generare valore, così da garantire all’investitore un ritorno economico in un orizzonte temporale di medio periodo. Non esiste una target ideale in assoluto, ma la scelta è influenzata dalla tipologia di investimento da effettuare. In generale, gli investitori sono orientati verso imprese dinamiche, con elevati tassi dei crescita prospettici e con obiettivi strategici predefiniti. Gli obiettivi strategici dell’imprenditore e del management sono delineato nel piano aziendale di sviluppo, il business plan. In tale documento sono esplicitate le strategie competitive dell’azienda, le azioni che occorrerà intraprendere per raggiungere gli obiettivi preposti, l’evoluzione di key value drivers e i risultati economici e finanziari attesi. Per l’investitore è uno degli strumenti informativi principali da utilizzare quando selezione un investimento. Il business plan non è rivolto solo all’investitore ma a tutti i principali stakeholders della società tra cui anche i finanziatori, i proprietari, il consiglio di amministrazione e i manager. Il business plan è un documento chiaro e semplice che deve essere allo stesso tempo sintetico ma anche dettagliato nei suoi elementi chiave. Deve essere redatto in modo schematico e presenta, in genere, una struttura standardizzata. È possibile individuare un contenuto di massa così sintetizzabile: • Obiettivi, profilo e caratteristiche dell’azienda: bisogna specificare gli obiettivi della strategia aziendale e indicare come il progetto si inserisce nella mission dell’impresa; • Tecnologia e caratteristiche del prodotto/servizio: occorre descrivere il prodotto in modo semplice, ma spiegando anche gli aspetti tecnici; • Mercato: occorre effettuare un’analisi a livello macroeconomico definendo la dimensione del mercato e i tassi di crescita attuali e potenziali; • Aspetti produttivi: descrivere il modo in cui viene realizzato il prodotto, le fonti di approvvigionamento dei materiali necessari, le competenze specifiche richieste dal personale; • Piani operativi e dati economico-finanziari: redigere dei piano in merito alla produzione e alla commercializzazione del prodotto, tenendo conto dei tempi e dei costi; • Struttura finanziaria: individuazione del rapporto tra capitale di rischio e di debito; • Profilo dell’imprenditore e del management: valutare le caratteristiche del gruppo dirigente e indicare con precisione chi detiene il controllo del capitale; • Strategia di disinvestimento: vengono prese in considerazione alcune alternative in merito alle modalità di uscita e vengono esposti i ritorno previsti per l’investitore. Una volta redatto il business plan l’investitore dovrà verificare la credibilità, la ragionevolezza e la coerenza delle ipotesi sottostanti lo sviluppo del piano. La valutazione del BP può essere vista con un’ottica di processo. Performance storiche F 0 E 0 Trend di mercato, posizionamento F 0 E 0 rappresentata dagli accordi di earn out. Si tratta di una particolare formula attraverso la quale parte del pagamento del prezzo di acquisto di un’impresa o di una quota viene rimandata ad un momento successivo, quando disponendo di maggiori informazioni si avranno maggiori certezze circa i risultati della società target. Un’altra soluzione per ridurre il prezzo che l’investitore deve pagare è costituita dallo scorporo degli immobili. Questi ultimi hanno un valore elevato per l’imprenditore in ottica di un’analisi patrimoniale, ma l’operatore di private equity, maggiormente interessato ad una valutazione di tipo reddituale o finanziaria, preferisce non acquistare consistenti patrimoni immobiliari nell’ambito di aziende produttive. Un altro strumento a cui si ricorre per risolvere alcuni problemi di carattere negoziale è rappresentato dalle vendor notes. Questa soluzione non comporta una riduzione del prezzo fiscale, ma solo dell’ammontare che l’investitore è tenuto a pagare immediatamente alla stipula del contratto. Il venditore rinuncia a ricevere subito l’intero importo e sottoscrive titoli della società ceduta (vendor notes), concedendo così all’acquirente un vero e proprio finanziamento. Tali obbligazioni dovranno poi essere a lui ripagate in un tempo predeterminato e con un tasso di interesse preventivamente concordato. Definizione della struttura dell’operazione. Dopo aver effettuato tutte le analisi del caso volte ad accertare la convenienza dell’investimento e dopo aver stabilito il prezzo di ingresso, l’investitore e l’imprenditore devono accordarsi in merito alla struttura dell’operazione. Tale scelte è fondamentale per il buon esito dell’investimento. La modalità tecnica di investimento più utilizzata prevede il ricorso all’equity, ossia al capitale proprio dell’azienda. L’operatore di private equity può, alternativamente, acquistare quote dai soci o sottoscrivere quelle di nuova emissione. In alternativa, si possono utilizzare forme di finanziamento intermedie tra il debito e l’equity, quali: • Il prestito obbligazionario convertibile, l’investitore finanzia la società sottoscrivendo obbligazioni che potranno essere convertite in futuro in azioni della società emittente o di altre società; • Il senior debt, si tratta di una forma di capitale di debito a medio-lungo termine privilegiato che dà all’investitore la possibilità di essere rimborsato per primo, in caso di fallimento della società; • Il debito subordinato, un finanziamento di capitale di debito a medio-lungo termine il cui rimborso è privilegiato rispetto al capitale proprio ma postergato rispetto ad altre forme di debito; • Il mezzanino, è una soluzione ibrida che si pone a metà tra il debito e l’equity. Conclusione della trattativa. Dopo aver raggiunto l’accordo su tutti gli aspetti dell’operazione si può procedere con la firma del contratto. In esso saranno comprese alcune clausole di garanzia, a favore dell’acquirente, che assicurino la correttezza e la completezza dei dati forniti e dei fatti rappresentati, nonché l’inesistenza di passività occulte. Nel contratto di investimento possono essere ricompresi anche accordi che regolino i rapporti tra gli azionisti originari e quelli entranti: sono i patti parasociali. Essi prevedono sia delle norme da applicare nel corso dell’investimento, sia nella fase conclusiva quando si realizza il disinvestimento attraverso la vendita della partecipazione. Siglato l’accordo e rilasciate le opportune garanzie, l’operazione si concretizza con il trasferimento delle azioni, il pagamento del prezzo, l’eventuale sostituzione degli amministratori e la firma di eventuali contratti accessori. Il monitoraggio dell’investimento e la creazione di valore. L’obiettivo dell’operatore di private equity è quello di controllare l’andamento della gestione, così da assicurarsi che l’impresa raggiunga i risultati previsti dal piano. L’attività di monitoraggio dell’investimento viene effettuata sia attraverso l’analisi costante di alcuni indicatori economico-reddituali, sia prendendo parte alle riunioni del CdA. Il monitoraggio riguarda gran parte degli aspetti che caratterizzano la vita aziendale. A seconda del grado di coinvolgimento dell’investitore nell’attività aziendale, è possibile distinguere due forme di monitoraggio: • Approccio hands on: viene effettuato quando l’investitore partecipa attivamente all’attività dell’azienda in cui ha investito. Ha una rappresentanza nel CdA e, spesso, ha anche diritto di veto su importanti decisioni in merito all’attività d’impresa; • Approccio hands off: si verifica quando la partecipazione dell’investitore nell’impresa è più limitata. Egli non interviene né nelle decisioni operative né in quelle strategiche. In questo caso l’operatore di private equity non esercita un controllo attivo, ma richiede informazioni in modo regolare per poter monitorare l’andamento della società. CAPITOLO 5: Il processo di disinvestimento. Considerazioni introduttive. La fase di disinvestimento rappresenta la fase conclusiva del processo di investimento. Quella di disinvestimento è una delle fasi più delicate in quanto consente di realizzare il capital gain, ossia la remunerazione dell’investitore. Al fine di realizzare il massimo rendimento possibile, l’operatore deve definire due aspetti fondamentali: • Il momento più opportuno per realizzare il disinvestimento (timing); • Il canale di disinvestimento più adeguato. Qualora l’iniziativa oggetto di investimento abbia successo si disinveste quando, raggiunto il livello di sviluppo previsto, si ha un incremento del valore della società e quindi della partecipazione. Al contrario, nell’eventualità che l’iniziativa fallisca, il disinvestimento avviene quando matura la convinzione che non è più possibile risolvere la situazione di crisi venutasi a creare. Per quanto attiene ai canali attraverso i quali gli investitori cedono le loro partecipazioni, si possono individuare le seguenti categorie: • Initial Public Offering (IPO): venduta delle azioni sul mercato borsistico mediante un’offerta pubblica; • Trade sale: cessione della partecipazione a un nuovo socio di natura industriale; • Buy Back: riacquisto delle azioni da parte del socio originario; • Secondary Buy Out: cessione della partecipazione a un altro operatore di private equity; • Write Off: abbattimento del valore delle azioni a seguito della perdita di valore delle stesse. L’initial public offering: IPO. Tra i vari canali di disinvestimento rappresenta quello più ambito dagli operatori di private equity. Considerando che in borsa è possibile collocare anche una minoranza del capitale dell’impresa, ciò comporta indubbi vantaggi in quando l’investitore può cedere con profitto il proprio pacchetto azionario e mantiene il controllo della società. Per poter accedere al mercato borsistico un’azienda deve avere un insieme di caratteristiche organizzative e finanziarie, quali la capacità di generare liquidità, un trend di crescita storico e concrete prospettive di sviluppo futuro, credibilità, trasparenza e maturità manageriale. L’accesso al mercato regolamentato contribuisce, almeno in via potenziale, a creare valore per gli azionisti, a garantire una maggior liquidità all’investimento e a reperire risorse per l’ulteriore sviluppo dell’impresa. Si tratta, dunque, di una scelta di tipo strategico di primaria importanza che coinvolge tutta l’attività aziendale, l’assetto proprietario e manageriale e i rapporti con clienti e fornitori. È di fondamentale importanza scegliere il momento più adatto per lanciare l’offerta pubblica di vendita. Tale scelta dipende da un duplice ordine di fattori: il primo afferente alla congiuntura attraversta dal mercato azionario, il secondo legato alla situazione di sviluppo dell’impresa. Dal punto di vista dell’impresa, la quotazione può essere realizzata a prezzi convenienti solo se l’azienda ha raggiunto adeguati livelli di fatturato e utile. Dal punto di vista di mercato è bene lanciare offerte pubbliche di vendita nelle fasi di espansione, poiché il risparmiatore sarà più propenso a investire in titoli azionari e i titoli stessi avranno una valutazione superiore. Collocandosi sul mercato prima di aver raggiunto i risultati consolidati, il titolo sarà sopravvalutato e, dunque, i risparmiatori rischiano un successivo ridimensionamento delle quotazioni. Nel caso contrario, se l’impresa posticipa la quotazione c’è il rischio di una minor redditività per gli investitori, dato che quest’ultima risulta negativamente correlata al tempo di permanenza della partecipazione in portafoglio. Un’altra problematica è rappresentata dalla scelta del mercato nel quale l’impresa collocherà i propri titoli. A tal fine risulta opportuno tenere in considerazione una serie di fattori inerenti al mercato quali i tempi e i costi di quotazione e permanenza sullo stesso, la localizzazione geografica e le eventuali connessioni con altri mercati,m la dimensione, l’immagine di efficienza e trasparenza, ecc.. Deciso quindi il momento più opportuno per lanciare un’IPO è necessario che l’operazione si concretizzi in tempi brevi al fine di evitare un possibile sfasamento tra l’andamento del mercato previsto in fase di progettazione e quello effettivo al momento della quotazione. Un altro contributo alla credibilità e all’immagine a livello internazionale è fornito dalla dimensione del mercato. Essa influenza la capacità dell’azienda di attrarre capitale e raccogliere risorse finanziarie professionalmente qualificate. Un altro elemento che favorisce la raccolta di risorse finanziarie provenienti da investitori altamente qualificati è costituito dall’immagine di efficienza e trasparenza del mercato. Infine, bisogna considerare l’eventuale specializzazione di alcuni mercati. Le specializzazioni che un mercato finanziario può presentare sono principalmente di due tipologie: dimensionali e settoriali. Per la prima vi sono molti mercati che ammettono solo imprese di piccole e medie dimensioni. La seconda fornisce ulteriori vantaggi quali il consolidamento dell’immagine dell’impresa e la connessa opportunità di trovare più agevolmente nuovi partner nel suo stesso settore. Per quando riguarda Borsa Italiana è previsto un incontro preliminare, dove la società presenta il progetto. Accettato il progetto, si procede all’individuazione di alcuni soggetti quali l’advisor, lo sponsor, il global coordinator, la società di comunicazione, i consulenti legali. Successivamente viene avviata l’attività di due diligence. A questo punto è possibile presentare la domanda di ammissione alla quotazione e dovrà essere pubblicato il prospetto informativo precedentemente redatto. Subito dopo sarà avviata un’attività di pre-marketing, al fine di verificare l’interesse da parte di eventuali investitori al collocamento, le cui caratteristiche vengono ora definite nel dettaglio. Verranno poi promossi una serie di incontri con i potenziali investitori e con gli analisti finanziari per presentare loro le caratteristiche del progetto di quotazione. La fase successiva è rappresentata dal pricing dell’operazione. verticalmente entra in crisi nel momento in cui l’ambiente esterno non è più prevedibile e in qualche modo controllabile, la domanda è satura e costringe l’azienda ad attuare una produzione più diversificata e di qualità per rimanere competitiva. La crisi del modello fordista genera quindi lo sviluppo di imprese autonome in grado di uscire dai vincoli di dipendenza nei confronti della grande impresa. È proprio in questo contesto che molti distretti industriali si sviluppano, cominciano a crescere le cosiddette aree di industrializzazione leggera, caratterizzate da imprese di piccola e piccolissima dimensione che continueranno ad espandersi nel ventennio successivo. La specializzazione produttiva si incentra nei settori tradizionali a basso contenuto tecnologico ed alto impiego di manodopera specializzata: tessile, abbigliamento, calzature, pelletteria, conceria, meccanica e elettromeccanica. Il numero di distretti industriali è cresciuto durante il miracolo economico. Un significativo sviluppo si è riscontrato anche nei decenni successivi, quando il sistema economico ha rallentato la corsa. Negli anni ’80 e ’90 i distretti si sono espansi anche nel Sud del paese. Grazie alla loro flessibilità nell’adattarsi ai cambiamenti economici, tali realtà hanno cominciato a crescere anche in controtendenza con l’economia del Paese. In circa quarant’anni il nuovo modello di capitalismo ha quindi saputo portare l’Italia fuori dalla crisi del Fordismo. Per lungo tempo i distretti hanno garantito le buone performance di un’industria italiana perlopiù priva della grande impresa, dominata da soggetti di piccole dimensioni e specializzata in beni considerati tradizionali o maturi. Gli effetti della globalizzazione e le problematiche dell’economia negli anni più recenti hanno evidenziato punti di debolezza del modello distrettuale italiano. Dopo un periodo di costante crescita i distretti si sono trovati nella fase di maturità ad un bivio tra rivitalizzazione e crisi. Il modello distrettuale ha manifestato limiti organizzativi e competitivi. secondo alcuni osservatori, il modello non favorisce gli investimenti per l’innovazione e per la ricerca, è debole nella commercializzazione di beni e servizi a livello mondiale, poco ricettivo ad avviare sinergie e joint-venture con altre imprese. Per anni questo sistema ha sorretto lo sviluppo del sistema industriale italiano, ma le reti locali ed aziendali si stanno modificando in risposta al mutamento dei mercati, più difficili da presidiare e conquistare. La presenza di produttori low-cost sempre più forti ed aggressivi impone alle aziende distrettuali di investire in innovazione, marchi, qualità e linee globali di approvvigionamento, produzione e vendita, attuando strategie di decentramento e ricercando sinergie con altre imprese non solo a livello locale. Per queste ragioni, il tradizionale distretto industriale, rete settoriale localizzata entro confini ristretti, si sta evolvendo verso una nuova forma di rete che, pur mantenendo le radici nel territorio di origine, ha sempre più carattere trans-settoriale e trans- territoriale. La rete consente di distribuire nella filiera tra più imprese e tra più persone i costi, i rischi e il fabbisogno finanziario dell’investimento in conoscenze e in assets materiali, riducendo moltissimo le barriere all’ingresso per nuove iniziative imprenditoriali e nuovi specialisti. La rete inoltre consente di realizzare innovazioni di sistema perché investimento, rischi e competenze specializzate sono distribuite tra tanti micro- innovatori consentendo a ciascuno di essi di affrontare problemi che sono a misura della sua esperienza, della sua finanza e della sua disponibilità a rischiare. La rete è il modo più rapido e flessibile per accedere alle conoscenze e alle competenze esterne che spesso le singole imprese, specie se di piccola dimensione, non possiedono direttamente. I distretti industriali: le sfide dell’innovazione e dell’internazionalizzazione. A seguito dei processi di globalizzazione, il contesto economico di riferimento e l’ambiente competitivo dove le imprese e i distretti si trovano ad operare è quindi profondamente mutato. Si può parlare di una nuova economia mondiale caratterizzata da cinque principali aspetti: • La crescente centralità delle reti finanziarie, che rivestono oggi un ruolo più importante di quello assunto dalle stesse strutture produttive; • La crescente importanza dell’economia della conoscenza, non più assimilabile ad un semplice fattore produttivo come capitale o lavoro, bensì vero e proprio vettore di competitività; • L’internazionalizzazione della tecnologia che si traduce nella diffusione di standard e di know-how e nell’utilizzo generalizzato di alcuni processi; • La diffusione di oligopoli transnazionali; • Lo sviluppo di un orientamento globale delle strategie economiche nazionali. La globalizzazione rappresenta, da un lato, un irreversibile processo di integrazione mirato ad un incremento degli scambi internazionali, alla nascita di imprese multinazionali e alla creazione del cosiddetto mercato globale, dall’altra significa radicamento territoriale. Ha innescato a sua volta alcuni importanti mutamenti di scenario riconducibili a tre fenomeni tra loro correlati: • l’emergere di nuovi protagonisti nella competizione internazionale; • l’accentuarsi dei meccanismi di divisione del lavoro; • la riduzione di barriere alla comunicazione, alla mobilità e al commercio. Imprese distrettuali e non distrettuali a confronto. Nel 2011, sulla base delle proiezioni dei ricercatori, il fatturato dei distretti dovrebbe avere sperimentato un aumento dell’8,5% a prezzi correnti, mezzo punto percentuali in più rispetto alle aree non distrettuali. Sembra pertanto che le imprese distrettuali abbiano saputo approfittare in modo più intenso della domanda mondiale a fronte di una domanda interna rimasta debole. I distretti che ottengono i migliori risultati di crescita e redditività sono quelli in cui il territorio continua ad offrire esternalità sul piano manifatturiero, fornendo capitale umano e servizi avanzati. Emerge anche la maggior propensione a innovare delle imprese distrettuali rispetto a quelle non distrettuali. Per quanto riguarda gli investimenti diretti all’estero, emerge una maggiore propensione a investire all’estero delle imprese distrettuali, che a inizio 2009 avevano 25 imprese partecipate ogni 100, contro le 16 nelle aree distrettuali a parità di specializzazione produttiva e a 21,4 nella media manifatturiera. La ricerca evidenzia una certa capacità delle imprese distrettuali di reagire ai cambiamenti e una maggiore propensione a creare nuova conoscenza sulla base della ricombinazione di conoscenze precedenti. Vincoli finanziari allo sviluppo. Il sistema industriale italiano è caratterizzato dalla piccola e media dimensione d’impresa. Il vincolo finanziario può rappresentare un ostacolo significativo per le imprese nel loro percorso di sviluppo, anche per quelle con un alto potenziale. Le modalità di finanziamento delle piccole e medie imprese italiane presentano due caratteristiche di fondo: la prevalenza del ricorso all’autofinanziamento e al credito bancario e l’eccessiva dipendenza del debito bancario e breve termine. Nella gerarchia delle fonti di finanziamento le PMI italiane attribuiscono importanza prioritaria alle fonti interne. In un sistema capitalistico in cui la separazione fra proprietà e controllo è praticamente inesistente, l’autofinanziamento prevale sul conferimento soci tramite aumento di capitale. Vi è una forte propensione da parte degli imprenditori ad investire in azienda i flussi di cassa generati dalla gestione corrente. In secondo luogo, l’apporto del credito bancario appare fondamentale per il sostegno della PMI. I debiti finanziari verso le banche rappresentano oltre un terzo delle passività complessive per le imprese di piccola e media dimensione e si caratterizzano per l’assoluta prevalenza del debito bancario a breve termine, che rappresenta oltre i tre quarti del debito complessivo. Le PMI sembrano dunque sotto dotate di risorse finanziarie stabili e più esposte alla variabilità dei tassi a breve e alle fluttuazioni dl ciclo economico. La progressiva apertura dei distretti verso l’esterno e la maggiore attenzione agli aspetti non manifatturieri dell’attività d’impresa, sommati alla focalizzazione sulle fasi innovative, organizzative e distributive, si possono tradurre in un cambiamento dei fabbisogni finanziari delle imprese. Il mantenimento di un buon equilibrio tra la durata delle fonti di finanziamento e quella degli impieghi richiede infatti un prolungamento della scadenza dei debiti finanziari. Questo si traduce a sua volta nel cambiamento del servizio richiesto ai soggetti terzi. Per queste ragioni le banche locali dovranno valorizzare il loro patrimonio informativo accumulato investendo in alleanze strategiche ed in nuovi assetti organizzativi. I grandi gruppi bancari, invece, dovranno muoversi in un ambiente più complesso che porta ad un progressivo decentramento a livello funzionale, dovranno agire con maggiore incisività per rafforzare il ruolo di interlocutori privilegiati con le imprese. La crisi ha acuito i fabbisogni di circolante e la volatilità di ricavi e margini ha reso ancora più instabili i finanziamenti dal sistema bancario, prevalentemente a breve e concentrati su fonti auto liquidanti, con i conseguenti effetti sull’equilibrio finanziario. Un rischio per la competitività delle imprese distrettuali è proprio quello della sensibile riduzione degli investimenti materiali e immateriali, con ricadute pericolose nel percorso di riconfigurazione e rinnovamento. Una più adeguata patrimonializzazione delle imprese “leader”, con apporti di nuovo capitale di sviluppo, può consentire non solo a queste di accelerare il loro percorso di crescita, ma anche di avere benefici effetti per le imprese minori del distretto che interagiscono con loro. Il ruolo del Private Equity. Il Private Equity può essere un veicolo importante per permettere ad imprese anche di minori dimensioni, dotate di competenze distintive di accelerare il loro processo di crescita e di internazionalizzazione. L’investitore professionale oltre a fornire nuove risorse finanziarie sotto forma di nuovi apporti di capitale proprio, talora accompagnate da fonti di finanziamento ibride come prestiti obbligazionari convertibili, può aiutare l’impresa con il proprio bagaglio di esperienze e conoscenze nonché di relazioni a livello internazionale e soprattutto internazionale. Spesso le imprese di minori dimensioni sono titubanti nel perseguire con decisione processi di internazionalizzazione ed innovazione, non solo per la carenza di capitale idoneo ad investimento con rischio più elevato, ma soprattutto per la carenza di esperienze, relazioni e competenze manageriali. All’operatore del capitale di rischio sono richiesti un maggior “coinvolgimento” nel processo strategico aziendale e competenze maturate nel settore di operatività dell’impresa. I principali vantaggi per l’impresa target che l’investitore istituzionale può dare sono così sintetizzabili: • collaborazione nel tracciare una strategia di sviluppo e nel perseguirla; • maggiore funzionalità della compagine sociale; • un contributo alla realizzazione di una gestione più professionale e manageriale dell’azienda target; • crescita del potere contrattuale dell’impresa; Secondo il famoso investitore Warren Buffet “non si acquistano le azioni, ma il business sottostante”. Per tali ragioni nella valutazione vengono in genere preferiti i metodi basati sui flussi di cassa per analizzare l’investimento che sarà in grado di generare in futuro. Da questa concezione derivano alcune alternative concrete del metodo. I metodi maggiormente utilizzati sono: • il metodo dei flussi monetari complessivi disponibili (approccio equity-side); • il metodo degli Unlevered Discounted Cash Flow (approccio asset-side). La valutazione con tali metodologie ha tra i suoi vantaggi quello di richiedere una profonda conoscenza e comprensione dell’azienda, e una ricerca attenta sulla sostenibilità futura dei flussi di cassa e della loro rischiosità, mentre tra i suoi limiti si può considerare il rischio di manipolazione dei dati di input. Nella valutazione delle imprese non finanziarie prevale l’utilizzo dell’approccio asset- side in cui viene stimato l’Enterprise Value, cui viene poi sommata la Posizione Finanziaria Netta per addivenire al valore del capitale proprio. I flussi di cassa ed il Terminal Value. Uno schema per la determinazione del flusso monetario della gestione caratteristica, FCFF è il seguente, partendo dal margine operativo lordo (MOL o EBITDA). EBITDA - imposte pagate sul reddito operativo -/+ Variazione dei Fondi rischi +/- Capitale circolante operativo - Investimenti operativi + disinvestimenti operativi = Unlevered Free Cash Flow Sul piano teorico il modello è certamente il più razionale, ma sul piano pratico si possono riscontrare numerose difficoltà. È il caso delle imprese di piccola o media dimensione, che mancano di un modello di pianificazione affidabile. Nell’utilizzo di tale metodologia, particolare attenzione va poi posta al peso che può assumere il valore terminale, esaminando il flusso considerato “normale”, se è stato ipotizzato e in che misura un tasso di crescita perpetua (g) di flussi di cassa, oltre alla corretta determinazione del tasso di attualizzazione in funzione del rischio. Il modello più coerente con il modello per la determinazione del valore terminale è quello che utilizza il FCFF normalizzato atteso dopo il periodo di previsione esplicita. È infatti indubbio che il DCF (Discounted Cash Flow) debba ricorrere ad un processo di normalizzazione dei flussi di cassa, operazione esposta alle stesse stime soggettive riscontrabili nella determinazione di costi e ricavi. Il tasso di errore risiede principalmente nella difficoltà di distinguere tra componenti transitorie e permanenti dei flussi di cassa attesi nel periodo di previsione esplicita. L’applicazione del DCF senza porre la massima attenzione ai flussi di cassa da considerare dopo il periodo esplicito di previsione può portare a sopravvalutare aziende che, per migliorare il loro cash flow a breve, riducono il fabbisogno per investimenti, con effetti negativi sulla loro competitività futura. Quanto al tasso di crescita stabile (g), devono essere attentamente considerati: • il tasso di crescita dell’economia; • le prospettive del settore; • le prospettive di crescita reddituale dell’azienda. Una metodologia che considera le necessità di reinvestimento per sostenere la crescita è quella proposta da Damodaran che lo stima sulla base di due variabili determinanti: • il tasso di reinvestimento degli utili; • il rendimento di tali investimenti. Nell’approccio equity-side g è dato dal tasso di reinvestimento degli utili e dal ROE ottenuto investendo tali risorse: g = ROE x Tasso di reinvestimento degli utili nell’approccio asset-side g è dato invece dal prodotto tra il tasso di reinvestimento ed il ROIC (Return On Invested Capital) di tali investimenti. g = ROIC x Tasso di reinvestimento del NOPAT Il tasso di attualizzazione. Nei metodi finanziari assume specifica rilevanza la stima del tasso di sconto per le conseguenze che esso comporta nei confronti dl valore attuale dell’azienda oggetto di valutazione. La dottrina aziendale ritiene che la scelta dei tassi debba essere: • razionale, cioè ispirata ad uno schema logico, chiaro e convincente; • coerente con i flussi di risultato atteso; • affidabile, nel senso che devono essere ridotti al minimo gli ambiti di discrezionalità dell’esperto; • verificabile, cioè ripercorribile nelle sue componenti. Ovviamente la scelta del tasso deve essere funzionale del metodo finanziario applicato (un/levered). La modalità levered perviene alla valutazione del capitale azionario mediante l’attualizzazione dei flussi di competenza dei soli azionisti, ad un tasso che rappresenta il costo del capitale proprio (Ke) che esprime il rendimento richiesto dai soli conferenti del capitale di rischio. La modalità unlevered che perviene alla determinazione dell’Enterprise Value sconterà i flussi in base al WACC, ovvero una media ponderata tra il costo del capitale proprio ed il costo del debito. La determinazione del costo del capitale proprio (Ke) è uno di principali problemi aperti della finanza moderna. Le difficoltà di tale stima risiedono nel fatto che non si tratta di un dato certo, ma di “costo-opportunità”. WACC = Kd (1 – t) (D/D+E) + Ke (E/D+E) Tra i principali modelli di stima del costo del capitale proprio il CAPM è il più utilizzato anche se ne è stata dimostrata la debolezza nello spiegare i saggi della redditività delle azioni. La recente crisi ha evidenziato come dipendendo dalle osservazioni dei corsi azionari storici può non catturare il rischio in periodi di grandi cambiamenti. Il suo successo è, invece, legato alla facilità d’uso. È infatti un modello lineare, mono fattoriale, che consente di risalire al costo del capitale proprio con relativa facilità. Ke = Rf + Beta (Rm + Rf) Dove: r: risk premium; Beta: coefficient beta; Rm: rendimento generale medio del mercato azionario; Rf: risk free rate. Il risk free rate (Rf) rappresenta il premio che spetta a colui che rinuncia a disporre del capitale per un determinato periodo di tempo. La seconda componente è il premio per il rischio di mercato sopportato per compiere l’investimento. In generale l’altezza del premio per il rischio varia in funzione di due elementi fondamentali: la rischiosità del settore e la rischiosità dell’azienda. La terza componente è rappresentata dal coefficiente beta che misura la rischiosità specifica della singola azienda. Il beta è una misura del grado di rischio dell’azione e le aziende con elevato beta sono considerate molto rischiose. Gli elementi fondamentali di cui si costituisce il beta sono: • la ciclicità di business in cui opera l’azienda; • il grado di leva operativa; • il grado di leva finanziaria. Maggiore è la ciclicità dl business e maggiore risulterà essere il suo grado di rischio e di conseguenza si osserverà un beta più alto. Un’azienda in un settore caratterizzato da elevati costi fissi è sicuramente più rischiosa di una presente in un settore dove l’incidenza dei costi fissi non è invece elevata (grado di leva operativa). Inoltre l’incremento dell’indebitamento è un ulteriore elemento che può rendere rigida la struttura dei costi e può incrementare il rischio per l’azienda determinando un maggior beta a parità di condizioni. La posizione finanziaria netta. Nei metodi unlevered si perviene quindi ad un Enterprise Value, a cui viene sommata la posizione finanziaria netta (PFN). Essa viene intesa come la differenza tra l’ammontare delle disponibilità liquide e di debiti finanziari a breve termine. PFN = Cassa – Debiti Finanziari (a breve/lungo termine) Nella composizione della PFN si considerano le tipologie di finanziamento, le fonti di finanziamento e le scadenze dei debiti a valori contabili. Importanza rilevante nel processo di determinazione della PFN è rivestita dal ruolo dei “Debt Like Items”, elementi che pur non essendo rappresentati nel bilancio come tali, sono in realtà debiti finanziari. Essi comprendono voci di natura diversa e le principali sono: • Off Balance Sheet Financing: sono impegni finanziari attualmente non espressi in bilancio ma che in futuro si trasformeranno in uscite di cassa (es. debiti per leasing, per operazioni di sale and lease back o di factoring, o per debiti derivanti da contratti derivati); • Debiti scaduti: il mancato pagamento entro le date concordate di debiti operativi migliorano artificiosamente la PFN; • Errori di cut-off e classificazione: consistono in errate registrazioni contabili o di classificazione in bilancio di poste aventi natura finanziaria, il cui effetto produce un miglioramento nella quantificazione della PFN. I metodi basati sui multipli. In sintesi il metodo dei multipli presenta alcuni vantaggi: • Facilità di applicazione; • Facilità di comparazione; • Attenzione ai valori di mercato ma anche alcuni limiti; • Difficoltà nell’identificare reali “comparables”. Tale metodologia è quella più utilizzata nelle operazioni di private equity. Le ragioni principali della sua larga diffusione sono riconducibili principalmente alla sua immediatezza, alla facile identificabilità dei parametri, alla disponibilità da parte degli
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