Docsity
Docsity

Prepara i tuoi esami
Prepara i tuoi esami

Studia grazie alle numerose risorse presenti su Docsity


Ottieni i punti per scaricare
Ottieni i punti per scaricare

Guadagna punti aiutando altri studenti oppure acquistali con un piano Premium


Guide e consigli
Guide e consigli

Riassunto "Profilo linguistico dei dialetti italiani"-Loporcaro, Sintesi del corso di Storia della lingua italiana

Riassunto del libro delle pag.3-91e 171-182

Tipologia: Sintesi del corso

2021/2022

Caricato il 21/04/2022

giuliana-1100
giuliana-1100 🇮🇹

4

(35)

17 documenti

1 / 7

Toggle sidebar

Spesso scaricati insieme


Documenti correlati


Anteprima parziale del testo

Scarica Riassunto "Profilo linguistico dei dialetti italiani"-Loporcaro e più Sintesi del corso in PDF di Storia della lingua italiana solo su Docsity! PROFILO LINGUISTICO DEI DIALETTI ITALIANI (LOPORCARO) – RIASSUNTO 1. PRELIMINARI DI METODO Il termine dialetto è usato per designare una varietà linguistica non standardizzata, ristretta all’uso orale entro una comunità locale ed esclusa la impieghi formali. E ciò che si differenzia dall’italiano standard su base toscana, assurto al rango di lingua nazionale tra 14 e 16 secolo. Il termine dialetto è una voce greca usata nella classicità per designare le diverse varietà del greco nei loro impieghi dei diversi generi letterari, passata all’umanesimo e rimessa in circolo nel 500. Ci sono poi varietà dialettali di altre lingue giunte in Italia per colonizzazione o migrazione e costituenti oggi isole o colonie linguistiche alloglotte. Il termine stesso indica situazioni linguistiche minoritarie perché la maggior parte delle parlate sul suo italiano costituiscono uno sviluppo interrotto del latino parlato. I dialetti sono lingue sorelle dell’italiano e per disegnarle è utile usare il termine di varietà, che indica un qualsiasi sistema linguistico facendo astrazione dalle considerazioni di prestigio, uso, estensione geografica. I dialetti italiani sono varietà italo-romanze indipendenti o dialetti romanzi primari, cioè quelle varietà che stanno con l’italiano in un rapporto di subordinazione sociolinguistica e condividono una stessa origine. I dialetti secondari sono insorti dalla differenziazione geografica di tale lingua anziché di una lingua madre comune. In Italia, dialetti secondari sono gli italiani regionali virgola che derivano dalla sovrapposizione di italiano standard e dialetto locale. La gerarchizzazione fra varietà del repertorio si definisce in termini di autonomia ed eteronomia. Una varietà linguistica è autonoma quando i parlanti riconoscono in essa stessa la sua propria norma, mentre si dice eteronoma rispetto ad un’altra varietà, quella varietà i cui parlanti riconoscono nell’altra la norma cui quella varietà va riferita e si dovrebbe adeguare. La varietà autonoma, riconosciuta come norma, si definisce lingua tetto. L’eteronomia apre la strada al progressivo avvicinamento del dialetto alla lingua tetto per una standardizzazione: lessicale e per una classificazione dialettale. Tratti condivisi farà più varietà vanno sotto il nome di isoglosse. L’isoglossa è una linea che divide due aree in cui il medesimo tratto abbia valori distinti. Un’altra accezione vuole l’isoglossa come una linea che unisce punti distinti di un’area geografica caratterizzata dalla presenza di nostro fenomeno linguistico. Per l’insieme di due linee così definite, l’una marcante il limite estremo di un’area, l’altra quello di un’area adiacente che presenta un diverso valore del tratto in questione, Chambers e Trudgill adottano il termine di eteroglossa, impiegando isoglossa per indicare una linea che separi due aree. Etimologicamente il termine indica identità e si suole quindi parlare di isoglosse condivise fra più varietà come sinonimo di tratti condivisi. Si parla però anche di isoglossa come linea di demarcazione. La classificazione dialettale si fonda su criteri interni ed esterni, che possono essere di natura storico culturale, storico politica o geografica. Quanto ai criteri interni la classificazione può già sulle somiglianze differenze fra i dialetti accertate in base al metodo delle isoglosse. Ci possono essere territori in cui si manifesta un continuum dialettale, ovvero un territorio sul quale i dialetti sono legati fra loro da una catena di intercomprensibilità. Il continuum è poi caratterizzato dalla cosiddetta Romania continua: tale continuum è insorto per dialettalizzazione primaria, ossia per il graduale sviluppo divergente del latino sull’intero territorio in questione. La distinzione fra i valori di un tratto linguistico si deve spesso al fatto che in una delle due aree si è prodotto un mutamento linguistico. Lo strumentario per riconoscere tale mutamento si è messo a punto solo nell’800, grazie alla scuola dei neo grammatici, attivi a Lipsia. L’ipotesi di lavoro è che il mutamento sia regolare, cioè colpisca in una data lingua in un dato momento tutte quante le parole presentanti le condizioni appropriate. Laddove si riscontrano eccezioni, il metodo impone di cercarne prima una spiegazione interna e poi una esterna. Si dovrà verificare se un altro mutamento fonetico abbia interferito. Il passo successivo consiste nel verificare se essa possa avere cause di natura morfologica (analogia o prestito). Una corrente di studi in linguistica ha insistito sull’esistenza di un di continua dialettali e su l’impossibilità di stabilire confini dialettali netti (Schuchardt). Idealmente un confine linguistico dovrebbe corrispondere all’addensamento in un fascio di numero consistente riso glosse. Così è per la linea La Spezia-Rimini o Massa-Carrara-Senigallia, che lascia a nord dialetti in cui cadono le vocali finali diverse da a, si sonorizzano le consonanti sorde intervocaliche e si scempiano le consonanti geminate, mentre a sud il toscano non ha subito nessuno di questi mutamenti. Il motivo delle non coincidenze è determinato dal fatto che il mutamento linguistico non procede solo nel tempo ma anche nello spazio e nel lessico, fino a volte a generalizzarsi. Ad esempio la sonorizzazione ha fatto breccia in Toscana, imponendosi ma senza generalizzarsi (vicinanza di Lucca con il nord di epoca longobarda). Il mutamento procede poi anche entro la comunità linguistica e attraverso gli stili. L’argomento era stato affrontato anche da Biondelli che fra i dialetti settentrionali non scorgeva confini netti ma zone di transizione interposte fra dialetti dal profilo più spiccato. La dialettologia si consolida come disciplina scientifica moderna nell’800. Il suo iniziatore è G.I. Ascoli che, coi Saggi ladini, forniva il modello per lo studio della struttura linguistica dei dialetti: dimensione temporale. Si consolida l’idea che sia legittimo studiare la lingua come sistema, a prescindere dal suo mutare nel tempo: prospettiva che Saussure definisce sincronica (vs diacronica). Contemporaneamente si pongono i presupposti di un altro modo di fare dialettologia, che tende a negare la produttività di una visione sistemica dei fatti di lingua. L’idea di lavoro ascoliano è che il mutamento nella lingua proceda lungo l’asse del tempo. Corollario cruciale per la dialettologia è che si possa distinguere, nello spazio, tra dialetti che presentano e non presentano il mutamento x. Schuchardt nega che si possono individuare confini tra dialetti, poiché i mutamenti procedono nel tempo e nello spazio. Paul Meyer obietta all’Ascoli che ciò di cui si può definire l’estensione nello spazio sono solo singoli fenomeni, non dialetti. I lavori sui dialetti italiani, dall’800, hanno dato il via alla descrizione grammaticale e all’elaborazione di atlanti linguistici. Prodotto della prospettiva geolinguistica è la dialettometria (Hans Goebl), metodo per la misurazione della distanza strutturale tra dialetti. La dialettometria nega statuto di scientificità ad ogni considerazione della variazione dialettale che prescinda da tale elaborazione cartografica sistematica. I risultati degli studi dialetto metrici sono rivelatori, benché resti una aporia di fondo: si tratta dell’elaborazione sistematica di un input al sistematico. Gli atlanti costituiscono una raccolta di risposte che rappresentano atti di parole. Non vi è contenuta un’analisi del sistema (langue) delle singole varietà. La dialettometria misura distanze strutturali senza passare per una razionalizzazione della struttura linguistica. La cartografazione è fondamentale, l’analisi della struttura è secondaria. All’estremo opposto stanno studi come in recente manzini e Savoia, imponente opera generale su alcuni aspetti della struttura morfosintattica dei dialetti italiani, sul campo in quasi 500 punti e analizzati secondo la sintassi generativa chomskyana. Questo tipo di opera prosegue la linea dei grammatici e della linguistica strutturale novecentesca: la dimensione geografica del tutto assente e dialetti italiani sono analizzati come portatori di tratti strutturali senza il minimo riferimento alla loro disposizione nello spazio geografico e all’eventuale individuabilità di aree su cui i fenomeni osservati si estendano. In posizione intermedia si colloca la grammatica storica di Rohlfs il cui principio ordinatore fornito la tratti strutturali ma che procede nella descrizione e raggruppando i fenomeni per aree geografiche. Una diversa formula di compromesso e quella dell’antologia di Maiden e Parry. Il primo progetto europeo di un Atlante linguistico si leva il dialettologo tedesco Georg Wenker che dal 1889 diede inizio ai lavori per un Atlante rimasto inedito. Le inchieste si svolgevano per posta. Il primo atlante redatto in base a inchieste dialettali sul campo lo si deve allo svizzero-francese Jules Gilliéron, che diresse l’Atlas linguistique de la France (ALF) (1902-10), commissionandone le inchieste al suo collaboratore Edmond Edmont, che le condusse in loco. A Jaberg e Jud si deve l’Atlante italo-svizzero (AIS), il cui progetto iniziale era quello di documentare la variazione dialettale Italo romanza. Questo Atlante doveva toccare anche l’Italia settentrionale sino alla linea Livorno- Pesaro, ma le inchieste furono estese all’intera Italia. Nelle inchieste doveva occuparsi Scheuermeier (1919). Gli informatori erano scelti fra i nativi del luogo, con preferenza di singoli soggetti, di sesso maschile e non molto giovani. L’indagine veniva svolta sottoponendo domande di un questionario. Ad oggi l’AIS è l’unico Atlante dialettale italiano completo. Ancora in corso di realizzazione e l’Atlante linguistico italiano (ALI), diretto da Matteo Bartoli. I rilevamenti dovevano essere condotti da Ugo Pellis e le inchieste furono riprese e completate nel 1964 da un gruppo di studiosi. Solo di recente è stata avviata alla pubblicazione col volume uno, a cui hanno fatto seguito il due e il quattro. Poi l’Atlas linguistique de la Corse di Gillieron ed Edmont; l’Atlante linguistico etnografico italiano della Corsica di Gino bottiglioni; il NALC di Marie-José Dalbera-Stefanaggi; l’Atlante storico linguistico etnografico friulano (ASLEF) di Giovan Battista Pellegrini, il cui lessico studiato corrisponde ad oggetti connessi con la vita rurale tradizionale; l’Atlante linguistico del Appennini. Si tratta tuttavia di una suddivisione puramente geografica e non fondata sui tratti linguistici. Lo spartiacque appenninico resta l’asse portante della classificazione di Fernow che inizia a proporre alcuni tratti linguistici come caratterizzanti delle singole aree. Alla dimensione geografica si aggiunge quella storica con Biondelli, che suddividere i dialetti italiani in sei famiglie ispirate ai popoli dell’Italia antica. La novità costituita dall’intervento dell’Ascoli sta nel fatto che la classificazione tiene conto anche dei fenomeni linguistici. È con lui che le isoglosse diventano l’architrave della classificazione: i fatti di lingua vengono trattati secondo un metodo scientifico. A questa prospettiva diacronica se ne sovrappone una sincronica, visto che del tipo toscano si proclama la maggior vicinanza al latino da cui le altre varietà romanze sono venute invece a divergere per effetto del sostrato. Ascoli definisce raggruppamenti dialettale con un procedimento centripeto: A) Dialetti che dipendono da sistemi neolatini non peculiari all’Italia (provenzale, Franco provenzale e ladino) B) Dialetti che si distinguono dal sistema italiano ma pur non entrando a far parte di alcun sistema neolatino estranee all’Italia (Gallo italico e sardo) C) Dialetti che possono entrare a formare col toscano uno speciale sistema di dialetti neolatini (veneziano, dialetti centro meridionali e corso) D) Toscano Le classificazioni proposte successivamente mantengono tutte la centralità del toscano, divergendo però quasi per il resto (collocazione del veneto, collocazione del sardo, delimitazione tra quali dialetti parlati su suolo italico debbano essere considerati alloglotti). Ne parlasse alloglotte d’Italia si possono classificare in dialetti romanzi (dialetti franco-provenzali della Valle d’Aosta e del Piemonte; d. occitani del Piemonte e del Foggiano; d. catalano di Alghero; d. gallo-italici dell’Italia meridionale) e non (dialetti tedeschi dell’Alto Adige; d. sloveni del FVG; d. croati del Molise; d. greci del Salento e della Calabria; d. albanesi dall’Abruzzo alla Sicilia). Ascoli definì un’unità ladina articolata in tre aree geografiche discontinue: ad est il friulano, al centro il ladino dolomitico, ad ovest in romancio. A partire dall’Ascoli, da parte dei sostenitori dell’unità ladina a sostanziare quest’ultima si riduce con una serie di tratti strutturali tra cui: il mantenimento dei nessi latini di consonante + L, il mantenimento di S finale nella flessione nominale e verbale, il mantenimento della forma nominativa male dei pronomi di I e II persona Ego e Tu. Chi accetta questa argomentazione che colloca quindi il ladino fra le aree alloglotte. Da parte degli oppositori si fa prevalere il fatto che nessun caso si tratta di innovazioni comuni che permettono di stabilire unità classificatoria distinta indipendente dall’italo romanzo. La classificazione dei dialetti italiani di riferimento è quella della Carta dei dialetti d’Italia di Giovan Battista Pellegrini. La carta divide dialetti italiani in 5 gruppi principali: dialetti settentrionali (gallo-italici e veneti), d. friulani, d. toscani, d. centro-meridionali (d. dell’area mediana, d. alto-meridionali, d. meridionali estremi), d. sardi. 4. L’ITALIA DIALETTALE Il latino distingueva 10 fonemi vocalici. Si ha ragione di ritenere che già in epoca classica alla lunghezza e la brevità si accompagnasse una differenza fonetica nel grado di perifericità. Questa distinzione di timbro si accompagnava a quella di quantità. I sistemi vocalici delle varietà romanze presentano sviluppi in parte diverse a partire dal sistema latino, tutti però accomunati dalla perdita della distinzione fonologica di lunghezza vocalica. Lo sviluppo strutturale più semplice si riscontra nel sardo, un sistema 5 vocali. Nel resto delle varietà romanze le differenze di timbro fra vocale originariamente lunghe brevi hanno determinato la confluenza degli esiti di I e E e di U e O rispettivamente in e ed o medio-alte (fusioni timbriche). È il sistema detto pan-romanzo. Il rumeno è un sistema vocalico che presuppone la confluenza in e degli esiti di I e E, di Ō e Ŏ in o e di Ū e Ŭ in u. Fra i dialetti italiani, un sistema simile a quello rumeno si trova in un’area lucana nord del fiume Agri, descritto per la prima volta da Lausberg. Poco più a sud della zona presentante vocalismo rumeno, Lausberg constato alla presenza del sistema vocale con il tipo sardo. Con la Calabria centro-settentrionale inizia il territorio dei dialetti meridionali estremi, contraddistinto da vocalismo tonico di tipo siciliano. Una situazione diversa si trova in una fascia di territorio intermedia definita da Lausberg sistema marginale (Randgebiet). Per Lausberg e Parlangèli si tratterebbe di un’area originariamente a vocalismo napoletano modificata per contatto col sistema siciliano, in espansione da sud. Un’analoga vicenda è stata per il sassarese e per i dialetti della Corsica sud occidentale, il cui sistema eptavocalico è stato analizzato come insorto per sovrapposizione del modello toscano ad un sistema originariamente di tipo sardo (inversione nell’altezza delle vocali medie). Fra i mutamenti che hanno colpito le vocali toniche conseguenze importanti hanno l’allungamento di sillaba aperta accentata e la metafonia, ovvero l’alterazione di una vocale tonica per l’effetto della vocale seguente, che poi cade (Ĭ e Ŭ). All’allungamento di sillaba aperta l’opinione prevalente riconduce in ultima analisi la dittongazione di Ĕ e Ŏ in toscano. Il tipo più conservativo e quello dell’area mediana e del sardo logudorese in cui si servano distinti tutti e 5 timbri vocali originarie non si perde la distinzione fra e ed o finali latine. I diretti settentrionali hanno subito la cancellazione delle vocali finali non basse. Fortemente ridotto è anche il vocalismo finale dell’alto meridione. Il meridione estremo è contrassegnato dall’innalzamento di o finale ad u, mentre innalzamento parallelo E>i si riscontra dovunque tranne nel Salento centrale e in Calabria. La linea La Spezia-Rimini divide la Romania occidentale ed una orientale. Fra le isoglosse definitorie: la sonorizzazione delle occlusive sorde intervocaliche e il mantenimento della s latina nella flessione nominale e verbale. Un trotto dell’italo romanzo settentrionale che prosegue al di là delle Alpi e la degeminazione delle consonanti germinate, latine o in sorte in fase protoromanza. Nei dialetti italiani settentrionali, la geminazione costituisce insieme con la lenizione un mutamento a catena. C’è poi un’estensione geografica che ha la caduta (apocope) delle vocali finali diverse da A. Tra i tratti pansettentrionali che proseguono a nord delle Alpi è da rubricare anche l’assimilazione delle affricate palatali č, ğ insorte dalle consonanti velari latine davanti a vocale palatale C e/i, Ge/i. I dialetti settentrionali ignorano in genere le forme forti dell’articolo determinativo maschile singolare presentando soltanto le forme innovative deboli, uscenti in consonante preceduta da una vocale che varia di luogo in luogo. Caratteristica di tutti i dialetti settentrionali è la perdita delle forme di pronome personale derivanti da Ego, Tu, sostituite dagli obliqui. Un altro mutamento e la caduta in disuso del paradigma del passato remoto, sostituito nell’uso dal passato prossimo. Un’altra caratteristica è il sistema delle particelle soggettive che accompagnano obbligatoriamente il verbo finito. Penso intenzionale e il ricorrere di queste forme pronominali atone a destra del verbo finito per la formazione dell’interrogativo: discussa e la questione se tale strategia abbia dato luogo ad una vera coniugazione interrogativa. Fra gli argomenti addotti in favore di questa analisi l’opacizzazione delle sequenze originariamente con enclitica e la simmetria fra i paradigmi all’effettivo e all’interrogativo. La coniugazione di interrogare interrogativa e oggi perduta. In molte zone è normale interrogativa senza inversione. Tipicamente italiano settentrionale e il costrutto il personale che comporta la posposizione al verbo dell’argomento che sarebbe il soggetto della corrispondente struttura personale, la selezione di una forma di critico soggetto non coincidente con quella che ricorra bene il costrutto personale e il mancato accordo per persona del verbo finito e per genere il numero del participio passato nei tempi composti. Altro carattere è il fatto che i dialetti settentrionali conoscono l’articolo partitivo che il centro-meridione e la Sardegna ignorano. 5. DIALETTO NELLA SOCIETA’ ITALIANA: PASSATO, PRESENTE E FUTURO L’oggetto linguistico ha costituito il radiale italiani presenta condizioni di osservabilità del tutto particolari per ragioni dovuti a fattori di lungo periodo. La visione idealizzata considera la carta dialettale l’Italia come mosaico di tipi strutturali varianti nello spazio. Su lungo periodo hanno agito anche forze centripete che hanno teso all’omogeneizzazione su scala regionale. In fase postunitaria questi fenomeni di omologazione del dialetto locale procedono in direzione non solo di una regionalizzazione ma anche di un avvicinamento allo standard virgola in maniera tale che non è possibile discernere in che misura si tratti di un mutamento all’interno della struttura del dialetto o di un vero e proprio cambio di lingua, con cui si indica l’abbandono in toto da parte di una comunità di un codice linguistico l’adozione di un altro, conseguenti alla fase di bilinguismo. Si trova nel passato un caso particolare di compenetrazione tra lingua e dialetto: Roma. Il dialetto originario era una varietà di tipo centromeridionale, vi ricorreva ad esempio la dittongazione metafonetica e l’articolo del det masch sing aveva soltanto la forma forte. Rispetto al romanesco medievale, il romanesco di oggi presenta una netta discontinuità. Ciò ha portato a distinguere fra un romanesco di prima e uno di seconda fase. La cesura si deve alla storia politica della capitale dello Stato della Chiesa, dotato di una classe dirigente sovraregionale in stretto rapporto con la Toscana e meta di immigrazione. Il dialetto originario viene progressivamente relegato ai piani bassi del repertorio fino a cedere il campo ha una nuova varietà dialettale toscanizzata. Nei secoli passati le forze centripete agenti sui dialetti locali aggiungevano al massimo effetti di regionalizzazione a causa delle condizioni esterne di utilizzo del codice dialetto come condizioni di diglossia senza bilinguismo. Le fasi successive sono quelle di una diglossia con bilinguismo e di bilinguismo senza diglossia, in cui si ha una conoscenza diffusa del codice dialetto ma ogni singolo parlante se ne serve all’interno di un contesto sempre più marcatamente italofono. Queste produzioni miste possono essere legate a fattori contestuali: l’ambito familiare, temi connessi alla società tradizionale e la presenza di interlocutori anziani che favoriscono il passaggio al dialetto per commutazione referenziale. Ma la tendenza generale è allo svincolamento da tali fattori contestuali. Una volta compiuto tale svincolamento, il dialetto si riduce a puro mezzo di coloritura stilistica a disposizione di parlanti, che ne fanno uso prevalentemente per commutazioni metaforiche. Allo stato attuale il codice dialetto è ancora presente, ma è in atto quella sdialettizzazione. L’anticipo con cui questo processo di estinzione si è consumato in Francia è determinato da circostanze storiche: l’unificazione nazionale ha favorito dinamiche di accentramento linguistico. Nella fase della Rivoluzione, la sdialettizzazione è stata perseguita attivamente. L’annientamento dei dialetti sembrava un passaggio necessario per una universale diffusione del francese. Con l’unità d’Italia, la penisola si scopriva in ritardo nel percorso di unificazione e di acculturazione di massa, che fu possibile solo con lo sradicamento del dialetto. Manzoni, senatore del Regno, fu incaricato dal ministro dell’Istruzione Broglio di preparare una relazione Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla, inviata al ministro nel 1868. La proposta era di fissare in un nuovo vocabolario normativo un modello basato sul fiorentino parlato contemporaneo, da introdurre nella scolarizzazione attraverso maestri toscani. Sulla Relazione di Manzoni intervenne anche l’Ascoli. Nel suo Proemio si sviluppa una critica alla ricetta manzoniana per l’unificazione linguistica del paese. Egli caldeggia l’innalzamento della cultura come via maestra per l’integrazione della nuova comunità nazionale e loda le potenzialità di un bilinguismo generalizzato. Nella cultura italiana postunitaria è però prevalsa la linea manzoniana: la caccia al dialetto è stata voluta e perseguita soprattutto nelle scuole. L’opera decisiva fu i Promessi Sposi, in cui Manzoni forgiò un modello di prosa dal valore profetico. Con la scuola è stato dato avvio ad un processo di sostituzione, in cui per generazioni, essa ha inculcato nelle classi popolari la vergogna sociale nei confronti del dialetto. Di qui la scelta di cessare di trasmetterla alle nuove generazioni. Gli effetti di questo processo vanno inseriti nel quadro della riduzione della diversità culturale attualmente in atto.
Docsity logo


Copyright © 2024 Ladybird Srl - Via Leonardo da Vinci 16, 10126, Torino, Italy - VAT 10816460017 - All rights reserved