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riassunto Procedura Penale Paolo Tonini, Appunti di Diritto Processuale Penale

riassunto di procedura penale, i soggetti del processo penale, indagini preliminari , udienza preliminare, mezzi di prova, mesi di ricerca della prova, procedimenti speciali

Tipologia: Appunti

2015/2016
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Caricato il 27/01/2016

dikedike
dikedike 🇮🇹

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Scarica riassunto Procedura Penale Paolo Tonini e più Appunti in PDF di Diritto Processuale Penale solo su Docsity! Parte Seconda PROFILI GENERALI Capitolo I I soggetti del procedimento penale 1. Procedimento e processo a. Scopo del processo penale Il processo penale assolve ad una funzione strumentale rispetto al diritto penale. Mentre infatti quest'ultimo indica i fatti che costituiscono reato e le sanzioni previste, il processo penale si propone di accertare i fatti storici che costituiscono reato, di identificarne gli autori e di conoscere la personalità di questi ultimi. Accertamento del fatto ed individuazione dei suoi autori non perseguono finalità astratte, ma servono esclusivamente per valutare se e quali sono le sanzioni che devono essere irrogate. L'accertamento della personalità dell'autore del reato, invece, è legato alla caratteristica della sanzione penale. Infatti a differenza della sanzione civile che è proporzionata al danno, e della sanzione amministrativa, che è proporzionata all'interesse pubblico che è stato leso, la sanzione penale è proporzionata alla ''personalità'' dell'autore del reato. Va infine detto che, se la sanzione assolve ad una funzione ''retributiva'', la sua esecuzione può essere affidata alla pubblica amministrazione; viceversa, se assolve anche ad una funzione ''rieducativa'', è necessario che un giudice accerti l'evoluzione della personalità del reo in sede esecutiva. b. L'azione penale Prima di fornire la definizione di azione penale, va anzitutto chiarita la distinzione fra procedimento e processo. Per procedimento si intende una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale. Ciò significa, anzitutto, che gli atti devono essere compiuti rispettando una sequenza cronologica prevista dalla legge; in secondo luogo, che tutti gli atti del procedimento tendono ad accertare l'esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità ad una persona; in terzo luogo, che il compimento di un atto fa sorgere in un altro soggetto il ''dovere'' di compiere un atto successivo, fino alla decisione definitiva, che può essere una sentenza di condanna o di assoluzione, oppure un decreto di archiviazione se il procedimento si arresta prima che venga formulata una imputazione. Il procedimento penale ordinario è diviso in tre fasi: indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio. Il processo penale indica, invece, una porzione del procedimento penale che ricomprende le fasi dell'udienza preliminare e del giudizio. Il momento iniziale corrisponde all'esercizio dell'azione penale, mentre quello finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile, cioè non più impugnabile. Va detto che nella lettura del codice, con rivolta al giudice, tant'è che la sua mancanza non pregiudica l'esistenza giuridica del processo. Altra parte ''eventuale'' è considerato il responsabile civile, che è il soggetto civilmente responsabile per il fatto dell'imputato, contro il quale la parte civile può agire per il risarcimento dei danni derivanti dal reato. Esempio classico è il datore di lavoro responsabile civilmente per i danni arrecati dal proprio dipendente nell'esercizio delle sue incombenze.* Val la pena di ricordare che, a seguito del decreto legislativo 231 del 2001, oggetto del processo penale può essere, oltre che la responsabilità civile per i danni derivanti dal reato, anche la responsabilità amministrativa dell'ente giuridico che deriva dagli illeciti penali commessi dai rappresentanti e dai dirigenti dell'ente medesimo. Il procedimento per l'illecito amministrativo è riunito, di regola, al procedimento penale instaurato nei confronti dell'autore di quel reato da cui l'illecito amministrativo dipende. * può essere parte eventuale anche il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Si tratta della persona tenuta al pagamento della pena pecuniaria in caso di insolvibilità dell'imputato. 2. Il giudice a. Giurisdizione e competenza Il termine “giurisdizione” può essere inteso in tre significati diversi. Nel primo senso può essere definita giurisdizione quella funzione dello Stato che consiste nell’applicare la legge al caso concreto con forza cogente da parte di un giudice terzo. Nel secondo senso per giurisdizione si intende l’organo terzo che la svolge e che è dotato della caratteristica dell’indipendenza e dell’imparzialità. Infine, il termine giurisdizione può essere utilizzato anche con un ulteriore significato, cioè per indicare l’insieme delle regole che permettono di distinguere i procedimenti di competenza della magistratura ordinaria dai procedimenti di competenza della magistratura speciale. Ad ogni modo, la giurisdizione non è impersonata da un organo unitario, ma è diffusa, frazionata in più organi, ciascuno dei quali ha una competenza limitata. Per “competenza”, infatti, si può intendere quella parte di giurisdizione svolta dal singolo organo. Essa può essere individuata per materia, per territorio, in base alla funzione che deve essere svolta in una determinata fase o grado del procedimento, oppure in base alla eventuale connessione con altri procedimenti in corso. Quando la Costituzione o la legge ordinaria utilizzano l’espressione “autorità giudiziaria” si riferiscono sia al giudice, sia al pubblico ministero come organi. Parimenti, a livello di persone fisiche, il termine “magistrato” è utilizzato per indicare indifferentemente il magistrato giudicante o quello requirente. La prima distinzione fondamentale è quella fra giudici ordinari e giudici speciali. Sono organi giudiziari ordinari quelli che hanno una competenza generale a giudicare tutte le persone e che sono composti da magistrati ordinari. Questi ultimi fanno parte dell’ordinamento giudiziario e ad essi la Costituzione garantisce l’indipendenza e l’autonomia. Sono giudici penali ordinari di primo grado il tribunale in composizione collegiale (tre magistrati di carriera) o monocratica; la corte di Assise (due magistrati togati e sei popolari); il giudice di pace ed il tribunale per i minorenni. D’appello sono la corte d’appello (tre magistrati togati), la corte d’assise d’appello e la sezione della corte d’appello per i minorenni. Vi è infine la Corte di Cassazione, per l’intero territorio nazionale, davanti alla quale possono essere impugnate tutte le sentenze per motivi di legittimità: la Corte può cioè controllare se vi è stata inosservanza della legge e se il giudice inferiore ha motivato in modo corretto. Non può invece condurre un esame di merito. Giudici penali speciali sono i giudici militari e la corte costituzionale per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione commessi dal Presidente Della Repubblica (legge cost.16 del 1989). Sono reati militari quelli previsti esclusivamente dalla legge militare e quelli previsti dalla legge comune ma richiamati dal codice penale militare in quanto tutelano l’ordinamento giuridico delle forze armate. b. Imparzialità, indipendenza e “giusto processo” La Costituzione, all’art. 104, utilizza il termine ordine e non potere giudiziario riferendolo alla magistratura, come se volesse sottolineare che la magistratura non è propriamente un potere che partecipa alla funzione di indirizzo politico che invece caratterizza il potere legislativo e quello esecutivo. Infatti, l’attività della magistratura ha una prevalente funzione di garanzia. Allo stesso tempo, quando la Costituzione afferma che la magistratura è indipendente ed autonoma da “ogni altro Il giudice di pace è un giudice non professionale, nominato a tempo determinato. In generale il criterio per la determinazione della competenza di tale organo è costituito dalla tenuità della sanzione e dalla semplicità dell’accertamento. Fra le fattispecie attribuite alla competenza del giudice di pace, è opportuno distinguere fra i reati procedibili a querela (come la diffamazione o l’ingiuria) e quelli procedibili d’ufficio (come gli atti contrari alla pubblica decenza o l’inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare). Il tribunale è competente a giudicare i reati che non appartengono invece alla competenza della corte d’assise, del tribunale per i minorenni e del giudice di pace. Oltre a questa competenza “residuale”, il tribunale ha una competenza qualitativa a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da norme di legge e che presuppongono che il magistrato giudicante conosca materie tecniche o di qualche complessità (per es. reati finanziari o reati commessi a mezzo cinema, stampa, radio e televisione). In base al criterio quantitativo, al tribunale in composizione collegiale, è attribuita la cognizione anche di reati puniti, nell’ipotesi del tentativo, con una pena detentiva superiore nel massimo a dieci anni, ma inferiore a ventiquattro anni, purché non siano di competenza della corte d’assise. Inoltre una serie di fattispecie normativamente indicate (criterio qualitativo). In applicazione di suddetti criteri, appartengono alla cognizione del tribunale collegiale quasi tutti i reati riconducibili all’associazione per delinquere (sia comune che di stampo mafioso), i delitti concernenti le armi, i reati in materia di aborto, e l’usura. Al tribunale in composizione monocratica, è attribuita la cognizione dei delitti di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti, nonché dei reati puniti con pena detentiva fino a dieci anni nel massimo purché non sia di competenza del giudice di pace. Al giudice monocratico sono attribuiti quindi molti reati che presentano una notevole pericolosità sociale. Per esempio, delitti contro l’incolumità pubblica. d. Competenza per territorio e per connessione La competenza per territorio è determinata dal luogo nel quale il reato è stato consumato (art. 8). La giustificazione della norma sta nel fatto che in tale luogo le prove sono raccolte con maggiore facilità e rapidità. Un’importante deroga a questo principio è prevista nei procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato. In base all’art.11 la competenza in questo caso è attribuita al giudice competente per materia e che ha sede nel capoluogo del distretto della corte d’appello individuato dalla tabella A annessa alla legge n.420 del 1998. Vi è connessione di procedimenti di competenza del tribunale e della corte d’assise in tre casi (art. 12): in primo luogo, quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento; in secondo luogo, quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale di reati), ovvero con più azioni od omissioni esecutive Parte Seconda PROFILI GENERALI Capitolo I I soggetti del procedimento penale 1. Procedimento e processo a. Scopo del processo penale Il processo penale assolve ad una funzione strumentale rispetto al diritto penale. Mentre infatti quest'ultimo indica i fatti che costituiscono reato e le sanzioni previste, il processo penale si propone di accertare i fatti storici che costituiscono reato, di identificarne gli autori e di conoscere la personalità di questi ultimi. Accertamento del fatto ed individuazione dei suoi autori non perseguono finalità astratte, ma servono esclusivamente per valutare se e quali sono le sanzioni che devono essere irrogate. L'accertamento della personalità dell'autore del reato, invece, è legato alla caratteristica della sanzione penale. Infatti a differenza della sanzione civile che è proporzionata al danno, e della sanzione amministrativa, che è proporzionata all'interesse pubblico che è stato leso, la sanzione penale è proporzionata alla ''personalità'' dell'autore del reato. Va infine detto che, se la sanzione assolve ad una funzione ''retributiva'', la sua esecuzione può essere affidata alla pubblica amministrazione; viceversa, se assolve anche ad una funzione ''rieducativa'', è necessario che un giudice accerti l'evoluzione della personalità del reo in sede esecutiva. b. L'azione penale Prima di fornire la definizione di azione penale, va anzitutto chiarita la distinzione fra procedimento e processo. Per procedimento si intende una serie cronologicamente ordinata di atti diretti alla pronuncia di una decisione penale. Ciò significa, anzitutto, che gli atti devono essere compiuti rispettando una sequenza cronologica prevista dalla legge; in secondo luogo, che tutti gli atti del procedimento tendono ad accertare l'esistenza di un fatto penalmente illecito e la sua attribuibilità ad una persona; in terzo luogo, che il compimento di un atto fa sorgere in un altro soggetto il ''dovere'' di compiere un atto successivo, fino alla decisione definitiva, che può essere una sentenza di condanna o di assoluzione, oppure un decreto di archiviazione se il procedimento si arresta prima che venga formulata una imputazione. Il procedimento penale ordinario è diviso in tre fasi: indagini preliminari, udienza preliminare, giudizio. Il processo penale indica, invece, una porzione del procedimento penale che ricomprende le fasi dell'udienza preliminare e del giudizio. Il momento iniziale corrisponde all'esercizio dell'azione penale, mentre quello finale si ha quando la sentenza diventa irrevocabile, cioè non più impugnabile. Va detto che nella lettura del codice, con rivolta al giudice, tant'è che la sua mancanza non pregiudica l'esistenza giuridica del processo. Altra parte ''eventuale'' è considerato il responsabile civile, che è il soggetto civilmente responsabile per il fatto dell'imputato, contro il quale la parte civile può agire per il risarcimento dei danni derivanti dal reato. Esempio classico è il datore di lavoro responsabile civilmente per i danni arrecati dal proprio dipendente nell'esercizio delle sue incombenze.* Val la pena di ricordare che, a seguito del decreto legislativo 231 del 2001, oggetto del processo penale può essere, oltre che la responsabilità civile per i danni derivanti dal reato, anche la responsabilità amministrativa dell'ente giuridico che deriva dagli illeciti penali commessi dai rappresentanti e dai dirigenti dell'ente medesimo. Il procedimento per l'illecito amministrativo è riunito, di regola, al procedimento penale instaurato nei confronti dell'autore di quel reato da cui l'illecito amministrativo dipende. * può essere parte eventuale anche il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. Si tratta della persona tenuta al pagamento della pena pecuniaria in caso di insolvibilità dell'imputato. 2. Il giudice a. Giurisdizione e competenza Il termine “giurisdizione” può essere inteso in tre significati diversi. Nel primo senso può essere definita giurisdizione quella funzione dello Stato che consiste nell’applicare la legge al caso concreto con forza cogente da parte di un giudice terzo. Nel secondo senso per giurisdizione si intende l’organo terzo che la svolge e che è dotato della caratteristica dell’indipendenza e dell’imparzialità. Infine, il termine giurisdizione può essere utilizzato anche con un ulteriore significato, cioè per indicare l’insieme delle regole che permettono di distinguere i procedimenti di competenza della magistratura ordinaria dai procedimenti di competenza della magistratura speciale. Ad ogni modo, la giurisdizione non è impersonata da un organo unitario, ma è diffusa, frazionata in più organi, ciascuno dei quali ha una competenza limitata. Per “competenza”, infatti, si può intendere quella parte di giurisdizione svolta dal singolo organo. Essa può essere individuata per materia, per territorio, in base alla funzione che deve essere svolta in una determinata fase o grado del procedimento, oppure in base alla eventuale connessione con altri procedimenti in corso. Quando la Costituzione o la legge ordinaria utilizzano l’espressione “autorità giudiziaria” si riferiscono sia al giudice, sia al pubblico ministero come organi. Parimenti, a livello di persone fisiche, il termine “magistrato” è utilizzato per indicare indifferentemente il magistrato giudicante o quello requirente. La prima distinzione fondamentale è quella fra giudici ordinari e giudici speciali. Sono organi giudiziari ordinari quelli che hanno una competenza generale a giudicare tutte le persone e che sono composti da magistrati ordinari. Questi ultimi fanno parte dell’ordinamento giudiziario e ad essi la Costituzione garantisce l’indipendenza e l’autonomia. Sono giudici penali ordinari di primo grado il tribunale in composizione collegiale (tre magistrati di carriera) o monocratica; la corte di Assise (due magistrati togati e sei popolari); il giudice di pace ed il tribunale per i minorenni. D’appello sono la corte d’appello (tre magistrati togati), la corte d’assise d’appello e la sezione della corte d’appello per i minorenni. Vi è infine la Corte di Cassazione, per l’intero territorio nazionale, davanti alla quale possono essere impugnate tutte le sentenze per motivi di legittimità: la Corte può cioè controllare se vi è stata inosservanza della legge e se il giudice inferiore ha motivato in modo corretto. Non può invece condurre un esame di merito. Giudici penali speciali sono i giudici militari e la corte costituzionale per i delitti di alto tradimento e di attentato alla Costituzione commessi dal Presidente Della Repubblica (legge cost.16 del 1989). Sono reati militari quelli previsti esclusivamente dalla legge militare e quelli previsti dalla legge comune ma richiamati dal codice penale militare in quanto tutelano l’ordinamento giuridico delle forze armate. b. Imparzialità, indipendenza e “giusto processo” La Costituzione, all’art. 104, utilizza il termine ordine e non potere giudiziario riferendolo alla magistratura, come se volesse sottolineare che la magistratura non è propriamente un potere che partecipa alla funzione di indirizzo politico che invece caratterizza il potere legislativo e quello esecutivo. Infatti, l’attività della magistratura ha una prevalente funzione di garanzia. Allo stesso tempo, quando la Costituzione afferma che la magistratura è indipendente ed autonoma da “ogni altro Il giudice di pace è un giudice non professionale, nominato a tempo determinato. In generale il criterio per la determinazione della competenza di tale organo è costituito dalla tenuità della sanzione e dalla semplicità dell’accertamento. Fra le fattispecie attribuite alla competenza del giudice di pace, è opportuno distinguere fra i reati procedibili a querela (come la diffamazione o l’ingiuria) e quelli procedibili d’ufficio (come gli atti contrari alla pubblica decenza o l’inosservanza dell’obbligo di istruzione elementare). Il tribunale è competente a giudicare i reati che non appartengono invece alla competenza della corte d’assise, del tribunale per i minorenni e del giudice di pace. Oltre a questa competenza “residuale”, il tribunale ha una competenza qualitativa a giudicare reati che sono previsti in modo specifico da norme di legge e che presuppongono che il magistrato giudicante conosca materie tecniche o di qualche complessità (per es. reati finanziari o reati commessi a mezzo cinema, stampa, radio e televisione). In base al criterio quantitativo, al tribunale in composizione collegiale, è attribuita la cognizione anche di reati puniti, nell’ipotesi del tentativo, con una pena detentiva superiore nel massimo a dieci anni, ma inferiore a ventiquattro anni, purché non siano di competenza della corte d’assise. Inoltre una serie di fattispecie normativamente indicate (criterio qualitativo). In applicazione di suddetti criteri, appartengono alla cognizione del tribunale collegiale quasi tutti i reati riconducibili all’associazione per delinquere (sia comune che di stampo mafioso), i delitti concernenti le armi, i reati in materia di aborto, e l’usura. Al tribunale in composizione monocratica, è attribuita la cognizione dei delitti di produzione e traffico illecito di sostanze stupefacenti, nonché dei reati puniti con pena detentiva fino a dieci anni nel massimo purché non sia di competenza del giudice di pace. Al giudice monocratico sono attribuiti quindi molti reati che presentano una notevole pericolosità sociale. Per esempio, delitti contro l’incolumità pubblica. d. Competenza per territorio e per connessione La competenza per territorio è determinata dal luogo nel quale il reato è stato consumato (art. 8). La giustificazione della norma sta nel fatto che in tale luogo le prove sono raccolte con maggiore facilità e rapidità. Un’importante deroga a questo principio è prevista nei procedimenti in cui un magistrato assume la qualità di imputato, indagato, persona offesa o danneggiata dal reato. In base all’art.11 la competenza in questo caso è attribuita al giudice competente per materia e che ha sede nel capoluogo del distretto della corte d’appello individuato dalla tabella A annessa alla legge n.420 del 1998. Vi è connessione di procedimenti di competenza del tribunale e della corte d’assise in tre casi (art. 12): in primo luogo, quando il reato per cui si procede è stato commesso da più persone in concorso o cooperazione tra loro, o se più persone con condotte indipendenti hanno determinato l’evento; in secondo luogo, quando una persona è imputata di più reati commessi con una sola azione od omissione (concorso formale di reati), ovvero con più azioni od omissioni esecutive del medesimo disegno criminoso (reato continuato); in terzo luogo quando si procede per più reati, se gli uni sono stati commessi per eseguire od occultare gli altri (ad es. falso commesso per occultare un reato di peculato). Quando vi è connessione, un solo giudice è competente a giudicare tutti i reati connessi. Il giudice competente in caso di connessione viene individuato in base ai seguenti criteri. Fra i giudici aventi diversa competenza per materia, la corte d’assise prevale sul tribunale. Se più giudici sono egualmente competenti per materia ed hanno una diversa competenza per territorio, prevale il giudice competente per il reato più grave. In caso di pari gravità, il giudice competente per il reato commesso per primo. E’ ovvio che la connessione non opera fra procedimenti relativi a imputati che al momento del fatto erano minorenni e procedimenti relativi a imputati maggiorenni. Quando i procedimenti sono connessi, essi possono essere riuniti. E’ evidente che la finalità naturale della connessione è quella di permettere la riunione di più procedimenti in uno unico, sia per una questione di economia di atti processuali (per es. un testimone sottoposto ad un unico esame), sia perché il processo riunito permette di ricostruire con maggiore chiarezza e completezza il quadro probatorio ed i rapporti fra i vari fatti di reato. Perché si possa disporre la riunione, è necessario: che i procedimenti siano pendenti nella stessa fase e nello stesso grado; che i procedimenti siano di competenza del medesimo giudice; che i procedimenti siano connessi, oppure vi sia comunque fra gli stessi una di quelle ipotesi di collegamento probatorio che sono previste dall’art. commessi dopo la loro entrata in vigore. Per effetto, quindi, del principio costituzionale della precostituzione, la competenza del giudice dovrebbe rimanere cristallizzata sulla base delle norme vigenti al momento in cui è stato commesso il fatto di reato oggetto di imputazione. Tuttavia, secondo un orientamento ormai consolidato, le norme in tema di competenza del giudice hanno carattere processuale e sono di immediata applicazione in virtù del principio tempus regit actum; di conseguenza, le norme modificative della competenza sono applicabili anche ai reati commessi in data antecedente alla loro entrata in vigore, salvo che la competenza non si sia già radicata al momento dell'entrata in vigore della legge di modifica (perpetuatio competentiae). Secondo la giurisprudenza, la competenza si considera radicata quando il pubblico ministero ha esercitato l'azione penale, oppure, secondo un orientamento più restrittivo, soltanto quando è stato dichiarato aperto il dibattimento. f. conflitti di competenza e dichiarazione di incompetenza Mentre i conflitti di giurisdizione sono quelli che intervengono tra un giudice ordinario ed un giudice speciale; i conflitti di competenza intervengono fra giudici ordinari. Si ha conflitto positivo quando due giudici prendono cognizione temporaneamente del medesimo fatto attribuito alla medesima persona. Si ha conflitto negativo quando due giudici contemporaneamente rifiutano di prendere cognizione del medesimo fatto attribuito alla medesima persona ritenendosi incompetenti a procedere. Il conflitto può insorgere in ogni stato e grado del processo, può essere rilevato d'ufficio dal giudice o denunciato dal pubblico ministero o dalle parti private. L'ordinanza che rileva il conflitto viene trasmessa alla corte di cassazione che decide in camera di consiglio con sentenza. L'inosservanza delle disposizioni relative alla competenza comporta che il giudice dichiari la propria incompetenza. Di regola le prove acquisite dal giudice dichiaratosi incompetente restano efficaci, mentre le ''dichiarazioni'', se ripetibili, diventano utilizzabili in giudizio soltanto col meccanismo delle contestazioni probatorie. Le misure cautelari, invece, conservano un'efficacia provvisoria limitata a venti giorni dall'ordinanza che dichiara l'incompetenza: entro tale termine il giudice competente deve disporre, se lo ritiene necessario, una nuova misura cautelare. In tema di competenza per materia (art. 21, comma 1), le norme sono più rigorose quando è eccepita un'incompetenza "per difetto", cioè quando sta procedendo un giudice inferiore (per esempio un tribunale in luogo della corte d'assise). In questo caso l'incompetenza è rilevabile fino a quando non si è pervenuti ad una sentenza irrevocabile. Meno rigoroso, invece, è il regime giuridico quando sia un giudice superiore a procedere per un reato di competenza del giudice inferiore. In questo caso l'incompetenza "per eccesso" può essere rilevata anche d'ufficio, ma non oltre le questioni preliminari prima della dichiarazione di apertura del dibattimento. L'incompetenza per territorio (comma 2) è eccepibile dalle parti, rilevabile dal giudice, fino alla chiusura della discussione finale nell'udienza preliminare. Quando l'udienza non ha luogo, l'incompetenza deve essere eccepita o rilevata nel corso delle questioni preliminari in dibattimento. Per quanto riguarda la pronuncia di incompetenza, nel corso delle indagini preliminari il giudice dichiara l'incompetenza con ordinanza e si limita a restituire gli atti al pubblico ministero che sta conducendo le indagini. Dopo la chiusura delle indagini, invece, il giudice dichiara l'incompetenza con sentenza e trasmette gli atti al pubblico ministero presso il giudice competente (art. 22). Nei casi di procedimenti connessi (comma 3), la competenza è determinata secondo gli articoli 15 e 16. L'eventuale inosservanza di queste regole determina un incompetenza che deve essere eccepita o rilevata, a pena di decadenza, entro gli stessi termini previsti per l'incompetenza per territorio. g. l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale Sappiamo che a seconda dell'oggetto della sua cognizione, il tribunale siede nelle due distinte composizioni monocratica o collegiale. Il legislatore ha escluso che le eventuali violazioni delle norme sulla corretta composizione del tribunale possano incidere sulla competenza dell'organo giudicante. Il problema sarà una semplice questione di forma o di rito, piuttosto che di competenza. Tant'è vero che una norma di chiusura (art. 33 nonies), stabilisce che l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina l'invalidità degli atti del procedimento né l'inutilizzabilità delle prove già acquisite. della funzione riguarda l'esistenza delle condizioni richieste per il valido esercizio del potere giurisdizionale, come ad esempio il decreto ministeriale di nomina al ruolo di uditore giudiziario. Non tutte le disposizioni relative all'attribuzione e allo svolgimento della funzione giurisdizionale sono previste a pena di nullità. Si ritiene infatti che la sanzione della nullità assoluta sia messa a presidio della sola capacità generica (nomina e ammissione al ruolo) e non anche dell'idoneità specifica, che presuppone la regolare costituzione del giudice nell'ambito di un determinato processo. Infatti, l'art. 33, comma 2, stabilisce che non si considerano attinenti alla capacità del giudice le disposizioni riguardanti la destinazione del magistrato giudicante agli uffici giudiziari ed alle sezioni. In questo modo il legislatore ha voluto evitare che la violazione delle disposizioni concernenti il funzionamento interno degli uffici giudiziari potesse dare luogo a nullità processuali. Anche la violazione delle norme sul riparto della cognizione fra le due articolazioni del tribunale e l'inosservanza delle disposizioni concernenti l'assegnazione dei magistrati a sezioni o collegi non danno luogo a nullità processuali. Quindi è giusto dire che la garanzia costituzionale del giudice naturale precostituito per legge si circoscrive alla mera individuazione dell'organo giudiziario nel suo complesso. i. L'imparzialità del giudice - incompatibilità, astensione e ricusazione L'imparzialità del giudice, prevista anche dall'art. 111 sul giusto processo, perché sia ''effettiva'', deve essere fondata sulla soggezione del giudice alla legge; sulla separazione delle funzioni processuali; sulla presenza di garanzie procedimentali che consentano di estromettere il giudice che sia parziale. 1) Quanto al primo presupposto, è pacifico ritenere che non sia sufficiente garantire il cittadino contro l'arbitrio del potere esecutivo e legislativo; occorre altresì garantirlo contro l'arbitrio del giudice, e per fare ciò, sono necessarie leggi precise che non lascino al giudice quelle scelte discrezionali che devono essere compiute dal potere legislativo. Soltanto la presenza di leggi, che indichino con precisione quali fatti sono di reati e quali sono i poteri processuali esercitabili, impedisce che il giudice sia influenzato da fattori esterni (pressioni) o interni (soggettivismi, ideologie).* 2) L'imparzialità è anche fondata sulla separazione delle principali funzioni processuali, cioè accusa, difesa e giudice. Se il giudice cumula i poteri di una parte, si rischia che la sua funzione giudicante sia sviata dagli ulteriori poteri che è chiamato ad esercitare. Parimenti, se la pubblica accusa esercita anche i poteri di pertinenza del giudice, inevitabilmente la funzione giudicante cessa di essere imparziale perché svolta da un soggetto non più super partes. 3) occorrono infine garanzie procedimentali che permettano di assicurare l'imparzialità del giudice come persona fisica e come organo giudicante. Nei confronti del giudice come persona fisica sono predisposti gli istituti dell'astensione e della ricusazione; nei confronti dell'ufficio giudicante è previsto l'istituto della rimessione. Dal punto di vista strettamente teorico, invece, la garanzia di imparzialità può essere definita soltanto in senso negativo quando ricorrono due criteri fondamentali: in senso oggettivo quando è assente qualsiasi legame fra il giudice ed una delle parti, o fra il giudice e la questione da decidere (come invece avverrebbe per quel magistrato che abitasse accanto ad una fabbrica della quale egli dovesse accertare la capacità di inquinare l'ambiente); in senso soggettivo quando il giudice appare in una situazione di impregiudicatezza rispetto alla questione da decidere. Si ritiene che quest'ultimo requisito venga *l'imparzialità impone al giudice, non solo di essere, ma anche di ''apparire'' all'esterno neutrale. meno quando il giudice ha già emesso una decisione sul medesimo oggetto. Il fondamento teorico di tale asserto, a detta della Corte Costituzionale, è individuato nella ''forza della prevenzione'', che consiste nella naturale tendenza di ogni persona a mantenere fermo un giudizio già espresso e quindi a non ammettere che una decisione precedentemente adottata possa essere sbagliata. Sulla base di questi presupposti, un giudice viene considerato ''incompatibile'' quando è ritenuto incapace di svolgere una determinata funzione in relazione ad un determinato procedimento. Le situazione di ''pre-giudizio'' che sono previste dal codice come cause di ''incompatibilità'' possono essere ricomprese in tre grandi categorie. La prima situazione ''pregiudicante'' può consistere nel fatto che un magistrato abbia già svolto una qualche funzione nel medesimo procedimento distinta da quella del giudice (art. 34). Abbiamo visto, in proposito, che la separazione delle funzioni processuali è un requisito fondamentale per al processo, nonché non ''eliminabile'' con gli strumenti messi a disposizione dal potere esecutivo. Il primo caso di rimessione si ha quando sono pregiudicate la sicurezza e l'incolumità pubblica (si può ricordare, per esempio, lo stato di guerriglia urbana che si è manifestato in Italia fra gli anni '70 e '80); il secondo caso sussiste quando è pregiudicata la libera determinazione delle persone che partecipano al processo. Si pensi a testimoni o giudici popolari che siano minacciati o intimiditi dalla criminalità organizzata; il terzo caso di rimessione si ha quando si registrano gravi situazioni locali che determinano motivi di legittimo sospetto. Quest'ultima ipotesi, introdotta dalla legge n.248 del 2002, fa riferimento all'ipotesi in cui la pressione dell'ambiente sui giudici appare tale da compromettere la serenità del giudizio. Serenità che è indispensabile perché la valutazione della prova non è un'attività meccanica, bensì richiede un atteggiamento interiore di assoluta libertà psichica edi terzietà, soprattutto quando il giudice deve valutare se l'accusa ha eliminato ogni ragionevole dubbio. A giudicare sulla richiesta di rimessione, presentata dall'imputato o dalle parti, è la Corte di Cassazione, che decide in camera di consiglio con ordinanza. Ove accolga la richiesta, la Corte trasferisce il processo ad un altro giudice che abbia la medesima competenza per materia e che abbia sede nel capoluogo del distretto di corte d'appello individuato in base all'art. 11 del c.c.p. Il giudice designato dall'ordinanza provvede alla rinnovazione degli atti compiuti anteriormente alla rimessione quando ne è richiesto da una delle parti e non si tratta di atti di cui è diventata impossibile la ripetizione. Si assiste in questo modo ad un conflitto fra il principio di imparzialità ed il principio del giudice naturale. Tra i due principi prevale quello di imparzialità, anche se può dirsi che il principio del giudice naturale impone la tassatività- determinatezza delle ipotesi di rimessione. m. Le questioni pregiudiziali alla decisione penale Può accadere che il giudice, nel procedere all'accertamento della responsabilità dell'imputato, debba prima affrontare una questione pregiudiziale. E' pregiudiziale una questione la cui risoluzione risulta logicamente necessaria per approdare alla decisione finale e che non sia appartenente alla cognizione del giudice procedente. Per esempio, è pregiudiziale alla decisione sull'imputazione del reato di furto l'accertamento dell'altruità della cosa. Il codice accoglie la regola secondo cui il giudice penale ha il potere di risolvere in via ''incidentale'' ogni questione da cui dipenda la sua decisione, sulla base del principio di autosufficienza della giurisdizione penale e al tempo stesso della semplificazione delle forme e della ragionevole durata del processo. E' bene sottolineare però che la pronuncia con cui il magistrato risolve una questione civile, amministrativa o penale, esaurisce i suoi effetti inter partes. Infatti, come precisa l'articolo 2, comma 2 del codice, la pronuncia non ha efficacia vincolante in altri processi. Per esempio, per il delitto di ricettazione occorre accertare che la cosa acquistata sia stata oggetto di un furto; ma detta questione è risolta ai soli fini dell'accertamento dell'esistenza della ricettazione, e la decisione incidentale del giudice procedente non vincola il giudice competente a decidere sull'imputazione di furto. Se è vero questo, è altrettanto vero il contrario: l'eventuale sentenza irrevocabile sull'esistenza del furto da parte di un altro giudice non ha efficacia di giudicato nel processo per ricettazione. Il giudice penale gode infatti di totale autosufficienza nell'accertare le questioni pregiudiziali penali. Nel procedere alla risoluzione della questione pregiudiziale, il giudice penale non è vincolato dai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili. Ciò che significa che la sua decisione potrà risultare in contrasto con le decisioni di altri giudici penali, civili o amministrativi. Al fine di garantire la speditezza del procedimento e di contenerne la durata, il codice accetta questa possibilità, prevedendo però, come ‘valvola di sicurezza’, casi tassativi in cui è ammessa la revisione della sentenza penale di condanna (art. 630 del c.c.p.). A questa regola fanno però eccezione le questioni pregiudiziali sullo stato di famiglia e di cittadinanza, in presenza delle quali il giudice penale è vincolato dai limiti di prova stabiliti dalle leggi civili. In questo caso, il principio della certezza dei rapporti giuridici prevale su quello della ragionevole durata del processo, A conferma di ciò, l'art. 3, comma 4, dispone che la sentenza irrevocabile del giudice civile sullo stato di famiglia e di cittadinanza ha efficacia di giudicato nel processo penale. Il particolare rilievo di queste questioni incidentali può comportare, al loro sorgere, la sospensione del processo penale. Sia chiaro, però, che il giudice penale non ha l'obbligo di sospendere il processo, ma semplicemente il potere-dovere di valutare la sospensione in presenza dei requisiti richiesti dall'art. 3, comma 1 del c.p.p. In particolare, quando la questione sullo stato di famiglia e di cittadinanza è che lo riguardano sono deliberati dal Consiglio Superiore della Magistratura. La principale differenza rispetto al giudice sta nel fatto che l'ufficio del pubblico ministero è organizzato gerarchicamente. L'organizzazione gerarchica, viceversa, è assente negli uffici del giudice. *distinta è la situazione soggettiva dello Stato-persona, che è rappresentato invece dall'avvocatura dello Stato. Infatti, qualora un reato abbia cagionato danno ad un bene dello Stato, il ministro competente può costituirsi parte civile nel processo penale per il tramite dell'avvocatura di stato e chiedere il risarcimento dei danni subiti. b. I rapporti con il potere politico A differenza di quanto accade per i sistemi totalitari, che non accettano la separazione dei poteri e dove il magistrato è diretta espressione del "potere politico", nei sistemi garantisti, caratterizzati dalla separazione e dal reciproco controllo fra i poteri dello Stato, il pubblico ministero può essere rappresentato nei seguenti modi: come rappresentante della società; come rappresentante del potere esecutivo; come rappresentante della legge. La prima soluzione, secondo la quale il pubblico ministero è il ''rappresentante della società'', deriva dal periodo iniziale della Rivoluzione Francese che introdusse la figura dell'accusatore pubblico elettivo. Tale configurazione sopravvive negli Stati Uniti D'America. La seconda soluzione fu invece accolta in Francia ai tempi dell'Impero e dall'Italia nel regime fascista. Ma più che un magistrato, il pubblico ministero rischiava in quel caso di diventare un funzionario del potere esecutivo. La soluzione, invece, di magistrato come ''rappresentante della legge'' tende a svincolarlo dal controllo operato dal potere esecutivo o dal potere legislativo per vincolarlo esclusivamente alla legge. In questo modo il pubblico ministero viene collocato fuori dalla mischia politica e dal controllo dei partiti. Nell'ordinamento italiano, non a caso, il p.m. gode di garanzie di indipendenza simili a quelle dei giudici. c. I rapporti all'interno dell'ufficio I rapporti di dipendenza gerarchica che esistono all'interno dell'ufficio del pubblico ministero servono ad assicurare la buona organizzazione dell'ufficio della pubblica accusa, che non ha funzioni meramente decisorie, bensì oneri di iniziativa e di impulso del procedimento penale. Vi è quindi la necessità di coordinare le indagini condotte da più magistrati per evitare intralci reciproci, nonché di rendere unitarie le direttive impartite alla polizia giudiziaria. Dopo la riforma, dovuta alla legge-delega 150 del 2005, l'organizzazione dell'ufficio del pubblico ministero ha subito un cambiamento notevole rispetto alla configurazione che aveva nel 1988. In estrema sintesi, si è passati da un sistema denominato come ''personalizzazione delle funzioni", ad un altro che possiamo definire "gerarchia attenuata". Secondo il primo sistema, il titolare dell'ufficio designava il magistrato in modo automatico in base al sistema tabellare che vige per i giudici. Il magistrato conservava una vera e propria autonomia operativa ed il rapporto di sovraordinazione col titolare si estrinsecava esclusivamente attraverso il potere di quest'ultimo di impartire delle direttive di carattere generale per l'organizzazione dell'ufficio. La revoca della designazione era consentita soltanto in casi tassativi quando il magistrato formulava richieste in contrasto con le direttive di carattere generale. In base alle norme vigenti, invece, oltre che attraverso i criteri automatici, l'assegnazione di un caso da parte del procuratore può essere nominativa. Il nuovo principio generale consiste nella titolarità esclusiva spettante al procuratore della Repubblica, che esercita l'azione penale "personalmente o mediante assegnazione ad uno o più magistrati addetti all'ufficio". Infatti, in luogo della designazione, che lasciava ampia autonomia al sostituito, la legge 269 del 2006 ha introdotto l'istituto dell'assegnazione, la cui natura giuridica consiste nel conferire poteri operativi con limitata autonomia funzionale. Con l'atto di assegnazione, il procuratore può stabilire i criteri (generali o particolari per il singolo procedimento) ai quali il magistrato deve attenersi nell'esercizio della relativa attività (per esempio nell'impiego della polizia giudiziaria, nell'uso delle risorse tecnologiche o finanziarie assegnate). Quando i criteri generali o particolari sono violati, il procuratore può revocare l'assegnazione con provvedimento motivato. Entro dieci giorni dalla comunicazione, il magistrato può presentare osservazioni al procuratore della repubblica. Ne consegue che il titolare ed il magistrato possono segnalare il provvedimento al CSM. Quando si trova in udienza, il magistrato torna ad esercitare le sue funzioni con piena autonomia, giacché il potere direttivo del titolare risulta attenuato. Il capo dell'ufficio provvede alla sostituzione soltanto su consenso dell'interessato, oppure, se questo manca, nel caso di grave impedimento o di rilevanti esigenze di servizio, o ancora ove il magistrato abbia un interesse privato nel procedimento (art. 53). Quando si Ma di sicuro il potere più pregnante di cui gode il procuratore generale presso la corte d'appello è quello di avocazione, cioè il potere di sostituirsi al procuratore della repubblica presso il tribunale in presenza delle situazioni espressamente previste dalla legge. Tale potere mira a conciliare i principi di indipendenza del magistrato con quelli di buona amministrazione dell'ufficio e di ragionevole durata del processo. Viene di solito esercitato quando il titolare ha omesso un'attività doverosa o quando il procedimento rischia una stasi per l'inerzia del magistrato del pubblico ministero. In concreto, significa che un sostituto del procuratore generale soppianta il singolo magistrato nel compimento dell'attività che sta svolgendo. Il provvedimento di avocazione deve essere motivato e trasmetto al CSM. Il magistrato interessato può proporre reclamo al procuratore generale della Cassazione. Sono previsti casi di avocazione obbligatoria e casi di avocazione discrezionale. e. l'astensione e il dovere di lealtà processuale Sappiamo che il giudice ha l'obbligo di astenersi (oppure può essere ricusato) quando si manifestano delle situazioni che lo rendano o lo facciano apparire ''parziale''. Viceversa il p.m. non può essere ricusato, poiché è parte nel processo. Più precisamente, è una parte pubblica che rappresenta l'interesse generale dello Stato alla repressione dei reati. Ne consegue che egli ha l'obbligo di astenersi quando esistono gravi ragioni di convenienza (art. 52), cioè quando egli ha un interesse privato in un determinato procedimento che possa influenzare il perseguimento dell'interesse pubblico al quale è chiamato. Se non si astiene, tale comportamento è sanzionato dal CSM come illecito disciplinare; inoltre, dovrà essere obbligatoriamente sostituito dal capo dell'ufficio ai sensi dell'art. 53, comma 2. I casi di sostituzione sono quelli previsti dall'art. 36, comma 1. Proprio l'interesse pubblico, che lo differenzia dalle altre parti che partecipano al processo, impone al pubblico ministero l'obbligo di lealtà processuale. Che vuol dire? La parte privata ricerca le prove a sé favorevoli e non ha l'obbligo di far conoscere alle altri parti le prove che giovano a queste ultime. Viceversa, il pubblico ministero, in base all'art. 358 del c.c.p., deve svolgere accertamenti anche su "fatti e circostanze a favore della persona sottoposta alle indagini". Pertanto non può rifiutarsi di compiere investigazioni, se queste portano ad accertare fatti che giovano all'indagato. Inoltre, tutti i risultati delle indagini devono essere depositati nei tempi previsti e contestualmente alla notifica dell'avviso di conclusione delle indagini. f. Le procure distrettuali e la procura nazionale antimafia L'art. 371, comma 2 elenca in casi nei quali le indagini si considerano collegate: quando i procedimenti risultano connessi a norma dell'art. 12; se si tratta di reati dei quali gli uni sono stati commessi in occasione degli altri, o che sono stati commessi da più persone in danno reciproco le une dalle altre; se la prova di più reati deriva anche in parte dalla stessa fonte. In presenza di tali situazioni, al fine di ottenere speditezza, economia ed efficacia delle indagini, il codice pone, in capo ai diversi uffici del pubblico ministero, l'obbligo di coordinarsi. Ciò vuol dire che devono scambiarsi gli atti e le informazioni, e devono comunicarsi reciprocamente le direttive impartite alla polizia giudiziaria. Il codice, infine, ''invita'' gli uffici a procedere al compimento congiunto di specifici atti. Con le leggi 356 del '91 e 8 del '92, il legislatore ha sanzionato mediante l'istituto dell'avocazione la violazione dell'obbligo di coordinamento nelle ipotesi di indagini per delitti di criminalità organizzata mafiosa e non mafiosa. Se l'oggetto dell'indagine è un'organizzazione criminale, abile e senza scrupoli, occorre infatti che le investigazioni vengano compiute ad ampio raggio e che gli uffici del pubblico ministero siano quanto meno strettamente coordinati fra di loro. All'inizio degli anni novanta, si ritenne che fosse necessario garantire questo coordinamento fra uffici indipendenti, renderlo coercibile, senza però creare un rapporto di gerarchia fra gli uffici che avrebbe portato una qualche forma di controllo politico sul vertice. A tale scopo si pensò di istituire procure distrettuali sottoposte al controllo e allo stimolo di un procuratore nazionale antimafia. La procura distrettuale antimafia è un ufficio della procura della Repubblica presso il tribunale del capoluogo del distretto di corte d'appello (nel cui ambito ha sede il giudice competente) a cui sono attribuite le funzioni di pubblico ministero in primo grado in relazione ai delitti di criminalità organizzata mafiosa e assimilati, ai delitti consumati o tentati con finalità di terrorismo, ai delitti consumati o tentati in materia di pedopornografia, ai reati informatici e di intercettazione abusiva. Per tali reati, la procura distrettuale direzione spetta al prefetto e al questore. La funzione di polizia giudiziaria, invece, è svolta sotto la direzione del pubblico ministero e sotto la sorveglianza del procuratore generale presso la corte d'appello. Fa eccezione la lotta alla criminalità organizzata, per la quale la funzione di polizia giudiziaria è svolta da un organo noto come ''direzione investigativa antimafia'' (D.I.A.), posto sotto la direzione e la sorveglianza del procuratore nazionale antimafia. A prescindere, però, dalle funzioni che svolge, la polizia resta sotto la dipendenza ''organica" del potere esecutivo: promozioni e carriera del singolo agente o ufficiale, infatti, dipendono dal corpo di appartenenza. Pertanto colui che svolge attività di polizia giudiziaria dipende funzionalmente dal pubblico ministero, ma organicamente dal potere esecutivo. b. La dipendenza dall'autorità giudiziaria Per evitare contrasti fra direttive dell'autorità giudiziaria e direttive di segno contrario degli organi del potere esecutivo, sono previsti strumenti che rafforzano la direzione funzionale spettante all'autorità giudiziaria, con lo scopo di dare valida attuazione al principio fissato nell'art. 109 della Costituzione. Il codice distingue tre strutture che svolgono funzioni di polizia giudiziaria, ciascuna delle quali si differenzia per il diverso grado di dipendenza funzionale dall’autorità giudiziaria. Il maggior grado di dipendenza si riscontra nelle sezioni di polizia giudiziaria. Si tratta di organi costituiti presso gli uffici del pubblico ministero di primo grado, composti da ufficiali e agenti della polizia di Stato, dei carabinieri e della Guardia di Finanza, che svolgono funzioni di polizia giudiziaria sotto la dipendenza del capo del singolo ufficio del pubblico ministero. Il singolo magistrato dispone direttamente del personale della sezione, cioè incarica delle indagini nominativamente un ufficiale di polizia giudiziaria. Il potere direttivo dell'autorità giudiziaria è rafforzato mediante strumenti che incidono sulla carriera, mobilità e promozioni del personale appartenente alle sezioni. Un minor grado di dipendenza si registra, invece, nei servizi di polizia giudiziaria costituiti presso i corpi di appartenenza (questure, comandi di carabinieri, caserme ecc). Il dirigente del servizio è responsabile dell'operato proprio e delle persone che da lui dipendono. Responsabilità che si esplica nei confronti del procuratore della repubblica presso il tribunale. Il minor grado di dipendenza funzionale consiste nel fatto che il pubblico ministero, che dirige le indagini preliminari, affida l'incarico non personalmente ad un ufficiale di polizia giudiziaria, ma impersonalmente all'ufficio. Sarà poi il responsabile di questo a scegliere l'ufficiale che condurrà le investigazioni. Anche in questo caso, il potere direttivo spettante all'ufficio del pubblico ministero è rafforzato attraverso strumenti che incidono sulla carriera del dirigente di servizio. Infine, gli organi di polizia giudiziaria che non sono ricompresi in sezioni o servizi, restano, comunque, sotto la dipendenza "funzionale" della magistratura, e quindi sono tenuti, ai sensi dell'art. 59, ad eseguire i compiti affidati dall'autorità giudiziaria. Il potere disciplinare spettante alla magistratura è azionabile dal procuratore generale presso la corte d'appello e la decisione spetta ad un organo composto da due giudici e da un ufficiale di polizia giudiziaria. Soggetta alla giurisdizione disciplinare è, oltre al personale delle sezioni e dei servizi, qualsiasi persona che abbia la qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. Oggetto del potere disciplinare sono tutti gli illeciti che riguardano l'espletamento dei compiti di polizia giudiziaria. Per gli illeciti non attinenti a questi compiti, ufficiali ed agenti restano soggetti alle sanzioni stabilite dai corpi di appartenenza. 5. L'imputato a. La distinzione tra imputato e indagato Le indagini possono svolgersi nei confronti di ignoti o contro un indagato. La maggior parte delle denunce sono presentate contro ignoti, in quanto il denunciante spesso non è in grado di indicare colui che ritiene responsabile di un reato (reato che il pubblico ministero, dopo aver ricevuto la denuncia dalla polizia giudiziaria, fa iscrivere in un apposito registro denominato ''registro delle notizie di reato''). Solo dopo aver svolto le indagini, è probabile che gli elementi raccolti permettano di addebitare il reato alla responsabilità di una determinata persona, il cui nome viene iscritto nel registro accanto all'indicazione della denuncia. Tale soggetto è definito dal codice ''persona sottoposta alle indagini deve essere avvertito che, qualora renda dichiarazioni su fatti che concernano la responsabilità di altri soggetti, assumerà, in relazione a tali fatti, l'ufficio di testimone. L'eventuale omissione o irritualità dei predetti avvisi è sanzionata con l'inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'indagato. Quanto all'interrogatorio ''sul merito'', ai sensi dell'art. 65, il pubblico ministero, prima di rivolgere domande all'indagato, deve rendergli noto ''in forma chiara e precisa'' il fatto che gli è attribuito; deve indicargli ''gli elementi di prova'' esistenti contro di lui; infine deve comunicargli le fonti di prova (per es. il nome del testimone), a patto che ciò non pregiudichi il corso delle indagini (pericolo di inquinamento delle prove). Assolti questi obblighi, il pubblico ministero invita l'indagato a rispondere alle domande. L'indagato a questo punto ha di fronte a sé tre strade: in primo luogo, può rifiutarsi di rispondere o di rispondere a tutte le domande, ed in tal caso il pubblico ministero dà atto nel verbale che l'indagato si è avvalso della facoltà di non rispondere; in secondo luogo, può rispondere, e se i fatti che egli ammette sono a lui sfavorevoli si ha una confessione; in terzo luogo, può rispondere dichiarando il falso. L'ordinamento quindi ammette che l'indagato possa difendersi rendendo dichiarazioni mendaci: fatta eccezione per i reati di simulazione di reato e di calunnia, per i quali resta perseguibile, l'indagato non sarà punibile per tutti gli altri reati che integrerebbe dichiarando il falso. Infatti, fermo restando che, non essendo sentito nelle vesti di testimone, non potrebbe rispondere per il delitto di falsa testimonianza né di false informazioni al pubblico ministero, in relazione agli altri reati è protetto dall'art. 384 del c.p., che prevede una scusante in favore di colui che ha commesso determinati delitti contro l'amministrazione della Giustizia per salvarsi da un grave ed inevitabile pregiudizio nella libertà o nell'onore (quale sarebbe una condanna penale). c. La distinzione fra indagato e persona informata (possibile testimone) Il testimone si trova in una situazione differente rispetto all'indagato e all'imputato. Infatti, mentre questi ultimi hanno il diritto al silenzio e non sono punibili se mentono, il testimone ha l'obbligo di dire la verità. La persona che ha conoscenza di fatti è qualificata però come ''testimone'' quando depone davanti al giudice (nel qual caso, se dichiara il falso o tace ciò che sa, commette delitto di falsa testimonianza); viceversa, quando è esaminata dal pubblico ministero è qualificata come ''persona che può riferire circostanze utili ai fini delle indagini'', nella prassi ''persona informata'' (nel qual caso, se dice il falso, commette delitto di ''false informazioni"). Appare chiaro che la persona informata occupa una posizione sostanzialmente analoga a quella del testimone: essa può essere definita come un ''possibile testimone''. Il codice prevede una disciplina particolare in relazione all'ipotesi di "dichiarazioni autoindizianti". Può accadere che durante la sua deposizione il testimone renda, più o meno consapevolmente, ''dichiarazioni dalle quali emergono indizi di reità a suo carico''. In questo caso, l'autorità procedente deve interrompere l'esame; avvertire la persona che a seguito delle sue dichiarazioni potranno essere svolte indagini nei suoi confronti; invitarla a nominare un difensore (art. 63, comma 1). Ad ogni modo, le dichiarazioni rese fino a quel momento ''non possono essere utilizzate'' contro la persona che le ha rese, ma possono essere utilizzate a suo favore o contro altre persone. La disciplina appena esposta si propone di tutelare la persona che ''si sia messa nei guai'' adempiendo al dovere di dire la verità in due modi: per un verso, in via preventiva, impone al pubblico ministero di bloccare la deposizione impedendo così al testimone di peggiorare la sua situazione con altre dichiarazioni; per altro verso, in via successiva, neutralizza le dichiarazioni già rese nella loro efficacia pregiudizievole per colui che le ha rilasciate. Altra situazione delicata ricorre quando l'autorità inquirente elude le norme sull'interrogatorio ascoltando come testimone o persona informata "una persona che doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o persona sottoposta alle indagini". L'autorità inquirente potrebbe infatti essere tentata di ignorare gli indizi di reità a carico di una persona, al fine di ascoltarla illegittimamente in qualità di "persona informata" per ottenere dichiarazioni sulla responsabilità di altre persone; informazioni che invece non potrebbe ottenere qualora la persona fosse sentita in qualità di indagato e si avvalesse della facoltà di non rispondere. L'art. 63, comma 2, tutela l'indagato sancendo l'inutilizzabilità delle dichiarazioni da lui rese dinnanzi all'autorità inquirente che ha commesso l'abuso. d. la verifica della identità fisica e anagrafica dell'indagato. processuali previsti tassativamente per legge (per es. l'assunzione da parte del giudice di prove che possono condurre al proscioglimento dell'imputato). L'ordinanza viene revocata quando l'imputato risulti in grado di partecipare di nuovo al procedimento o quando, durante la sospensione, sono assunte prove che legittimano il proscioglimento o una pronuncia di non luogo a procedere. 6. Il difensore a. La rappresentanza tecnica e quella volontaria. La difesa è un diritto che consiste nel potere di esigere da altri soggetti un comportamento conforme alla legge. E' inviolabile (art. 24 della Costituzione). Sono titolari del diritto di difesa le parti ed alcuni fra i soggetti del procedimento penale. Per l'imputato la difesa rappresenta più precisamente quella forma di tutela che gli permette di ottenere il riconoscimento della piena innocenza o comunque di essere condannato ad una sanzione non più grave di quella prevista dalla legge. Tale diritto si può esercitare sia personalmente (autodifesa), sia per mezzo del difensore (difesa tecnica). Esempio di autodifesa è il diritto spettante all'indagato di ricevere personalmente notizia del procedimento in corso mediante l'informazione di garanzia. Il difensore è una persona che ha particolare competenza tecnico-giuridica e che ha determinate qualifiche di tipo penalistico, privatistico o processuale. La rappresentanza tecnica è il potere, conferito al difensore, di compiere atti processuali nell'interesse del cliente, a condizione che i medesimi non siano personali, e cioè che non siano dalla legge espressamente riservati alla parte. E' conferita dal cliente al difensore mediante procura ad litem. La nomina è contenuta in una dichiarazione che può essere resa oralmente davanti all'autorità procedente o può essere resa per atto scritto (ove l'indagato si trovi in stato di fermo, arresto o custodia cautelare, la nomina può essere fatta, con le stesse forme da un prossimo congiunto). La persona offesa conferisce la rappresentanza tecnica con le medesime forme semplificate previste per l'imputato*. Viceversa, le altre parti possono conferire rappresentanza tecnica ad un difensore solo mediante una procura speciale con atto pubblico o scrittura privata autenticata. Quando si deve compiere nel procedimento un atto ''personale'' e non può essere presente la parte assistita, non è sufficiente la rappresentanza tecnica. E' altresì necessario il conferimento della rappresentanza volontaria al difensore (o altra persona di fiducia). La rappresentanza volontaria permette di compiere un atto processuale ''in nome e per conto'' della parte. E ciò si può fare solo mediante procura speciale a compiere un determinato atto, rilasciata, a pena di inammissibilità, per atto pubblico o scrittura privata autenticata (la procura speciale è necessaria per esempio per l'istanza di rimessione del processo). Ci sono ovviamente atti personalissimi, come l'interrogatorio, per i quali la rappresentanza volontaria non è contemplata. Tra l'imputato e il difensore esiste una rappresentanza tecnica che assume la forma dell'assistenza, cioè quella particolare forma di rappresentanza tecnica che non esclude l'autodifesa del soggetto assistito e che gli permette di compiere gli atti che non siano riservati per legge al difensore. Il diritto di autodifesa dell'imputato, quindi, prevale sul diritto alla difesa tecnica, tant'è vero che, in base all'art. 99, comma 2, l'imputato può togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all'atto compiuto dal difensore prima che, in relazione all'atto stesso, non sia intervenuto un provvedimento del giudice. Al difensore competono tutte le facoltà e i diritti che la legge riconosce all'imputato, a meno che non siano riservati personalmente a quest'ultimo. *Anche l'offeso, come l'imputato, può, in taluni casi previsti dalla legge, agire personalmente nel procedimento, per esempio presentando memorie o indicando elementi di prova. Non può, però, a differenza dell'imputato, togliere effetto ad un atto del proprio difensore. L'unico modo che ha per evitare una rappresentanza ''scomoda'' è revocare la nomina. Il rapporto che si instaura fra difensore e imputato ha natura fiduciaria: Il difensore può rifiutare la nomina prima dell'accettazione del mandato. Dopo l'accettazione, può rinunciarvi, a condizione che la rinuncia venga comunicata a colui che ha effettuato la nomina ed all'autorità competente. Ovviamente non ha effetto finché la parte non risulti assistita da un nuovo difensore. Sotto il profilo strettamente deontologico, il difensore di una parte privata ha doveri differenti rispetto a quelli del pubblico ministero. Egli, infatti, collabora all'accertamento dei fatti, ma limitandosi a presentare gli elementi di prova favorevoli al cliente: perseguendo un interesse privato e non pubblico, non ha quindi l'obbligo di ricercare la verità contro il cliente. L'art. 106 prevede la possibilità che la difesa di più imputati sia assunta da un difensore comune ''purché le diverse posizioni non siano tra loro incompatibili". L'incompatibilità sussiste quando un imputato abbia interesse a sostenere una La scelta del legislatore è stata quella di assicurare al difensore la possibilità di svolgere la propria attività di patrocinio e consulenza in favore del cliente senza subire alcun condizionamento. Occorre quindi che la raccolta di elementi di prova da contrapporre alle altre parti avvenga in modo riservato e immune da interferenze ad opera dell'autorità inquirente. Libero dispiegamento dell'attività difensiva e segreto professionale trovano supporto nell'art. 24 della Costituzione. Per intenderci sul significato pratico di questa norma, basti sapere che lo studio legale nel quale opera il difensore non può essere soggetto a intercettazioni relative a conversazioni o comunicazioni dei difensori, né a quelle fra i medesimi e i loro assistiti; non può neanche essere sottoposto ad ispezioni, perquisizioni o sequestri. Queste ultime sono però ammesse se i difensori sono ''imputati'' in altri procedimenti (tali atti devono essere disposti ''limitatamente ai fini dell'accertamento del reato loro attribuito''); per rilevare tracce o altri effetti materiali del reato (si pensi ad una rapina commessa nello studio dell'avvocato); altresì per ''ricercare cose o persone specificamente predeterminate'' che siano nascoste nell’ufficio dell'avvocato (si pensi ad un latitante); il sequestro di carte o documenti relativi all'oggetto della difesa, infine, è vietato nell'ufficio del difensore e dei suoi ausiliari a meno che non costituiscano corpo del reato (art. 103 c.p.p.). E' altresì previsto il divieto di intercettare le conversazioni o comunicazioni che intercorrono fra i difensori, gli investigatori privati, consulenti tecnici ed i loro ausiliari in relazione al procedimento, nonché quelle fra i predetti ed i loro assistiti. Parimenti, è previsto il divieto di sequestrare la corrispondenza fra imputato e proprio difensore. Il tutto a pena di inutilizzabilità di risultati degli atti compiuti in violazione delle suddette norme. Il codice vuole inoltre assicurare all'indagato la possibilità di entrare immediatamente in contatto con l'avvocato al fine di concordare le strategie difensive, garantendogli la possibilità di conferire con quest'ultimo anche se sottoposto all'arresto, al fermo o alla custodia cautelare. Il difensore ha quindi diritto ad accedere al luogo della custodia senza alcuna autorizzazione al fine di conferire col proprio assistito. Nel corso delle indagini preliminari, però, il diritto a conferire col proprio difensore può essere dilazionato per un tempo non superiore ai cinque giorni e con decreto motivato emesso dal giudice su richiesta del pm nel caso di ''specifiche ed eccezionali ragioni di cautela'' (cioè le esigenze cautelari previste dall'art. 274 ma specifiche e fuori dal comune): nella sostanza, accade quando sussiste il pericolo che le indagini siano pregiudicate dal colloquio tra l'arrestato ed il difensore in caso di gravi fatti addebitati a più indagati. In caso di arresto o fermo, analogo provvedimento può essere disposto dal pm fino al momento in cui l'arrestato è posto a disposizione del giudice, e cioè fino a 48 ore dall'esecuzione della misura. 7. La persona offesa dal reato e la parte civile a. La persona offesa dal reato La persona offesa dal reato è il soggetto titolare dell'interesse/bene giuridico protetto dalla norma di diritto penale che si assume violata dal reato. Il codice attribuisce alla persona offesa la qualifica di ''soggetto'' del procedimento, e la qualifica di parte, ove abbia esercitato l'azione risarcitoria costituendosi parti civile (è quindi una parte ''eventuale''). Il codice prevede inoltre un caso di persona offesa di creazione legislativa: ai sensi dell'art. 90, i prossimi congiunti possono esercitare le facoltà e i diritti previsti dalla legge in favore della persona offesa che sia deceduta in conseguenza del reato. Prescindendo così dagli eventuali diritti di natura civilistica derivanti dalla successione, la qualifica di offeso, in base a questa norma, è attribuita anche a chi ha rinunciato all'eredità. La persona offesa dal reato, nella sua qualità di ''soggetto'' del procedimento, può esercitare tutti i diritti e le facoltà ad essa espressamente riconosciuti dalla legge. Tra i vari poteri di cui gode, possiamo menzionare quelli sollecitatori dell'attività inquirente, come la presentazione di memorie o l'indicazione di elementi di prova nel corso del procedimento. Accanto a quelli sollecitatori, vanno ricordati i diritti di carattere informativo: quando sta per compiere un atto garantito nei confronti di un indagato, il magistrato invia l'informazione di garanzia alla persona offesa, che in questo modo riceve una comunicazione ''ufficiale'' circa l'esistenza di un procedimento in corso venendo così messa in condizione di esercitare il proprio diritto di difesa (nella prassi, però, l'invio di un'autonoma informazione di garanzia alla persona offesa è atto desueto e comunque non previsto a pena di nullità). Altro diritto di ''informativa'' molto importante spetta alla persona offesa nei casi nei quali il pubblico ministero proceda al compimento di un accertamento tecnico non ripetibile: il dalla Costituzione. E' il caso, per esempio, del danno biologico, che consiste nella menomazione dell'integrità fisico-psichica del soggetto e che rappresenta una violazione del ''diritto alla salute'' previsto dalla Carta del 1948. Il soggetto che abbia subito uno dei danni di cui sopra è definito ''danneggiato da reato'' ed ha il diritto ad ottenere il risarcimento del danno da parte del responsabile del reato. L'azione risarcitoria di condanna può essere esercitata, o davanti al giudice civile in un autonomo procedimento, oppure davanti al giudice penale, ma solo dopo che il pubblico ministero abbia esercitato l'azione penale. L'azione civile, se esercitata nel processo penale, conserva sotto molti aspetti la sua natura e le sue caratteristiche ''civilistiche'': infatti resta facoltativa e disponibile, nel senso che il danneggiato in ogni momento può revocare la costituzione di parte civile (per es. quando la parte civile stipula con l'imputato una transazione sul risarcimento dovuto); in più, il giudice penale, nel condannare al risarcimento, non può andare oltre il quantum fissato nella domanda risarcitoria. Per altri aspetti, però, l'azione civile subisce varie deroghe rispetto alla regolamentazione che vige nel processo civile, giacché i poteri ed il comportamento processuale della parte, al di là della natura ''civilistica'' della sua azione, sono disciplinati dal codice di procedura penale. Ad esempio, le prove dell'illecito penale e dei danni cagionati sono ricercate d'ufficio dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari, sebbene la parte civile abbia un autonomo diritto di ricerca e di ammissione della prova. Altro esempio di prevalenza del processo penale si trova nell'obbligo della parte civile di dire la verità quando citata come testimone, mentre nel processo civile le parti non possono essere chiamate a deporre come testimoni con l'obbligo di dire la verità. In definitiva, il danneggiato che eserciti l'azione civile nel processo penale incontra diversi vantaggi: non anticipa le spese del procedimento (che sono a carico dello Stato) e non deve affannarsi a ricercare le prove (senza contare, talaltro, che gode dei tempi più ristretti della giustizia penale rispetto a quella civile). Di contro, si trova però in un procedimento nel quale l'iniziativa e le scelte fondamentali spettano al pubblico ministero e, altro svantaggio, l'eventuale sentenza di assoluzione pronunciata a favore dell'imputato con la formula piena prevista dall'art. 652 ha effetto di giudicato, impedendo al giudice civile di condannare il responsabile del danno al relativo risarcimento. La costituzione di parte civile deve essere fatta mediante un'apposita dichiarazione resa per iscritto con atto pubblico o scrittura privata autenticata (si tratta di una procura speciale assegnata al difensore). La dichiarazione deve contenere le generalità della persona fisica, dell'imputato, del difensore; la richiesta rivolta al giudice di pronunciare la condanna al risarcimento del danno (petitum), nonché l'esposizione dei motivi per i quali si asserisce che il reato abbia provocato un danno patrimoniale o non patrimoniale (causa petendi). L'indicazione del quantum non è necessaria, ma sarà indispensabile al momento della presentazione delle conclusioni scritte al termine del dibattimento. Ci si può costituire parte civile, a pena di decadenza, o nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti all'inizio dell'udienza preliminare (art. 79); oppure nel momento in cui il giudice accerta la regolare costituzione delle parti prima dell'inizio del dibattimento. Dopo tale momento la dichiarazione di costituzione di parte civile è inammissibile. Qualora, invece, la dichiarazione viene presentata entro i termini, ma non sussistono i presupposti sostanziali o i requisiti formali per la costituzione di parte civile, il giudice, con ordinanza, dispone l'esclusione su richiesta motivata del pubblico ministero. E' importante sottolineare, infine, che la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo, pertanto la parte civile non ha la necessità di rinnovare la costituzione nelle successive fasi o gradi del processo. La presenza della parte civile viene meno anche nell'ipotesi di revoca, che può essere effettuata in maniera espressa con dichiarazione resa in udienza dalla parte civile personalmente o da un suo procuratore speciale, oppure in maniera tacita, non presentando le conclusioni scritte in dibattimento al momento della discussione finale, o promuovendo azione civile davanti al giudice civile (art. 82). In alternativa all'esercizio dell'azione civile in sede penale, il danneggiato può agire dinnanzi al giudice civile, oppure restare inerte e non esercitare azione risarcitoria né in sede penale, né in sede civile. In caso di inerzia, corre però il rischio che il giudice penale emetta una sentenza di assoluzione con formula ampia che ha efficacia di giudicato in relazione al fatto che è stato accertato. Nell'altro caso, invece, cioè ove il danneggiato eserciti azione risarcitoria in sede civile in maniera tempestiva (prima della pronuncia di primo grado del giudice penale), l'azione civile può svilupparsi senza subire sospensione, contemporaneamente allo svolgersi del processo penale. L'eventuale assoluzione dell'imputato non attribuiti alla persona offesa dal reato. Da ciò si ricava che è un soggetto e non una parte del processo, e che si colloca a fianco del pubblico ministero, senza però poter esercitare né l'azione penale, né l'azione civile di danno. Il codice lascia aperta la strada alla possibilità che enti esponenziali di interessi lesi intervengano nel procedimento penale. Si richiede però che l'ente collettivo sia riconosciuto in forza di legge e che tale riconoscimento sia intervenuto anteriormente alla commissione del reato; che l'ente sia ''rappresentativo'' dell'interesse leso; e che ci sia il consenso della persona offesa. In presenza di questi tre requisiti, l'ente può presentare all'autorità procedente un atto di intervento. Il responsabile civile è il soggetto obbligato a risarcire il danno causato dall'autore del reato. Può essere citato nel processo a richiesta della parte civile o intervenire volontariamente quando vi è stata costituzione di parte civile. E' quindi ''parte eventuale'', perché la sua presenza richiede che il danneggiato abbia esercitato azione risarcitoria e che egli stesso sia stato citato o sia intervenuto. Il codice prevede singole ipotesi di responsabilità ''per fatto altrui'', per le quali il responsabile civile è obbligato in solido con l'imputato al risarcimento del danno (per es. padroni e committenti responsabili dei danni arrecati dai dipendenti nell'esercizio delle incombenze a cui sono adibiti; oppure le compagnie assicuratrici). Il responsabile civile può intervenire volontariamente nel processo penale per chiedere l'ammissione di prove che lo liberino da responsabilità o che dimostrino l'innocenza dell'imputato. La persona civilmente obbligata per la pena pecuniaria è altresì ''parte eventuale'' del processo penale. Si tratta di una responsabilità civile sussidiaria che si attiva quando l'autore del reato, che sia stato condannato e sottoposto ad esecuzione per una pena pecuniaria, sia insolvibile. In tal caso, l'obbligo di pagare la multa o l'ammenda è posto a carico della persona fisica o giuridica indicata dagli art. 196 e 197 del codice penale (persone rivestite di autorità, direzione o vigilanza sull'autore del reato, enti forniti di personalità giuridica quando il condannato è un loro dipendente o una persona che ne abbia la rappresentanza o l'amministrazione). E' ''parte eventuale'' perché diventa parte soltanto dopo che la persona civilmente obbligata è stata citata su richiesta del pubblico ministero o dell'imputato. Infine, il decreto legislativo 231 del 2001 ha introdotto, accanto alla responsabilità civile per i danni derivanti dal reato, anche quella amministrativa dell'ente giuridico che deriva dagli illeciti penali commessi dai rappresentanti o dirigenti dell'ente medesimo. Il procedimento per l'illecito amministrativo è riunito, di regola, al procedimento penale instaurato nei confronti dell'autore del reato da cui dipende l'illecito. Ciò che viene compiuto, in pratica, è l'accertamento in sede penale di una responsabilità di tipo amministrativo. La responsabilità è limitata a determinati reati elencati dalla legge (corruzione e concussione, frode ai danni dello Stato etc). Nei confronti degli enti responsabili vengono irrogate sanzioni pecuniarie ed interdittive. Capitolo II Gli atti 1. Gli atti del procedimento penale a. considerazioni generali Viene tradizionalmente definito atto del procedimento penale quell'atto compiuto da uno dei soggetti del procedimento e che è finalizzato alla pronuncia di un provvedimento penale. Gli atti più importanti del procedimento hanno forma vincolata. Il rispetto delle forme legali è una delle garanzie poste a tutela dei soggetti che sono implicati nel procedimento penale. Un esempio di norma, che prevede atti a forma vincolata, è l'art. 125, comma 1, secondo cui ''la legge stabilisce i casi nei quali il provvedimento del giudice assume la forma della sentenza, dell'ordinanza o del decreto''. Tutti gli altri provvedimenti del giudice (diversi da sentenza, ordinanza o decreto) sono adottati con forma libera e, quando non è stabilito altrimenti, anche oralmente. L'ordinanza è il provvedimento preordinato alla risoluzione da parte del giudice di singole questioni senza definire il procedimento (per es., con ordinanza, il giudice accoglie o rigetta la domanda di ammissione di un mezzo di prova). Anche l'ordinanza deve essere motivata a pena di nullità e, di regola, è revocabile dal giudice. Il decreto invece è un ''ordine'' dato dal giudice e deve essere motivato solo se la legge lo precisa espressamente. Il decreto, al pari dell'ordinanza, risolve singole questioni senza chiudere in modo definitivo un procedimento. Di solito, però, a differenza del decreto, l'ordinanza è emessa dopo che si è svolto il contraddittorio fra le parti (si pensi, per esempio, al decreto di archiviazione, emesso senza contraddittorio, e l'ordinanza di archiviazione, pronunciata, invece, a seguito di un'udienza in camera di consiglio). L'accoglimento di un sistema accusatorio pone al giudice l'obbligo di decidere soltanto su richiesta di parte. Si pensi per esempio al processo civile, che prevede il principio di domanda di parte e, in materia probatoria, l'onere di allegare l'esistenza del fatto che fonda la pretesa; invece, poiché il processo penale coinvolge diritti di libertà che sono indisponibili per espresso enunciato costituzionale, era inevitabile che la materia non potesse essere lasciata all'esclusiva iniziativa di parte. Per questo l'art. 129 pone in capo al giudice l'obbligo di dichiarare immediatamente d'ufficio determinate cause di non punibilità: assenza di responsabilità dell'imputato; l'estinzione del reato; e la mancanza di una condizione di procedibilità. La pronuncia del giudice deve intervenire immediatamente in ogni stato e grado del processo, quindi in momenti successivi all'esercizio dell'azione penale. Ciò significa che al giudice per le indagini preliminari, che accerti l'esistenza di una delle situazioni contemplate dall'art. 129, è preclusa la possibilità di pronunciare d'ufficio una delle declaratorie di non punibilità. Il comma 2 dell'art. 129 pone una gerarchia fra le formule che il giudice è tenuto ad emettere: quando esiste una causa di estinzione del reato (ad esempio la prescrizione) ma risulta evidente dagli atti la ''non responsabilità penale'' dell'imputato, il giudice deve dare la preferenza a questo tipo di pronuncia, che assumerà la forma delle sentenza di assoluzione, o della sentenza di non luogo a procedere (se emessa nell'udienza preliminare). Ove, invece, non sia stata già acquisita agli atti la prova evidente circa la mancanza di responsabilità dell'imputato, il giudice è tenuto a pronunciare immediatamente l'estinzione del reato. L'art. 130 prevede invece la possibilità di correggere gli errori materiali relativi a sentenze, ordinanze o decreti. L'errore però non deve essere causa di nullità dell'atto e deve essere materiale, cioè consistere in una difformità fra il pensiero del giudice e la formulazione esteriore di tale pensiero. Infine l'eliminazione dell'errore non deve comportare modifiche di carattere sostanziale dell'atto; pertanto si devono escludere correzioni che incidono sul dispositivo. Ai sensi dell'art. 131, al giudice spettano poteri coercitivi al fine di garantire il ''sicuro e ordinato compimento degli atti ai quali procede''. Si tratta di poteri di ''polizia processuale'' per i quali il giudice chiede l'intervento della forza pubblica. Fra gli atti che sono espressione di questo potere, vale la pena di ricordare l'accompagnamento coattivo, che consiste in una restrizione della libertà personale finalizzata a condurre una persona davanti al giudice per rendere possibile l'acquisizione di un contributo probatorio. L'accompagnamento coattivo è possibile soltanto nei casi in cui la legge preveda espressamente l'intervento di una determinata persona per il compimento di uno specifico atto (''nei casi previsti dalla legge'', art. 132). Per evitare che diventi una misura cautelare camuffata, l'art. 132 prevede, talaltro, che la persona può essere sottoposta all'accompagnamento coattivo non "oltre il compimento dell'atto previsto e di quelli consequenziali (cioè legati a quello precedente con un vincolo logico-funzionale)" e che, in ogni caso, non può essere trattenuta oltre le ventiquattro ore. I destinatari del provvedimento di accompagnamento coattivo sono l'indagato (imputato), il testimone, il perito, il consulente tecnico ecc. Per l'imputato/ indagato, l'accompagnamento di regola deve essere preceduto da un invito a presentarsi o da una citazione rimaste senza effetto. Per le persone diverse dall'imputato, regolarmente citate e non comparse in processo, il giudice, oltre a disporre l'accompagnamento, può condannarle al pagamento di una somma di danaro o alle spese processuali alle quali la mancata comparizione ha dato causa. La relativa ordinanza è revocata se il giudice successivamente ritiene fondata la giustificazione addotta dall'interessato. Quanto agli atti delle parti, il secondo libro del codice si limita ad enunciare due soli ''modelli generali'': richieste e memorie. Assume la forma di richiesta ogni tipo di domanda che le parti rivolgono al giudice al fine di ottenere la decisione (es. : richiesta a procedere ad incidente probatorio). Sulle richieste formulate dalle parti il giudice deve provvedere senza ritardo entro 15 giorni, salvo specifiche disposizioni di effettua quando vi sia indisponibilità di strumenti di riproduzioni o quando gli atti da verbalizzare hanno scarsa rilevanza). d. La notificazione Nel corso del procedimento sorge l'esigenza di fornire conoscenza di atti a determinate persone perché possano esercitare i propri diritti. Lo strumento privilegiato previsto dalla legge per rendere noto al destinatario un atto del procedimento è la notificazione, di regola eseguita dall'ufficiale giudiziario mediante consegna della copia dell'atto stesso. Della consegna dell'atto è redatto un verbale, noto come ''relazione di notificazione''. Una volta adempiute tutte le formalità prescritte dal codice finalizzate ad assicurare l'effettiva conoscibilità dell'atto da parte dell'interessato, scatta la presunzione legale di avvenuta conoscenza. La notificazione, infatti, produce effetti per ciascun destinatario dal giorno della sua esecuzione e da quel momento l'atto si presume conosciuto. Le notificazioni al pubblico ministero sono eseguite nel modo ordinario o anche direttamente dalle parti mediante consegna di copia dell'atto alla segreteria. Allo stesso modo vengono notificati gli atti ed i provvedimenti del giudice, a cura della cancelleria. Allo scopo di rendere più celere l'attività di notificazione all'imputato, il codice prevede la dichiarazione o elezione di domicilio. Nel primo atto compiuto col l'intervento dell'imputato, l'autorità procedente lo invita a dichiarare il domicilio, cioè indicare quel luogo ove abita o lavora, oppure ad eleggere il domicilio, cioè indicare un domicilio di una persona differente che viene da lui scelta per ricevere copia dell'atto da notificare: una volta consegnata al domiciliatario, l'atto si considera legalmente conosciuto dall'imputato. Nel caso in cui non sia stato possibile invitare l'imputato a dichiarare o eleggere il domicilio, e non risulti in altro modo reperibile, il giudice o il pubblico ministero emettono decreto di irreperibilità. Con tale provvedimento viene designato un difensore all'imputato che ne sia privo e viene ordinato che le notificazioni siano eseguite mediante consegna di copia al difensore, che rappresenta l'irreperibile. Il decreto cessa di essere efficace al termine della fase o del grado di merito. Ogni volta che cessa di avere efficacia, debbono essere disposte nuove ricerche e, in caso di esito negativo, l'autorità giudiziaria emette un nuovo decreto di irreperibilità. La notificazione alla persona offesa e ad altri soggetti, diversi dalle parti private, sono eseguite con le modalità della prima notificazione all'imputato. Il codice prevede una serie di nullità speciali nelle ipotesi nelle quali non sono state osservate determinate formalità prescritte dalla legge. 2. Le cause di invalidità degli atti a. validità, tassatività e inammissibilità Il codice prevede i requisiti formali che i singoli atti del procedimento penale devono possedere. L'atto conforme al modello descritto dalla norma produce gli effetti giuridici previsti dalla legge, primo fra tutti quello di essere utilizzato dal giudice nella decisione. L'atto non conforme al modello legale può essere invalido o meramente irregolare. E' invalido quando la singola difformità è prevista dal codice come causa di decadenza, inammissibilità, nullità o inutilizzabilità. E' irregolare (ma valido) se la difformità dal modello non rientra in una delle cause di invalidità sopramenzionate. Il giudice potrà quindi tenere conto dell'atto irregolare ai fini della decisione. Se mai, l'inosservanza della legge nel compiere l'atto processuale potrà essere valutata dal punto di vista disciplinare e potrà dar luogo all'applicazione di una sanzione a carico della persona colpevole. Le previsioni di invalidità sono ''tassative''. Significa che l'inosservanza della legge processuale è causa di invalidità soltanto quando una norma lo preveda espressamente. Per esempio, l'incompetenza per territorio deve essere eccepita o rilevata a pena di ''decadenza'' prima della conclusione dell'udienza preliminare. Viceversa, se l'inosservanza non è prevista a pena di una delle cause di invalidità, l'atto è meramente irregolare. Il principio di tassatività è dettato specificamente per la nullità (art. 177) e la decadenza (173); tuttavia esso è desumibile dall'intero sistema delle cause di invalidità. Il legislatore ha ritenuto opportuno individuare con sicurezza quali sono le inosservanze che danno luogo all'invalidità, giacché gli effetti dell'invalidità sono pesanti e impediscono al giudice di ricavare dall'atto risultati utili per la decisione; ciò compromette per esempio l'accertamento del fatto storico quando l'atto viziato non è rinnovabile. L'inammissibilità è una causa di invalidità che impedisce al giudice di esaminare nel merito una richiesta avanzata da una dimostra di non aver potuto rispettare i termini per le cause di cui sopra. Di solito il giudice decide de plano (cioè senza contraddittorio) con ordinanza motivata che non può essere impugnata ex se, ma soltanto congiuntamente alla sentenza che decide sull'impugnazione o sull'opposizione. Fa eccezione l'ordinanza con cui il giudice respinge la richiesta di restituzione che è invece autonomamente impugnabile mediante ricorso per cassazione. Due casi specifici di restituzione nei termini sono previsti nei confronti della sentenza contumaciale e del decreto penale di condanna, sul comune presupposto che l'imputato può aver avuto una conoscenza soltanto presuntiva, e non effettiva, del procedimento o del provvedimento. Il giudice dichiara la contumacia quando l'imputato non compare all'udienza preliminare o dibattimentale e la sua assenza non risulta dovuta ad assoluta impossibilità di comparire né a legittimo impedimento. Per quanto concerne i presupposti di tipo oggettivo, la sentenza contumaciale deve avere il carattere della irrevocabilità. Non vi è sentenza irrevocabile se il titolo esecutivo non si è formato validamente (è stata ad esempio omessa la notificazione dell'estratto della sentenza contumaciale); dal punto di vista soggettivo, la richiesta può essere presentata soltanto dall'imputato. La richiesta di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale deve essere presentata a pena di decadenza entro trenta giorni dal giorno in cui l'imputato ha avuto conoscenza effettiva del procedimento. Il rimedio non viene concesso quando il giudice abbia accertato che l'imputato abbia avuto conoscenza effettiva del procedimento e abbia rinunciato a comparire; che l'imputato abbia avuto conoscenza effettiva del provvedimento e abbia rinunciato volontariamente a proporre impugnazione (l'onere della prova, rispetto agli altri casi, risulta quindi invertito a carico del giudice). Se invece nessuna delle situazioni di conoscenza effettiva viene accertata, il giudice deve accogliere la richiesta con ordinanza. Ciò che l'imputato ottiene è la possibilità di presentare impugnazione contro la sentenza, che non viene quindi annullata, ma perde il proprio carattere di irrevocabilità. Analoghi sono i termini e il regime probatorio previsto dal legislatore per lo specifico rimedio contro il decreto penale di condanna. Ottenuta la restituzione, l'imputato può proporre opposizione. Al giudice per le indagini preliminari spetta la competenza sulla richiesta di restituzione nel termine, in quanto a lui tocca a decisione sull'ammissibilità o meno dell'opposizione. .c. La nullità La nullità colpisce un atto del procedimento compiuto in violazione di quelle disposizioni imposte dalla legge ''a pena di nullità''. Ai sensi dell'art. 177, le ipotesi di nullità sono tassativamente previste dalla legge. Ciò significa che non è possibile applicare la nullità per analogia ad ipotesi simili, né è possibile valutare, una volta accertata una nullità, se vi sia stato un pregiudizio concreto per l'interesse protetto o se comunque l'atto nullo abbia raggiunto l'effetto. Una scelta formalistica, questa, che confligge con l'esigenza di assicurare una ragionevole durata del processo. Sulla base delle modalità di previsione dell'inosservanza, si distinguono nullità speciali e generali. Le nullità speciali sono previste per una determinata inosservanza precisata nella species (per es. : inosservanze relative alla lingua degli atti del procedimento); le nullità generali, invece, sono previste per ampie categorie di inosservanze (es. : disposizioni sull'intervento dell'imputato). Per quanto riguarda il regime giuridico, le nullità si distinguono in assolute, intermedie e relative. Le assolute sono quelle più gravi, previste dall'art. 179 e riguardano i soggetti necessari del procedimento penale. Rientrano nella categoria di nullità assolute le violazioni delle norme concernenti ''le condizioni di capacità del giudice'', intese nel senso di capacità generica all'esercizio della funzione giurisdizionale (es. : mancanza di laurea in giurisprudenza); le violazioni delle disposizioni concernenti ''il numero dei giudici necessario per costituire i collegi''; come nullità assoluta generale, la violazione delle disposizioni concernenti ''l'iniziativa del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale'' (per es., omissione della richiesta di rinvio a giudizio, oppure richiesta di rinvio a giudizio sottoscritta dal segretario); l'omessa citazione dell'imputato; l'omissione della notificazione (e non qualsiasi vizio della stessa); la presenza del difensore dell'imputato nei casi in cui è prevista come ''obbligatoria'' (es., interrogatorio di garanzia, incidente probatorio). Le nullità intermedie sono invece le inosservanze di media gravità previsti dall'art. 180. A differenza di quelle assolute, che riguardano solo i soggetti più importanti del procedimento, queste invece coinvolgono una sfera più ampia La sanatoria è quel fatto giuridico ulteriore e successivo rispetto all'atto viziato, che lo rende equivalente a quello valido. Ispirato al principio di conservazione degli atti, la sanatoria consente all'atto viziato di produrre gli stessi effetti dell'atto conforme al modello legale ed impedisce alle parti di eccepire la nullità dell'atto. Il codice distingue fra sanatorie generali e speciali (art. 184). Le sanatorie generali si applicano alle nullità di tipo intermedio o relativo. Ai sensi dell'art. 183, la nullità si considera sanata se la parte interessata ha rinunciato espressamente ad eccepirla oppure ha accettato gli effetti dell'atto anche tacitamente. Si tratta di forme di acquiescenza tipizzata, che si possono verificare, ad esempio, quando al difensore dell'imputato non viene dato avviso di un accertamento tecnico non ripetibile, per il quale è prevista la sua presenza, ma il difensore stesso utilizza i risultati di tale accertamento per chiedere al giudice un provvedimento. L'art. 184 prevede, invece, una sanatoria speciale che costituisce un'ipotesi di raggiungimento dello scopo tipizzata. Ai sensi del primo comma, la nullità di una citazione o di un avviso è sanata se la parte interessata è comparsa o ha rinunciato a comparire. Il giudice dichiara la nullità di un atto quando, nel caso concreto, non vi sono limiti di deducibilità né si sono verificate sanatorie. Oltre all'atto non conforme al modello legale, ai sensi dell'art. 185, la nullità di un atto si estende anche agli atti consecutivi che dipendono (in senso logico e giuridico) da quello dichiarato nullo. Occorre, pertanto, che l'atto nullo sia un presupposto necessario per il valido compimento di quello successivo. Si deve trattare di atti propulsivi del procedimento. Per es., ove il decreto che dispone il giudizio sia dichiarato nullo, ne risultano automaticamente travolti tutti quelli compiuto successivamente. Ai sensi dell'art. 185, comma 2, il giudice che dichiara la nullità di un atto, ne dispone la rinnovazione, se necessaria e possibile, ponendo le spese a carico di chi ha causato la nullità per dolo o colpa grave. Il giudice pone poi una distinzione quando la nullità è dichiarata in un stato o grado del processo diverso da quello in cui la stessa si è verificata. Se si tratta di una prova, il giudice provvede alla rinnovazione se necessaria e possibile. Se si tratta di un atto propulsivo, la dichiarazione di nullità comporta addirittura la regressione del procedimento allo stato o al grado in cui è stato compiuto l'atto nullo a meno che non sia diversamente stabilito. e. L'inutilizzabilità L'inutilizzabilità è un tipo di invalidità che non colpisce l'atto in sé, bensì il suo ''valore probatorio''. Infatti l'atto, pur essendo formalmente valido, quando è dichiarato inutilizzabile, non può essere posto a base di una decisione del giudice o di un atto del pm o della polizia giudiziaria. L'inutilizzabilità si dice assoluta, quando il giudice non può basarsi su di esso per emettere un qualsiasi provvedimento; si dice relativa, quando la legge indica le persone nei confronti delle quali non può essere utilizzato un determinato atto o la categoria di provvedimenti che non possono basarsi su di esso. Altra distinzione fondamentale è fra inutilizzabilità patologica e fisiologica. Quella patologica di tipo generale è disciplinata dall'art. 191, in base al quale ''le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate''. Tuttavia la norma, a causa della sua formulazione troppo generica, ha provocato non pochi problemi di interpretazione. Anzitutto, il divieto in violazione del quale scatta l'inutilizzabilità deve essere previsto da una norma di tipo processuale. Ciò lo si capisce dalla rubrica dell'articolo 191, che fa riferimento ''alle prove illegittimamente acquisite''. Se invece il divieto avesse avuto ad oggetto una norma penale sostanziale, il legislatore avrebbe utilizzato l'espressione di ''prove illecitamente acquisite''. Pertanto le prove acquisite illecitamente sono di regola utilizzabili. Il divieto probatorio, da cui deriva l'inutilizzabilità, consiste più precisamente nel fatto che il giudice ha esercitato, nell'acquisizione della prova, un potere che la legge processuale gli vietava (es. può darsi che il giudice violi il divieto di acquisire documenti contenenti ''informazioni sulle voci correnti nel pubblico intorno al fatto di reato'', art. 234). Non comporta di regola inutilizzabilità, invece, la violazione delle ''modalità di assunzione della prova (quomodo), a meno che non sia la legge a prevederlo espressamente. Ad esempio, la deposizione testimoniale deve essere resa in seguito a ''domande su fatti specifici''. Ma se al testimone viene chiesto dalla parte che lo interroga di narrare spontaneamente ciò che sa sul fatto al quale ha assistito, la deposizione comunque è utilizzabile. Un esempio invece nel quale è previsto un divieto concernente le modalità di assunzione e la cui inosservanza comporta inutilizzabilità è legittimamente acquisite in dibattimento nelle specifiche ipotesi nelle quali è ammessa la lettura, non sono utilizzabili nella decisione perché non hanno subito il vaglio del contraddittorio. f. L'atto inesistente e atto abnorme. L’inesistenza è una causa di invalidità elaborata dalla dottrina e dalla giurisprudenza per quelle imperfezioni dell'atto più gravi delle nullità assolute insanabili e che non sono state previste dal legislatore proprio a causa della loro eccezionalità. Fra i casi di inesistenza ricordiamo: la carenza di potere giurisdizionale del giudice, come avviene nell'ipotesi di una sentenza penale emessa da un organo della pubblica amministrazione; la sentenza pronunciata contro un imputato totalmente incapace perché coperto da immunità (es: agente diplomatico). In tali casi l'atto non esiste in senso giuridico e può essere dichiarato inesistente dal giudice anche se diventato irrevocabile. In definitiva, l'inesistenza è una deroga al principio di tassatività delle invalidità e del principio del giudicato. Prima dell'irrevocabilità della sentenza, invece, può essere sottoposto a ricorso per cassazione il cosiddetto provvedimento abnorme. E' abnorme sia il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall'intero ordinamento processuale, sia il provvedimento che, pur essendo in astratto manifestazione di legittimo potere, si esplichi al di fuori dei casi consentiti e delle ipotesi previste, al di là di ogni ragionevole limite, quando l'atto determini la stasi del processo e l'impossibilità di perseguirlo. Questa categoria è stata elaborata giacché il principio di tassatività dei mezzi di impugnazione avrebbe precluso la possibilità di impugnare quei provvedimenti affetti da anomalie così gravi da renderli del tutto eccentrici rispetto al sistema del codice. Capitolo III Principi generali sulla prova a.Sistema processuale Il sistema inquisitorio si basa sul principio di autorità, secondo il quale la verità può essere meglio accertata quanto maggiori siano i poteri conferiti al soggetto inquirente. Quest’ultimo pertanto cumula in sé più funzioni processuali: egli opera al tempo stesso come giudice, accusatore e difensore dell’imputato. Ne deriva che ad un unico soggetto sono concessi pieni poteri nella ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova. Il sistema accusatorio, invece, si basa sul principio dialettico, in base al quale si ritiene che la verità si possa accertare meglio attraverso una ripartizione delle funzioni processuali fra soggetti portatori di interessi contrapposti. Ad un giudice imparziale spetta soltanto il compito di decidere, sulla base delle prove addotte dalle parti, fra le diverse ricostruzioni del fatto storico rappresentate da accusa e difesa. I poteri di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova, quindi, non sono attribuiti ad un unico soggetto ma divisi fra giudice, accusa e difesa in modo che nessuno ne possa abusare. In un sistema del genere risulta necessario regolamentare la materia della prova: i poteri di un soggetto devo essere controbilanciati da quelli concessi agli altri soggetti e il giudice deve restare in una situazione di assoluta imparzialità e neutralità psichica. Il codice del 1988 ha accolto i principi del sistema accusatorio, giacché i poteri del giudice e delle parti sono distribuiti in vario modo nelle fasi di ricerca, ammissione, assunzione e valutazione della prova. b. Il ragionamento del giudice: la sentenza Le prove hanno una finalità precisa: rendere possibile al giudice la decisione sulla reità dell’imputato. Dal punto di vista formale, la decisione pronunciata dal giudice si presenta come una sentenza. Si compone di una motivazione e di un dispositivo. Nella motivazione il giudice, in base alle prove che sono state acquisite nel processo, ricostruisce il fatto storico commesso dall’imputato e verifica se quest’ultimo rientra nel fatto tipico previsto dalla norma incriminatrice. Nel dispositivo il giudice esegue il giudizio di conformità fra fatto storico e fatto tipico. Tutto questo vuol significare che il giudice ‘applica il diritto al caso concreto’. Il percorso che conduce il giudice alla decisione è scandito da tre passaggi fondamentali. Anzitutto l’accertamento del fatto storico, cioè accertare se l’imputato ha effettivamente commesso il fatto che gli è addebitato nell’imputazione. All’inizio del processo infatti il fatto storico commesso dall’imputato non è certo, giacché l’accusa ne afferma l’esistenza mentre la difesa in tutto in parte la nega. Il conflitto fra accusa e difesa non può essere ovviamente risolto mediante un atto di fede, ma deve essere ai criteri di credibilità e attendibilità diventa un risultato probatorio. Attraverso i risultati delle prove acquisite nel processo, il giudice ricostruisce il fatto storico, che si ritiene accertato quando l’ipotesi formulata corrisponde alla ricostruzione del fatto effettuata nel processo. Nel suo insieme, la prova può essere definita un ragionamento che da un fatto noto (es. dichiarazione di un testimone) ricava l’esistenza di un fatto avvenuto in passato e delle cui modalità di svolgimento occorre convincere il giudice. Nel processo penale, come precisato ai sensi dell’art.187, il fatto da provare (thema probandum) è il fatto storico descritto nell’imputazione e addebitato all’imputato. Ma sono fatti da provare anche quelli che permettono di quantificare la sanzione penale e quelli dai quali dipende l’applicazione di norme processuali (per es. i fatti che servono a stabilire la credibilità di una persona che rende dichiarazioni); sono oggetto di prova, in caso di costituzione di parte civile, anche i fatti inerenti alla responsabilità civile derivante da reato.* Distinzione fondamentale è quella fra prova rappresentativa ed indizio. Per prova rappresentativa si intende quel ragionamento che dal fatto noto, mediante rappresentazione diretta, ricava l’esistenza del fatto da provare. Esempio: Tizio dichiara di aver visto Caio sparare. La dichiarazione di Tizio è il fatto noto. Il fatto da provare è quello ricavabile dalle parole di Tizio, cioè il fatto storico rappresentato dalle parole pronunciate dal testimone. Il giudice, ovviamente, prima di decidere se e quale risultato probatorio se ne possa ricavare, deve formulare, mediante lo strumento dell’esame incrociato (domande, contestazioni), un giudizio sull’affidabilità della fonte e sull’attendibilità della rappresentazione. Da un lato, cioè, deve accertare quanto il dichiarante è sincero, quanto è stato attento allo svolgimento del fatto e quanto è in grado di comprendere il significato degli elementi che riferisce; dall’altro lato, deve valutare quanto la rappresentazione fornita dalla fonte è idonea a descrivere il fatto avvenuto (esempio: il dichiarante aveva gli occhiali? Poteva vedere determinati dettagli del fatto?). Quindi possiamo dire che fra il fatto noto (rappresentazione) ed il fatto ignoto (da provare) c’è di mezzo la valutazione di credibilità della fonte e di attendibilità della rappresentazione. All’esito di queste due valutazioni, il giudice ricava dal fatto noto un risultato probatorio, stabilendo quanto della rappresentazione fornita è accettabile razionalmente ai fini della decisione. Una volta poi valutati tutti i risultati probatori derivanti dagli altri elementi di prova acquisiti, il giudice nella motivazione ricostruisce il fatto storico, indicando per quali ragioni ritiene attendibili ‘le prove poste a base della decisione’ e ‘non attendibili le prove contrarie’ (art. 546). L’indizio, invece, detto anche prova critica o indiretta, è quel ragionamento che da un fatto provato (circostanza indiziante) ricava l’esistenza di un fatto da provare (ad es., il fatto addebitato all’imputato). Mentre il collegamento fra fatto noto e fatto da provare, nel caso della prova rappresentativa, è “diretto”, il collegamento fra circostanza indiziante e fatto da provare, nel caso dell’indizio, è mediato da un ragionamento inferenziale basato su di una massima di esperienza o su di una legge scientifica. L’oggetto da provare può essere sia il fatto storico addebitato all’imputato (fatto principale), sia un’altra circostanza indiziante detta fatto secondario e dalla quale si può ricavare l’esistenza del fatto principale. Proviamo a chiarire con un esempio. Un testimone dice di aver visto uscire di corsa un uomo dalla porta di un’abitazione ad una determinata ora. In quella *In realtà ciò che è oggetto di controllo nel processo penale non è il fatto in sé, ma l’affermazione sul fatto che può risultare vera o falsa. Il fatto in sé non è né vero né falso. stessa abitazione la polizia ha rinvenuto il cadavere di una donna, tale Sempronia, morta mezz’ora prima del fatto descritto dal testimone. La morte è dovuta alla ferite inferte da un coltello trovato sul posto. Sentito il testimone, questi identifica in Caio la persona che ha visto uscire dall’abitazione. Caio si avvale però della facoltà di non rispondere e non fornisce spiegazioni sulla sua presenza sul luogo del delitto, sebbene risulti essere un amico della vittima. Accertati questi fatti, si prova a formulare massime di esperienza ricavandole da casi simili al fatto provato. La massima di esperienza è una regola di comportamento che esprime ciò che avviene nella maggior parte dei casi. Ci dice che vi è la probabilità che una persona, in una situazione simile, possa essersi comportata in modo identico. Siccome però si tratta di una ‘regola’, e cioè non appartiene al mondo dei fatti, la massima dà luogo ad un giudizio di probabilità sulla verificazione del fatto e non una certezza. Per esempio, dai casi simili relativi alla morte di Sempronia, si ricavano due massime di esperienza opposte che possono essere applicate alle circostanze emerse. In base ad una prima, colui che esce dall’abitazione dell’amica, senza recarsi a chiedere soccorsi o
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