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Riassunto procedura penale, Appunti di Diritto Processuale Penale

Riassunto completo utile per la preparazione dell'esame

Tipologia: Appunti

2019/2020

In vendita dal 05/02/2020

lullaby5
lullaby5 🇮🇹

3 documenti

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Scarica Riassunto procedura penale e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! I REATI CONTRO LA PERSONA Capitolo 1: I REATI CONTRO LA VITA Il titolo XII del libro II del codice penale comprende i delitti che offendono direttamente i beni essenziali dell’individuo, e cioè i beni della vita, dell’incolumità fisica, della libertà e dell’onore. Il diritto alla vita è il bene giuridico primario del nostro ordinamento, pertanto, la vita umana non può mai risultare subordinata ad alcun altro interesse, individuale, statale o collettivo. Nei delitti contro la vita individuale, il soggetto passivo è qualificato con il termine “UOMO”, che nel suo significato proprio indica genericamente “qualsiasi persona umana”. La qualità di uomo/persona dipende dal fatto che il soggetto sia dotato di vita autonoma, anche se si tratta di persona non autosufficiente, e quindi a prescindere da eventuali condizioni patologiche che ne compromettano tutte le funzioni fisiologiche (ad esempio paziente in stato vegetativo). Irrilevante è anche la morfologia fisica del soggetto, essendo sufficiente la condivisione del patrimonio genetico col genere umano. Vi è una distinzione tra UOMO e CONCEPITO, in quanto la vita del concepito (ossia non ancora nato) gode soltanto di una protezione affievolita rispetto a quella assicurata all’uomo. Chiaro esempio di ciò è la DISCIPLINA DELL’ABORTO (L. n. 194/ 1978), che consente il sacrificio della vita del concepito quando la sua nascita potrebbe mettere in pericolo beni personali della donna, anche se di rango inferiore rispetto alla vita. L’aborto è lecito entro i primi 90 giorni a condizione che siano rispettate le procedure previste dalla legge stessa; che ricorra una situazione di pericolo per la salute fisica o psichica della donna in relazione, alle circostanze del concepimento, allo stato di salute, alle condizioni economiche, sociali o familiari, alla previsione di anomalie o malformazioni del concepito. Dopo i primi 90 giorni l’aborto è lecito quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna o quando sono accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro, che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna. Il limite finale della tutela della vita è quello che differenzia l’UOMO dal CADAVERE in conseguenza dell’evento morte. La morte coincide con la cessazione totale e irreversibile delle funzioni del sistema nervoso centrale (MORTE ENCEFALITICA), che equivale non alla morte in senso proprio, ma all’entrata nel processo irreversibile della morte. In base al tradizionale principio della “indisponibilità della vita”, la tutela penale del bene opererebbe in ogni caso anche contro la volontà del titolare, precludendo perciò all’individuo, non solo la volontaria distruzione della propria vita, manu aliena (cioè prestando il consenso alla propria uccisione da parte di terzi) e manu propria, ma anche la rinuncia volontaria alla vita, cioè il lasciarsi morire (es. rifiutando cure mediche salvavita). A questa impostazione, oggi si contrappone quella della DISPONIBILITA’ DELLA VITA, con conseguente rivendicazione, de iure conditio, del diritto al rifiuto delle cure salvavita e, de iure condendo, della legalizzazione di pratiche eutanasiche e di suicidio assistito. La tesi dell’indisponibilità ha il suo fondamento in 3 dati essenziali: l’atteggiarsi del bene vita come interesse non solo individuale ma anche collettivo, come si evincerebbe dall’art. 32 Cost. nella parte in cui definisce la salute e quindi la vita diritto fondamentale dell’individuo e interesse della collettività; la presunta portata di principio generale dell’ordinamento dell’art. 5 c.c., che vietando gli atti di disposizione del proprio corpo che cagionano una diminuzione permanete dell’integrità fisica, a fortiori sottintenderebbe il divieto di disporre della vita; l’incriminazione, ex artt. 579 e 580 c.p. dell’omicidio del consenziente e dell’aiuto al suicidio, che attesterebbe l’appartenenza della vita al novero dei beni assolutamente indisponibili, ai sensi dell’art. 50 c.p. I fautori della disponibilità, invece, ritengono che l’interesse alla vita pertiene esclusivamente alla sfera individuale, e il singolo individuo ne è unico titolare in base al diritto all’autodeterminazione, costituzionalmente fondato sulla inviolabilità della libertà personale, ex. Art. 13 Cost, nonché sul divieto di trattamenti sanitari obbligatori, ex. Art. 32 Cost. Sulla base del principio della libertà personale (o di autodeterminazione), l’art. 5 c.c. non può essere inteso quale divieto generale e assoluto di disporre del proprio corpo, fino a ricomprendervi gli atti dispositivi operati manu propria, mediante un’azione positiva del titolare o la sua rinuncia alla tutela della vita o integrità fisica. Scopo dell’art. 5 è quello di sancire l’inalienabilità a terzi dell’integrità fisica. Più precisamente oggetto di tale art. è il divieto di stipulazione di negozi, mediante i quali il contraente si obblighi a cedere parti del suo corpo non ancora separate, ove ciò cagioni una diminuzione permanente dell’integrità fisica. In questi casi la volontà eventualmente manifestata risulta sempre a priori inefficace e l’accordo in tal senso può integrare gli estremi di contratto penalmente illecito. L’OMICIDIO IN GENERALE (ARTT. 575 E SEGG. C.P.) L’omicidio in generale è l’uccisione di un uomo cagionata da un altro uomo con un comportamento doloso o colposo e senza il concorso di cause di giustificazione. Scopo dell’incriminazione è la tutela della vita umana. Questa viene protetta dallo Stato non solo nell’interesse dell’individuo, ma anche nell’interesse della collettività. Il fatto materiale dell’omicidio implica tre elementi: - Una condotta umana; - Un evento; - Un nesso di causalità tra condotta ed evento. La condotta può estrinsecarsi nelle forme più diverse, perché la legge non indica le modalità che essa deve assumere, limitandosi a richiedere che abbia cagionato la morte di una persona. I mezzi con cui viene cagionata la morte possono essere non soltanto fisici (arma, veleno, forza muscolare, gas asfissiante e così via), ma anche psichici, come il procurare uno spavento o un dolore atroce ad un cardiopatico, oppure il torturare un individuo moralmente. L’evento del delitto di omicidio consiste nella morte di una persona. L’omicidio è esempio tipico della categoria dei reati a forma libera. Il comportamento può consistere tanto in una azione che una omissione (tranne nel preterintenzionale, nel quale è necessaria una condotta attiva). In caso di condotta omissiva però occorre che l’agente abbia un dovere giuridico di agire ed ometta di farlo; occorre che il soggetto abbia l’obbligo di impedire il verificarsi dell’evento morte, individuato in una posizione di garanzia, protezione e controllo (esempio è il dovere dei genitori sulla vita dei figli minori; oppure il dovere del datore di lavoro sulla vita dei suoi lavoratori dipendenti). Quest’obbligo, ad esempio, grava anche in capo al medico nei confronti del paziente . La posizione di garanzia del medico nei confronti del paziente, trova la sua fonte formale nell’art. 1, comam 1, d. lgs. N. 502/1992, che stabilisce a carico del personale del SERVIZIO SANITARIO NAZIONALE il compito di tutelare la salute dei cittadini, oppure trova fonte nel contratto privato stipulato tra medico e paziente. Gli obblighi spettanti al medico consistono: - nella presa in carico del bene della salute del paziente; - nell’esecuzione degli accertamenti diagnostici e clinici necessari alla scelta della terapia più indicata; - nell’esecuzione della terapia; - nella vigilanza sulle condizioni del paziente ricoverato e nell’eventuale tempestivo intervento in caso di una sua motivata richiesta; - nel fornire al paziente un’informazione veritiera, completa e comprensibile sulle reali necessità di cura, le possibili alternative terapeutiche e il rapporto benefici /costi dei vari tipi di intervento o trattamento farmacologico che sarà praticato e le sue possibili conseguenze indesiderate e effetti avversi, nonché sugli eventuali ulteriori interventi che potrebbero rendersi necessari al momento in cui il paziente non sia in grado di prestare un suo consenso (xk anestetizzato); - nel rispettare la volontà attuale del paziente e astenersi dall’avvio o prosecuzione di una terapia determinata in caso di rifiuto della stessa o di revoca del consenso precedentemente manifestato; - nell’informare i collaboratori su tutte le circostanze rilevanti ai fini del loro intervento; - nell’informarsi, presso il personale medico e paramedico, sulle condizioni- del paziente, sia al momento dell’assunzione della posizione di garanzia, sia per tutta la durata del turno di lavoro, nonché nell’acquisire presso il paziente tutte le informazioni necessarie al fine di procedere con relativa sicurezza all’eventuale terapia (es. presenza di allergie o patologie cardiache); - nell’attuare gli interventi palliativi finalizzati ad alleviare le gravi sofferenze del paziente, anche in caso di suo rifiuto dell’avvio o prosecuzione della terapia finalizzata a preservarne la vita, e anche qualora simili trattamenti possano, come effetto secondario ma non voluto, ridurre in termini quantitativi l’aspettativa di sopravvivenza. La violazione degli obblighi può assumere rilevanza penale per il reato di omesso impedimento dell’evento, ex. Art. 40, comma 2 (es. morte del paziente ricoverato per aggravamento della patologia in atto, per mancata presa in carico da parte del medico di turno), oppure integrare la componente omissiva di una condotta colposa attiva (es. intervento eseguito senza procedere agli accertamenti diagnostici indispensabili; somministrazione di un farmaco senza tener conto della dichiarazione del paziente di essere allergico allo stesso). Anche nelle ipotesi di omesso impedimento dell’evento è necessario verificare con certezza l’esistenza di un nesso di causalità tra la condotta omissiva e l’evento morte. In particolare, nella sentenza Franzese, la Suprema Corte ha specificato che non è Dal 2016, l'ordinamento penale prevede come autonoma fattispecie di omicidio anche l'omicidio stradale (art. 589 bis), con simultanea abrogazione delle aggravanti in materia di sicurezza stradale precedentemente contenute negli artt. 589 e 590. In generale, l'articolo 589-bis punisce chiunque cagiona, per colpa, la morte di una persona a seguito della violazione delle norme che disciplinano la circolazione stradale. La pena, in questo caso, è quella della reclusione da due a sette anni, ovverosia la stessa già prevista dall'articolo 589 del codice penale. Diverso è il caso in cui la morte di una persona sia causata per colpa da chiunque si ponga alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica quantificato con un tasso alcolemico superiore a 1,5 g/l o in stato di alterazione psico-fisica derivante dall'assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope . Con riferimento a tale fattispecie, l'articolo 589-bis prevede, infatti, un'ipotesi sanzionatoria più grave ovverosia quella della reclusione da otto a dodici anni. L'ultima ipotesi sanzionatoria contemplata dall'articolo 589-bis si verifica invece nel caso in cui la morte di una persona sia cagionata per colpa dal conducente di un veicolo a motore che si trovi in stato di ebbrezza alcolica quantificato con un tasso alcolemico compreso tra 0,8 e 1,5 g/l. In tal caso, infatti, la pena è quella della reclusione da cinque a dieci anni. La medesima pena è prevista anche in altre ipotesi. Innanzitutto, quando la morte è causata dal conducente di un veicolo a motore che circoli nel centro urbano a una velocità almeno pari al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h o che circoli su strade extraurbane a una velocità superiore di almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita. Inoltre, quando la morte è causata dal conducente di un veicolo a motore che attraversi un'intersezione con il semaforo rosso o circoli contromano. Infine, quando la morte è causata dal conducente di un veicolo a motore che inverta il senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi o che sorpassi un altro mezzo in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di una linea continua. Delle tre ipotesi sanzionatorie previste per l'omicidio stradale colposo, la più grave è quindi quella della reclusione da otto a dodici anni. Oltre ai casi sopra visti, essa si applica anche in una fattispecie particolare: allorquando in capo al conducente sia stato riscontrato uno stato di ebbrezza lieve (ovverosia un tasso alcolemico compreso tra 0,8 e 1,5 g/l) ma egli eserciti professionalmente un'attività di trasporto di persone o cose. Nelle ipotesi sopra individuate, la pena è aumentato nel caso in cui l'omicidio stradale sia derivato dalla condotta di una persona sprovvista di patente di guida o la cui patente sia stata sospesa o revocata. Essa è inoltre aumentata nel caso in cui il veicolo a motore con il quale è compiuto il fatto sia di proprietà del conducente e sia sprovvisto di assicurazione obbligatoria. Un'ulteriore circostanza aggravante, questa volta a efficacia speciale, è prevista poi dal successivo articolo 589-ter del codice penale, anch'esso introdotto con la legge numero 41/2016. Tale norma, infatti, prevede che la pena sia aumentata da un terzo a due terzi e comunque non sia inferiore a cinque anni nel caso in cui il conducente che abbia cagionato un omicidio stradale si sia dato alla fuga. In altri casi, invece, la pena prevista per l'omicidio stradale è diminuita: si tratta, nel dettaglio dei casi di concorso di colpa della vittima. L'articolo 589-bis c.p., infatti, non disciplina solo la circostanza aggravante comune sopra illustrata ma prevede anche una circostanza attenuante a efficacia speciale stabilendo, al comma sette, che la pena è diminuita fino alla metà nel caso in cui l'evento morte non derivi esclusivamente dall'azione o dall'omissione del colpevole. Per l'omicidio colposo stradale, peraltro, è previsto l'arresto obbligatorio in flagranza di reato, seppure solo in determinati casi. La lettera m-quater) dell'articolo 380 c.p.p. ha infatti previsto l'obbligo di adottare una simile misura esclusivamente nei casi di cui al secondo e al terzo comma dell'articolo 589-bis c.p, ovverosia quelli che la legge punisce con la reclusione da otto a dodici anni. Negli altri casi l'arresto è facoltativo. Nel regolamentare il reato di omicidio stradale il legislatore non ha omesso, infine, di prendere in esame il caso in cui la condotta di guida veda coinvolte più vittime. Più in particolare il riferimento va non solo al caso in cui il conducente abbia cagionato la morte di più persone, ma anche al caso in cui egli abbia cagionato la morte di una o più persone e lesioni a una o più persone. In tali ipotesi la pena è quella prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo. In ogni caso, la sanzione può arrivare fino a massimo diciotto anni di carcere. OMICIDIO PRETERINTENZIONALE o oltre l’intenzione (art. 584 c.p.) Un altro delitto di omicidio è l'omicidio preterintenzionale, punito dall'articolo 584 c.p., il quale così dispone: "Chiunque, con atti diretti a commettere uno dei delitti preveduti dagli articoli 581 e 582 ( percosse e lesioni personali), cagiona la morte di un uomo, è punito con la reclusione da dieci a diciotto anni". Si tratta, in sostanza, del reato che può verificarsi laddove un soggetto ponga in essere atti diretti unicamente a percuotere o a provocare lesioni personali nei confronti di un altro soggetto, ma da tali atti derivi, involontariamente, la morte della vittima. E’ indifferente che si verifichi l’evento voluto (lesioni personali o percosse) perché l’evento costitutivo dalla fattispecie è l’evento della morte, non voluto ma causato. Perché l'omicidio sia preterintenzionale e non doloso, è necessario che l'autore non abbia assolutamente voluto o previsto la morte come un evento altamente probabile del suo agire. Trattandosi di reato comune a forma libera, l’omicidio preterintenzionale può essere commesso da chiunque (soggetto attivo) nei confronti di qualsiasi individuo, in quanto titolare del bene “vita” (soggetto passivo), alla cui distruzione l’offesa è diretta. Si tratta, pertanto, di un reato evento, che si perfeziona, perciò, con l’avverarsi dell’evento letale non voluto (morte). Per la configurabilità del reato, è indispensabile che gli atti compiuti presentino una idoneità oggettiva alla realizzazione del delitto di percosse o di lesioni, non essendo sufficiente una direzione meramente soggettiva degli stessi. (esempio di omicidio preterintenzionale: colpisco con uno schiaffo una persona la quale, scivolando, batte la testa a terra e muore). Il delitto si consuma nel luogo e nel momento in cui si verifica il decesso della vittima. Il tentativo di omicidio preterintenzionale è inconcepibile per l’ovvia ragione che in esso manca la volontà dell’evento che lo perfeziona. L’elemento soggettivo del reato è la “preterintenzione”, ossia la condotta volontaria del soggetto agente di realizzare un dato evento, dalla quale deriva un evento più grave di quello voluto. L’elemento soggettivo richiesto per la configurazione del reato andrebbe individuato nel dolo, per il reato di percosse o lesioni, misto alla colpa, per l’evento ulteriore non voluto dal soggetto agente, il quale intende cagionare alla vittima l'evento minore (percosse o lesioni), ma ottiene, per via del comportamento colposo la morte della stessa. In particolare la sent. n. 364 e n. 1085/1988 afferma che “gli elementi significativi” della fattispecie incriminatrice, cioè quelli che concorrono a contrassegnare il disvalore (tra i quali va certamente annoverato l’evento morte nell’art. 584), debbono essere coperti dal dolo o almeno dalla colpa. (DOLO PER LE LESIONI O PERCOSSE, COLPA PER LA MORTE NON VOLUTA). Il reato è aggravato in presenza delle medesime circostanze che rendono aggravato l'omicidio doloso. In particolare è previsto un aumento di pena da un terzo alla metà se si verifica una delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 576 c.p. e l'aumento fino a un terzo se si verifica una delle circostanze aggravanti previste dall'articolo 577 c.p. L'omicidio preterintenzionale è aggravato, poi, con aumento di pena sino a un terzo anche se il fatto è commesso con armi o con sostanze corrosive o da persona travisata o da più persone riunite. LA MORTE COME DELITTO ABERRANTE: L’ART. 586 Art. 586. Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto: “ Quando da un fatto preveduto come delitto doloso deriva, quale conseguenza non voluta dal colpevole, la morte o la lesione di una persona, si applicano le disposizioni dell’art. 83, ma le pene stabilite negli art. 589 e 590 sono aumentate”. (art. 83 = evento diverso da quello voluto dall’agente) Morte o lesioni come conseguenza di altro delitto (dolo misto a colpa) La disposizione prevede le due figure dell’omicidio e delle lesioni colposi, aggravati dalla circostanza che l’evento non voluto sia conseguenza di un delitto doloso ( es. spaccio di sostanze stupefacenti). L’evento morte, che si realizza a causa di un errore nell’uso dei mezzi di esecuzione del delitto doloso o per un’altra causa, deve essere causato per colpa dell’agente. Non deve trattarsi dunque di una causa sopravvenuta da sola sufficiente a produrre l’evento e neppure di una causa che rappresenti l’evenienza del caso fortuiro o della forza maggiore. E’ affermata la necessità di un accertamento in concreto della prevedibilità e evitabilità, in ossequio all’art. 27,comma 1, Cost. Il delitto previsto dall’art. 586 c.p. si differenzia dall’omicidio preterintenzionale perché nel primo delitto l’attività del colpevole è diretta a realizzare un delitto doloso diverso dalle percosse o dalle lesioni personali, mentre nel preterintenzionale l’attività del colpevole è diretta a realizzare un evento che, ove non si verificasse la morte, costituirebbe reato di percosse o lesioni. Nella preterintenzione, quindi, è necessario che la lesione si riferisca allo stesso genere di interessi giuridici (incolumità della persona), mentre nell’ipotesi di cui all’art. 586 la morte o la lesione deve essere conseguenza di delitto doloso diverso da percosse o lesioni. FIGURE PARTICOLARI DI OMICIDIO DOLOSO ART. 578- Infanticidio o feticidio in condizioni di abbandono materiale o morale (dolo generico) “La madre che cagiona la morte del proprio neonato immediatamente dopo il parto, o del feto durante il parto, quando il fatto è determinato da condizioni di abbandono materiale e morale connesse al parto, è punita con la reclusione da 4 a 12 anni. A coloro che concorrono nel fatto di cui al primo comma si applica la reclusione non inferiore ad anni 21. Tuttavia, se essi hanno agito al solo scopo di favorire la madre, la pena può essere diminuita da 1/3 a 2/3. Non si applicano le aggravanti stabilite dall’art.61 del codice penale”. Il fatto materiale può consistere tanto nell’uccisione del feto durante il parto quanto nell’uccisione di un neonato immediatamente dopo il parto. Il feticidio presuppone che sia compiuto il processo fisiologico della gravidanza, perché in caso diverso la distruzione del prodotto del concepimento rientrerebbe nella figura dell’aborto. L’infanticidio ricorre quando l’uccisione avviene dopo il compimento del parto, e cioè dopo che il prodotto della gestazione è completamente uscito dal ventre materno. Come è naturale, si esige che l’essere sia nato vivo. La scienza medica ritiene che la prova della vita è fornita dall’avvenuta respirazione. Affinché possa parlarsi di infanticidio, è necessario che l’uccisione avvenga immediatamente dopo il parto. E’ un’ipotesi speciale attenuata di omicidio volontario. Si tratta di un reato proprio in quanto può essere commesso solo dalla madre. Si tratta di un reato a forma libera quindi la condotta può essere attiva o omissiva. Le condizioni di abbandono materiale e morale, in quanto elemento costitutivo del reato, devono sussistere oggettivamente e congiuntamente, e devono essere connesse al parto nel senso che, in conseguenza della loro obiettiva esistenza, la madre non ritiene di poter assicurare la sopravvivenza del figlio dopo la nascita (mancanza di soccorso psichico alla donna). Reati contro la vita con la partecipazione della vittima Art. 579. OMICIDIO DEL CONSENZIENTE Il nostro ordinamento considera indisponibile il bene della vita. In base al principio generale sancito all’art. 50 del codice, perciò, il consenso del soggetto passivo non scrimina l’omicidio. L’art. 579 dispone che: “chiunque cagiona la morte di un uomo, con il consenso di lui è punito con la reclusione da 6 a 15 anni. Non si applicano le aggravanti indicate nell’art. 61. Debbono applicarsi le disposizioni relative all’omicidio se il fatto è commesso: -Contro una persona minore degli anni diciotto; -contro una persona inferma di mente, o che si trova in condizioni di deficienza psichica, per un’altra infermità o per l’abuso di sostanze alcoliche o stupefacenti; -contro una persona il cui consenso sia stato dal colpevole estorto con violenza, minaccia o suggestione, ovvero carpito con l’inganno”. A costituire il consenso della vittima basta il permesso, e cioè un atto di volontà del soggetto passivo che autorizzi l’azione. Il semplice desiderio e l’indifferenza non sono sufficienti. Il consenso deve essere manifestato e l’agente deve essere consapevole di agire con il consenso della vittima. L’efficacia di un consenso tacito, desumibile senza equivoci dal comportamento del soggetto, non può essere esclusa, per quanto in proposito si imponga molta cautela, dato l’alto valore del bene della vita. Nessun dubbio che il consenso può essere sottoposto a condizioni (ad es. l’uso di un determinato mezzo) ed è revocabile. Va da sé che colui che uccida con un mezzo diverso o dopo che il identificato nella coscienza e volontà di tenere una condotta violenta capace di cagionare dolore al soggetto passivo. Il regime di procedibilità è a querela di parte. Dal confronto tra i testi dell’art. 581 e dell’art. 582 c.p. risulta che mentre la fattispecie di percosse si esaurisce nel fatto di percuotere, costituendo un reato di pura condotta, l’altra (lesioni personali) si configura come reato d’evento, essendo necessario per la sua concretizzazione il prodursi di un effetto consistente in una malattia nel corpo e nella mente. Quindi la differenza tra le percosse e le lesioni personali colpose sta nel fatto che nelle percosse la violenza non cagiona una malattia invece le lesioni personali cagionano una malattia nel corpo e nella mente della vittima. E’ un reato di pura condotta perchè è sufficiente il fatto di percuotere. Lesioni personali (dolose)lievi e lievissime L’art. 582 primo comma disciplina le lesioni personali lievi, disponendo che “chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da 3 mesi a 3 anni”. Se la malattia ha una durata non superiore a venti giorni e non si verificano le circostanze aggravanti indicate nell’art. 583 e 585, il delitto è perseguibile a querela della persona offesa. (lesioni lievissime) E’ lesione personale commune la lesione che provoca una malattia avente durata maggiore di 20 giorni ma non superiore a 40 giorni. La fattispecie di lesioni personali è descritta come ipotesi di reato a forma libera in cui la condotta può risultare integrata da qualunque comportamento, in forma di azione o omissione, idoneo a cagionare una malattia, senza che sia richiesto necessariamente l’uso di una violenza fisica in senso stretto. Non si dubita infatti della configurabilità della fattispecie nel caso in cui la malattia venga determinata ad es. dalla somministrazione di sostanze velenose o di cibi nocivi. La malattia è l’unico evento del reato. La malattia consiste in quel processo patologico che determina una apprezzabile menomazione funzionale dell’organismo. Sono escluse quindi le menomazioni fisiche che non siano il risultato di un processo morboso (scheggiatura di un dente) così come le mere alterazioni anatomiche (escoriazioni superficiali). Per l’esistenza del dolo occorre la volontà e previsione dell’evento e cioè della malattia. Il verificarsi della malattia che è il vero evento naturalistico della lesione personale, segna il momento consumativo del reato. Lesioni personali gravi e gravissime L’art. 583 prevede una serie di circostanze aggravanti delle lesioni personali che le rendono gravi o gravissime. “La lesione personale è grave: (reclusione da 3 a 7 anni) - se dal fatto deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa. Malattia che mette in pericolo la vita della persona, è malattia che in un dato momento mette in reale pericolo la vita del paziente. Si deve trattare di pericolo concreto valutabile in termini di probabilità e di imminenza di morte secondo I criteri della scienza medica e risultante da un giudizio diagnostico attuale. - Se dal fatto deriva una malattia o un’incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai quaranta giorni. Per incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni si intende l’impossibilità di svolgere l’attività consueta. L’incapacità viene Intesa anche in senso parziale o relative come impossibilità della persona offesa di attendere alle proprie occupazioni senza uno sforzo insolito. - se dal fatto si produce l’indebolimento permanente di un senso o di un organo. Quando le parti del corpo che provvedono alla stessa funzione (organi multipli come polmoni, orecchie, occhi) sono più di una, la distruzione di una di esse in genere comporta l’indebolimento permanente e non la perdita del senso o dell’uso dell’organo. La lesione personale è gravissima: (reclusione da 6 a 12 anni) -se dal fatto deriva una malattia certamente o probabilmente insanabile e quindi destinata a durare tutta la vita; - se dal fatto deriva la deformazione o lo sfregio permanente del viso; - se dal fatto deriva la perdita di un senso. In questo caso il senso deve essere completamente distrutto; -se dal fatto deriva la Perdita di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la Perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella, che costituiscono postumi della malattia di particolare gravità. La perdita dell’uso di un organo implica che l’insieme delle parti del corpo, che lo costituiscono, siano così danneggiate da non poter più adempiere alla funzione a cui sono destinate. La possibilità di recuperare l’uso dell’organo o sopperire alla sua perdita con trattamenti medico chirurgici, ortopedici o protesi, non vale ad escludere gli estremi della lesion gravissima. L’incapacità di procreare include anche l’incapacità del parto. Art. 585 c.p. Alle lesioni lievi/lievissime, gravi/gravissime e all’omicidio preterintenzionale: La pena aumenta da 1/3 alla metà: -se il fatto è commesso contro l’ascendente o il discendente, se si è agito per motivi abietti o futili o se sono state adoperate sevizie o se si è agito con crudeltà, o ancora quando vi è premeditazione; - se il fatto è commesso dal latitante per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione o per procurarsi I mezzi di sussistenza durante la latitanza. - se il fatto è commesso dall’associato a delinquere, per sottrarsi all’arresto, alla cattura o alla carcerazione. - Se il fatto è commesso contro un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, o con un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni. La pena aumenta fino a 1/3: - se il fatto è commesso contro l’ascendente o il discendente; - se il fatto è cmmesso con l’uso di sostanze venefiche o di altri mezzi insidiosi; - con premeditazione; - se si è agito per motivi abietti o futili, se si è adoperato sevizie o agito con crudeltà; - se il fatto è commesso con armi o sostanze corrosive. Lesioni personali colpose Il reato di lesioni personali colpose è disciplinato nell’ordinamento dall’art. 590 c.p., il quale stabilisce che “chiunque cagiona ad altri, per colpa, una lesione personale è punito con la reclusione fino a tre mesi o con la multa fino a trecentonove euro”. Rispetto al reato di cui all’art. 582 c.p., la lesione personale colposa di cui all’art. 590 c.p., si differenzia in virtù dell’elemento soggettivo, considerato che nel primo viene richiesto il dolo generico o eventuale, mentre nel secondo, il responsabile risponde a titolo di colpa. L’art. 590 c.p. prende in considerazione tre figure di lesioni personali colpose (lievi, gravi e gravissime) che costituiscono fattispecie autonome di reato comune, a forma libera e di danno, che si differenziano in base alla diversa intensità dell’elemento soggettivo e al livello di gravità delle lesioni prodotte. Le lesioni colpose lievi (che comprendono anche le lesioni lievissime di cui all’art. 582 c.p.) sono quelle produttive di un processo patologico (malattia o incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni, ovvero l’impossibilità per il soggetto di svolgere le normali attività quotidiane) destinato ad una guarigione clinica non superiore ai 40 giorni,mentre le lesioni gravi, ai sensi dell’art. 583, 1° comma, c.p., si riscontrano quando dal fatto “deriva una malattia che metta in pericolo la vita della persona offesa, ovvero una malattia o una incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni per un tempo superiore ai 40 giorni»; o un “indebolimento permanente di un senso o di un organo”. Nel primo caso la pena, ex art. 590 c.p., è la reclusione fino a tre mesi o la multa fino a 309 euro, nel secondo la pena è la reclusione da uno a sei mesi, o la multa da 123 euro a 619 euro. Le lesioni colpose gravissime infine, punite ai sensi del secondo comma dell’art. 590 c.p., con la reclusione da tre mesi a due anni o con la multa da 309 a 1.239 euro, richiedono ex art. 583, 2 comma, c.p.: una malattia certamente o probabilmente insanabile; la perdita di un senso o di un arto, o una mutilazione che renda l’arto inservibile, ovvero la perdita dell’uso di un organo o della capacità di procreare, ovvero una permanente e grave difficoltà della favella”; la deformazione, ovvero lo sfregio permanente del viso”. A differenza dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 582 c.p., l’elemento psicologico del reato ex art. 590 c.p. è rappresentato dalla colpa dell’agente nella verificazione dell’evento, ovverosia, quando l’evento, anche non voluto dallo stesso, si è verificato a causa di negligenza o imprudenza o imperizia ovvero per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline ai sensi dell’art. 43 c.p. . Costituiscono circostanze aggravanti del reato la violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale o di quelle per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. In questi casi, per le lesioni colpose gravi la pena è della reclusione da tre mesi a un anno o della multa da euro 500 a euro 2.000, mentre per le lesioni colpose gravissime è della reclusione da uno a tre anni. Per effetto delle modifiche operate dalla l. n. 102/2006 che ha inasprito le pene per i reati derivanti dalle violazioni delle norme sulla disciplina della circolazione stradale da parte di soggetti in stato di ebbrezza alcolica o sotto l’effetto di sostanze stupefacenti o psicotrope , in simmetria con quanto previsto per l’omicidio colposo, sono state introdotte aggravanti anche per le lesioni colpose stradali commesse dai suddetti soggetti. Ai sensi del novellato quarto comma dell’art. 590 c.p., pertanto, se dal fatto, commesso da persona in stato di ebbrezza alcolica o sotto effetto di stupefacenti o sostanze psicotrope, sono derivate lesioni gravi la reclusione è da sei mesi a due anni, mentre se le lesioni sono gravissime il trattamento sanzionatorio è la reclusione da un anno e sei mesi a quattro anni. (reati in materia di stupefacenti) REATI CONTRO IL PATRIMONIO I delitti contro il patrimonio sono riuniti nell’ultimo titolo del libro secondo del codice. È patrimonio il complesso delle attività e delle passività che si riferiscono ad una persona. Dal punto di vista strettamente giuridico il patrimonio viene generalmente definito come il complesso dei rapporti giuridicamente rilevanti che fanno capo ad una persona. I delitti contro il patrimonio sono classificati in tre differenti categorie: - delitti di trasferimento e/o arricchimento (furto, appropriazione indebita, estorsione, rapina, truffa, insolvenza fraudolenta, usura); - delitti di impoverimento (danneggiamento); - delitti per inibire la diffusione e l’utilizzo di beni di provenienza illecita ( ricettazione, riciclaggio, autoriciclaggio). Il furto (dolo specifico) Art. 624 Il furto: “Chiunque si impossessa della cosa mobile altrui, sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa da euro 154 a euro 516. Agli effetti della legge penale, si considera cosa mobile anche l’energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico. La legge non specifica in che cosa debba consistere l’uso. È possibile dedurre dalla norma stessa che si deve trattare di un uso che renda possibile la restituzione della cosa. L’uso deve inoltre essere momentaneo vale a dire non dilazionato. La restituzione del tolto deve presentare anzitutto il carattere dell’immediatezza. Deve inoltre essere restituita la stessa cosa che il colpevole aveva sottratto. Se la restituzione per qualsiasi causa e, quindi, anche per forza maggiore, non si verifica in passato si ritenne che non si potesse parlare del delitto in esame. Con la sentenza n. 1085 del 1988 la Corte Costituzionale ha dichiarato illegittima, in relazione all’art. 27 della Cost., la norma incriminatrice in esame nel caso di mancata restituzione della cosa sottratta dovuta a caso fortuito, forza maggiore o fatto comunque non addebitabile al soggetto attivo del reato. Il reato si consuma nel momento e nel luogo dell’impossessamento. Si ritiene che il tentativo non sia giuridicamente possibile. Il dolo del delitto in esame è identico a quello del furto, con in più l’elemento specifico consistente nel solo scopo di fare uso momentaneo del bene sottratto. Appropriazione indebita ( dolo specifico) Art. 646. Appropriazione indebita: “Chiunque per procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, si appropria il denaro o la cosa mobile altrui di cui abbia, a qualsiasi titolo, il possesso, è punito, a querela della persona offesa con la reclusione fino a 3 anni e con la multa fino a 1.032 euro. Se il fatto è commesso su cose possedute a titolo di deposito necessario, la pena è aumentata. Si procede d’ufficio se ricorre la circostanza indicata nel capoverso precedente o taluna delle circostanze indicate nel n.11 dell’art. 61”. In particolare viene punito il possessore di cosa mobile non propria, il quale si comporti da padrone, e cioè compia sulla stessa atti di disposizione che sono riservati al proprietario. Oggetto materiale dell’azione nel diritto di appropriazione indebita è “il denaro o la cosa mobile altrui”. Il delitto di appropriazione indebita presuppone che l’agente abbia il possesso della cosa mobile. Deve, però, trattarsi di mero possesso, e cioè di possesso disgiunto della proprietà, poiché oggetto dell’azione criminosa è un bene mobile altrui. Il reato in esame non può sorgere nei casi in cui si verifica, insieme col trasferimento del possesso, quello della proprietà. La proprietà è uno stato di diritto e, in quanto tale, non può trarre origine da un atto illecito. In conseguenza appropriarsi significa comportarsi verso la cosa come se fosse propria, vale a dire compiere sulla cosa stessa atti di disposizione a cui il possessore non è autorizzato. Per la sussistenza del dolo occorre anzitutto la consapevolezza di ciò che la condotta presuppone, e precisamente del possesso e dell’altruità della cosa. È inoltre necessaria la volontà consapevole di compiere quell’atto di disposizione in cui nel caso particolare si concreta l’appropriazione. Il dolo richiede che il soggetto abbia agito col fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto. Ricordiamo che non è necessario che il profitto sia economico: può essere soltanto morale o sentimentale. Il dolo pertanto è escluso quando il profitto avuto di mira dall’agente non sia ingiusto. La volontà di restituire la cosa in un momento successivo all’appropriazione non esclude il dolo e, quindi, non esclude la punibilità. Nel furto il soggetto agente deve impossessarsi della cosa mentre qui invece la condotta è quella di appropriazione rispetto al denaro o alla cosa mobile altrui di cui si abbia il possesso a qualunque titolo. Il denaro o la cosa mobile possono essere altrui solo se considerati di proprietà di altri. Il possesso è il presupposto della condotta appropriativa. L’art. 646 c.p. lo qualifica in modo preciso, potendo l’agente appropriarsi del denaro o della cosa di cui abbia il possesso “a qualsiasi titolo”: quindi uno status che può derivare tanto dalla legge, quanto dal contratto. Nel diritto penale “appropriarsi” significa comportarsi con la cosa uti dominus ovvero come se si fosse proprietari della cosa stessa. E’ necessario che questo diverso animus si concretizzi in modalità esteriori percepibili anche da soggetti terzi. Rientrano nell’appropriazione le condotte di consumazione della cosa o anche di alienazione della stessa; né costituisce un ostacolo la gratuità del negozio; per quanto riguarda la ritenzione della cosa è necessario che venga manifestata anche la volontà di rifiutare la restituzione della cosa (soggetto che ha ricevuto in prestito un libro, nega di averlo ricevuto e si rifiuta di restituirlo). Differenza tra furto e appropriazione indebita Entrambi gli articoli 624 e 646 tutelano cose mobili altrui, ma mentre il furto implica nell’autore la mancanza del possesso, consistendo nel fatto di procurarselo (impossessamento), l’appropriazione indebita presuppone che l’agente già possegga le cose medesime. In tema di distinzione è decisiva l’indagine circa il potere di disponibilità sul bene da parte dell’agente. Se questo sussiste, il mancato rispetto dei limiti in ordine alla utilizzabilità del bene integra il reato di appropriazione indebita; in caso contrario, è configurabile il reato di furto: ad esempio, è stato ritenuto il furto nel caso del dipendente di una società operante nel settore della vigilanza privata e del trasporto valori che sottragga il denaro a lui affidato esclusivamente per l’espletamento di una attività di ordine materiale, quale il trasporto e la consegna di tale bene; in tale ipotesi, infatti, l’agente non disponendo autonomamente del denaro, con la sottrazione di esso se ne impossessa, realizzando così la fattispecie criminosa di cui all’art. 624 c.p. e non quella di cui all’art. 646 c.p. TRUFFA (dolo generico) Art. 640. Truffa: “Chiunque, con artifizi o raggiri, inducendo taluno in errore, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni e con la multa da euro 51 a euro 1.032. La pena è della reclusione da 1 a 5 anni e della multa da € 309 a 1.549: 1) se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro ente pubblico o col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare; 2) se il fatto è commesso ingenerando nella persona offesa il timore di un pericolo immaginario o l’erroneo convincimento di dover eseguire un ordine dell’Autorità. Il delitto è punibile a querela della persona offesa, salvo che ricorra taluna delle circostanze previste dal capoverso precedente o un’altra circostanza aggravante”. La truffa è il tipico delitto fraudolento contro il patrimonio: è la frode per eccellenza. Nucleo essenziale del delitto in esame è l’inganno. Il consenso della vittima, carpito fraudolentemente, caratterizza il delitto e lo distingue sia dal furto che dall’appropriazione indebita. Il delitto di truffa presenta grandi affinità con quello di estorsione, il quale, come vedremo, si ha allorché mediante violenza o minaccia, taluno viene costretto a fare o ad omettere qualcosa, procurando in tal modo a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. La differenza consiste solo in questo: nel primo la vittima è indotta fraudolentemente all’atto di disposizione patrimoniale, mentre nel secondo vi è costretta; nell’uno la volontà è viziata da errore, nell’altro è viziata da violenza o minaccia. Il delitto di truffa si caratterizza per essere una fattispecie commessa con frode, le cui modalità ingannatorie si sostanziano negli artifizi e nei raggiri. L’agente attraverso gli artifizi modifica il quadro reale o determina una immutatio veri, facendo apparire come effettiva una realtà che non esiste o celandone una esistente. I raggiri invece sono dei discorsi, dei ragionamenti, delle parole che costituiscono un “avvolgimento ingegnoso” della psiche del soggetto passivo avendo come effetto quello di determinare una situazione di inganno e di errore. Possono consistere nel semplice silenzio, artificiosamente preordinato a determinare l’inganno, su circostanze che si aveva l’obbligo di riferire e che se conosciute dal soggetto passivo lo avrebbero indotto a non stipulare o a stipulare a condizioni negoziali diverse. Artifizio è ogni studiata trasfigurazione del vero, ogni camuffamento della realtà effettuato sia simulando ciò che non esiste, sia dissimulando, vale a dire, nascondendo ciò che esiste. Raggiro è un avvolgimento ingegnoso di parole destinate a convincere: più precisamente una menzogna corredata da ragionamenti idonei a farla sembrare verità. Un rapporto di causalità deve essere individuato tra la condotta di artifizi o raggiri e l’induzione in errore di taluno (evento intermedio); un secondo nesso causale leghi l’induzione in errore con l’ingiusto profitto e l’altrui danno (evento finale). Il soggetto caduto in errore a seguito di artifizi o raggiri deve cioè compiere un atto di disposizione patrimoniale che procuri un ingiusto profitto con altrui danno. Abbiamo dunque una triplice causalità: la condotta di artifizi o raggiri induce in errore; dall’errore deriva l’atto di disposizione patrimoniale; l’atto produce un profitto ingiusto a vantaggio di chi agisce o di altri e un danno nei confronti del soggetto passivo. Il dolo è generico e richiede la rappresentazione e la volizione di tutti gli elementi del fatto tipico: il soggetto deve rappresentarsi e volere gli artifizi o raggiri, poi essere consapevole che questi hanno determinato un errore e che da questo, attraverso un atto di disposizione patrimoniale, è derivato un profitto per lui o per altri e un danno per il soggetto passivo. Il reato si consuma con il perseguimento del profitto. E’ configurabile il tentativo. Il consenso della vittima che caratterizza il reato è elemento distintivo rispetto al furto (dove l’impossessamento della cosa avviene on contrasto al volere di chi la detiene) ed alla appropriazione indebita (dove c’è un’arbitraria assunzione di poteri da parte del possessore). Ipotesi particolari: la truffa a tre soggetti e quella processuale; la truffa contrattuale, la truffa per omissione Nella truffa a tre soggetti il soggetto ingannato è diverso dal soggetto che compie l’atto di disposizione patrimoniale; quest’ultimo potrebbe essere lo stesso soggetto ingannato o quello caduto in errore, ma la condotta di artifizi o raggiri potrebbe aver indotto in errore un soggetto, ma poi gli effetti pregiudizievoli si potrebbero essere prodotti nella sfera patrimoniale di un altro soggetto. Una particolare ipotesi di truffa a tre soggetti è la truffa processuale: dalla formula legislativa si deduce principalmente che l’inganno può essere esercitato anche su persona diversa da quella che subisce il danno. Si realizza quando una delle parti in un giudizio civile, ingannando il giudice con artifizi o raggiri, riesca a conseguire una pronuncia a lui favorevole e pregiudizievole per il patrimonio della controparte. In questa ipotesi manca l’atto di disposizione patrimoniale; il giudice con il suo provvedimento esercita un potere di natura pubblicistica, connesso all’esercizio della giurisdizione e non un atto espressione dell’autonomia privata e della libertà di consenso. La truffa contrattuale ricorre quando uno dei contraenti pone in essere artifizi o raggiri diretti a tacere o simulare fatti che, ove conosciuti, avrebbero indotto l’altra parte ad astenersi dalla conclusione del contratto. L’ingiusto profitto consiste nel fatto stesso della stipulazione del contratto e nella lesione della libertà contrattuale, indipendentemente dallo squilibrio oggettivo delle rispettive prestazioni. La truffa per omissione viene realizzata attraverso un comportamento omissivo; parte della giurisprudenza e della dottrina ritengono che per la sua configurabilità è necessaria l’esistenza di un obbligo giuridico, in capo al soggetto attivo, di rivelare le circostanze taciute; secondo altri, invece, sarebbe decisiva a sufficiente una valutazione della assistenza della buona fede, quale principio generale che governa l’esercizio dell’autonomia privata nelle materie suscettibili di essere oggetto di regolamento negoziale (ad esempio vendo un’auto omettendo di riferire che, a seguito di un incidente, essa presenta gravi danni strutturali, non visibili). Le circostanze aggravanti e la truffa in atti illeciti L’art. 640, n.1 prevede che la pena sia aumentata: “se il fatto è commesso a danno dello Stato o di un altro Ente pubblico o col pretesto di fare esonerare taluno dal servizio militare”. La seconda aggravante “se il fatto è commesso col pretesto di far esonerare taluno dal servizio militare”, invece, non è più rilevante in quanto non esiste più il servizio di leva ma conserva una sua valenza indiretta rispetto alla configurabilità delle truffe nei rapporti illeciti o immorali. Inizialmente si pensava che l’ordinamento non potesse apprestare le proprie tutele a vantaggio di chi vuole un fatto illecito (donna che vuole abortire in violazione dei limiti e delle procedure previste dalla legge). Ciò è smentito dallo stesso n.1 dell’art. 640 laddove si prevede che costituisca una truffa aggravata quella di chi froda il soggetto che vuole illecitamente sottrarsi al servizio militare. ESTORSIONE (reato a forma vincolata) Art. 629 Estorsione: “Chiunque, mediante violenza o minaccia, costringendo taluno a fare o ad omettere qualche cosa, procura a sé o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno, è punito con la reclusione da 5 a 10 anni e con la multa da euro 516 a euro 2.065. (dopo la L 27-1-2012 reclusione da 5 a 10 anni e multa da 1000 a 4000€) La pena è della reclusione da 6 a 20 anni e della multa da euro 1.032 a euro 3.098 se concorre taluna delle circostanze indicate nell’ultimo capoverso dell’articolo precedente”. (dopo la riforma del 2012 la multa è di 5000 a 15000€). Per l’esistenza del reato occorre innanzi tutto una violenza o una minaccia. Poiché nella definizione legislativa si parla semplicemente di violenza, non è dubbio che questa può cadere così sul soggetto passivo in modo diretto, come su una terza persona e anche sulle cose. La violenza o la minaccia usata dall’agente deve avere per effetto il costringimento del soggetto passivo, a fare o ad omettere qualche cosa. Il costringimento che qui viene considerato è quello che lascia una certa libertà di scelta in chi lo subisce. La formula legislativa “fare od omettere qualche cosa”, deve essere interpretata nel senso di comportamento che implica una disposizione patrimoniale. Il paziente deve essere costretto a compiere un atto positivo o un atto negativo che incide sul suo patrimonio. L’atto di disposizione deve procurare all’agente o ad altri un ingiusto profitto con altrui danno. Un profitto non può mai considerarsi dal secondo comma dell’art. 628 c.p., ma rappresenta il profilo cronologico e funzionale che colloca la condotta vio- lenta come un prius rispetto all’impossessamento. La violenza o minaccia è adoperata per garantire il possesso o evitare la punizione per sottrazione effettuata. L’azione esecutiva di questa figura delittuosa consiste nell’uso di violenza o minaccia immediatamente dopo la sot- trazione per uno dei due scopi indicati. Con immediatezza deve intendersi che la sottrazione e la violenza devono susseguirsi con una soluzione di continu- ità che non superi i termini della flagranza del reato. Nel caso in cui la violenza o la minaccia siano commesse contro un pubblico ufficiale, la giurisprudenza reputa sussistere il concorso tra il delitto in esame e quello di resistenza. Il delitto si consuma nel momento in cui si verifica la violenza o la minaccia. Il tentativo è perfettamente configurabile (il soggetto cerca, senza riuscirvi, di adoperare violenza o minaccia a chi vuole impedirgli di conservare il possesso della cosa sottratta). Il dolo della rapina impropria è specifico in quanto ne costituisce elemento essenziale lo scopo di assicurare a sé o ad altri il possesso della cosa sottratta, o di procurare a sé o ad altri impunità. Anche la rapina impropria è aggravata se la violenza o la minaccia è commessa con armi o da persona travisata o da più persone riunite o facenti parte di associazioni mafiose, oppure se la violenza consiste nel porre taluno in uno stato di incapacità di agire e di volere. Differenze tra estorsione e rapina Nella rapina impropria l’agente si impossessa, con violenza o minaccia, della cosa, ovvero costringe in maniera assoluta la vittima a consegnarla. Nell’estorsione, viceversa, per effetto della violenza o minaccia, la vittima è posta nell’alternativa tra tenere il comportamento richiesto o subire la violenza o il male minacciati. Inoltre, nella rapina l’oggetto è sempre una cosa mobile di cui l’agente si impossessa sottraendola a chi la detiene, invece, nell’estorsione l’oggetto è un comportamento positivo o negativo che può consistere anche nel consegnare una cosa mobile. Nella rapina l’azione dell’agente è rivolta in via diretta sulla cosa, e solo indirettamente sulla persona, mentre nella estorsione è diretta essenzialmente sulla persona, e solo indirettamente sulla cosa. INSOLVENZA FRAUDOLENTA (dolo generico) Art. 641 Insolvenza fraudolenta: “Chiunque, dissimulando il proprio stato d’insolvenza, contrae un’obbligazione col proposito di non adempierla è punito, a querela della persona offesa, qualora l’obbligazione non sia adempiuta, con la reclusione fino a 2 anni o con la multa fino a euro 516. L’adempimento dell’obbligazione avvenuto prima della condanna estingue il reato”. Lo stato di insolvenza consiste nell’impossibilità di adempiere le proprie obbligazioni e deve esistere al momento in cui è assunta l’obbligazione, pertanto non deve essere sopravvenuta. La condotta di dissimulazione consiste nel “non manifestare il proprio stato di insolvenza nel contrarre un’obbligazione” e ciò comporta, come effetto, che non si debba richiedere l’induzione in errore del soggetto passivo, essendo sufficiente che lo stesso rimanga nella situazione di ignoranza delle condizioni del soggetto attivo che aveva prima. Il campo di maggiore operatività fa riferimento a chi entra in autostrada con la propria auto e non paga il pedaggio autostradale; in tali ipotesi, non potendosi rinvenire alcun inganno nella condotta dell’automobilista che apprende il biglietto erogato dalla macchina, spesso la Cassazione ha ritenuto corretto applicare il delitto di insolvenza fraudolenta. In realtà qualche perplessità in ordine a tale soluzione si può manifestare considerando che il presupposto dell’art. 641 c.p. è la sussistenza di uno stato di insolvenza, cioè l’incapacità di adempiere le proprie obbligazioni e non sembra presente in questa ipotesi. Il reato è consumato nel luogo e nel momento in cui si verifica l’inadempimento, quindi il tentativo non è configurabile perché fino all’inadempimento il reato non sussiste. Il delitto di insolvenza fraudolenta si distingue da quello di truffa perché nella truffa la frode è attuata mediante la simulazione di circostanze e di condizioni non vere, artificiosamente create per indurre altri in errore, mentre nell’insolvenza fraudolenta la frode è attuata con la dissimulazione del reale stato di insolvenza dell’agente. Si punisce chiunque, dissimulando il proprio stato di insolvenza, contrae un’obbligazione col proposito di non adempierla qualora l’obbligazione non sia adempiuta. Il reato è perseguibile a querela della persona offesa. Scopo della norma è la tutela della buona fede contrattuale, contro un particolare tipo di frode diverso dalla truffa vera e propria. Da quest’ultima l’insolvenza fraudolenta si differenzia per la natura del mezzo usato, il quale non deve consistere in un vero e proprio artifizio o raggiro, bensì in quell’inganno meno grave che consiste nella dissimulazione del proprio stato di insolvenza. Trattasi evidentemente di una forme di truffa più tenue, la quale però subentra al delitto in esame quando l’agente non si limiti a nascondere il proprio stato dell’insolvenza, ma faccia qualche cosa di più, simulando circostanze inesistenti o ricorrendo ad altri artifici per farsi credere solvibile. Per la sussistenza del reato occorre, anzitutto, che l’agente contragga un’obbligazione col proposito di non adempierla. La legge parla di contrarre un’obbligazione, il che significa che questa deve essere contrattuale e, quindi, volontaria. Si richiede, inoltre, che il reo abbia dissimulato il proprio stato di insolvenza. La dissimulazione può assumere le forme più diverse ed è indubbio che si può concretare tanto in un comportamento positivo che in uno negativo. Occorre, infine, che l’agente non adempia l’obbligazione. Il reato è consumato nel momento e nel luogo in cui l’agente contrae l’obbligazione, sempre che questa non sia poi adempiuta. Il tentativo è inconcepibile, perché fino a quando non si può parlare di inadempimento, non c’è reato, mentre, una volta che si verifichi l’adempimento, il delitto è consumato. Il dolo consiste nella volontà consapevole di contrarre l’obbligazione e di tenere una condotta idonea a dissimulare il proprio stato di insolvenza. Una causa speciale di estinzione della punibilità è contemplata nel capoverso dell’articolo in esame, il quale dispone che l’adempimento avvenuto prima della condanna estingue il reato. USURA art. 644 Disciplinata all’articolo 644 del codice (che prevede due ipotesi criminose: la prima è la prestazione usuraria –comma 1; la seconda è la mediazione usuraria – comma 2), si ha quando taluno si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, in corrispettivo di una prestazione di denaro o altra utilità, interessi o altri vantaggi usurari (comma 1). L’usura non è intesa come operazione meramente finanziaria destinata a soddisfare un temporaneo bisogno di denaro, ma ha acquistato un significato molto più ampio. Conseguentemente, oggi vi potrebbe rientrare la c.d. usura reale, e cioè quella che si attua mediante operazioni che assicurano all’agente vantaggi economici del tutto sproporzionati alla sua prestazione. La legge stabilisce il limite oltre il quale gli interessi sono sempre usurari. Tale limite è fissato dall’art. 2 n. 4 legge n. 108 del ’96, nel tasso medio risultante dall’ultima rivelazione pubblicata nella Gazzetta Ufficiale ai sensi del comma 1 relativamente alla categoria di operazioni in cui il credito è compreso, aumentato della metà. Si noti che il D.L. n. 394/00, convertito nella legge n. 24/01, recante una interpretazione autentica della legge 108/96 ha precisato che ai fini della configurabilità del reato di usura, si intendono usurari gli interessi che superano il limite stabilito dalla legge al momento in cui sono promessi o comunque convenuti a qualsiasi titolo, indipendentemente dal momento del loro pagamento. La consumazione si verifica nel momento in cui gli interessi o vantaggi usurari sono dati o semplicemente promessi. Il dolo è costituito dalla volontà di farsi dare o promettere determinati interessi o vantaggi che superano il limite legale. Si è discusso in passato se l’usura fosse reato istantaneo o permanente. L’art. 644, comma quinto, contempla un aumento di pena da un terzo alla metà non soltanto quando il colpevole abbia agito nell’esercizio di una attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria , mobiliare, ma anche nei casi seguenti: richiesta di garanzie su partecipazioni sociali o proprietà immobiliari, fatto commesso in danno da chi verta in stato di bisogno o svolga attività imprenditoriale, professionale o artigianale; reato compiuto da persona sottoposta a sorveglianza speciale con provvedimento definitivo, durante il periodo di applicazione della misura e fino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione. Il quarto comma dell’art. 644 ha reso obbligatoria la confisca delle cose collegate al reato di usura, anche in caso di patteggiamento, ove la regola invece è quella della restituzione delle cose sequestrate al reo. La sanzione della confisca ha però due limiti: in primo luogo deve essere limitata al valore degli interessi od altri vantaggi usurari; la confisca determina l’acquisizione allo stato dei beni del reo oggetto del vincolo. La fattispecie incrimina chi si “fa dare o promettere in qualsiasi forma per sé o per altri interessi o vantaggi usurari come corrispettivo della prestazione di denaro o altra utilità”. E’ un contratto sinallagmatico a prestazioni corrispettive; generalmente si tratta di un contratto di mutuo connesso all’elargizione di un prestito di denaro. Non rileva inoltre come elemento costitutivo l’approfittamento dello stato di bisogno, essendo tale elemento degradato a mera circostanza aggravante. La condotta si sostanzia nel farsi dare o promettere interessi o vantaggi usurari. Pena: reclusione da 2 a 10 anni e multa da 5000€ a 30000€. Pene aumentate da 1/3 alla metà se il colpevole ha agito nell’esercizio di un’attività professionale, bancaria o di intermediazione finanziaria mobiliare; se il colpevole ha richiesto in garanzia partecipazioni o quote societarie o aziendali o proprietà immobiliari; se il reato è commesso in danno di chi si trova in stato di bisogno ovvero di chi svolge attività imprenditoriale, professionale o artigianale; se il colpevole è sottoposto a sorveglianza speciale. Mediazione usuraria (art. 644 comma 2) Tale ipotesi ricorre nei confronti di chiunque fuori del caso di concorso nel delitto previsto dal primo comma, procura a taluno una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso usurario. La norma incriminatrice tende a colpire l’avida condotta di quei loschi individui che, intromettendosi tra chi presta e chi riceve denaro o altra utilità, riescono ad assicurarsi guadagni esorbitanti. Ipotesi dì diritto transitorio Poiché l’art. 3 della legge 7 marzo 1996, n. 108 fissa due termini massimi, ciascuno di centottanta giorni, per completare le operazioni necessarie a pubblicare la prima rivelazione trimestrale del tasso effettivo globale medio, il cui superamento oltre la metà darà luogo al tasso usurario legale, il legislatore ha ritenuto opportuno di inserire nell’ordinamento una singolare ipotesi di reato operativa nelle suddette more. In tale periodo è pertanto punito, a norma dell’art. 644 comma 1del codice penale chiunque, fuori dei casi previsti all’art. 643, si fa dare o promettere, sotto qualsiasi forma, per sé o per altri, da soggetto in difficoltà economica o finanziaria, in corrispettivo di una prestazione in denaro o di altra utilità, interessi o altri vantaggi che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto e ai tassi praticati per operazioni similari dal sistema bancario e finanziario, risultano sproporzionati rispetto alla prestazione di denaro o altra utilità. Alla stessa pena soggiace chi, fuori del caso di concorso nel delitto previsto all’art. 644 comma 1 procura a soggetto che si trova in condizioni di difficoltà economica o finanziaria una somma di denaro o altra utilità facendo dare o promettere, a sé o ad altri, per la mediazione, un compenso che, avuto riguardo alle concrete modalità del fatto, risulta sproporzionato rispetto all’opera di mediazione. I delitti di impoverimento A) A modalità di aggressione unilaterale 1. Danneggiamento A norma dell’art. 635 c.p., come riformulato dal D.lgs. 15 gennaio 2016, risponde penalmente: chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili cose mobili o immobili altrui con violenza alla persona o con minaccia ovvero in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico o del delitto previsto dall’art. 331; chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende, in tutto o in parte, inservibili le seguenti cose altrui: edifici pubblici o destinati a uso pubblico o all’esercizio di un culto o cose di interesse storico o artistico ovunque siano ubicate o immobili compresi nel perimetro dei centri storici, ovvero immobili i cui lavori di costruzione, di ristrutturazione, di recupero o di risanamento sono in corso o risultano ultimati o altre delle cose indicate nel numero 7 dell’articolo 625; opere destinate all’irrigazione; attrezzature e impianti sportivi al fine di impedire o interrompere lo svolgimento di manifestazioni sportive. La norma prevede 4 possibili modalità di condotta: °la distruzione: disfare la cosa, determinare l’annientamento nella sua essenza specifica (esempio frantumare un vetro, abbattere un muro) che ne determini la sostituzione con una quantità “pulita” cioè che oscura l'accertamento della provenienza illecita, realizzando il trasferimento. Infine la terza modalità di condotta, inserita come clausola di chiusura, inserisce qualunque comportamento diretto al “lavaggio” del denaro di provenienza illecita. Certo va qui considerato che il reato è un'ipotesi di evento, configurato nell'avvenuto ostacolo all'identificazione della provenienza e che ciò consente un recupero di tassatività, soprattutto se lo si considera un effetto necessariamente collegato a tutte le condotte previste. Vi è una tesi giurisprudenziale secondo la quale la sostituzione della targa di un’autovettura, ovvero la manomissione del suo numero di telaio devono ritenersi operazioni tese ad ostacolare l’identificazione della provenienza delittuosa della cosa ed integrano, pertanto, il reato di riciclaggio. Il dolo è generico e può essere desunto da qualsiasi elemento venga a conoscenza del giudice e sussiste quando gli indizi in proposito portano con certezza alla conclusione che i beni ricevuti siano di provenienza delittuosa. Va quindi esclusa la rilevanza del dolo eventuale che presuppone il dubbio e quindi l'accettazione del rischio. Secondo la giurisprudenza il dolo contribuisce a delineare la differenza tra i reati previsti dagli artt. 648 e 648 bis e ter. Fra le fattispecie c'è infatti un rapporto di specialità che discende dal diverso elemento soggettivo richiesto, essendo comune l'elemento materiale. Il delitto di cui all’art. 648 richiede una generica finalità di profitto, quello di cui all’art. 648 bis lo scopo ulteriore di far perdere le tracce dell’origine illecita, quello di cui all’art. 648 ter che tale scopo sia perseguito facendo ricorso ad attività economiche o finanziarie. Il delitto di riciclaggio non è distinguibile dal reato di ricettazione di cui all’art. 648 c.p. sulla base dei delitti presupposti, ma la differenza deve essere ricercata con riferimento agli elementi strutturali, quali l’elemento soggettivo, che fa riferimento al dolo specifico dello scopo di lucro nella ricettazione e al dolo generico nel delitto di riciclaggio, e nell’elemento materiale, e in particolare nella idoneità ad ostacolare l’identificazione della provenienza del bene, che è elemento caratterizzante le condotte previste dall’art. 648 bis c.p. DELITTI CONTRO LA FAMIGLIA Il titolo XI del libro II del codice penale è dedicato ai delitti contro la famiglia. L’art. 2 Cost. riconosce e garantisce i diritti dell’uomo non solo come singolo, ma anche nelle formazioni sociali, cioè in ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e a favorire il libero sviluppo della persona nella sua vita di relazione. Bigamia e incesto Il reato di bigamia (art. 556 c.p.) incrimina (con la reclusione da 1 a 5 anni) chiunque, essendo legato da un matrimonio avente effetti civili, ne contrae un altro, pur avente effetti civili e punisce altresì chi, pur non essendo coniugato, contrae matrimonio con persona legata da matrimonio avente effetti civili. La bigamia è un reato permanente e plurisoggettivo, in quanto richiede la necessaria partecipazione di due soggetti, di cui uno già coniugato. Il dolo è generic, e va individuate, oltre che nella volontà di contrarre un nuovo matrimonio, nella consapevolezza dell’esistenza e persistenza di un precedente vincolo coniugale. Tale consapevolezza può riscontrarsi in uno solo dei due soggetti, e in questo caso l’altro sarà esente da pena per difetto di dolo. Incesto: Commette tale delitto chiunque, in modo che ne derivi pubblicamente scandalo, commette incesto con un discendente o un ascendente, o con un affine in linea retta, ovvero con un fratello o una sorella. Trattasi di reato proprio in quanto i soggetti attivi possono essere solo le persone legate da vincolo di ascendenza o discendenza, affinità in linea retta, fratelli e sorelle. La condotta del reato in esame consiste nel commettere incesto (congiunzione carnale). L’evento del reato è il pubblico scandalo che consegue al fatto incestuoso. Pubblico scandalo è la reazione morale, accompagnata dall’inevitabile senso di disgusto e sdegno, della coscienza pubblica contro l’atto turpe come fonte di cattivo esempio. Il delitto si consuma nel momento in cui si verifica il pubblico scandalo; a tal fine non è necessario che il fatto incestuoso sia noto a tutti, bastando che sia a conoscenza di un numero rilevante di persone fuori dall’ambito della famiglia. Discusso è il problema dell’ammissibilità del tentativo (non lo è per chi considera gli atti di libidine come incesto). L’elemento soggettivo è il dolo generico, il quale consiste nella coscienza e volontà dell’atto con la consapevolezza del rapporto di parentela o affinità e con la previsione che per il modo in cui tali atti vengono realizzati dai medesimi possa derivare pubblico scandalo. Il 2° ed il 3° comma dell’art. 564 prevedono due circostanze aggravanti speciali . Per il 2° comma il delitto è aggravato nel caso di relazione incestuosa che si configura quando il rapporto sessuale tra parenti o affini non sia puramente episodico, ma si ripeta con carattere continuativo. Per il 3° comma dell’art. 564, infine, il reato è aggravato se l’incesto è commesso da persona maggiore di età con persona minore degli anni diciotto; l’aggravante, in tal caso, si applica al solo maggiorenne. La famiglia nell’attività di reinterpretazione del bene giuridico svolta dalla prassi Soprattutto negli ultimi anni a causa del mutamento delle abitudini sociali e per la notevole immigrazione, il problema della famiglia di fatto, cioè dell’unione tendenzialmente stabile tra due persone senza il vincolo del matrimonio, è diventato un argomento fortemente dibattuto a livello politico, ma anche tra giuristi. In diritto penale il problema si pone principalmente per i delitti di abuso dei mezzi di correzione e di maltrattamenti. La giurisprudenza afferma che: “deve considerarsi famiglia ogni consorzio di persone tra le quali, per intime relazioni e consuetudini di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione; e anche il legame di puro fatto vale a costituire una famiglia in questo senso, quando risulti da una comunanza di vita e di affetti analoga a quella che si ha nel matrimonio”. Afferma inoltre che l’art. 2 Cost. impone di apprestare tutela a tutte quelle persone che, per ragioni di convivenza, minore età, affidamento per ragioni di educazione, istruzione o cura, si trovano in una condizione di soggezione, che agevola la realizzazione di maltrattamenti. Quindi il diritto penale, in particolare attraverso il delitto di maltrattamenti, offre tutela anche alla famiglia di fatto perché la tutela è espletata direttamente verso le persone, in particolare per proteggere i beni dell’incolumità fisica e psichica delle stesse, indipendentemente dalla circostanza che compongano una famiglia di fatto o fondata sul matrimonio. In tal modo la giurisprudenza si dirige verso una tutela personalistica. Violazione degli obblighi dì assistenza familiare (art. 570 c.p.) Art. 570 c.p. Violazione degli obblighi di assistenza familiare: “Chiunque, abbandonando il domicilio domestico, o comunque serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie, si sottrae agli obblighi di astinenza inerenti alla responsabilità genitoriale, o alla qualità di coniuge, è punito con la reclusione da 1 anno o con la multa da euro 103 a 1.032. Le dette pene si applicano congiuntamente a chi: 1) malversa o dilapida i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge; 2) fa mancare i mezzi di sussistenza ai discendenti di età minore, ovvero inabili al lavoro, agli ascendenti o al coniuge, il quale non sia legalmente separato per sua colpa. Il delitto è punibile a querela della persona offesa salvo nei casi previsti dal numero 1 e, quando il reato è commesso nei confronti dei minori, dal numero 2 del precedente comma. Le disposizioni di questo articolo non si applicano se il fatto è preveduto come più grave reato da un’altra disposizione di legge”. La sottrazione agli obblighi di assistenza afferenti alla potestà dei genitori e alla qualità di coniuge (comma 1) Il legislatore ha inteso punire la violazione di taluni obblighi di natura civilistica allorché detta violazione sia commessa con specifiche modalità, cioè abbandonando domicilio domestico o serbando una condotta contraria all’ordine o alla morale delle famiglie. Soggetti attivi possono essere pertanto solo coloro sui quali gravano tali obblighi: si tratta di un reato proprio. La condotta è rappresentata dalla violazione degli obblighi di assistenza. Per i genitori gli obblighi di assistenza verso i figli sono previsti dall’art. 147 c.c. e consistono nel mantenimento, nell’istruzione e nell’educazione; per i coniugi sono invece elencati dall’art. 143 c.c. che ricomprende l’uguaglianza, l’assistenza morale e materiale nonché la solidarietà. Pertanto per obblighi di assistenza inerenti alla potestà di genitore o alla qualità di coniuge devono intendersi solo quelli dal contenuto morali, fisico, affettivo a prescindere dai riflessi economici che la violazione degli stessi può determinare. Le note modali del reato: abbandono del domicilio domestico e condotta contraria all’ordine e alla morale delle famiglie La violazione degli obblighi di assistenza connessi alla potestà di genitori o alla qualità del coniuge acquista rilevanza solo se realizzata ponendo in essere una delle norme modali del reato. Si tratta di condotte che devono accompagnare la violazione degli obblighi assistenziali ma da sole non possiedono rilevanza penale: ad esempio il semplice abbandono del domicilio domestico da parte del marito per motivi di lavoro alla quale non si accompagna alcuna violazione degli obblighi morali, affettivi o fisici non costituisce reato. Ciò che rivela è soltanto l’abbandono del domicilio che esprime il volere di interrompere la convivenza, non giustificato da esigenze che eliminerebbero l’antigiuridicità del fatto (es. abbandono del domicilio per coltivare una relazione extraconiugale). Più complessa è la definizione di condotta contraria all’ordine e alla morale delle famiglie. Per ordine della famiglia deve intendersi come valore che esprime l’unità della famiglia, ricomprendendo le esigenze peculiari di ciascun componente (es. coniuge che si rifiuta senza motivo di accordarsi con l’altro coniuge circa la fissazione della residenza). Invece per condotta contraria alla morale della famiglia deve intendersi quella che contrasta gravemente con i valori di base della famiglia (es. genitore alcolizzato). Un rilievo particolare assume la violazione del dovere di fedeltà: consiste nella volontà di piena unione tra i coniugi ricollegato al reciproco vincolo di responsabilità dei coniugi (la semplice infedeltà non accompagnata da una concreta sottrazione agli obblighi di assistenza verso l’altro coniuge non rileva ai fini dell’art. 570 c.p.). La malversazione o la dilapidazione dei beni del figlio minore, del pupillo o del coniuge (comma 2, n.1) Nel comma 2 il legislatore ha previsto condotte punite più gravemente in quanto incidono sul patrimonio di soggetti legati all’autore da un rapporto di fiducia e vanno a ledere quei principi di solidarietà morale e materiale che devono sempre caratterizzare i rapporti tra coniugi, parenti o fra tutore e pupillo. Si tratta di figure autonome di reato e non di circostanze aggravanti. Al n.1 abbiamo un’ipotesi di appropriazione indebita dei beni facenti parte del patrimonio del figlio minore, del pupillo o del coniuge (malversazione). La norma non indica espressamente l’autore del reato ma poiché l’oggetto materiale della condotta sono i beni del figlio minore o del pupillo o del coniuge si deduce che i soggetti attivi possono essere solo il genitore, il tutore o il coniuge. I genitori dopo la riforma del 1975 esercitano congiuntamente la potestà sui figli minori e amministrano anche i beni degli stessi in modo congiunto (art. 320 c.c.) anche dopo la separazione; ciò vale anche per i genitori adottivi e per il genitore naturale che abbia riconosciuto il figlio. Il tutore è colui che esercita la tutela nei casi previsti dal diritto di famiglia (artt. 345 ss. c.c.). La qualità di coniuge si acquisisce in virtù di un matrimonio avente effetti civili. Oggi il reato è configurabile, in regime di comunione dei beni, - quando si procede ad atti di straordinaria amministrazione dei beni comuni nel caso di lontananza o di impedimento dell’altro coniuge (art. 182 c.c.) a - nel caso di esclusione di uno dei coniugi dall’amministrazione (art. 183 c.c.) - nel caso di gestione comune di azienda, nell’ipotesi di delega da parte di uno dei coniugi al compimento di tutti gli atti necessari all’attività d’impresa (art. 182 comma 2, c.c.) - nel caso di convenzioni matrimoniali che attribuiscono a uno dei due l’amministrazione dei beni dell’altro (art. 210 c.c.). In regime di separazione dei beni, il reato si configura: - quando un coniuge abbia conferito all’altro una procura ad amministrare i propri beni (art. 217 commi 2,3, c.c.) - quando vi sia amministrazione di fatto da parte di uno dei coniugi, nonostante l’opposizione del titolare. La condotta del reato in questione si sostanzia nel condurre in modo pregiudizievole l’amministrazione del patrimonio dei soggetti loro affidati per ragioni di famiglia o tutela. Il termine malversazione (dal latino male versari cioè comportarsi male) consiste in un’attività di amministrazione infedele riferita a cose appartenenti al figlio, al pupillo o al coniuge ma affidate al colpevole per ragioni particolari stabilite dalla legge. Anche un solo atto è sufficiente per far configurare la condotta in esame: è in ragione della carica intenzionale del soggetto agente che un comportamento polivalente quale un’appropriazione può essere ascritto o al novero di un reato contro il patrimonio o a quello di un reato contro la famiglia ( se il tutore si appropria del denaro del pupillo con l’evidente intenzione di diminuire il patrimonio di questo e aumentare il proprio si configura il reato di appropriazione indebita, aggravato ai sensi dell’art. 61, n. 11; se il tutore agisce allo scopo di non adempiere all’obbligo specifico di una diligente amministrazione dei beni del pupillo e di negare l’assistenza economico-morale si configura il delitto dell’art. 570 c.p. Il termine dilapidazione presenta somiglianze con quello di dissipazione: dilapidare equivale a sperperare o a disporre dei beni del figlio minore o del coniuge in modo da determinare la distruzione totale o parziale del patrimonio di questi; si realizza con atti di ingiustificata prodigalità. Si tratta di un delitto punito esclusivamente a titolo di dolo. Non essendo richiesta alcuna finalità ulteriore, si tratta di dolo generico: è sufficiente la volontà consapevole e libera di malversare o dilapidare in tutto o in parte i beni avuti in gestione. L’omessa prestazione dei mezzi di sussistenza (comma 2, n.2) Per mezzi di sussistenza devono intendersi quei mezzi indispensabili a soddisfare le necessità essenziali della vita, quali l’abitazione, il vitto, il vestiario. Per la configurabilità del delitto in esame è necessario che il soggetto passivo applica la reclusione da 4 a 9 anni; se ne deriva una lesione gravissima la reclusione da 7 a 15 anni; se ne deriva la morte, la reclusione da 12 a 24 anni”. Presupposto del delitto in esame è che tra il soggetto passivo ed il soggetto attivo sussista un rapporto di familiarità o un rapporto disciplinare. L’elemento oggettivo è costituito dai maltrattamenti. È richiesta una condotta abituale che si estrinseca con più atti con la consapevolezza di ledere l’integrità fisica ed il patrimonio morale del soggetto passivo. Per la sussistenza del reato non sono sufficienti singoli o sporadici episodi occasionali, in quanto i più atti che integrano l’elemento materiale del reato debbono essere collegati tra loro da un nesso di abitualità e devono essere avvinti da una unica intenzione criminosa. Il reato tutela la personalità di un soggetto, intesa come esplicazione di vera e propria dignità umana nell’ambito di una relazione interpersonale caratterizzata da rapporti di umana solidarietà e comunanza di vita: chi subisce maltrattamenti si trova oppresso e limitato nella sua libertà fisica e morale tanto da essere impedito nel processo di normale espansione della personalità (art. 2 Cost.). (Es. persona che, avuto in consegna dai genitori un minore allo scopo di accudirlo, educarlo e avviarlo a una istruzione consente che questi viva in stato di abbandono in strada, disinteressandosi del suo stato di malnutrizione e delle situazioni di pericolo cui è esposto: si è di fronte a una condotta lesiva dell’integrità fisica e morale del minore, ma che determina anche una sofferenza della dignità complessiva quale persona). In tale contesto appare chiaro che il delitto di maltrattamenti in famiglia assorbe in sé anche quello di atti persecutori (stalking) previsto dall’art. 612 bis c.p. Qualsiasi persona può rendersi autrice del delitto di maltrattamenti, a prescindere da chi sia l’autore e a prescindere dalla circostanza se l’autore dei maltrattamenti sia legato all’offeso da vincoli parentali, professionali o di custodia. Il concetto di famiglia non è limitato alla famiglia legittima ma esteso a qualunque situazione che sia caratterizzata da un’unione di persone tra le quali, per intima relazione o per consuetudine di vita, siano sorti legami di reciproca assistenza e protezione. Il delitto di maltrattamenti presuppone quindi un rapporto familiare(o un altro rapporto allo stesso assimilabile) in cui il soggetto attivo deve necessariamente essere inserito; se il soggetto è esterno avremo lo stalking che si inquadra nel tentativo di imporre all’altro un rapporto. Il fatto punibile Rientrano nell’ambito dell’art. 572 c.p. tutti quei fatti che non sono caratterizzati dall’abuso dei mezzi di correzione e di disciplina. Il reato di maltrattamenti è un reato più grave di quello punito all’art. 571 c.p. e richiede una condotta ab origine illecita (insegnante che percuote violentemente un allievo). La condotta è descritta in modo generico: la giurisprudenza riconosce che qualsiasi comportamento, non solo violento, ma che costituisca disprezzo, umiliazione o asservimento e che determini nella vittima uno stato di prostrazione o avvilimento può configurare la condotta di maltrattamenti. Vi rientrano anche atteggiamenti iperprotettivi, consistenti tra l’altro in deprivazioni sociali e psicologiche, nonché nell’escludere il minore da attività sportive e ricreative, ritenendo tutte le predette condotte come idonee a ritardare o comunque a compromettere lo sviluppo psicologico e relazionale del minore. E’ proprio in virtù di tale genericità del concetto di maltrattare che la giurisprudenza ritiene configurabile il reato in questione anche se non vi è stato un atto vessatorio specifico nei confronti di uno o più componenti di un nucleo familiare, ma gli stessi si trovano a risentire di un generalizzato clima di violenza e tensione rivolto verso altri: è il caso di un uomo che aveva posto in essere atti violenti nei confronti della compagna, dando vita ad uno stato di intensa drammaticità all’interno della famiglia e che è stato condannato per il delitto di maltrattamenti anche nei confronti dei figli della compagna, rispetto ai quali però non aveva realizzato alcun comportamento violento specifico determinato. Altra caratteristica del reato è che si tratta di reato abituale proprio: lo stesso termine maltrattamenti denota la necessità di una reiterazione della condotta, anche in tempi diversi, pur se intervallati da periodi di serenità. La lesione del bene tutelato non può avvenire con un unico atto, per quanto grave possa essere, ma è necessaria una ripetizione, posto che ciò che rileva penalmente è l’instaurazione di un regime di vita, cioè di un rapporto personale più o meno continuativo, caratterizzato dalla sopraffazione di un soggetto ad offesa dell’altro, in una condotta ripetitiva che sia in grado di degradare la personalità dell’offeso. Occorre dunque che la condotta crei un sistema di sopraffazioni o vessazioni ingiustificate tale da costituire una fonte disagio e imbarazzo per il soggetto passivo, che sia incompatibile con le normali condizioni di vita alle quali ognuno nel proprio ambiente ha il diritto di vivere. Anche l’abitualità consente un ampio margine al libero apprezzamento del giudice. Al di fuori dell’ambiente familiare, nella condotta di maltrattamenti può essere ricompreso anche il mobbing, cioè quell’insieme di comportamenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazioni, umiliazioni, maldicenze) perpetrati in ambito lavorativo da parte di uno o più individui nei confronti di un altro soggetto, prolungati nel tempo o lesivi della dignità personale e professionale nonché della salute psicofisica dello stesso. I singoli atteggiamenti molesti non devono necessariamente raggiungere singolarmente la soglia del reato, né devono essere di per sé illegittimi, ma nell’insieme devono avere la capacità di produrre gravi compromissioni sulla dignità di lavoratore dell’offeso. Maltrattamenti omissivi? Sia la dottrina sia la giurisprudenza ammettono pacificamente che possano aversi maltrattamenti omissivi, anche se, con maggior frequenza, la condotta è di tipo misto, attiva e omissiva (è il caso degli operatori in una struttura pubblica di assistenza per anziani che, oltre ad insultare gli anziani ivi ricoverati, li lasciano senza cibo, e non si occupano della loro igiene). Elemento soggettivo E’ sufficiente la coscienza e volontà di sottoporre a maltrattamenti il soggetto passivo, nella consapevolezza che ciascuna nuova condotta va ad aggiungersi alle precedenti condotte determinando prevaricazioni e sofferenze, in modo da dar vita a un vero e proprio sistema di maltrattamenti: dunque è richiesto il dolo generic. Per configurare il necessario dolo generico nel delitto di maltrattamenti è sufficiente la coscienza e volontà di sottoporre a maltrattamenti il soggetto passivo, nella consapevolezza che ciascuna nuova condotta va ad aggiungersi alle precedenti determinando prevaricazioni e sofferenze, in modo da dar vita ad un vero e proprio sistema di maltrattamenti. Il caso dei maltrattamenti seguiti dal suicidio della vittima Ci si chiede se e in quale misura l’autore dei maltrattamenti possa essere chiamato a rispondere di un evento più grave di quello da lui voluto, realizzato da un soggetto diverso, che lo ha posto in essere in seguito di una sua personale decisione. Va precisato che nel caso in esame le lesioni non devono essere volute: ove l’agente le abbia volute o abbia accettato il rischio o si sia rappresentato l’eventualità della loro realizzazione, risponderà di omicidio doloso o di lesioni personali dolose (a titolo di dolo eventuale) in concorso con il delitto di maltrattamenti. Al fine di stabilire se l’evento più grave sia causalmente riconducibile alla condotta di maltrattamenti dell’agente, l’interprete ha due possibilità: 1) se si considera il suicidio un atto autonomo e deliberato dalla vittima, ai sensi dell’art. 41 c.p. comma 2, lo stesso potrebbe configurare una causa interruttiva del nesso, in quanto da sola sufficiente a determinare l’evento; 2) se il suicidio si considera una causa sopravvenuta, la stessa non andrebbe ad interrompere il nesso (art. 41, comma 1, c.p.). In questo caso il delitto di maltrattamenti aggravato dall’evento morte sussiste, a patto che si riesce a dimostrare il diretto collegamento con l’attività sopraffattrice e vessatoria dell’agente. Per quanto poi attiene l’imputazione soggettiva dell’evento aggravatore, non voluto, bisogna accertare che lo stesso sia la conseguenza prevedibile della condotta dell’agente e non il frutto di una decisione della vittima, imprevedibile e non conoscibile da parte del soggetto agente (es. padre che maltratta abitualmente la figlia non essendo consapevole del suo carattere fragile e della sua crisi personale, che, a seguito dei maltrattamenti, la portano a suicidarsi; il genitore risponde solo dei maltrattamenti). Sottrazione consensuale di minorenni (art. 573 c.p.) Art. 573 c.p. La sottrazione consensuale di minorenni: “Chiunque sottrae un minore, che abbia compiuto gli anni 14, col consenso di esso, al genitore esercente la responsabilità genitoriale, o al tutore, ovvero lo ritiene contro la volontà del medesimo genitore o tutore, è punito, a querela di questo, con la reclusione fino a 2 anni. La pena è diminuita, se il fatto è commesso per fine di matrimonio; è aumentata, se è commesso per fine di libidine”. Il punto focale dell’oggettività giuridica è solo l’interesse del minore: il disvalore della condotta è concentrato nel fatto che il minore di età compresa tra 14 e 18 anni venga, anche con il suo consenso, indotto ad assumere scelte o a tenere comportamenti che possano influire negativamente sulla sua personalità in fase di formazione: si pensi, ad esempio, al minore che viene indotto ad aderire ad una setta che segue culti esoterici e, di conseguenza, ad assumere comportamenti, stili di vita e valori che appaiono in contrasto con l’età e la fase di formazione dello stesso. Il delitto di sottrazione consensuale di minorenni è un reato comune, dunque può essere commesso anche dal genitore non affidatario. Il fatto punibile La condotta incriminata prevede in alternativa, due modalità di esecuzione del reato: la sottrazione e la ritenzione aventi entrambe ad oggetto un minore di età compresa tra 14 e i 18 anni, che presta il proprio consenso a fuoriuscire dal controllo degli esercenti la potestà. Per quanto riguarda la sottrazione, deve trattarsi di qualsiasi azione materiale che determina la frattura del rapporto che unisce il minore al genitore o al curatore e che può realizzarsi coma modalità indifferenti: è sottrazione, ad esempio, la condotta di una donna adulta, che convince un ragazzo di 17 anni ad andar via dalla casa familiare per andare a convivere con lei. La condotta di ritenzione presuppone invece che il minorenne sia già, per motivi leciti, fuori dalla sfera di controllo dell’esercente la potestà e consiste nel trattenere il minore stesso in tale situazione. Entrambe le condotte devono protrarsi per un apprezzabile lasso di tempo, in modo che assumano una loro consistenza e siano sintomatiche di una volontà dell’agente di togliere il minore dalla sfera di controllo dell’esercente la potestà (reato permanente). Il consenso del minore è un elemento costitutivo della fattispecie ed è necessario per differenziare il fatto da quello punito dall’art.574 c.p.: trattandosi di minore con età compresa tra i 14 e i 18 anni il consenso ha piena validità e deve essere manifestato liberamente con qualsiasi modalità, potendo esprimersi anche con iniziative prese dal minore stesso. Questo requisito pone problemi a livello interpretativo: in particolare nel caso di un episodio di sottrazione di un minore prossimo ai 18 anni è arduo ritenere configurato il delitto previsto dall’art. 573 c.p., in quanto il consenso di un “quasi maggiorenne” ad una sottrazione assume un ruolo diverso. Ulteriore requisito è il dissenso del genitore o del tutore racchiuso nella formula “contro la volontà del medesimo genitore o tutore”; può essere espresso senza forme specifiche ma non può essere presunto. L’elemento soggettivo Per la configurabilità del delitto è sufficiente il dolo generico; basta la consapevolezza di sottrarre o ritenere il minore consenziente contro la volontà (presunta o espressa) del genitore, del tutore o del curatore. Non ha alcun rilievo il fine al quale tende la sottrazione. Rilevante nella fattispecie in esame è il ruolo dell’errore, essendo il reato escluso ove l’agente agisca nell’erronea convinzione che i genitori o il tutore acconsentano alla sottrazione o alla ritenzione: in tal caso l’errore cade sul dissenso che, essendo un elemento costitutivo del reato, inficia la rappresentazione del fatto da parte dell’agente escludendo il dolo dello stesso. Analogamente può essere rilevante l’errore sull’età del minore. Il delitto si consuma non appena sia interrotto il vincolo di soggezione che lega il minore al genitore o al tutore. Il tentativo è configurabile quando l’attività del soggetto attivo si sia fermata prima della rottura del vincolo di soggezione suddetto. Sottrazione dì persone incapaci (art. 574 c.p.) Art. 574 c.p. La sottrazione di persone incapaci: “Chiunque sottrae un minore degli anni 14, o un infermo di mente, al genitore esercente la responsabilità genitoriale, al tutore, o al curatore, o a chi ne abbia la vigilanza o la custodia, ovvero lo ritiene contro la volontà dei medesimi, è punito, a querela del genitore esercente la potestà genitoriale, del tutore o del curatore, con la reclusione da 1 a 3 anni. Alla stessa pena soggiace, a querela delle persone stesse, chi sottrae o ritiene un minore che abbia compiuto gli anni 14, senza il consenso di esso, per un fine diverso da quello di libidine o di matrimonio”. Il delitto di sottrazione di persone incapaci differisce dal reato di sottrazione consensuale solo per il fatto che le condotte di sottrazione o ritenzione si riferiscono a un minore di 14 anni o a un minore infradici ottenne, il quale però non ha prestato alcun consenso. Rispetto ai reati previsti dalla norma precedente, il delitto in questione si consuma con le semplici condotte di sottrazione o ritenzione. Nel comma 2 invece viene punita con la stessa pena la sottrazione o la ritenzione di minori che hanno compiuto i 14 ma non i 18 anni, i quali però non hanno prestato alcun consenso: dunque si tratta della fattispecie contraria a quella prevista dall’art. 573 c.p. Il delitto di sottrazione e trattenimento di minore all’estero Art. 574 bis c.p. Sottrazione e trattenimento di minore all’estero: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque sottrae un minore al genitore esercente la responsabilità genitoriale o al tutore, conducendolo o trattenendolo all’estero contro la volontà del medesimo genitore o tutore, impedendo in tutto o in parte allo stesso l’esercizio della responsabilità genitoriale, è punito con la reclusione da 1 a 4 anni. Se il fatto di cui al primo comma è commesso nei confronti di un minore che abbia compiuto gli anni 14 e con il suo consenso, si applica la pena della reclusione da 6 mesi a 3 anni. Se i fatti di cui al primo e secondo comma sono commessi da un genitore in danno del figlio minore, la condanna comporta la sospensione dall’esercizio della responsabilità genitoriale”. tratta. Non si esclude, tuttavia, che sussistendone i requisiti, le condotte di seguito descritte possano configurare altri illeciti imputabili all’imprenditore non raggiunto da una dichiarazione di fallimento. La dichiarazione di fallimento è un elemento costitutivo del reato e non una condizione oggettiva di punibilità; pertanto il reato si perfeziona in tutti i suoi elementi costitutivi solo nel caso in cui il soggetto, che abbia commesso anche in precedenza attività di sottrazione dei beni aziendali, sia dichiarato fallito. Il fallimento, come tutte le procedure concorsuali, è istituto attraverso il quale l’ordinamento giuridico prende atto dell’incapacità imprenditoriale all’esercizio dell’impresa ed interviene, in modo da garantire la par condicio creditorum. L’iniziativa per far dichiarare il fallimento la può prendere uno o più creditori o può essere dichiarato anche su iniziativa dell’imprenditore debitore. Si presenta con ricorso al Giudice delegato del Tribunale di competenza. Il fallimento viene dichiarato con sentenza. Tale sentenza rappresenta una condizione obiettiva di punibilita’ per i reati in cui la condotta materiale si concretizza in fatti commessi prima della dichiarazione di fallimento (c.d. bancarotta prefallimentare) e presupposto del reato, con riguardo, invece, ai fatti di bancarotta post fallimentare (ovvero dopo la sentenza di fallimento). Il fallimento ha due funzioni: accertare l’insolvenza dell’imprenditore e fare in modo che le pretese dei creditori abbiano una adeguata tutela nonostante la criticità della situazione economica del debitore. La sentenza dichiarativa di fallimento contiene anche la nomina del cosiddetto curatore fallimentare, che viene incaricato dal tribunale di amministrare il patrimonio fallimentare. Egli procede alla liquidazione, cioè alla vendita del patrimonio fallimentare, per ripartire tra i creditori l’attivo residuo, e svolge i suoi compiti sotto il controllo del giudice delegato e di un comitato dei creditori. Un tipico reato fallimentare è la bancarotta, che può essere fraudolenta o semplice. I SOGGETTI ATTIVI DEL REATO: Possono rispondere di bancarotta fraudolenta i seguenti soggetti: -Imprenditore (ad eccezione del piccolo imprenditore) -Amministratori -Direttore generale, sindaci -Institore, i liquidatori di società -I soci illimitatamente responsabili dichiarati falliti per estensione. I reati fallimentari appunto perché possono essere commessi solo da particolari soggetti costituiscono reati propri o esclusivi, definiti “reati funzionali” perché la loro condotta consiste nella violazione dei doveri o abuso dei poteri che la legge ascrive alla funzione esercitata dai diversi soggetti attivi. Tali doveri comportano la responsabilità dei soggetti che ne siano titolari e che realizzano le attività incriminate. I soggetti indicati sono puniti di b.fr. Se prima del fallimento oppure durante la procedura, distruggono, occultano, sottraggono, dissipano e falsificano in tutto o in parte i beni del fallito o riconoscono ed espongono passività inesistenti. I beni colpiti dal reato sono i seguenti: Beni di proprietà Avviamento e clientela dell’impresa Beni immobili, mobili, diritti di credito, contratti, comodati, diritti reali. LA BANCAROTTA La Bancarotta può essere PROPRIA o IMPROPRIA. La bancarotta propria a sua volta può essere FRAUDOLENTA o SEMPLICE. A: la bancarotta fraudolenta Art. 216. La bancarotta fraudolenta: “E’ punito con la reclusione da 3 a 10 anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore che: 1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti; 2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di creare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari. La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n.1 del comma precedente o sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili. E’ punito con la reclusione da 1 a 5 anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione. Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di 10 anni l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa”. La norma disciplina il reato di bancarotta fraudolenta, che richiede la coscienza e volontà di commettere il delitto, con l'intenzione di cagionare un danno alla massa creditizia (dolo specifico). Dottrina e giurisprudenza ritengono che non vi sia concorso tra il reato in esame e i reati di falso, mentre il concorso è generalmente ammesso con il reato di truffa, di insolvenza fraudolenta e di furto. La bancarotta propria si distingue in fraudolenta o semplice. Nella bancarotta generalmente considerata l’offesa al patrimonio dei creditori si realizza per il tramite di un’offesa al patrimonio dell’imprenditore (visto come patrimonio – garanzia). Quest’ultima offesa, rispetto alle condotte della bancarotta fraudolenta può essere reale o fittizia: -offesa reale: condotte di distrazione, distruzione, dissipazione (producono un danno effettivo) -offesa fittizia: occultamento e dissimulazione del patrimonio del debitore (il rischio connesso alle medesime potrebbe dissolversi per lo smascheramento delle manovre dell’imprenditore e la riemersione del patrimonio aggredibile dai creditori). Rispetto agli effetti prodotti sul patrimonio dei creditori l’offesa è fittizia nella sola misura in cui i beni vengano recuperati a vantaggio dei creditori medesimi. In questa ipotesi il reato può considerarsi comunque consumato nei limiti in cui l’occultamento o la dissimulazione abbiano contribuito al fallimento del debitore. La bancarotta fraudolenta propria prevede due distinte ipotesi di reato: 1. Bancarotta fraudolenta patrimoniale; 2. Bancarotta fraudolenta documentale. A queste si aggiungono due ulteriori ipotesi: a. La bancarotta successiva; b. La bancarotta preferenziale. BANCAROTTA FRAUDOLENTA PATRIMONIALE: Individua varie ipotesi di condotte, tutte caratterizzate dalla sottrazione o dispersione del patrimonio dell’impresa, con pericolo di perdita della garanzia patrimoniale in capo ai creditori. L’elemento soggettivo sembra essere costituito dal dolo generico, per la cui sussistenza non è necessaria la consapevolezza dello stato d’ insolvenza dell’impresa, né lo scopo di recare pregiudizio ai creditori, essendo sufficiente la consapevole volontà di dare al patrimonio sociale una destinazione diversa, da quella di garanzia delle obbligazioni contratte. Si ammette il dolo eventuale quando il soggetto agisce semplicemente “a rischio” di subire una perdita altamente probabile. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che “lo scopo di recare pregiudizio ai creditori” in relazione ai fatti di esposizione e di riconoscimento di passività inesistenti, sia da qualificare come dolo specifico. BANCAROTTA FRAUDOLENTA DOCUMENTALE: Mentre in quella patrimoniale, la tutela riguarda direttamente il patrimonio, nella documentale l’interesse tutelato è quello della veridicità e trasparenza delle scritture o libri contabili, sul presupposto che la falsificazione delle stesse sia funzionale a operazioni illecite sul patrimonio. Bisogna rilevare che la Corte di cassazione ha ribadito anche recentemente (Sentenza n. 30337, Sezione V^. Vedi nelle news) che affinché si realizzi il reato di bancarotta fraudolenta documentale non occorre il dolo specifico dell’agente ovvero che lo stesso si prefigga specificatamente di rendere impossibile la ricostruzione del patrimonio sociale tenendo irregolarmente le scritture contabili; essendo sufficiente che il soggetto incolpato ne abbia la consapevolezza (ovvero che sappia che la tenuta irregolare implicherà il difetto della ricostruzione del patrimonio sociale). Si realizzerà il reato di bancarotta documentale semplice e non fraudolenta quando l’agente tenga le scritture contabili in maniera difforme da quelle previste dalla Legge senza consapevolezza di rendere non ricostruibile il patrimonio sociale. LE ALTRE BANCAROTTE PROPRIE: La bancarotta successiva riguarda le condotte di bancarotta fraudolenta commesse DOPO la dichiarazione di fallimento (ovviamente, all’insaputa e in danno degli organi del fallimento). La bancarotta preferenziale riguarda invece quei comportamenti dell’imprenditore con i quali, prima o durante il fallimento, altera la par condicio creditorum, mediante pagamenti a favore di singoli creditori e a danno di altri (ad esempio, adempimento verso un creditore chirografario, in danno di uno privilegiato). La giurisprudenza ritiene che l’elemento soggettivo sia costituito dal dolo specifico (animus favendi) consistente nella volontà di recare un vantaggio al creditore soddisfatto, con l’accettazione dell’eventualità di un danno per gli altri secondo lo schema del dolo eventuale (animus nocendi); nel senso che è sufficiente che il fallito si rappresenti la possibilità di ledere i creditori non favoriti. Vantaggio e possibilità di danno devono sussistere contemporaneamente. Parte della dottrina invece ricostruisce il dolo della bancarotta preferenziale in termini di dolo generico, affermando che il dolo specifico descrive un fatto che si pone al di là della fattispecie oggettiva; cosa che evidentemente non è nel caso in esame, in cui tanto il fine di privilegiare quanto quello di danneggiare non sono eventi ulteriori, ma componenti del fatto. Una forma di bancarotta fraudolenta preferenziale è posta in essere con la simulazione di titoli di prelazione e si ha quando il debitore si accorda con un terzo concedendogli fittiziamente una garanzia reale; Oppure Quando si accorda con un creditore facendo apparire privilegiato un credito chirografario. In tal caso il credito è inesistente e si rientra nella bancarotta fraudolenta patrimoniale. Il dolo della bancarotta fraudolenta non può consistere nel semplice dubbio circa la ricaduta a danno dei creditori dell’operazione eseguita. E’ da escludere che il dolo eventuale come elemento psicologico sia sufficiente al perfezionamento della bancarotta fraudolenta. Per la bancarotta fraudolenta emerge la necessità di un “dolo specifico” o almeno una forma di elemento psicologico più forte che può essere definito dolo arricchito. Dalle ipotesi appena analizzate, rilevano diverse forme di dolo. Il dolo generico che consiste nel realizzare tutti gli elementi del fatto tipico, sua caratteristica è la corrispondenza tra ideazione e realizzazione. Il dolo specifico è una forma di dolo in cui il legislatore richiede, per la consumazione del reato, che l’agente agisca per un fine particolare. Il dolo eventuale si verifica quando l’agente ha coscienza e volontà di attuare un evento lesivo, accetta che le conseguenze della sua condotta possano essere più gravi di quanto non sia strettamente necessario per ottenere lo scopo primario. La bancarotta fraudolenta può consistere in una sottrazione totale o parziale della garanzia patrimoniale (beni dell’imprenditore) a danno del creditore. Le singole condotte in cui tale sottrazione si configura sono: distruzione, dissipazione, distrazione, occultamento e dissimulazione. a) Distruzione: è la condotta che appare più grave, almeno perché alla lettera implica un’ablazione definitiva del patrimonio; che potrebbe persino essere annientato senza una ragione economica, personale o di altro tipo, se non quella di danneggiare i creditori medesimi. In senso ampio la distruzione denota una diminuzione anche parziale del patrimonio. b) Dissipazione: lo sperpero del proprio patrimonio, con spese o impegni economici irragionevoli o eccessivi rispetto al medesimo c) Distrazione: in linea generale indica una sottrazione arbitraria di beni alla garanzia per i creditori (es. vendita di un immobile con donazione della somma a un familiare. Consiste essenzialmente nel fatto dell’imprenditore che utilizzi i propri beni per finalità diverse da quelle propriamente “imprenditoriali”, con pregiudizio del patrimonio dell’impresa e a danno dei creditori. Costituisce una fattispecie di danno, comporta cioè una reale diminuzione del patrimonio del debitore e dunque della garanzia per i creditori. Gli atti definiti come distrazione possono essere i seguenti: -vendita sottocosto di merce - Vendita di beni aziendali ad un acquirente non solvibile e con pagamento dilazionato, cessione a titolo gratuito del diritto di riscatto di un bene di cui la società fallita abbia la disponibilità a titolo di leasing; sottrazione o dissipazione di beni detenuti dal soggetto fallito a titolo di leasing. d) Dissimulazione e occultamento: tali condotte possono apparire difficilmente distinguibili. L’occultamento consiste nel nascondimento materiale dei beni ma anche la dissimulazione denota una condotta di questo tipo. I due termini vengono usati dal legislatore per indicare una diversa gravità della condotta. Con occultamento si indica un quid pluris, un fare, un’operazione materiale che accompagni la detta condotta di nascondimento; con il dissimulare si indica il semplice non svelare, il nascondere i beni quale espressione di una condotta meramente omissiva. e) Anche le condotte di esposizione e di riconoscimento di passività inesistenti sono rilevanti ai fini dei reati fallimentari perché pregiudicano i creditori effettivi rappresentandone altri fittizi. f) Il n.2 del comma 1 dell’art. 216 prevede condotte che riguardano le scritture contabili (distruzione, falsificazione o comunque condotte di tenuta fraudolenta delle scritture). Elemento soggettivo del reato è nel caso di falsificazione e distruzione, dolo specifico, negli altri casi dolo generico: coscienza e volontà sono i requisiti che connotano l’elemento del dolo, nella sottrazione, distruzione e falsificazione di documenti e scritture contabili. Il rischio virtuoso nella bancarotta preferenziale Il rischio può essere in sé virtuoso almeno nella sua genesi e nelle intenzioni dell’imprenditore perché misurato e affrontato per il bene e la salvezza dell’impresa. Questa tipologia di rischi esclude ogni responsabilità penale per bancarotta, in particolare quella fraudolenta. Per la bancarotta preferenziale la giurisprudenza ha osservato come 2) hanno concorso a cagionare o ad aggravare il dissesto della società con inosservanza degli obblighi ad essi imposti dalla legge”. Il concorso di persone nei reati fallimentari I reati fallimentari sono funzionali: possono commetterli solo particolari soggetti per le funzioni che esercitano. Tuttavia il nostro sistema ammette il concorso di estranei nei reati funzionali. Nel caso di bancarotta impropria: se più soggetti muniti di una qualifica, per esempio più amministratori, concorrono nel realizzare il reato, la fattispecie concorsuale si realizza, in quanto tutti i concorrenti posseggono la qualifica soggettiva tipica: si applicherà l’art. 110 c.p. Il problema si pone se alcuni dei concorrenti non hanno la qualifica indicata dalla legge. L’art.117 c.p. regola questi casi: se un reato funzionale fosse commesso con il contributo di altri privo della condizione personale specifica, allora anche tale soggetto risponderebbe del reato funzionale. Nella bancarotta fraudolenta, dunque, l’amico che ad es. aiuti l’imprenditore, risponderebbe allo stesso titolo di bancarotta, sempre se conosce l’effettivo rilievo del fatto e della condotta risultante dalla qualifica soggettiva e dall’attività esercitata dall’imprenditore. Potrebbe rispondere a titolo diverso ove accanto alla fattispecie fallimentare se ne realizzasse un’altra, commissibile dall’estraneo. Analizzando più nel dettaglio l’elemento soggettivo di queste fattispecie, rileva la differenza tra dolo e colpa nell’ambito penale. Il dolo sussiste quando l’autore del reato agisce con volontà ed è cosciente delle conseguenze della sua azione o della sua omissione. Il dolo si compone di due elementi: rappresentazione e volontà. È richiesta la conoscenza della realtà nel concreto, cioè la consapevolezza degli elementi e un nesso psicologico tra evento e azione. La colpa sussiste quando l’autore del reato agisce con negligenza, imprudenza o imperizia; si caratterizza per l’assenza di volontà di alcuni o tutti gli elementi del fatto tipico. I REATI CONTRO L’ORDINE PUBBLICO Il titolo V del libro II del Codice Penale ( Art. 414- 421) è dedicato all’esame dei delitti contro l’ordine pubblico. Le accezioni Ordine Pubblico sono due: -ORDINE PUBBLICO in senso IDEALE o NORMATIVO; ossia l’insieme dei principi e delle istituzioni poste alla base dell’ordinamento e della sua sopravvivenza: -ORDINE PUBBLICO in senso MATERIALE, vale a dire concezione di pacifica convivenza, di buon assetto e regolare andamento del vivere civile. L’ordine pubblico è inteso come il complesso delle condizioni che assicurano la tranquillità e la sicurezza materiale di tutti i cittadini. Questa è la concezione accolta dal codice penale. PRINCIPALI FIGURE DELITTUOSE: reati di istigazione e reati di associazione A) Istigazione a delinquere e a disobbedire alle leggi (ISTIGARE VUOL DIRE INDURRE QUALCUNO A FARE QUALCOSA) Art. 414 c.p. Istigazione a delinquere: “Chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione: 1) con la reclusione da 1 a 5 anni ,se trattasi di istigazione a commettere delitti; 2)con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a 206 euro, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni. Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti o una o più contravvenzioni, si applica la pena stabilita nel numero 1. Alla pena stabilita nel n.1 soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti. La pena prevista dal presente comma nonché dal primo e dal secondo comma è aumentata se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici. Fuori dei casi di cui all’art.302, se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici”. Art. 414 bis c.p. Istigazione a pratiche di pedofilia e di pedopornografia: “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi forma di espressione, pubblicamente istiga a commettere, in danno di minorenni, uno o più delitti previsti dagli articoli 600 bis, 600 ter e 600 quater, anche se relativi al materiale pornografico di cui all’articolo 600 quater.1, 600 quinquies, 609 bis, 609 quater e 609 quinquies è punito con la reclusione da un anno e 6 mesi a 5 anni. Alla stessa pena soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti previsti dal primo comma. Non possono essere invocate, a propria scusa, ragioni o finalità di carattere artistico, letterario, storico o di costume”. Art.415 c.p. Istigazione a disobbedire alle leggi: “Chiunque pubblicamente istiga alla disobbedienza delle leggi di ordine pubblico, ovvero all’odio fra le classi sociali, è punito con la reclusione da 6 mesi a 5 anni.” Istigazione a delinquere: è un reato che deve essere commesso pubblicamente, cioè, col mezzo della stampa o con altro mezzo di propaganda; in luogo pubblico o aperto al pubblico in presenza di più persone; in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata. L’elemento materiale del delitto in esame è dato dall’istigazione. Istigare significa incitare a compiere determinati atti. Il reato si consuma per il solo fatto di istigare ed è unico anche se con lo stesso comportamento si istiga a commettere più reati. L’Art. 414 c.p. si differenzia dall’art. 115 c.p. in quanto quest’ultimo ci dice che l’istigazione, se non è seguita dalla commissione del reato, non è punibile. Invece, l’Art. 414 afferma che l’istigazione a delinquere diviene penalmente rilevante, e quindi punibile, anche se non è seguita dalla commissione del reato, quando sia esercitata pubblicamente. Quindi deve sussistere pubblicità nel comportamento di chi istiga. Soggetto attivo del reato può essere chiunque, mentre il soggetto passivo è lo Stato, titolare dell’interesse al mantenimento dell’ordine pubblico. La condotta incriminata Si articola nell’istigazione a commettere delitti, a commettere contravvenzioni, nell’istigazione a disobbedire a leggi di ordine pubblico o all’odio sociale. L’istigazione penalmente rilevante viene accostata all’eccitamento, quale azione che si esplica sulla psiche di altri soggetti per spingerli a compiere fatti determinanti. La formulazione letterale tace in merito ai soggetti destinatari della manifestazione istigatoria, affermando solamente che deve avvenire “pubblicamente”. Il requisito della pubblicità deve essere considerato elemento oggettivo costitutivo della fattispecie incriminatrice. Oggetto della condotta è la commissione di delitti o contravvenzioni: è sufficiente che il fatto istigato contenga i presupposti che consentano il suo inquadramento in uno o più tipi di reato previsti dall’ordinamento; in ogni caso il fatto criminoso oggetto di istigazione deve possedere una certa determinatezza tale da poterlo inquadrare nei suoi elementi fattuali. Si è in presenza di una disposizione a più norme: trattasi di norme cumulative costituite in un'unica disposizione. Ne consegue che la norma prevista nel comma 1, n.1 e quella del comma 1, n.2 dell’art.414 possono generare un concorso di reati, laddove il soggetto agente istighi con un’unica azione tanto al compimento di un delitto, quanto alla commissione di una contravvenzione. Sono invece in rapporto alternativo le ipotesi di istigazione a disobbedire a leggi di ordine pubblico o all’odio sociale, di cui all’art.415. Ai fini della sussistenza dell’ipotesi di cui all’art.415 occorre che l’istigazione induca a disobbedire a leggi di ordine pubblico: questo requisito esplicito delimita sia le leggi alla cui disobbedienza è illecito istigare, sia il bene giuridico protetto. Le leggi rilevanti ai fini dell’interpretazione della fattispecie di cui all’Art. 415 c.p. sono quelle dirette a mantenere la pubblica tranquillità e sicurezza, ossia l’ordine pubblico di polizia. Dolo e consumazione I delitti di istigazione di cui all’art.414 e i delitti di cui all’art.415 sono puniti a titolo di dolo generico, poiché occorre ai fini della loro integrazione: - la volontà e rappresentazione di incitare alla commissione di determinati reati; - la consapevolezza della loro illiceità; - la coscienza di agire pubblicamente. I reati in esame si consumano nel momento e nel luogo in cui è commesso il fatto di istigazione, prescindendo dall’effettivo buon fine dell’istigazione stessa. B) Apologia di reato Elemento oggettivo Il delitto previsto dall’art.414, comma 3 è quello che ha destato più problemi di compatibilità con i principi costituzionali, in particolare con l’art.21. Cost.: una qualsiasi adesione ad una attività altro non è che una manifestazione di pensiero. La corte cost. si è espressa sull’art. 414, comma 3 con la sent. n.65/1970, fornendo linee interpretative in riferimento al delitto ivi previsto. Il delitto in esame si sostanzia nell’esaltazione di un’attività di violazione delle norme penali, attraverso un giudizio che ne implichi l’approvazione, di modo che essa sia idonea a far sorgere il pericolo del compimento di ulteriori reati o a incidere su specifiche situazioni dalle quali derivi un pericolo diretto e immediato per l’ordine pubblico e per la sicurezza. Ai fini dell’integrazione dell’apologia occorre che il comportamento dell’agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da terminare il rischio effettivo della consumazione di altri reati. Si rimette al giudice l’accertamento dell’idoneità in concreto della potenzialità criminosa della condotta ad offendere l’ordine pubblico, senza però che vengano offerti parametri certi sui quali basare la verifica stessa. I REATI DI ASSOCIAZIONE ASSOCIAZIONE A DELINQUERE (Art. 416 c.p.) Tale reato si verifica quando tre o più persone si associano al fine di commettere più delitti. Anche il solo fatto di partecipare all'associazione è idoneo a integrare la fattispecie delittuosa, pur se (come vedremo) la pena è più lieve rispetto a quella prevista per coloro che promuovono, costituiscono o organizzano l'associazione. Da quanto detto risulta evidente che per la configurabilità dell'associazione per delinquere è sufficiente che vi siano un accordo associativo stabile e un programma di delinquenza volto a commettere una pluralità di delitti. L’associazione non richiede una organizzazione con distribuzione specifica dei compiti, essendo sufficiente quel minimo di organizzazione che serva ad attuare la continuità del programma criminoso avuto di mira. Il bene protetto è costituito dall'ordine pubblico, che risulterebbe minacciato dalla sola esistenza dell'associazione per delinquere: gli associati, infatti, vengono "...per ciò solo..." puniti, cioè per il solo fatto di appartenere all'associazione, indipendentemente dall'avere o meno compiuto i delitti contemplati dal programma di delinquenza. Questo perché il semplice fatto di essere a conoscenza dell'esistenza di un'associazione per delinquere genera inevitabilmente "allarme sociale" ovverosia mette in pericolo la tranquillità e la pace pubblica. Come si può notare, ciò costituisce una vistosa eccezione al principio generale sancito dall'art. 115 c.p. secondo cui "Salvo che la legge disponga altrimenti..." non è punibile colui il quale si accorda allo scopo di commettere un reato, quando l'accordo non sia seguito dalla commissione del reato medesimo". Il legislatore penale del '30 evidentemente ha ritenuto che la minaccia all'ordine pubblico derivante dall'esistenza stessa dell'associazione criminosa giustificasse l'anticipazione della soglia di punibilità al livello del pericolo costruendo così una tipica fattispecie di pericolo. La condotta è a forma libera. L'elemento soggettivo, invece, è rappresentato dal dolo specifico, ravvisabile nella coscienza e nella volontà di far parte di un'associazione composta da almeno tre persone con lo scopo di commettere più delitti. Il reato si consuma nel momento in cui nasce l'associazione perché è in questo stesso momento che sorge il pericolo per l'ordine pubblico: trattandosi di reato di pericolo, per la consumazione è indifferente la realizzazione dei reati programmati. L'associazione per delinquere è, come già anticipato, un tipico reato permanente per cui la consumazione si protrae finché l'associazione non si scioglie per il venir meno dei singoli associati o il compimento del programma di delinquenza. reato associativo anche senza far parte dell’associazione, ma perché, dall’esterno, ad essa venga dato un rilevante contributo (es. Un politico che agevola la realizzazione delle finalità di un’associazione mafiosa). In tale ipotesi si parla di concorso eventuale (art. 110) in un reato a concorso necessario: il concorso esterno. Assume le vesti di concorrente esterno il soggetto che, non inserito stabilmente nella struttura organizzativa dell'associazione e privo dell'affectio societatis, fornisce un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo che esplichi un'effettiva rilevanza causale e, quindi, si configuri come condizione necessaria per la conservazione e il rafforzamento delle capacità operative dell'associazione o, quanto meno, di un suo particolare settore, ramo di attività o articolazione territoriale e sia diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della medesima. Per sostenere che vi sia "concorso eventuale esterno" all'associazione di tipo mafioso, occorre dimostrare che il contributo sia stato causale alla vita associativa. Infatti, in base al principio dell'equivalenza causale previsto negli artt. 40 e seguenti c.p., tutte le condizioni che concorrono a produrre l'evento sono causa di esso. Diverse sono le sentenze della Cassazione relative alla figura del concorso eventuale nel reato di associazione mafiosa: -Sentenza Demitry (Sezioni Unite del 1994): Con la sentenza in commento si tentava di identificare la condotta punibile nei casi in cui contributo fosse coinciso a non meglio definiti stati "patologici" o di "fibrillazione" dell'associazione. Ciò che in realtà si voleva affermare con la sentenza Demitry è che lo spazio proprio del concorrente eventuale appare essere quello dell'emergenza nella vita dell'associazione. L'anormalità e la patologia possono esigere anche un solo contributo, il quale, dunque, può essere anche episodico, ovvero estrinsecarsi, appunto, in un unico intervento, purché consenta all'associazione di mantenersi in vita. Secondo la sentenza Demitry, il concorso eventuale si configura, non soltanto nel caso di concorso psicologico - nelle forme della determinazione e della istigazione nel momento in cui l'associazione viene costituita - ma anche successivamente quando il terzo non abbia voluto entrare a far parte dell'associazione o non sia stato accettato come socio e, tuttavia, presti all'associazione medesima un proprio contributo, a condizione che tale apporto, valutato ex ante, e in relazione alla dimensione lesiva del fatto e alla complessità della fattispecie, sia idoneo, se non al potenziamento, almeno al consolidamento e al mantenimento della organizzazione. -Sentenza Carnevale (Sezioni Unite 2002): Nel 2001 è intervenuta una pronuncia della Cassazione che ha reso necessario un nuovo chiarimento da parte della Corte Suprema. Le Sezioni Unite del 2002 hanno confermato la tesi favorevole al concorso esterno. figura del concorrente esterno ancorata all’effettiva rilevanza causale del contributo prestato dall’agente rispetto al mantenimento o al rafforzamento dell’organizzazione. Per quanto riguarda il dolo non solo si richiede quello diretto ma si chiarisce che anche per l’integrazione del concorso esterno è necessario verificare la sussistenza del dolo specifico. Così l’unico tratto distintivo rispetto al dolo del partecipe resta l’affectio. Secondo la sentenza Carnevale, il contributo punibile richiesto al concorrente deve poter essere apprezzato in termini di concretezza, specificità e rilevanza, e deve essere idoneo a determinare, sotto il profilo "causale", la conservazione o il rafforzamento dell'associazione. Occorre, in altre parole, il compimento di specifici interventi indirizzati a questo fine. Ciò che conta, infatti, non è la mera disponibilità dell' extranues a conferire il contributo richiesto dall'associazione, bensì l'effettività di tale contributo, e cioè che a seguito di un impulso proveniente dall'ente criminale il soggetto si sia di fatto attivato nel senso indicatogli. In sintesi, la sentenza Carnevale si distacca per almeno due aspetti dagli enunciati della sentenza Demitry: 1) non è più richiesto che il contributo del concorrente esterno sia apportato in momento di "fibrillazione" dell'associazione di intensità tale che, senza di esso, la societas sceleris andrebbe inevitabilmente incontro alla sua dispersione o scomparsa; 2) per la struttura del dolo della condotta del concorrente esterno, nel senso che questo non deve solo rappresentarsi, ma anche volere che, attraverso il suo contributo, siano realizzati i fini dell'associazione o, meglio, che la sua condotta sia diretta finalisticamente a realizzare l'evento rappresentato dalla "sussistenza ed operatività" del sodalizio. Si afferma, quindi, un modello causalmente orientato di concorso esterno, ove l'evento, coperto dal necessario dolo diretto, è rappresentato dalla conservazione o dal rafforzamento dell'associazione criminosa in questione ed è realizzato, con consapevole condotta a forma libera, non necessariamente continuativa, e con condivisione dei fini generali, da un soggetto che non può dirsi, ne vuole essere, stabilmente inserito nell'organigramma associativo. -Sentenza Mannino (Sezioni Unite 2005): Nel 2005 la sentenza Mannino bis ha chiarito che la condotta di partecipazione presuppone un “rapporto stabile e organica compenetrazione con il tessuto organizzativo del sodalizio, di modo che l’affiliato, ricoprendo un ruolo funzionale alla realizzazione del programma criminoso, si metta a disposizione dello stesso. Il concorrente esterno è definito come colui che privo dell’affectio societatis e, quindi, estraneo alla compagine associativa, “fornisce tuttavia un concreto, specifico, consapevole e volontario contributo, sempre che questo abbia un’effettiva rilevanza causale ai fini della conservazione o del rafforzamento delle capacità operative dell’associazione e sia comunque diretto alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso della stessa”. La Suprema Corte chiarisce come l’effettiva rilevanza causale va dimostrata in conformità ai principi generali in tema di concorso di persone nel reato, nel senso che occorre verificare rigorosamente che il contributo del concorrente esterno, di natura materiale o morale, sia stato condizione necessaria, oltre ogni ragionevole dubbio, per la consumazione del reato di cui all’art. 416 bis c.p., e per la conseguente lesione del bene giuridico protetto. E’ ribadita la necessità che l’exstraneus agisca con la consapevolezza del metodo e delle finalità dell’associazione mafiosa e con la volontà di contribuire con la propria condotta alla realizzazione, anche parziale, del programma criminoso. Concorrente necessario (Affiliato/partecipe) (Soggetto interno) Concorrente eventuale (Soggetto "esterno") Realizza gli scopi dell'associazione Contribuisce a realizzare gli scopi dell'associazione Elemento oggettivo (c.d. condotta tipica) consiste nel far parte dell'associazione. Far parte significa avere un rapporto stabile e continuativo. Occorre un grado di compenetrazione del soggetto con l'organismo criminale, tale da potersi sostenere che egli, appunto, faccia parte di esso, vi sia stabilmente incardinato, con determinati e continui, compiti, anche per settori di competenza. L'inserimento nell'organizzazione sussiste anche a prescindere da rituali di iniziazione o formalità che lo ufficializzano, ben potendo risultare "per facta concludentia". Elemento oggettivo (c.d. condotta atipica) consiste nel dare un contributo morale o materiale idoneo al potenziamento o almeno al consolidamento o mantenimento dell'organizzazione. Il contributo può essere continuativo ma anche episodico, purché funzionale al mantenimento in vita dell'ente, non deve riguardare singoli appartenenti ma l'intera organizzazione, non deve riguardare singoli fatti criminali. La condotta atipica, per essere rilevante, deve contribuire alla realizzazione della condotta partecipativa posta in essere da altri, purché rimanga un contributo esterno. Elemento soggettivo (dolo specifico) volontà di far parte dell'associazione e fine di voler contribuire alla realizzazione degli scopi della stessa (affectio societatis). Il partecipe, volendo far parte dell'associazione, ne condivide gli scopi e le strategie complessive. Si tratta di condotte illecite, sia in condotte di per sé lecite, ma che diventano penalmente perseguibili in quanto realizzate con la consapevolezza di far parte del sodalizio criminoso e con la volontà di operare al fine di conservare ovvero rafforzarne la struttura. Elemento soggettivo (dolo specifico/generico) consapevolezza e volontà di contribuire ad agevolare o rafforzare l'associazione. Il concorrente eventuale non vuole far parte dell'organizzazione. Non rileva il contributo dato perseguendo fini propri dell'agente, ma solo il contributo finalizzato ad aiutare l'organizzazione. Il concorrente eventuale pur consapevole di agevolare, con quel suo contributo l'associazione, può disinteressarsi della strategia complessiva di quest'ultima, degli obiettivi che la stessa si propone di conseguire. SCAMBIO ELETTORALE POLITICO-MAFIOSO Art.416 ter c. p. Scambio elettorale politico-mafioso: “Chiunque accetta la promessa di procurare voti mediante le modalità di cui al terzo comma dell’art. 416 bis in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione di denaro o altra utilità è punito con la reclusione da 4 a 10 anni. La stessa pena si applica a chi promette di procurare voti con le modalità di cui al primo comma”. Con l’art.416 ter introdotto dal d.l. n.306/1992 il legislatore ha voluto sanzionare mediante una specifica norma incriminatrice la contiguità politico-mafiosa. La scarsa applicazione pratica della fattispecie conseguente alla ben più frequente ipotesi in cui il politico chiede l’appoggio elettorale all’organizzazione criminale in cambio di favori da eseguire una volta eletto, è dimostrata dalla giurisprudenza che riconduce tale ipotesi alla figura del concorso esterno in associazione di tipo mafioso. Sono nel caso dell’art.416 bis l’effettivo procacciamento di voti e la promessa di voti contro favori integra i delitti-fine di coercizione e corruzione. Ciò è escluso per specialità della norma incriminatrice rispetto ai suddetti illeciti, nel caso dell’art.416 ter. Quanto detto è confermato dalla struttura del reato di scambio politico-mafioso che anticipa la soglia della tutela penale dei bei protetti, ordine pubblico e democratico, al momento della promessa dello scambio senza dunque richiedere per il suo perfezionamento l’effettivo procacciamento dei voti mediante il metodo mafioso. Il delitto in esame si considera dunque un reato di pericolo concreto. DELITTI CONTRO LA FEDE PUBBLICA I Delitti contro la Fede Pubblica sono disciplinati dal libro secondo titolo VII del Codice Penale. A sua volta il Titolo VII si divide in quattro capi di cui il primo tratta del reato di falsità in monete, il secondo della falsità in sigilli, il terzo della falsità in atti ed il quarto della falsità personale. Tutte queste norme sono volte a tutelare la fede pubblica intesa come fiducia che la collettività ripone negli strumenti (monete, carte di pubblico credito, etc..) cui l’ordinamento giuridico attribuisce un determinato valore. A questo punto è necessario distinguere, analizzando tali reati, i due concetti di falso: quello materiale e quello ideologico, Si parla di Falso Materiale quando il documento o il bene cui ci si riferisce non è genuino e dunque si può dire che esso è contraffatto. Si parla invece di Falso Ideologico quando il documento non risulta né contraffatto né alterato ma ciò che è falso sono invece le dichiarazioni ivi contenute. Dunque perché il concetto di Falso possa avere rilevanza a livello giuridico – e dunque il comportamento possa integrare gli estremi del reato - è necessario che la falsità sia in grado di trarre in inganno le persone facendo credere che il documento contraffatto sia originale o le dichiarazioni false ivi contenute siano invece vere. A sua volta il concetto di “Falso” può essere inteso come: Falso grossolano, Falso innocuo o Falso inutile. Si ha falso grossolano quando il Falso è talmente riconoscibile che non potrebbe trarre in inganno nessuno(es. una banconota la cui falsità è immediatamente riconoscibile a vista, essendo notevolmente più piccola rispetto a quella avente corso legale). Si ha falso innocuo quando detto falso non è grossolano ma comunque è tale da non trarre in inganno la collettività mentre si ha il falso inutile quando viene falsificato un documento giuridicamente inesistente. Discusso è il problema dell’oggetto giuridico di tali reati. Infatti, secondo la dottrina meno recente, esso andrebbe individuato nella FEDE PUBBLICA, cioè nella fiducia che la collettività ripone negli oggetti segni e forme esteriori (monete, emblemi, documenti) cui l’ordinamento riconosce valore probatorio; maggiori consensi riscuote, invece, la tesi secondo cui l’oggetto giuridico è duplice in quanto, tali reati offendono simultaneamente e concretamente due interessi giuridici quali la fede pubblica e l’interesse specifico tutelato dalla genuinità e veridicità dei mezzi di prova (sono quindi reati plurioffensivi). Quanto alla punibilità dei reati di falso, è necessario che la falsità sia giuridicamente rilevante ossia idonea ad offendere gli interessi specifici tutelati dall’oggetto materiale di essa (cioè deve produrre danno o pericolo). Chiunque realizzi una condotta di falso, normalmente, oltre ad offendere la fede pubblica, agisce per uno scopo ulteriore che si eleva a vero obiettivo dell’attività criminosa nel caso concreto, denotando la ratio dell’incriminazione. Muovendo dall’assunto, secondo cui il falso non è mai fine a se stesso, ma collegato alla realizzazione di risultati che stanno oltre la falsificazione, si è ritenuto opportuno dare rilevanza anche a questi ulteriori interessi perseguiti tramite il falso. Ne deriva, secondo la teoria della plurioffensività, che ogni condotta di falsità che ricada su uno dei diversi oggetti volti a garantire la fiducia e la sicurezza del traffico economico e/o giuridico, risulterà lesiva non solo di tale interesse, ma altresì del singolo bene specifico alla cui tutela il documento falsificato utilizzato era preordinato (e che, quindi, l’interesse generale alla pubblica fede è funzionale alla tutela dell’interesse). Le conseguenze sul piano pratico di questa tesi sono diverse. Anzitutto titolare dell’interesse passivo leso non è solo lo Stato – collettività ma anche il singolo titolare dell’interesse “specifico” leso dalla falsità: “se unico oggetto giuridico dei reati in esame Il reato sanzionato dall'articolo 372 del codice penale è un reato proprio: la falsa testimonianza, infatti, è ascrivibile unicamente a chi riveste la qualifica giuridica di testimone in sede civile o penale. Il soggetto passivo del reato, invece, va individuato nello Stato-collettività e non direttamente nel privato che si ritenga eventualmente danneggiato dalla dichiarazione mendace o dal silenzio del teste. È in generale lo Stato-collettività che ha interesse a che l'attività giurisdizionale sia svolta in maniera corretta e ordinata. Venendo all'elemento oggettivo del reato, la condotta è integrabile sia mediante commissione (dichiarazione mendace) che mediante omissione (reticenza) in riferimento ai fatti oggetto di deposizione pertinenti e rilevanti ai fini del giudizio. Trattandosi di reato di pericolo, è sufficiente che la falsa testimonianza sia idonea ad influire sull'esito del processo senza che necessariamente il giudizio debba concludersi con una sentenza erronea. È appena il caso di precisare che il momento consumativo della falsa testimonianza coincide con l'espletamento della prova testimoniale e il conseguente esaurimento di tutte le domande formulate al teste. La natura di reato unisussistente e di pericolo della falsa testimonianza impedisce la configurabilità del tentativo. Per quanto riguarda l'elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, ovvero la consapevolezza e la volontà di affermare il falso, negare il vero o tacere, rimanendo indifferente l'obiettivo concretamente avuto di mira dall'agente. Le forme con le quali la falsa testimonianza può manifestarsi sono tre: affermazione del falso negazione del vero reticenza Quindi, non solo il negare qualcosa che si sa essere vero o l'affermare qualcosa che si sa essere falso: il nostro ordinamento punisce anche il tacere in tutto o in parte fatti di cui si ha conoscenza. È importante sottolineare che la falsità deve essere valutata non in senso assoluto ma tenendo conto di quanto effettivamente il teste conosca. A tal proposito si parla di "vero soggettivo". La pena prevista per la falsa testimonianza è quella della reclusione da due a sei anni. Qualora per effetto della falsa testimonianza il giudice pronunci sentenza di condanna alla reclusione o all'ergastolo, sono previsti aumenti di pena proporzionali all'entità della pena inflitta all'imputato. In tale ipotesi, pertanto, la falsa testimonianza è qualificabile quale reato aggravato dall'evento e le aggravanti hanno natura obiettiva ex art 70 c.p. In particolare, in applicazione dell'art. 375 c.p.: - se dal fatto deriva una condanna alla reclusione non superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da tre ad otto anni; - se dal fatto deriva una condanna alla reclusione superiore a cinque anni, la pena è della reclusione da quattro a dodici anni; - se dal fatto deriva una condanna all'ergastolo, la pena è della reclusione da sei a venti anni. Ritrattazione e cause di non punibilità Secondo quanto disposto dall'art. 376 c.p., è esclusa la punibilità del soggetto attivo che, non oltre la chiusura del dibattimento e nel medesimo procedimento (in sede penale) o la pronuncia della sentenza definitiva (in sede civile), ritratti il falso e manifesti il vero. La ritrattazione, quindi, consiste in una smentita inequivoca del fatto oggetto di deposizione accompagnata dalla dichiarazione veritiera in ordine al medesimo fatto; tale fattispecie è identificata da parte di dottrina e giurisprudenza quale esimente, mentre da altra parte quale scriminante. L'art. 384 c.p. prevede quali cause di giustificazione le ipotesi in cui la falsa testimonianza sia stata commessa da chi vi sia stato costretto per salvare sè stesso o un prossimo congiunto da un grave ed inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore (c. 1), ovvero da chi per legge non avrebbe dovuto essere assunto come testimone, o non avrebbe potuto essere obbligato a deporre o comunque rispondere, o avrebbe dovuto essere avvertito della facoltà di astenersi dal rendere testimonianza (c. 2). Come dimostrare la falsa testimonianza Dimostrare che c'è stata una falsa testimonianza può essere fondamentale per le sorti di un processo civile o penale. Per farlo è necessario, innanzitutto, procurarsi i verbali di causa relativi alla deposizione testimoniale. È poi fondamentale acquisire la documentazione o gli altri elementi (anche altre dichiarazioni) idonei a provare che quanto affermato dal teste non corrisponde al vero o che egli si è dimostrato reticente rispetto a qualcosa che conosceva. Ad esempio sarà utile acquisire documentazione idonea a dimostrare che il teste, al momento del fatto sul quale ha deposto, si trovava altrove o che, per altro motivo, non poteva avervi assistito. La persona che ha assistito a un fatto o che comunque ha informazioni su di un fatto rilevante in un processo penale può essere citata e sentita in qualità di testimone. In particolare:  la persona informata sui fatti è chiamata a rendere dichiarazioni durante le indagini, di fronte al P.M. o alla Polizia Giudiziaria al tal fine delegata;  il testimone è chiamato a rendere dichiarazioni durante il processo, di fronte al Giudice. SEZIONE III: Il reato di frode in processo penale e depistaggio (art. 375 c.p.) Art. 375. Frode in processo penale e depistaggio: “1.Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da 3 a 8 anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale: a)immuta artificiosamente il corpo del reato ovvero lo stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato; b)richiesto dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria di fornire informazioni in un procedimento penale, afferma il falso o nega il vero, ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito. 2.Se il fatto è commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte, ovvero formazione o artificiosa alterazione, in tutto o in parte, di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta del reato o al suo accertamento, la pena è aumentata da un terzo alla metà. 3.Se il fatto è commesso in relazione a procedimenti concernenti i delitti di cui agli articoli 270, 270 bis, 276, 280, 280 bis, 283,284,285,289 bis, 304,305,306,416 bis, 416 ter e 422 o i reati previsti dall’articolo 2 della legge 25 gennaio 1982, n. 17, ovvero i reati concernenti il traffico illegale di armi o di materiale nucleare, chimico o biologico e comunque tutti i reati di cui all’articolo 51, comma 3 bis, del codice di procedura penale, si applica la pena della reclusione da 6 a 12 anni. 4.La pena è diminuita dalla metà a due terzi nei confronti di colui che si adopera per ripristinare lo stato originario dei luoghi, delle cose, delle persone o delle prove, nonché per evitare che l'attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori, ovvero aiuta concretamente l'autorità di polizia o l'autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto oggetto di inquinamento processuale e depistaggio e nell'individuazione degli autori. 5.Le circostanze attenuanti diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 114 e dal quarto comma, concorrenti con le aggravanti di cui al secondo e al terzo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste ultime e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall'aumento conseguente alle predette aggravanti. La condanna alla reclusione superiore a tre anni comporta l'interdizione perpetua dai pubblici uffici. 6.La pena di cui ai commi precedenti si applica anche quando il pubblico ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio siano cessati dal loro ufficio o servizio. 7. La punibilità è esclusa se si tratta di reato per cui non si può procedere che in seguito a querela, richiesta o istanza, e questa non è stata presentata. 8. Le disposizioni del presente articolo si applicano anche alle indagini e ai processi della Corte penale internazionale in ordine ai crimini definiti dallo Statuto della Corte medesima. FAVOREGGIAMENTO PERSONALE (ART. 378 c.p.) Questo reato viene consumato se l’agente aiuta un altro soggetto che abbia in precedenza commesso un reato a eludere le investigazioni della polizia giudiziaria o sottrarsi alle ricerche. Una simile condotta si può estrinsecare sia fornendo notizie mendaci all’autorità, sia nascondendo fisicamente il soggetto indagato. La prima ipotesi è rappresentata ad esempio dal caso di Tizio il quale, dopo la commissione di un delitto di omicidio, interrogato come persona informata sui fatti dalla polizia giudiziaria operante su delega del pubblico ministero, fornisca notizie false intorno ai fatti di cui è a conoscenza, consapevole di favorire Caio, indagato. La seconda ipotesi è invece illustrata dal caso di Sempronio il quale ospita nella propria abitazione Mevio, appena evaso dal carcere, consapevole della sua condizione e, quindi, di ostacolarne le ricerche dell’autorità. Il reato di favoreggiamento presuppone la precedente commissione di un delitto per il quale il legislatore commina la pena della reclusione o dell’ergastolo. L’aiutante non deve essere un concorrente nella commissione del delitto. L’ultimo comma dell’articolo 378 del codice penale prevede la possibilità che nemmeno l’aiutato sia responsabile di questo delitto. Il favoreggiamento è un reato contro l’amministrazione della giustizia, intesa come attività tipica del potere giudiziario. Nel codice penale Zanardelli era previsto come un unico reato, che comprendeva sia il Favoreggiamento reale e personale. L’attuale codice penale, ha distinto le due figure, perché gli interessi tutelati sono diversi. Il favoreggiamento personale tutela il corretto funzionamento dell’amministrazione della giustizia, mentre il Favoreggiamento reale ha il compito di impedire che i vantaggi economici ottenuti con azioni criminose possano diventare definitivi. La condotta consiste nell’aiuto inteso come qualunque atteggiamento, positivo o negativo, che miri a intralciare o rendere vana l’azione di investigazione dell’Autorità. Si tratta di un reato di pericolo, realizzabile con qualunque comportamento astrattamente idoneo a intralciare il corso della giustizia. Costituisce causa di non punibilità l’avere commesso il fatto per esserci stato costretto dalla necessità di salvare sé o un prossimo congiunto da un grave e inevitabile nocumento nella libertà o nell’onore. Il dolo è generico e consiste nella coscienza e volontà di prestare aiuto con la consapevolezza che il soggetto aiutato è o può essere sospettato di avere commesso il reato e che l’aiuto può sviare le indagini dell’Autorità. Si è in presenza del reato aggravato quando il delitto commesso dall’aiutato è quello di associazione di tipo mafioso , oppure quando il fatto è commesso da persona sottoposta, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione durante l’applicazione, e sino a tre anni da quando è cessata l’esecuzione. Il reato è attenuato quando il delitto commesso dall’aiutato sia una contravvenzione o un delitto per il quale la legge stabilisce una pena diversa. A norma dell’articolo 379 del codice penale, risponde di favoreggiamento reale, chiunque fuori dei casi di concorso di reato e della ricettazione, aiuta qualcuno nell’assicurare il prodotto o il profitto o il prezzo di un reato. Il giudizio sulla antigiuridicità del fatto tipico di favoreggiamento personale è reso particolarmente problematico dal rapporto, talvolta conflittuale, tra la corretta amministrazione della giustizia e lo svolgimento dell'attività difensiva. Ad esempio: Tizio, difensore di Caio che, indagato per associazione sovversiva, si trova ristretto in un istituto penitenziario in esecuzione di una ordinanza di custodia cautelare in carcere, accetta di portare al di fuori dell’istituto alcune lettere da costui manoscritte, che devono essere consegnate a Sempronio. Le lettere, del contenuto delle quali Tizio e consapevole, contengono istruzioni rivolte a Sempronio, che dovrà essere sentito a sommarie informazioni testimoniali dalla polizia giudiziaria, sono finalizzate a sviare un’indagine in corso. Essendo il gesto di Tizio estraneo alla funzione difensiva, non sarà scriminabile il fatto tipico di favoreggiamento commesso dal difensore, in quanto questi ha contribuito a sviare le indagini. Invece, se il difensore, durante la fase delle indagini, consiglia al suo assistito di evitare, nel corso delle conversazioni telefoniche, l’uso di espressioni ambigue, come tali suscettibili di interpretazioni sfavorevoli, egli non potrà essere accusato di favoreggiamento personale. L’esercizio del diritto di difesa implica la libertà delle comunicazioni aventi ad oggetto i fatti legittimamente conosciuti dall’avvocato, così ad esempio se l’avvocato, dopo aver legittimamente preso visione di taluni atti processuali dai quali emergono indizi di colpevolezza a carico del proprio assistito in ordine al reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, lo informa di ciò, prospettandogli il rischio di essere destinatario di un’ordinanza di custodia cautelare in carcere, non potrà essere accusato di favoreggiamento personale in quanto non ha fatto altro che esercitare legittimamente la propria funzione di difensore. I REATI DEI PUBBLICI UFFICIALI CONTRO LA P.A. Il titolo II del libro II del codice penale disciplina i delitti contro la PA, intesa quale insieme degli organi e delle attività preordinati al perseguimento degli scopi di pubblico interesse. In tale titolo sono compresi tutti quei fatti che impediscono, ostacolano o turbano il regolare svolgimento dell’attività amministrativa, legislativa e giudiziaria dello Stato, nonché dell’attività amministrativa degli enti pubblici. Oggetto giuridico della tutela penale in tali delitti è, pertanto, il regolare funzionamento, l’imparzialità ed il prestigio degli enti pubblici nonché dei soggetti che li rappresentano. Il legislatore ha distinto i delitti in questione in due grandi categorie: quelli commessi dai pubblici L’agente realizza un “abuso” dei poteri e delle qualità connesse all’esercizio della funzione o del servizio, così ledendo i beni dell’imparzialità e del buon andamento della P.A.; solo in via mediata risulterà offesa l’altrui sfera patrimoniale. L’oggetto materiale del reato è costituito dal denaro o altra utilità. Non è necessario che la ricezione/ritenzione trovino la propria causa nell’esercizio della funzione o del servizio, piuttosto è l’errore in cui versa il soggetto passivo a determinare il comportamento tipico. L’agente pubblico si giova di un preesistente errore, la sua condotta è agevolata dall’errore altrui, errore che può vertere sull’esistenza del dovuto, come sull’entità del dovuto ma anche sul reale creditore. Il soggetto attivo deve ricevere/ritenere indebitamente, avverbio che vale solo a marcare la differenza tra la previsione delittuosa in esame e il peculato comune. Il dolo consiste nella rappresentazione dell’errore in cui altri versa, unita alla volontà di appropriarsi del denaro o dell’utilità per sé o per un terzo. Malversazione a danno dello Stato (art. 316 bis c.p.) Art. 316 bis c.p. Malversazione a danno dello Stato: “Chiunque, estraneo alla P.A., avendo ottenuto dallo Stato o da altro ente pubblico o dalla Comunità europea contributi, sovvenzioni o finanziamenti destinati a favorire iniziative dirette alla realizzazione di opere od allo svolgimento di attività di pubblico interesse, non li destina alle predette finalità, è punito con la reclusione da 6 mesi a 4 anni”. Il legislatore ha inteso tutelare l’interesse dello Stato, di altre P.A. o, dal 1992, della Comunità europea alla destinazione effettiva degli strumenti di sostegno finanziario erogati alla realizzazione delle attività economiche di pubblico interesse. Presupposto della condotta ed elemento costitutivo del reato è “l’ottenimento di contributi, sovvenzioni o finanziamenti”, termini che indicano l’ausilio economico di qualunque tipo destinato alla realizzazione di attività di pubblico interesse. E’ necessario che esista un vincolo di destinazione, che l’attività sia da intraprendere o non sia stata portata a compimento. La condotta costitutiva del reato consiste nella semplice “non destinazione” dei fondi ottenuti agli scopi programmati. La “non destinazione” potrà consistere sia nella “distrazione” verso finalità diverse, sia nella semplice “non utilizzazione delle risorse” ma anche nel mancato adempimento entro il termine prefissato ove il termine presenti carattere essenziale. Il delitto è un delitto omissivo istantaneo che si consuma con la “non destinazione” dei fondi agli scopi preassegnati. Il tentativo non è configurabile; quando l’agente infatti prima della scadenza del termine, abbia volontariamente reso impossibile l’adempimento, la fattispecie tipica risulterà integrata. Il dolo è generico e consiste nella volontaria distrazione della erogazione dalle finalità di interesse pubblico a scopi incompatibili col soddisfacimento di esse. Per il reato di malversazione a danno dello Stato, oltre alla responsabilità penale dell’agente, è pevista la responsabilità amministrativa da reato degli enti forniti di personalità giuridica, delle società e delle associazioni anche prive di tale personalità (con eccezione dello Stato, enti pubblici regionali, enti pubblici non economici e enti aventi funzioni costituzionali). Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato (art. 316 ter c.p.) Art. 316 ter. Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato: “Salvo che il fatto costituisca il reato previsto dall’art. 640 bis, chiunque mediante l’utilizzo o la presentazione di dichiarazioni o di documenti falsi o attestanti cose non vere, o mediante l’omissione di informazioni dovute, consegue indebitamente, per sé o per altri, contributi, finanziamenti, mutui agevolati o altre erogazioni dello stesso tipo, comunque denominate, concessi o erogati dallo Stato, da altri enti pubblici o dalle Comunità europee è punito con la reclusione da 6 mesi a 3 anni. Quando la somma indebitamente percepita è pari o inferiore a euro 3.999,96 si applica soltanto la sanzione amministrativa del pagamento di una somma di denaro da 5164 a 25.822 euro. Tale sanzione non può comunque superare il triplo del beneficio conseguito”. La condotta costitutiva è integrata dall’utilizzazione dichiarazioni verbali, documenti falsi o mancate informazioni doverose da cui derivi l’ottenimento di un finanziamento non conseguibile. Il dolo si consuma con il ricevimento degli aiuti economici ed è generico consistendo nella consapevolezza della falsità o incompletezza delle dichiarazioni fornite e nella volontà di ottenere quegli aiuti non spettanti. Anche qui è prevista la responsabilità amministrativa da reato dell’ente. LE FATTISPECIE DI ABUSO L’abuso di ufficio (art. 323 c.p.) Art. 323 c.p. Abuso di ufficio: “Salvo che il fatto non costituisca un più grave reato, il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamento, ovvero omettendo di astenersi in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, intenzionalmente procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale o arreca ad altri un danno ingiusto è punito con la reclusione da 1 anno a 4 anni. La pena è aumentata nei casi in cui il vantaggio o il danno hanno un carattere di rilevante gravità”. (esempio: il sindaco che rilascia una concessione edilizia illegittima ad un congiunto, per favorirlo). Soggetti attivi possono essere sia il pubblico ufficiale che l’incaricato di pubblico servizio. Non è applicabile l’art. 360 c.p. essendo richiesto lo svolgimento della funzione o del servizio. Il soggetto pubblico agisce con “abuso di poteri”, tornando così all’impostazione originaria: la condotta abusiva deve inerire all’attività propria dell’agente e dunque collegata all’esercizio dei poteri non solo sul piano temporale, ma anche funzionale. Non rileverà il mero abuso della qualità e il semplice sfruttamento della condizione personale. Soggetto passivo è la P.A. quale titolare degli interessi oggetto di tutela, che sono appunto il buon andamento e l’imparzialità dell’agire amministrativo. La condotta di abuso La condotta costitutiva del reato consiste in un abuso realizzato “in violazione di norme di legge o regolamento” o con un abuso consistente nell’ “omessa osservanza di un obbligo di astensione”. Non basta quindi un mero eccesso di potere, non ancorato alla violazione di specifiche norme, ad integrare il delitto. Il comportamento tenuto dal pubblico agente rileva solo se contrario a regole prescritte prefissate. Dovrà trattarsi di norme che dispongono regole attinenti al concreto esercizio della funzione o del servizio, dal contenuto delimitato e non di principi e direttive generali cui deve conformarsi l’azione amministrativa. Per regolamento deve intendersi la fonte sub- primaria adottata tramite un iter legislativamente disciplinato o un regolamento emanato in base a una potestà normativa attribuita dalla legge (dunque ne sono esclusi le circolari e i provvedimenti amministrativi in quanto atti generali, di programmazione o di pianificazione). Secondo la Cassazione, sussiste il requisito della violazione di legge non solo quando la condotta del pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione (cass. N 155/2012). La seconda forma rappresenta l’area di operatività dell’abrogato interesse privato in atti di ufficio o di quelle situazioni di conflitto di interessi che assumono rilevanza quando attraverso una condotta abusiva l’agente realizzi uno degli eventi normativamente previsti (ingiusto vantaggio patrimoniale- danno ingiusto). L’evento del reato. L’ingiustizia del vantaggio o del danno La verificazione del vantaggio patrimoniale e danno sono essenziali per la consumazione del reato dopo la riforma del ’90 (prima della quale costituivano la finalità perseguita dal pubblico agente). Risulta rafforzata la componente oggettiva del fatto illecito. Il vantaggio per sé o per altri può essere esclusivamente patrimoniale (non solo in termini di incremento economico ma come evenienza migliorativa apprezzabile in termini economici come l’illegittima dichiarazione di edificabilità di un suolo). Il danno arrecato ad altri potrà invece consistere in un qualunque pregiudizio pure di natura morale. E’ necessario che siano ingiusti. Consumazione del reato. Elemento psicologico Il delitto si consuma con il verificarsi dell’ingiusto vantaggio patrimoniale o dell’ingiusto danno. Il tentativo è ammissibile. Il dolo consiste nella consapevolezza da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato del pubblico servizio di svolgere la funzione o il servizio e nella volontà di violare una legge o un regolamento o nella volontà consapevole di non osservare un obbligo di astensione. La norma inoltre prevede che il pubblico agente abbia “intenzionalmente” procurato il vantaggio o il danno; dovrà avere una rappresentazione e volizione piena e certa delle conseguenze vantaggiose o dannose del proprio operato. L’errore sul fatto o di diritto extra-penale che cada sul requisito dell’ingiustizia o sulla violazione delle norme attinenti l’esercizio del servizio o della funzione escludono il dolo. La circostanza aggravante speciale. Il concorso eventuale di persone nel reato Il comma 2 dell’art. 323 c.p. prevede una circostanza aggravante speciale per le ipotesi in cui il vantaggio o il danno abbia carattere di rilevante gravità. Per configurare il concorso dell’exstraneus deve essere provata l’intesa intercorsa col pubblico funzionario o la sussistenza di pressioni o sollecitazioni dirette ad influenzarlo, non potendo dedursi tale collusione dalla semplice presentazione dell’istanza e dal suo accoglimento. I DELITTI DI CORRUZIONE (ART. 318 S.) La corruzione è un fenomeno che si verifica quando un soggetto agisce contro i propri doveri e i propri obblighi a fronte del conseguimento di denaro o altre utilità. Alla corruzione il nostro ordinamento attribuisce rilevanza penale, riconducendola nel novero dei reati contro la pubblica amministrazione. La corruzione, disciplinata dagli articoli 318 e seguenti del codice penale, è un reato plurisoggettivo (più precisamente, bilaterale) a concorso necessario. Detto in parole semplici, la corruzione si verifica quando un privato e un pubblico funzionario si accordano perché il primo corrisponda al secondo un compenso (non dovuto) per un atto in vario modo attinente alle attribuzioni di quest'ultimo. L'ipotesi di corruzione comunemente considerata più grave, e punita più pesantemente - poiché maggiormente nociva del buon funzionamento dell'amministrazione - è quella c.d. propria, disciplinata all'art. 319 c.p.. Tale è la fattispecie in cui un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio accetta la dazione o la promessa di denaro o altra utilità per omettere o ritardare il compimento di un atto del suo ufficio, ovvero per compiere un atto contrario ai doveri del suo ufficio. È detto invece corruzione impropria - ex art. 318 c.p. - il reato del pubblico ufficiale (o incaricato di pubblico servizio) che accetti la prestazione o la promessa di denaro o altra utilità in cambio del compimento di un atto del suo ufficio. In questo caso, in effetti, il funzionario pubblico pone in essere un atto che avrebbe comunque dovuto compiere, e il disvalore della condotta sta soltanto nel compenso. Con la legge anticorruzione, approvata a dicembre 2018, le pene previste per la corruzione sono state inasprite. In particolare, la recente legge ha previsto che per la corruzione per l'esercizio della funzione (cd. corruzione impropria), la pena non è più quella della reclusione da uno a sei anni, ma quella dalla reclusione da tre a otto anni. La corruzione sia propria che impropria può essere antecedente o susseguente. È detta antecedente quando la retribuzione è pattuita anteriormente al compimento dell’atto e al fine di compierlo, mentre è detta susseguente quando la retribuzione è relativa a un atto contrario ai doveri d’ufficio compiuti. Le norme sulla corruzione sono state oggetto di sostanziali correttivi ad opera della L. n 190 del 2012, nota come legge anticorruzione. In particolare, prima della riforma del 2012, il codice distingueva due tipi di corruzione: quella propria, prevista dall’art. 319 ed avente ad oggetto l’omissione o il ritardo di un atto d’ufficio, oppure il compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio; quella impropria, disciplinata dall’art. 318, per la quale oggetto del mercimonio era il compimento di un atto d’ufficio. Nell’ambito di ciascuna figura, poi, si distingueva tra corruzione antecedente, che si ha quando il fatto di corruzione si riferisce ad un atto che il funzionario deve ancora compiere; corruzione susseguente, che si ha quando il fatto di corruzione si riferisce ad un atto che il funzionamento ha già compiuto. Corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.) Art. 318. Corruzione per l’esercizio della funzione: “Il pubblico ufficiale, che, per l'esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri, riceve indebitamente, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a sei anni. Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 c.p.) Art. 319 c.p. Corruzione per un atto contrario ai doveri di ufficio: “Il pubblico ufficiale, che, per omettere o ritardare o per aver omesso o ritardato un atto del suo ufficio, ovvero per compiere o per aver compiuto un atto contrario ai doveri di ufficio, riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da 6 a 10 anni”. (esempio. L’agente di P.S. che, dopo aver sorpreso un ladro in flagranza di reato, accetta l’offerta di questi di consegnargli una determinata somma di denaro per non farsi arrestare).
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